Codice Civile art. 230 bis - Impresa familiare (1) (2).

Gustavo Danise

Impresa familiare 1 2.

[I]. Salvo che sia configurabile un diverso rapporto [2094, 2251 ss., 2549], il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato [36 Cost.]. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa. I familiari partecipanti alla impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi [316] 3.

[II]. Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell'uomo [37 Cost.].

[III]. Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo [76 ss.]; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo 4.

[IV]. Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell'azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.

[V]. In caso di divisione ereditaria [713 ss.] o di trasferimento dell'azienda [2556] i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sulla azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell'articolo 732.

[VI]. Le comunioni tacite familiari nell'esercizio dell'agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme.

 

[1] Articolo inserito dall'art. 89 l. 19 maggio 1975, n. 151.

[2] In materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, v. art. 21 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81.

[3] Sull'impresa familiare coltivatrice v. art. 48 l. 3 maggio 1982, n. 203.

[4] La Corte cost. 25 luglio 2024, n. 148, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto» e, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter c.c.

Inquadramento

L'art. 230-bis è stato introdotto dall'art. 89 l. n. 151/1975 nella Sezione VI del Capo VI del Titolo del Libro I del codice civile allo scopo di conferire una tutela minimale ed inderogabile ai familiari che prestano attività lavorativa nell'impresa di un loro congiunto, così superando la presunzione di gratuità delle prestazioni rese in ambito familiare postulata dalla giurisprudenza tradizionale. La disposizione, che amplia l'ambito di applicazione dell'antesignano istituto della comunione tacita familiare, attribuisce, in particolare, ai coniugi e familiari entro il terzo grado ed affini entro il secondo grado, che prestano stabilmente attività lavorativa nell'impresa del loro congiunto, il diritto di partecipare alla ripartizione degli utili, e di altre poste attive patrimoniali, nonché di partecipare alle decisioni amministrative e gestionali relative all'impresa. Il minimum di tutela previsto dalla norma è inderogabile pattiziamente; la quota di una dei familiari aventi diritto non può essere alienata a soggetti esterni al nucleo familiare. A ciascun familiare che partecipa all'impresa familiare è garantito il diritto di prelazione ex art. 732 c.c.

Origini e ratio della norma.

Occorre preliminarmente considerare il periodo storico, sociale ed economico in cui è stata emanata la disposizione. Negli anni sessanta-settanta, infatti, l'ossatura dell'economia italiana era costituita da imprese medio-piccole, a conduzione familiare. Orbene la dottrina e la giurisprudenza di quel periodo ritenevano che il lavoro svolto all'interno dell'ambito familiare, senza regolarizzazione contrattuale, da coloro che, a norma delle leggi vigenti, potevano essere considerati collaboratori familiari del datore (coniuge; parenti o affini entro il terzo grado, conviventi e viventi a carico) trovasse la sua ragione giustificativa nell'esigenza di soddisfare doveri morali e di solidarietà familiare (art. 2 e 29 Cost.). Ne era conseguita l'affermazione del principio della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese nell'impresa del congiunto; presunzione fondata sull'idea che i familiari dell'imprenditore offrissero prestazioni lavorative nell'impresa per affectionis vel benevolentiae causa (Palazzo, 153; Ghezzi, 119), salva naturalmente la rigorosa prova contraria della sussistenza di un rapporto che, pur in assenza di contratto, presentasse i caratteri tipici della subordinazione, nel qual caso il familiare avrebbe avuto accesso alla tutela retributiva nella misura prevista nel CCNL applicabile in relazione alle mansioni concretamente svolte ed all'inquadramento rivestito in azienda. La presunzione di gratuità dell'attività lavorativa resa dai familiari nell'impresa di un loro congiunto, è stata superata dal Legislatore della riforma del 1975, l. n. 151, che all'art. 89 ha introdotto nel codice civile la norma dell'art. 230-bis. Tale norma deve essere considerata ed interpretata coerentemente al contesto sociale ed allo spirito riformatore che anima la legge in cui è contenuta; quindi condivide la rivalutazione del ruolo della famiglia come istituzione non vista più solo come una unità di consumo di beni e servizi, ma come unità che possiede capacità produttiva in grado di rivestire un ruolo di primo piano nello sviluppo economico del Paese; concezione questa che si coniuga con l'affermazione della pari dignità della moglie nel matrimonio rispetto al marito, e della riconsiderazione in termini produttivi ed economicamente valutabili del lavoro casalingo e delle prestazioni lavorative rese dalla moglie e dai familiari nell'impresa del congiunto. Il legislatore della riforma ha quindi introdotto l'art. 230-bis dopo aver compreso che, per effetto dalla diffusione capillare delle imprese familiari in diversi settori merceologici, la regolamentazione allora esistente dei diritti patrimoniali per i familiari dell'imprenditore, confinati negli angusti limiti delle imprese agrarie, previsti nell'art. 2140 c.c. sulla comunione tacita familiare, non era più sufficiente né adeguata al mutato contesto economico sociale, caratterizzato appunto dal passaggio da un'economia prettamente agraria ad una commerciale ed industriale (Carozza, 2001). Ciò chiarito sulla ratio della norma, si deve preliminarmente osservare che il legislatore, pur non offrendo una definizione di impresa familiare, le ha conferito una valenza generalista, che prescinde dal settore merceologico o produttivo in cui opera, confinando la obsoleta comunione tacita familiare nell'ultimo comma dell'art. 230-bis ed abrogando contestualmente l'art. 2140 c.c. Al contempo con l'introduzione della disposizione in commento, il legislatore tutela i diritti, l'autonomia e la dignità del familiare lavoratore dalla posizione di supremazia del titolare dell'impresa (Davanzo, 57).

