Codice Civile art. 417 - Istanza d'interdizione o di inabilitazione.Istanza d'interdizione o di inabilitazione. [I]. L'interdizione e la inabilitazione possono essere promosse dalle persone indicate negli articoli 414 e 415, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente (1), dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore o curatore ovvero dal pubblico ministero [418; 69, 712 ss. c.p.c.]. [II]. Se l'interdicendo o l'inabilitando si trova sotto la responsabilità genitoriale o ha per curatore uno dei genitori, l'interdizione o l'inabilitazione non può essere promossa che su istanza del genitore medesimo o del pubblico ministero [69, 712 ss. c.p.c.] (2). (1) Le parole da «possono» a «convivente» sono state sostituite alle parole «possono essere promosse dal coniuge» dall'art. 5 l. 9 gennaio 2004, n. 6. (2) Comma così modificato dall'art. 146 l. 24 novembre 1981, n. 689. L'art. 63, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha sostituito alle parole: «potestà dei genitori», le parole: «responsabilità genitoriale». Ai sensi dell’art. 108, d.lg. n. 154 del 2013, la modifica è entrata in vigore a partire dal 7 febbraio 2014. InquadramentoL'art. 417 indica i soggetti legittimati alla richiesta dell'interdizione e dell'inabilitazione. La rubrica della disposizione, rivolta all’istanza di interdizione, non corrisponde pertanto esattamente alla materia disciplinata e più adatta sarebbe stata nell’ambito della normativa processuale di cui all’art. 702 c.p.c. L'indicazione dei legittimati è sempre stata considerata tassativa ma la l. 9 gennaio 2004, n. 6, ne ha ampliato il contenuto in modo da comprendervi, praticamente, tutti coloro che possono avere un personale interesse al provvedimento del giudice. Nell'elencazione la legge suddetta ha inserito gli stessi soggetti potenziali destinatari della misura, in quanto totalmente o parzialmente incapaci. Le modifiche apportate hanno risolto alcune questioni che erano dibattute in dottrina. È, ad esempio, attualmente legittimato il convivente, del quale era controversa la legittimazione anteriormente all'intervento legislativo citato. Ed è mutato il quadro nel quale risolvere il quesito dottrinario della natura giuridica della legittimazione all'istanza di interdizione o di inabilitazione. Si afferma, in proposito, che la detta legittimazione trova fondamento in interessi di carattere generale all'accertamento delle condizioni di capacità delle persone ad avere gli ordinari rapporti giuridici nella vita sociale; e che, di conseguenza, le norme dettate al riguardo hanno natura di ordine pubblico. Si nega quindi che i legittimati all'interdizione e all'inabilitazione siano titolari di un diritto soggettivo, non patrimoniale (Napoli, 159) e si accenna ad una figura specifica di «diritto soggettivo familiare». Diversa, si afferma, può essere la posizione di coloro che chiedono di essere interdetti o inabilitati, ai quali la legge ricordata ha attribuito legittimazione alla relativa richiesta. L'innovazione normativa ha evidenziato il carattere non più sanzionatorio degli istituti in argomento e la loro funzione eminentemente protettiva. Una parte della dottrina sostiene che, per queste ragioni, quanto meno nei loro confronti possa ritenersi sussistente un vero e proprio diritto soggettivo alla pronuncia sul loro status. I soggetti legittimatiSono legittimati a chiedere l'interdizione e l'inabilitazione i soggetti indicati negli artt. 414 e 415c.c. Costoro sono identificabili in forza delle circostanze di fatto che fondano il provvedimento protettivo: l'infermità di mente che determina l'incapacità di provvedere ai propri interessi; la prodigalità che espone a gravi pregiudizi economici; l'abuso di bevande alcooliche o di stupefacenti suscettibile di cagionare gravi pregiudizi economici; la sordità o la cecità dalla nascita o dalla prima infanzia in chi non ha ricevuto una educazione sufficiente. È legittimato il coniuge. La norma intende ovviamente per coniuge colui che è unito al soggetto da un matrimonio avente effetti civili nel nostro ordinamento. Deve dunque escludersi la legittimazione al coniuge divorziato o al coniuge il cui matrimonio è stato annullato, perché in entrambi i casi il vincolo di coniugio è venuto meno. Una diversità di opinioni si riscontra in dottrina a proposito della separazione legale e della separazione di fatto, dovendosi peraltro propendere a ritenere che la legittimazione sussiste nonostante la mancata convivenza (Napoli, 161). Induce ad accogliere l'opinione in tal senso la situazione di non definitività della separazione, che può esser fatta cessare in ogni momento se i coniugi ritengono, anche senza alcuna formalità, di ripristinare la loro convivenza. È discussa la posizione del coniuge nel caso di