La giurisprudenza tradizionale della S.C. di Cassazione ha sempre postulato la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese da un familiare convivente per l'impresa del congiunto perché adempiute affectionis vel benevolentiae causa nel rispetto dei principi di solidarietà e reciproca collaborazione che caratterizzano i rapporti familiari (principio espresso già negli anni sessanta da Cass. n. 276/1967 e Cass. n. 2027/1968). La presunzione di gratuità, in particolare, era considerata in maniera rigorosa e difficilmente superabile con riferimento alle prestazioni rese in ambito della comunità familiare (che, si badi beni, è un aspetto ben diverso dall'impresa familiare), sulla scorta della inconfigurabilità di un rapporto di lavoro in senso tecnico, come disciplinato dagli artt. 2094 ss. c.c., in quanto si tratta di prestazioni che, lungi dal concorrere al processo produttivo di un'impresa, si svolgono in una convivenza fra persone legate da vincoli di sangue, ripetendo gli aspetti propri della vita comune familiare (Cass. n. 751/1971 ove la presunzione di gratuità è stata configurata in relazione ai lavori domestici che una sorella compie per il proprio fratello con cui convive). Il principio è stato espresso anche con riferimento alle prestazioni lavorative rese da un parente a vantaggio dell'attività del congiunto svolta secondo criteri tipicamente imprenditoriali (quindi di un'impresa familiare); ma, in tali casi, la presunzione di onerosità è attenuata, avendo la Cassazione ammesso la prova, benché rigorosa, del familiare lavoratore di aver prestato un'attività lavorativa che presentasse i caratteri della subordinazione (Cass. n. 1452/1975 «Nel caso di prestazioni lavorative rese fra persone conviventi, legate da vincolo di parentela o di affinità o anche solo da vincolo di affettuosa ospitalità, le prestazioni stesse si presumono gratuite e non ricollegabili ad un rapporto di lavoro, dovendosi ritenere espletate al di fuori di qualsiasi incontro di volontà contrattuale, sotto il solo stimolo di principi ed impulsi morali ed affettivi, senza subordinazione e non in vista di una retribuzione. Detta presunzione può essere vinta dalla dimostrazione, incombente alla parte che sostiene l'esistenza di un rapporto di lavoro, dei requisiti della subordinazione e dell'onerosità delle rispettive prestazioni; deve pero trattarsi di prova precisa e rigorosa, non evincibile dalla sola circostanza che le attività in questione, anziché svolgersi nello stretto ambito della vita familiare e comune, attengano all'esercizio di un'impresa, ove si tratti di impresa gestita ed organizzata, strutturalmente ed economicamente, con criteri prevalentemente familiari»). Si sono riportate solo alcune delle numerosissime pronunce della Cassazione sul tema; poiché i principi esposti sono stati integralmente confermati in ogni pronuncia del periodo, è superfluo riportarne altre. Nei successivi paragrafi saranno ripartite, a secondo dell'oggetto della trattazione, le sentenze che si sono occupate dell'art. 230-bis.

La definizione di impresa familiare

Il legislatore disciplina l'impresa familiare nell'art. 230-bis c.c. ma non ne offre una definizione. L'istituto si presenta pertanto come uno schema aperto, suscettibile di essere riempito di contenuti diversi, spesso contrastanti, a seconda degli interessi giudicati maggiormente meritevoli di tutela (Balestra, 482). La discussione dottrinale sul punto ha portato all'affermazione di due indirizzi contrapposti: l'uno che rinviene nell'impresa familiare una struttura plurisoggettiva; l'altro che sostiene abbia natura individuale. L'adesione alla prima o alla seconda tesi comporta conseguenze pratiche rilevanti ad esempio in ordine ai rapporti esterni, alla responsabilità per le obbligazioni assunte ed ai debiti contratti nell'esercizio dell'impresa o al tipo di diritto (reale o di credito) vantato dai partecipanti. I sostenitori della natura collettiva (Graziani, 225) postulano la sussistenza di una situazione di contitolarità dell'impresa, che può costituirsi anche in forma societaria, ricavandola dal complesso di diritti patrimoniali e gestionali previsti dalla norma, che assume quindi rilevanza anche nei rapporti esterni, con conseguente assunzione di responsabilità pro quota nei confronti dei terzi e con assoggettabilità di tutti i familiari alla procedura fallimentare. Si parla in tal senso di «coimpresa», o di «società ex lege», o di impresa collettiva non societaria, in cui i familiari assumerebbero la qualifica di coimprenditori o soci (tali posizioni sono riportate in Panuccio, 95; Graziani). I sostenitori della tesi opposta, che afferma la natura individualistica dell'impresa familiare, affermano che con l'art. 230-bis il legislatore ha inteso disciplinare unicamente la prestazione di lavoro svolta negli aggregati familiari, in passato ricondotta all'affectio familiaris, senza con ciò voler incidere sulla disciplina dei rapporti esterni e sulla titolarità dell'impresa, che rimane individuale (così Balestra, 670), conseguendone che solo l'imprenditore intrattiene rapporti con i terzi, assumendo le relative obbligazioni ed è l'unico soggetto passibile di essere dichiarato fallito. Tale conclusione è favorita dal dettato letterale: in primo luogo dal fatto stesso che ai familiari siano attribuiti diritti di ordine patrimoniale e amministrativo da far valere, ovviamente, verso un altro soggetto; in secondo luogo dal fatto che l'individuazione dei familiari diversi dal coniuge, che collaborano nell'impresa, viene effettuata sulla base della parentela e dell'affinità, la cui determinazione fa necessario riferimento ad un predeterminato soggetto, cioè un titolare individuale (Colussi, 14; Balestra, 459); ed infine dal fatto che ai componenti dell'impresa sono attribuiti poteri decisori sugli affari più importanti, come quelli relativi alla gestione straordinaria, lasciando presumere che la gestione ordinaria sia di competenza esclusiva di un altro soggetto (Colussi, 174).

La contrapposizione tra le tesi che accordano rispettivamente natura collettiva, espressa anche in forma societaria dell'impresa familiare, e natura di impresa individuale, è emersa anche in giurisprudenza. Alla prima impostazione ha aderito parte della giurisprudenza di merito (si segnalano App. Ancona 10 luglio 1981 ove si è affermato che l'impresa familiare costituisce una versione rinnovata e democratica, a gestione collettiva, dell'arcaica comunione tacita familiare; e Trib. Rovereto, 10 luglio 1987, che, nel motivare l'assoggettamento a fallimento di tutti i familiari che collaborano nell'impresa familiare, ha precisato che «sarebbe ingiusto ed anche sospetto di incostituzionalità (ex art. 3 Cost.) che, mentre tutti i componenti concorrono su un piano di uguaglianza alla formazione della volontà dell'impresa facendone propri i benefici, soltanto uno di essi deve sopportare le relative responsabilità verso i terzi e verso l'ordinamento») e la S.C. di Cassazione in alcune pronunce, come la Cass. n. 19116/2004 e la Cass. n. 13861/2000, in cui si precisa che il coniuge che svolga attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa ha diritto alla tutela prevista dall'art. 230-bis c.c., al pari degli altri soggetti indicati dal terzo comma di tale articolo, anche se l'impresa sia esercitata non in forma individuale ma in società di fatto con terzi, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui al citato art. 230-bis nei limiti della quota societaria, atteso che la nozione di impresa familiare non comporta necessariamente l'esistenza di un soggetto imprenditoriale collettivo familiare, e che l'istituto ha natura residuale, venendo nel suo ambito regolati i diritti corrispondenti alle prestazioni svolte dal soggetto partecipante a favore del familiare che se ne avvale, anche quando questi utilizzi tale apporto per un'attività economicamente svolta quale socio di una società di fatto. L'opposta impostazione è stata suggerita anche dalla Corte cost. 25 novembre 1993, ove ha precisato che l'impresa familiare si caratterizza «come istituto associativo del tutto particolare (...) tale da escludere (...) nei rapporti esterni la presenza di un vincolo societario suscettibile di estendere la responsabilità gestionale al di là della figura del familiare imprenditore»; ed abbracciata dalla Corte di Cassazione in sentenza Cass. n. 6559/1990, ove ha statuito che «Nell'ambito dell'istituto dell'impresa familiare di cui all'art. 230-bis, caratterizzato dall'assenza di un vincolo societario e dall'insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i familiari e la persona del capo (quale riconosciuto dai partecipanti in forza della sua anzianità e/o del suo maggiore apporto all'impresa stessa), vanno distinti un aspetto interno, costituito dal rapporto associativo del gruppo familiare quanto alla regolamentazione dei vantaggi economici di ciascun componente, e un aspetto esterno, nel quale ha rilevanza la figura del familiare-imprenditore, effettivo gestore dell'impresa, che assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali, diversi da quelli comuni e indivisi dell'intero gruppo, anch'essi oggetto della generica garanzia patrimoniale di cui all'art. 2740 c.c.; ne consegue che il fallimento di detto imprenditore non si estende automaticamente al semplice partecipante all'impresa familiare», e successivamente, in modo chiaro e netto nella Cass. n. 7223/2004: «A differenza della impresa collettiva esercitata per mezzo di società semplice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone (artt. 2251 e segg. c.c.), l'impresa familiare di cui all'art. 230-bis appartiene solo al suo titolare, mentre i familiari partecipanti hanno solo diritto ad una quota degli utili; ne consegue che, in caso di morte del titolare, non è applicabile la disciplina dettata dall'art. 2284 c.c., che regola lo scioglimento del rapporto societario limitatamente ad un socio, e quindi la liquidazione della quota del socio uscente di società di persone, ma l'impresa familiare cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell'asse ereditario del de cuius, rispetto a tali beni i componenti dell'impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull'azienda». Il contrasto sorto tra le sezioni semplici della Corte di legittimità in merito a tale questione di diritto, ha richiesto un intervento risolutivo delle S.U. che si sono pronunciate in sentenza Cass. n. 23676/2014, ove hanno statuito la assoluta incompatibilità tra l'impresa familiare ed un'impresa collettiva in forma societaria, ricavando tale soluzione dal dato letterale dell'art. 230-bis. In motivazione, le S.U., dopo aver spiegato le argomentazioni giuridiche poste dalla dottrina e dalle proprie precedenti pronunce a fondamento dell'una e dell'altra tesi, evidenziano che il complesso dei diritti patrimoniali ed amministrativi sono incompatibili con la disciplina normativa che governa i fenomeni societari; infatti il diritto alla partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento è ricollegato alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa, e non alla quota di partecipazione, come richiederebbe la disciplina societaria; in secondo luogo si evidenzia che alcuna norma del diritto societario consente ad un socio di reclamare diritti sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, ivi compreso l'avviamento, quando la società opera regolarmente; in terzo luogo, ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio, tale, da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario — integrato con la presenza dei familiari dei soci — nelle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi e altresì la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi; e financo la cessazione dell'impresa stessa: disciplina che contrasta con le relative modalità di assunzione all'interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste (il più delle volte da norme inderogabili), in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale. Ed ancora, siffatta conclusione appare confortata dalla natura residuale dell'impresa familiare, che ne escluderebbe l'applicazione nel caso in cui sia configurabile tra i familiari un rapporto riconducibile ad uno schema societario. Infine, le S.U. evidenziano che l'assimilazione tra imprenditore e socio, appare in contrasto con la distinzione consolidata in giurisprudenza tra le due figure. Tale pronuncia ha risolto il contrasto, ponendo così le basi per il consolidamento dell'opinione secondo cui per impresa familiare deve intendersi impresa individuale cui collaborano i familiari stretti del titolare; posizione nettamente e fermamente espressa nella successiva sentenza Cass. n. 20552/2015 «L'esercizio dell'impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria attesa, essenzialmente, la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda ed all'avviamento in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione, oltre che per il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario. Né una impresa è configurabile tra due coniugi ove uno solo di questi eserciti un'attività commerciale in qualità di socio di una società di persone, difettando la sua qualità di imprenditore, esclusivamente propria della società» e Cass. n. 24560/2015 «L'impresa familiare di cui all'art. 230-bis c.c. appartiene solo al suo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari, in ciò differenziandosi dall'impresa collettiva, come quella coltivatrice la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, e dalla società, con la quale è incompatibile» (in senso conforme, recentemente Cass. ord. n. 10161/2021). Il principio, oramai consolidato, è stato ulteriormente riaffermato dalla Cassazione nell'Ordinanza Cass. n. 34222/2019 ove si è aggiunto che la natura individuale dell'impresa familiare comporta che ne sia titolare soltanto l'imprenditore, in conseguenza la posizione degli altri familiari, che prestano il loro apporto sul piano lavorativo, assume rilevanza esclusivamente nei rapporti interni, restando esclusa la configurabilità di un'ipotesi di litisconsorzio necessario nei giudizi promossi da o contro il congiunto titolare dell'impresa.