matrimonio soltanto religioso. Rigore di principi vorrebbe che si escludesse la legittimazione, posto che un siffatto matrimonio non ha effetti giuridici civili (Bruscuglia, 10). La l. 20 maggio 2016, n. 76, di regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e di disciplina delle convivenze, ha disposto, da un lato, che le norme genericamente riferite ai «coniugi» si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile ma, dall'altro, ha limitato l'efficacia di questa equiparazione alle sole norme che sono espressamente da essa richiamate. Per questo aspetto, dunque, non potrebbe essere considerato «coniuge» agli effetti di cui all'art. 417 la persona unita da unione civile con quella interdicenda o inabilitanda, poiché in proposito manca il richiamo espresso della citata l. n. 76/2016. Tuttavia la stessa legge contiene una norma (art. 1, comma 15) che esplicitamente legittima la parte dell'unione civile a promuovere l'interdizione o l'inabilitazione nonché a chiederne la revoca. Ha legittimazione a chiedere l'interdizione e l'inabilitazione anche la persona che ha stabile convivenza con il soggetto destinatario dell'istanza. Non si richiede che la convivenza sia more uxorio; è sufficiente che essa sia divenuta abituale e tendenzialmente duratura. Il riconoscimento della legittimazione è il frutto di una riconsiderazione dei rapporti di convivenza di fatto, idonei a creare rapporti affettivi e di comunanza di vita analoghi a quelli della famiglia fondata sul matrimonio. La già citata l. n. 76/2016 ha apprestato forme di riconoscimento giuridico anche a coloro che intendono dare una veste ufficiosa al loro rapporto di semplice convivenza. Essa definisce quali conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale o materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da una unione civile. Questo tipo di convivenza ha una sua ufficialità, fornita dalla dichiarazione anagrafica attraverso cui la convivenza viene resa formale e pubblica. L'art. 1, comma 48, della ricordata l. n. 76/2016 precisa che il convivente di fatto può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ovvero ricorrano i presupposti di cui all'art. 404 c.c. A maggior ragione deve ritenersi che il convivente di fatto abbia legittimazione all'azione di interdizione o di inabilitazione, derivante dalla stessa circostanza della convivenza, cui si riferisce l'art. 417 c.c. Deve ritenersi, tuttavia, che la legittimazione spetti al convivente anche nei casi in cui al rapporto non è stata data ufficialità, nei modi indicati dalla legge di cui sopra. Infatti, per l'art. 417 è sufficiente che la situazione di fatto sia divenuta stabile. Hanno legittimazione i figli e i minori che sono stati adottati (Napoli, 162; Bruscuglia, 10; Forchielli, 26; Scardulla, 937). È invece discusso se abbia legittimazione il soggetto che è stato adottato da maggiorenne. La questione sorge per il fatto che una tale adozione non crea vincoli di parentela, se non tra adottante e adottato, ai sensi dell'art. 74 c.c. I parenti e gli affini hanno legittimazione a chiedere l'interdizione o l'inabilitazione, nei limiti di grado indicati specificamente dall'art. 417. La relazione che li lega, per consanguineità o in conseguenza di matrimonio, giustifica l'ammissione a tutelare non soltanto gli interessi dell'incapace ma anche le loro posizioni di soggetti tenuti a prestare assistenza, mantenimento e cura con le proprie sostanze. Per la giurisprudenza di merito, i parenti e gli affini dell'interdicendo non hanno qualità di parte, in senso proprio, nel procedimento di interdizione, ma assumono una funzione consultiva con il fornire al giudice informazioni utili per la decisione; con la conseguenza per cui nessun vizio può derivare dalla mancata notificazione a partecipare al giudizio (Trib. Roma, 19 gennaio 2017, n. 931). I soggetti di cui sopra devono essere indicati già nel ricorso introduttivo. Essi non hanno qualità di parti in senso tecnico-giuridico né sono litisconsorti ma svolgono funzioni che sono state descritte come “consultive”, in quanto sono fonti di informazione per il giudice; il loro ingresso nel procedimento va inquadrata nell'ambito di un intervento a carattere adesivo delle ragioni dell'istante o del soggetto della cui capacità si discute. Da questa premessa discende che, non intervenuti né chiamati in primo grado, essi sono facoltizzati ad impugnare la prima sentenza solo deducendo fatti e informazioni indebitamente pretermesse per effetto della loro esclusione e non sono ammessi a dedurre in sede di legittimità – e per la prima volta – pretesi vizi correlati alla loro esclusione (Cass. I, n. 15346/2000). Non sono legittimati ad eccepire il difetto di giurisdizione, sia in riferimento all'art. 11 della l. n. 218 del 1995 e sia