Il carattere residuale della disposizione.

Dall'inciso «salvo che non sia configurabile un diverso rapporto» la dottrina ricava il carattere residuale della disposizione, nel senso che il complesso di diritti patrimoniali ed amministrativi previsto dalla norma trova applicazione se il rapporto di lavoro tra familiare ed imprenditore non sia inquadrabile in un altro istituto giuridico, nel qual caso il rapporto sarà regolato secondo la specifica disciplina giuridica per esso prevista (es. rapporto di lavoro subordinato; associazione in partecipazione, ecc.). Si motiva in dottrina che se la ratio sottesa alla norma viene individuata nell'esigenza di fornire una tutela al prestatore di lavoro, impedendo che la comunità familiare possa dare origine e copertura a situazioni di sfruttamento, si spiega agevolmente il venir meno della disciplina sull'impresa familiare quando l'imprenditore e il familiare convengano liberamente la disciplina del rapporto tra di essi intercorrente, inquadrando espressamente il loro rapporto nell'ambito di uno degli istituti giuridici codificati (Amoroso, 9). Parte della dottrina diverge da tale impostazione sottolineando il carattere imperativo della norma, e concludendo che il complesso dei diritti sanciti per i familiari lavoratori nell'art. 230-bis c.c. costituisce un minimum di tutela inderogabile in peius (Balestra, 141) e derogabile solo in melius. Pertanto, tale opinione sostiene che il «diverso rapporto» configurato tra imprenditore e familiare non può costituire motivo per eludere la disciplina garantista prevista dalla norma, prevedendosi pattiziamente un livello inferiore di diritti; ove ciò dovesse accadere, la clausola sarebbe nulla per violazione di una norma imperativa, e verrebbe sostituita dalla disciplina dell'art. 230-bis (ex multis Oppo, 518). Pertanto si postula che l'esclusione della disciplina dell'art. 230-bis possa avvenire solo quando le parti inquadrano la collaborazione lavorativa nell'ambito di una delle figure codificate nell'ordinamento giuridico, quale la società, il rapporto di lavoro subordinato o autonomo, già dotate di una disciplina garantista dei diritti del lavoratore. La natura residuale della disposizione, nell'accezione sinora descritta, consente di offrire una risposta anche ad un altro problema che si è posto in dottrina e che afferisce alla necessità di un atto negoziale formale per la costituzione dell'impresa familiare. A tale interrogativo deve offrirsi risposta negativa. L'impresa familiare, come visto, è priva di definizione normativa; deve considerarsi, quindi, quale fenomeno giuridicamente rilevante non riconducibile ad uno schema giuridico tipizzato (la cui disciplina, altrimenti, troverebbe applicazione). Si è anche evidenziato nel precedente paragrafo che il fenomeno dell'impresa familiare viene previsto dal legislatore per attribuire diritti ai familiari che vi collaborano in difetto di un inquadramento formale del rapporto lavorativo. Ne consegue allora che l'impresa familiare, lungi dal voler costituire una figura giuridica che si contrappone e distingue dalle tipologie codificate di società, da un lato, e dall'imprenditore individuale (art. 2082 ss. c.c.) dall'altro, rileva quale presupposto per l'attribuzione di diritti ai familiari dell'imprenditore per il sol fatto che prestano stabilmente attività lavorativa per il congiunto. Ne consegue che, rilevando l'impresa familiare quale «fatto giuridicamente rilevante», non occorre alcun atto costitutivo; la sua costituzione — secondo lo scrivente più correttamente dovrebbe affermarsi «la sua rilevanza per l'ordinamento giuridico» — si perfeziona automaticamente con la prestazione di attività lavorativa nell'impresa da parte di uno o più familiari (Oppo, 467; Panuccio, 50). Cionondimeno, i familiari possono consacrare in una scrittura privata la regolamentazione dei diritti (ad es. la ripartizione degli utili) connessi alla prestazione lavorativa singolarmente prestata; un accordo in tal senso potrebbe essere stipulato anche oralmente, ma non è obbligatorio. Il raggiungimento di un accordo, soprattutto se redatto per iscritto, semplificherebbe semplicemente l'onere probatorio per il singolo familiare nel giudizio che dovesse intentare innanzi al giudice del lavoro nei confronti dell'imprenditore per conseguire gli utili a lui spettanti e che gli sono negati al momento dell'estinzione dell'impresa. In caso di mancato accordo, come vedremo, il giudice dovrà provvedere alla quantificazione secondo i criteri di commisurazione indicati nell'art. 230-bis. In definitiva, il rapporto giuridico rilevante ai sensi dell'art. 230-bis non è di fonte negoziale, ma legale; i diritti previsti dalla norma si determinano per il sol fatto del compimento di prestazione di attività lavorativa in via continuativa nell'azienda del congiunto.

La S.C. Cassazione, a S.U. in sentenza Cass. S.U., n. 23676/2014 ha precisato che l'incipit «salvo sia configurabile un diverso rapporto» prefigura l'istituto dell'impresa familiare come autonomo, di carattere speciale, (ma non eccezionale) e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile. Infatti, la disciplina dell'art. 230-bis c.c. mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all'impresa del congiunto che non rientrino nell'archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione (Cass. n. 20157/2005; ;Cass., n. 11533/2020precedentemente, in modo ancor più eloquente, la S.C. ha affermato l'impresa familiare ha natura residuale o suppletiva, in quanto è diretto ad apprestare una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro che si svolgono nell'ambito degli aggregati familiari; consegue che tale istituto non può configurarsi nell'ipotesi in cui il rapporto tra i componenti della famiglia sia riconducibile a uno specifico rapporto giuridico, quale quello del rapporto di lavoro subordinato: Cass. n. 7438/1997). La Cassazione accoglie l'impostazione dottrinale che offre un'interpretazione restrittiva dell'incipit «salvo diverso rapporto» ricollegabile solo alla configurazione di uno degli istituti giuslavoristici codificati. Un'applicazione elusiva dell'inciso volto ad escludere i diritti attribuiti dalla norma potrebbe ricorrere nel caso in cui le parti costituiscano un rapporto di lavoro gratuito. Sul punto, la S.C. con sentenza Cass. n. 19925/2014, dopo aver ribadito il carattere residuale dell'art. 230-bis precisa che l'ipotesi del lavoro familiare gratuito deve rimanere confinata in un'area limitata. Pertanto, qualora un'attività lavorativa sia stata svolta nell'ambito dell'impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all'impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare. (Nella specie, applicando l'enunciato principio, la S.C. ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito che aveva dichiarato sussistere il rapporto di lavoro subordinato attesa la continuativa presenza della nuora, quale commessa, presso il negozio della suocera, a fronte della circostanza dedotta dalla resistente di aver raggiunto un pregresso accordo con la nuora secondo cui quest'ultima avrebbe prestato l'attività di commessa gratuitamente). La Cassazione postula, come la dottrina il carattere imperativo della disposizione, avendo affermato in sentenza Cass. n. 2060/1995 che l'impresa familiare pur essendo «residuale», nel senso che ricorre quando le parti non abbiano diversamente qualificato, neanche per facta concludentia, il loro rapporto, ha carattere imperativo e non può eludersene l'applicazione; infatti la fattispecie dell'impresa familiare si configura per il semplice fatto giuridico dell'esercizio continuativo di attività economica da parte di un familiare, non essendo necessaria una dichiarazione di volontà, o, addirittura, un negozio giuridico (indispensabile, invece, per costituire — in relazione al carattere residuale del detto istituto — un rapporto giuridico diverso). Peraltro, l'esistenza di un atto negoziale, che ribadisca o precisi la disciplina legale dell'impresa familiare, non esclude la configurabilità della medesima, ferma comunque la necessità di verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell'impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del citato art. 230 bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate (conforme a Cass. n. 697/1993). In quest'ordine di idee, è stata ritenuta nulla una clausola del contratto di regolamentazione della partecipazione dei familiari all'impresa familiare in cui si deroga al principio maggioritario previsto dall'art. 230-bis, che pertanto trova applicazione in sostituzione della clausola nulla (Cass. n. 5741/1991).

Al fine di distiguere il rapporto subordinato reso da un familiare rispetto alla partecipazione all'impresa familiare si è precisato che la presenza di indici sintomatici  quali l'osservanza di un orario di lavoro, nella specie coincidente con quello di apertura del negozio al pubblico -, la presenza costante, la corresponsione di un compenso a cadenze fisse possono condurre a configurare l'esistenza di rapporto di tipo subordinato e non mera partecipazione all'attività del familiare in virtù dei motivi di assistenza personale legati ad un'ipotetica impresa familiare (Cass. n.4535/2018; in senso conforme Cass. n. 33759/2022 che ha statuito che in presenza degli indici sintomatici principali e/o sussidiari di cui all'art. 2094 c.c., si configura l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato anche in ipotesi di prestazione svolta da una lavoratrice legata da vincolo di coniugio e di affinità ai titolari della società datrice di lavoro, escludendosi pertanto la fattispecie dell'impresa familiare).

L'ambito di applicazione soggettivo.

La nozione di familiare ex art. 230-bis comma 3 non lascia dubbi su quali siano i soggetti che possano far parte dell'impresa in questione: il coniuge, i parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo, conseguendone che la prestazione lavorativa eseguita nell'impresa familiare da parenti oltre il terzo grado non rientra nel campo di applicazione della norma ed il suddetto parente dovrà attivare altri strumenti giuridici per tutelare il suo diritto alla retribuzione resa in assenza di contratto (come l'art. 2041 c.c.) e ferma restando, in ogni caso la impossibilità di vantare diritti amministrativi e decisionali (Colussi, 74). L'operatività dell'art. 230-bis al coniuge dell'imprenditore si estingue in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio o scioglimento di matrimonio civile o annullamento del matrimonio; un'eventuale improbabile continuazione dell'attività lavorativa nell'impresa sarebbe soggetta ai principi di diritto comune dalla data del passaggio in giudicato della sentenza che scioglie il vincolo coniugale; in caso di separazione personale, invece, la norma opererebbe ancora perché la moglie/marito non perde la qualità di coniuge, ma anche in questo caso pare difficile immaginare nella pratica che l'imprenditore accetti la prosecuzione dell'attività lavorativa in azienda del coniuge dopo la separazione, e viceversa. Non vi è dubbio che rientrano nel novero dei familiari entro il terzo grado anche i figli naturali avuti dall'imprenditore al di fuori del matrimonio laddove inizino a prestare attività in azienda dopo il riconoscimento volontario o il passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della paternità naturale dell'imprenditore (Oppo, 493). La locuzione «familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire» sembrerebbe riferirsi secondo parte della dottrina ai minori emancipati ed agli interdetti (Balestra, 166; Colussi, 78; Amoroso, 70). Si ritiene comunemente che possono lavorare nell'impresa familiare anche soggetti estranei al nucleo familiare; la conduzione familiare dell'impresa non costituisce infatti un regime speciale che deroga alle disposizioni di cui agli artt. 2083 ss. c.c. per cui non vi è una ragione ostativa a che l'imprenditore si avvalga dell'attività lavorativa dei suoi familiari, principalmente, cui affianca dei uno o più collaboratori esterni, ma il rapporto lavorativo di questi ultimi è disciplinato dalle norme del diritto comune (Davanzo, 45). La disposizione si applica espressamente alle prestazioni di lavoro rese da membri della famiglia legittima, escludendo tutti gli altri possibili legami. Di conseguenza si è sviluppato un ampio ed acceso dibattito, volto a stabilire l'applicazione analogica dell'art. 230-bis alla cosiddetta «famiglia di fatto». Il problema interpretativo ha trovato una soluzione positiva per effetto dell'introduzione, ad opera della l. n. 76/2016, dell'art. 230-ter c.c. che attribuisce diritti patrimoniali al convivente di fatto che svolge attività lavorativa stabile nell'impresa familiare ed al cui commento si rinvia.