con riguardo alle disposizioni generali di cui all'art. 268 c.p.c. (Cass. S.U. ord. n. 4250/2020). La forma dell'istanza e il conseguente procedimentoLa normativa processuale che disciplina le modalità attraverso le quali si giunge alla dichiarazione di interdizione e di inabilitazione era contenuta negli artt. da 712 in poi c.p.c. Essa rimane formalmente in vigore per i procedimenti pendenti alli 28 febbraio 2023 (per quanto sia ancora possibile) mentre per i procedimenti instaurati dopo tale data si applicano le norme del rito unificato di cui agli artt. 473-bis e seguenti c.p.c. introdotte dal d.lgs. n. 149/2022 di riforma del processo civile. Di seguito, pertanto, occorre distinguere. a) Artt. 712 e ss. c.p.c. L'istanza di interdizione o di inabilitazione assume la forma del ricorso, cioè dell'atto rivolto direttamente al giudice per ottenerne un provvedimento. Il contenuto del ricorso è indicato, in generale e quale atto di parte, dall' art. 125 c.p.c. e, per quanto si riferisce specificamente all'istanza in argomento, dall'art. 712 stesso codice. Tale ultima norma precisa che la domanda va presentata al tribunale del luogo dove la persona nei cui confronti essa è proposta ha la residenza o il domicilio. E aggiunge che nel ricorso debbono essere esposti i fatti sui quali la domanda è fondata e debbono essere indicati il nome e cognome e la residenza del coniuge o del convivente di fatto, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado e, se vi sono, del tutore o curatore dell'interdicendo o dell'inabilitando. Il riferimento al convivente di fatto è stato introdotto nel testo della norma dalla l. 20 maggio 2016, n. 76 , sulle unioni civili e sulle convivenze iscritte all'anagrafe. Il riferimento trova ragione nella disposizione della legge citata che legittima il convivente di fatto alla nomina a tutore, curatore o amministratore di sostegno del compagno; ma deve ritenersi che esso possa essere letto nel senso che la convivenza, in genere, anche priva delle formalità richieste dalla legge medesima, costituisce una situazione di rilievo per assumere da essa elementi utili all'accertamento delle reali condizioni in cui versa l'incapacitando. L'art. 417 non menziona le unioni civili. Per disposizione espressa della l. n. 76/2016 , da esse non sorge un vero e proprio rapporto di coniugio quale regolato dal codice civile e pertanto le persone unite dal rapporto di unione civile disciplinato da tale legge non potrebbero essere considerate quali «coniugi» da indicare nell'istanza di interdizione o di inabilitazione. Per contro, l'art. 1, comma 15, della legge citata dispone che l'interdizione o l'inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell'unione civile: ed allora deve affermarsi che anche dell'esistenza della parte dell'unione civile debba darsi atto nell'istanza al tribunale, quale circostanza di indubbio interesse per l'apprezzamento della situazione soggettiva dell'interdicendo o dell'inabilitando. È controversa la natura del procedimento che segue all'istanza, se di tipo contenzioso o di volontaria giurisdizione. Esso rivela aspetti propri dell'una e dell'altra natura. La decisione in forma di sentenza e l'impugnabilità con gli ordinari mezzi di gravame sono caratteristiche dei procedimenti contenziosi. I profili pubblicistici e l'intervento obbligatorio del pubblico ministero costituiscono indici tipici delle procedure di volontaria giurisdizione. Si assume da alcuni studiosi che i procedimenti in argomento sono composti da due fasi, l'una, preliminare, di giurisdizione volontaria e, l'altra, di tipologia contenziosa (Tamburrino, 405). Si è fatto notare che la questione non ha particolare importanza pratica se non, eventualmente, per quanto riguarda le spese processuali (Napoli, 154). Coloro che ritengono la natura contenziosa del procedimento affermano che deve applicarsi il principio della soccombenza e della ripetibilità delle spese. Il problema si pone, però, soprattutto quando l'azione è intrapresa dal pubblico ministero, che non può essere condannato alle spese. Le Cass. n. 21013/2013 e Cass. n. 21718/2005 hanno affermato che il procedimento di interdizione presenta numerose peculiarità in quanto è caratterizzato dalla coesistenza di diritti soggettivi privati e di profili pubblicistici, dalla natura e non disponibilità degli interessi coinvolti, dalla posizione dei soggetti legittimati a presentare ricorso, che esercitano un potere di azione ma non agiscono a tutela di un proprio diritto soggettivo, dagli ampi poteri inquisitori del giudice nonché dalla particolare pubblicità della sentenza e dalla sua revocabilità. Ciononostante, esso si configura come un procedimento contenzioso speciale, con conseguente applicazione di tutte le regole del processo di