Anche la S.C. di Cassazione ha preso posizione sulla problematica dell'applicazione analogica dell'art. 230-bis alla famiglia di fatto, rispondendo negativamente sul presupposto che l'applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare richiede espressamente l'esistenza di una famiglia legittima; pertanto, l'art. 230-bis non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta «di fatto», trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica (Cass. n. 22405/2004, conforme a Cass. n. 3503/1998 e Cass. n. 4204/1994). Naturalmente affinché si configura un'impresa famigliare, è necessario che si accerti l'apporto concreto offerto dal congiunto all'imprenditore (in base a tale principio la Cass.  n. 34699/2022ha escluso che si configura un'impresa familiare, ai fini fiscali, sulla base del mero fatto che i figli del farmacista contribuente siano studenti universitari della facoltà di farmacia, dovendosi accertare, in concreto, sia la continuità che la prevalenza dell'apporto del collaboratore e, dunque, l'effettiva prestazione di tale attività di lavoro). Il quadro normativo è mutato dal 2016 come detto; ora un limitato riconoscimento di tutela patrimoniale per il convivente more uxorio che collabori stabilmente nell'impresa familiare del compagno è assicurato dall'art. 230-ter c.c. Peraltro, proprio su tale questione è da segnalare la recente Ordinanza della Cass. n. 2121/2023 con cui è stata rimessa al Primo Presidente per l'eventuale rinvio alle Sezioni Unite la questione se l'art. 230-bis, comma terzo, c.c. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell'evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2,3,4 e 35 Cost. sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità.

Il presupposto oggettivo: la prestazione lavorativa

Il presupposto oggettivo consiste nella prestazione di lavoro in modo continuativo all'interno dell'impresa del convivente; quindi la norma non opera in caso di collaborazioni occasionali o saltuarie, ma per la collaborazione duratura che comporti un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole dell'imprenditore. Dalla definizione non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa da parte dei familiari. La prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però, sconfinare in una cogestione dell'impresa o in un rapporto di lavoro che presenti gli indici tipici della subordinazione, che farebbero sorgere un rapporto di tipo societario o di lavoro subordinato, esclusi dal campo di applicazione della norma. (Oppo, 475; Palmeri, 90; Balestra, 184 ss.; Prosperi, 113, Germano, 240; Menghini, 221 ss.). Tale conclusione si evince dal dettato letterale della disposizione, con particolare riferimento alla tipologia di diritti patrimoniali spettanti al convivente, ossia «partecipazione agli utili dell'impresa familiare; ai beni acquistati con essi; agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento»; si tratta di diritti patrimoniali incompatibili con quelli che scaturiscono da un rapporto lavorativo di tipo subordinato, come la retribuzione, l'accantonamento del TFR, la tredicesima mensilità, ecc. Va anche segnalato che se si aderisce a tale opzione ermeneutica, l'art. 230-bisnon sarebbe applicabile attualmente neppure alle prestazioni lavorative riconducibili alla figura del rapporto di lavoro coordinato e continuativo attesa l'equiparazione di disciplina tra le due figure prevista dal d.lgs. n. 81/2015 (Persiani, 313 ss.; Ferraro, 53 ss.; Marazza, 1168 ss.; Nogler, 47 ss.; Santoni, 505 ss.; Zoppoli, 33 ss.). La dottrina offre un'interpretazione restrittiva del concetto di «impresa», escludendo l'applicazione dell'art. 230-bis c.c. alle attività lavorative rese dai familiari del congiunto in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale (commercialista, avvocato). Anche in tal caso la conclusione è favorita dal dato letterale, in quanto l'art. 230-ter c.c. richiede necessariamente l'esistenza di un'impresa tipica, allo scopo di dare un senso ai concetti di partecipazione agli utili, ai beni e agli incrementi dell'azienda, all'avviamento (Colussi, 55 ss. Menghini, 221 ss.). Ciò chiarito, la dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative).

Nella giurisprudenza della S.C. di Cassazione è consolidato l'orientamento che esclude, in virtù del carattere residuale emergente dell'art. 230-bis, l'apporto lavorativo all'impresa del congiunto che rientri nell'archetipo del lavoro subordinato o per il quale non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione (da ultimo Cass. n. 19925/2014; conforme a Cass. n. 20157/2005; principio recepito anche in giurisprudenza di merito ove si è precisato altresì che il lavoro familiare gratuito resta confinata in un'area limitata; pertanto, qualora un'attività lavorativa sia stata svolta nell'ambito dell'impresa, il giudice di merito deve valutare le risultanze di causa per distinguere tra lavoro subordinato e compartecipazione all'impresa familiare, escludendo, comunque, la gratuità della prestazione per solidarietà familiare (Trib. Roma n. 1606/2019). In tal caso, infatti, si applicherebbe al familiare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Ne consegue che nell'ipotesi di giudizio intentato da un familiare o coniuge dell'imprenditore volto a conseguire le spettanze per l'attività lavorativa prestata nell'impresa familiare, il giudice del lavoro dovrà condurre un'accurata istruttoria volta ad accertare la sussistenza degli indici della subordinazione così da qualificare le prestazioni rese dal ricorrente come adempimento delle obbligazioni scaturenti da un rapporto di lavoro subordinato ed applicare la relativa disciplina, con riconoscimento, quindi, del trattamento retributivo previsto nel CCNL applicabile in relazione alle mansioni ed all'inquadramento accertati all'esito dell'istruttoria; ove dall'istruttoria non dovesse emergere tutti i caratteri tipici della subordinazione, allora il giudice dovrà applicare la disciplina residuale dell'art. 230-bis liquidando gli utili spettanti al familiare ricorrente secondo il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato indicato nella norma (principio desumibile da Cass. n. 14434/2015). Da segnalare anche Cass. n. 13849/2002 ove si precisa che la continuità dell'apporto richiesto dall'art. 230-bis c.c. per la configurabilità della partecipazione all'impresa familiare non esige la continuità della presenza in azienda, richiedendo invece soltanto la continuità dell'apporto. In tale ultimo senso, in giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 5 febbraio 1990; Pret. Forlì, 21 dicembre 1994. Sempre in merito alla consistenza dell'apporto lavorativo, si segnala la sentenza Cass. n. 901/2000 della Cassazione in cui si è statuito il principio secondo cui, nell'ipotesi in cui una farmacia sia gestita in regime di impresa familiare l'attività di studio del coniuge, al fine di conseguire il diploma di laurea in farmacia, integra il requisito della partecipazione all'impresa ai fini dell'art. 230-bis, in quanto soltanto con il conseguimento della qualifica professionale di farmacista è possibile vendere i farmaci, sicché l'attività in argomento costituisce un investimento nella formazione professionale economicamente valutabile in quanto può escludere la necessità dell'oneroso ricorso dell'impresa familiare alla prestazione di dipendenti farmacisti. Né assume rilievo in contrario la circostanza che di fatto l'impresa non si sia avvantaggiata del suddetto investimento in quanto una tale evenienza, rientrante nel normale rischio di impresa, non esclude che esso sia stato finalizzato all'interesse aziendale.

Il lavoro domestico

Uno degli aspetti più controversi della disposizione consiste nell'equiparazione tra l'attività di lavoro svolta dal coniuge o familiare nella famiglia e quello svolto nell'impresa familiare. Si tratta di una previsione che esalta la nuova considerazione in cui viene tenuta la donna ed il lavoro casalingo nello spirito della riforma del 1975 cui si ispira anche il 2 comma dell'art. 230-bis secondo cui «Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell'uomo» e che traspare in altre disposizioni del codice civile novellate dalla l. n. 151 come ad es. l'art. 143 c.c. che parifica la condizione giuridica della moglie a quella del marito nel matrimonio (comma 1) ed equipara il lavoro casalingo a quello professionale quale adempimento dei doveri di contribuzione alla famiglia posti a carico di entrambi i coniugi. Se da un lato, quindi, l'equiparazione del lavoro casalingo a quello professionale esprime un concetto innovativo nell'ambito dei rapporti familiari rispetto alla disciplina originaria codicistica basata su un modello patriarcale di matrimonio che poneva la donna in una condizione recessiva, dall'altro lato, l'esportazione di questo principio nel campo dell'impresa familiare, ad opera dell'art. 230-bis c.c., ha determinato l'insorgere di un dibattito sull'ammissibilità della partecipazione della moglie alla ripartizione degli utili e delle altre poste attive ivi dichiarate nel caso in cui ella contribuisca alla famiglia esclusivamente prestando lavoro casalingo. Il dubbio si pone perché la formulazione della norma sembrerebbe deporre in tal senso (... che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ...»), ma d'altra parte, tale tipo di apporto non appare idoneo ex se ad apportare un beneficio concreto ed empiricamente valutabile all'impresa. Nel dibattito su tale questione si sono affermati tre diversi orientamenti: secondo il primo l'equiparazione del lavoro casalingo a quello in azienda, da parte dell'art. 230-bis, rivelerebbe l'intento legislativo di tutelare adeguatamente il lavoro familiare sia nell'impresa sia nella famiglia, e ciò sia per un'esigenza di giustizia ma anche nell'interesse economico e morale della comunità familiare (Di Francia, 310; Oppo, 489; Balestra, 140; Panuccio, 58; Costi, 65). Il secondo orientamento sostiene che il lavoro nella famiglia attribuisca i diritti di cui all'art. 230-bis solo se produce concreti riflessi sull'attività aziendale; quindi, soltanto se si accerta una connessione obbligatoria tra lavoro casalingo ed impresa opererebbe la particolare tutela di cui la moglie casalinga verrebbe a godere in forza dell'art. 230-bis c.c. (Dogliotti-Figone, 619; Finocchiaro A. e M., 1321; Palmeri, 43; Colussi, 58; Bellelli, 165 ss.). Tale connessione obbligatoria potrebbe verificarsi allorquando l'assolvimento del lavoro domestico in via esclusiva e full time della sola moglie consenta l'inserimento a tempo pieno di un altro familiare nell'organizzazione dell'impresa o permetta anche allo stesso imprenditore di dedicarsi totalmente all'esercizio della sua impresa. Se da tali eventi scaturisce un incremento di produttività dell'azienda, anche la moglie deve goderne degli utili, dal momento che l'ha reso possibile sottraendo del tutto il marito o uno dei figli dall'assolvimento di compiti domestici, facendo recuperare tempo da dedicare all'azienda di famiglia. Si precisa che affinchè la suddetta connessione operi, il lavoro casalingo della moglie non deve essere configurato quale adempimento del dovere di contribuzione alla famiglia ex art. 143 comma 3 c.c., ma il frutto di un'autonoma scelta, che comporti da un lato la rinuncia preventiva della moglie a ricercare altre possibilità lavorative e, dall'altro, sia finalizzata ad agevolare l'attività nell'impresa di famiglia degli altri componenti del nucleo familiare. L'ultima tesi ritiene che l'attività casalinga debba essere qualificata dalla sua pertinenza nell'impresa, cioè in grado di tradursi in servizi, direttamente o indirettamente sfruttabili in quest'ultima, affinchè possa rientrare nel campo di applicazione dell'art. 230-bis; se tale attività non produce benefici immediati all'azienda, il lavoro casalingo prestato rileverà esclusivamente quale adempimento del dovere di contribuzione ex art. 143 comma 3 c.c. e non darà accesso alla moglie ai diritti previsti dall'art. 230-bis (Tanzi, 4). Da segnalare la posizione di autorevole dottrina che sulla duplice valenza del lavoro casalingo quale apporto all'impresa e quale adempimento del dovere di contribuzione ex art. 143 comma 3 c.c. evidenzia che, al di là dell'indiscutibile ed innovativa valenza del principio codificato all'art. 230-bis, occorre nondimeno tenere in adeguata considerazione, da un lato, l'esigenza di salvaguardare la solidarietà degli affetti su cui si fonda la comunità familiare, impedendo una moltiplicazione incontrollata dei casi in cui il piano dell'onerosità faccia da sfondo a tali rapporti; dall'altro, la circostanza che il lavoro casalingo, perlomeno quello del coniuge, riceve già un riconoscimento al terzo comma dell'art. 143 c.c., quale modalità diretta di adempimento dell'obbligo di contribuzione gravante su entrambi i coniugi (Balestra, 137).