cognizione, salvo le deroghe previste dalla legge. Lo stesso orientamento è stato espresso da Cass. n. 17256/2005, per la quale è ammissibile anche nel processo di interdizione e inabilitazione la cessazione della materia del contendere. La citata decisione ha affermato che Il processo di interdizione o inabilitazione ha per oggetto un accertamento della capacità di agire che incide sullo status della persona e si conclude con una pronuncia qualificata espressamente come sentenza, suscettibile di giudicato. Tale procedimento è ritenuto dal legislatore come il più idoneo ad offrire garanzie a tutela dell'interesse dell'interdicendo e dell'inabilitando e ad assicurare una più penetrante ricerca della verità, e per quanto non previsto dalle regole speciali, resta disciplinato dalle regole del processo contenzioso ordinario, ove non incompatibili. Da questa presa di posizione deriva che il giudizio di appello deve essere proposto con atto di citazione (Cass. n. 21013/2013). Al tutore di persona interdetta, già costituito e soccombente in primo grado, non necessita l'autorizzazione del giudice tutelare per appellare la relativa sentenza, mancando, in questo caso, la necessità di compiere la preventiva valutazione in ordine all'interesse ed al rischio economico per l'incapace (Cass. n. 19499/2015). La morte, durante il processo di appello, della parte interdetta in primo grado fa venir meno la necessità di giungere ad una pronuncia di accertamento del suo stato, con conseguente declaratoria di cessazione della materia del contendere (Cass. n. 24149/2016).
b) Le norme del rito unificato in materia familiare. Nell'ambito della normativa innovata per le controversie in materia di stato delle persone, di minori e di famiglia, la disciplina del procedimento per la dichiarazione di interdizione e di inabilitazione trova autonoma indicazione. Gli artt. 473-bis.52 e seguenti c.p.c. dettano, infatti, disposizioni che in parte di differenziano da quelle più generali di cui agli artt. 473-bis stesso codice. La domanda per interdizione o inabilitazione è proposta con ricorso, come avveniva nel procedimento camerale. La competenza per territorio è attribuita al tribunale del luogo in cui la persona nei confronti della quale la domanda è proposta ha residenza o domicilio. Il criterio così indicato si sovrappone a quello menzionato negli artt. 472-bis.11 (se il procedimento riguarda un minore) e a quello stabilito con l'art. 473-bis.47. Il criterio, infatti, deriva da una norma speciale, in quanto riferita allo specifico caso dell'interdizione. Il contenuto del ricorso è in parte indicato dalle norme con riferimento e rinvio agli artt. 473-bis.12 e 473-bis.13: rispettivamente per quanto riguarda il ricorso del privato e per quello presentato dal P.M. Per questo aspetto l'atto deve contenere l'indicazione dell'ufficio giudiziario davanti al quale la domanda è proposta; il nome, il cognome,, il luogo e la data di nascita, la cittadinanza, la residenza o il domicilio o la dimora e il codice fiscale dell'attore e del convenuto nonché dei figli comuni alle parti se minorenni, maggiorenni economicamente non autosufficienti o portatori di handicap grave e degli altri soggetti ai quali le domande o il procedimento si riferiscono; il nome, il cognome e il numero fiscale del procuratore unitamente all'indicazione della procura; la determinazione dell'oggetto della domanda; la chiara e sintetica esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda si fonda, con le relative conclusioni; l'indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti; l'indicazione di sussistenza tra le stesse parti di altri procedimenti aventi a oggetto le medesime domande o domande ad esse connesse. In caso di domande di contributo economico o in presenza di figli minori, al ricorso vanno allegati le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, la documentazione attestante la titolarità di diritti reali su beni immobili o su beni mobili registrati o quote sociali e gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari degli ultimi tre anni. E' dubbio che nel caso di interdizione di minorenni debba anche essere redatto il piano genitoriale descrittivo degli impegni del soggetto e delle sue modalità di vita. Di certo, nel pronunciare l'interdizione e l'inabilitazione il tribunale ricorderà in sentenza i doveri del tutore e del curatore imposti dalle norme del codice civile e opportuni nella vicenda di specie. Le citate indicazioni il secondo comma dell'art. 473-bis.52 aggiunge le seguenti: nome, cognome e residenza del coniuge o del convivente di fatto, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado e, se vi sono, del tutore o curatore dell'interdicendo o dell'inabilitando.
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