Il problema dell'inclusione dell'attività lavorativa domestica tra le prestazioni lavorative che danno diritto di godere dei diritti sanciti dall'art. 230-bis c.c. è stato affrontato anche dalla Corte di Cassazione che a fronte delle prime oscillanti posizioni ha dovuto pronunciarsi a S.U. in sentenza Cass.S.U.,n. 89/1995, ove ha tracciato anche il criterio discretivo della rilevanza del lavoro domestico quale apporto all'impresa familiare e quale adempimento del dovere di contribuzione imposto dall'art. 143 comma 3 c.c. Le S.U. hanno statuito che il mero svolgimento di mansioni in ambito domestico, da parte del coniuge dell'imprenditore, costituendo adempimento degli obblighi derivanti dal matrimonio, non è sufficiente a dare luogo ad un'impresa familiare essendo necessario un apporto ulteriore, funzionale ed essenziale all'attuazione dei fini di produzione o di scambio di beni e servizi. Le Sezioni Unite sono pervenute a tale risultato evidenziando, da un lato, come anche l'attività di lavoro nella famiglia debba tradursi in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi che non può che essere determinata in relazione all'accrescimento della produttività dell'impresa e, dall'altro, osservando che, se l'impresa familiare deve ritenersi scaturire dalla volontà dei partecipanti, a ciò consegue che l'imprenditore, ove il lavoro domestico della moglie costituisse di per sé titolo sufficiente per la partecipazione all'impresa, non potrebbe impedire tale partecipazione, in quanto dovrebbe impedire prestazioni che sostituiscono adempimento dell'obbligo legale di solidarietà e di contribuzione ai bisogni della famiglia. Inoltre, per le Sezioni unite, quando il legislatore ha indicato tra i titoli di partecipazione il lavoro domestico aveva in mente quel particolare lavoro casalingo che legittimava la partecipazione della moglie del capo famiglia alla comunione tacita familiare. Infine, la Corte di Cassazione ha valutato la questione anche alla luce del principio volontaristico che caratterizza l'impresa familiare. Infatti, la consapevolezza e volontarietà dei comportamenti da parte dei familiari-lavoratori, presuppongono altresì, che l'imprenditore possa anche rifiutare la partecipazione del familiare all'impresa, opponendosi all'esercizio di attività lavorativa nell'ambito della stessa. Ora se il lavoro casalingo della moglie costituisce di per sé solo titolo sufficiente per la partecipazione all'impresa del marito, non vi sarebbe possibilità alcuna per costui di impedire detta partecipazione, perché dovrebbe inibire prestazioni che costituiscono adempimento dell'obbligo legale di solidarietà e di contribuzione ai bisogni della famiglia e dei fogli che trovano titolo negli art. 143 e 148 c.c. Successivamente la Corte di Cassazione è tornata sulla questione, mostrando di aderire pienamente alla tesi prevalsa in dottrina sottolineando che la mera collaborazione familiare tra coniugi, di per sé insufficiente ad integrare il requisito della partecipazione all'impresa disciplinata dall'art. 230-bisove coincida con l'attività oggetto di uno degli obblighi e doveri dei coniugi di cui all'art. 143 e 147 c.c., può valere — soprattutto in caso di preesistenza di un atto costitutivo negoziale — ad individuare nei coniugi la qualità di partecipe a detta impresa, qualora essa risulti strettamente correlata e finalizzata alla gestione della stessa, quale espressione di coordinamento e frazionamento dei compiti nell'ambito del consorzio domestico, in vista dell'attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni e servizi propri dell'impresa familiare (Cass. n. 1525/1997; Cass. n. 11007/1998; Cass. n. 5781/1999). La Cassazione quindi valorizza la duplice valenza giuridica che può assumere l'attività di lavoro casalingo svolto dalla moglie, evidenziando che esso costituisce in primo luogo adempimento dell'obbligo di contribuzione alla famiglia ex art. 143 comma 3 c.c. e non è idoneo a configurare di per sé solo il presupposto per l'attribuzione alla moglie dei diritti sanciti dall'art. 230-bis; ma se nell'ambito della distribuzione dei compiti decisa in sede di determinazione dell'indirizzo familiare ai sensi dell'art. 144 comma 1 c.c. la moglie assume l'impegno di occuparsi in via esclusiva delle faccende domestiche esonerandone sia il coniuge che uno dei figli, al fine di permettere loro di dedicarsi totalmente all'impresa familiare, e rinunciando lei stessa ad altre opportunità lavorative, allora il lavoro casalingo prestato rileva indirettamente quale apporto all'azienda familiare; ma affinchè ciò avvenga, la S.C. richiede che sia fornita prova rigorosa in giudizio che il lavoro casalingo prestato in via esclusiva dalla moglie abbia concretamente determinato un beneficio per l'impresa in termini di aumento di produttività e di utili; ove tale prova non si raggiunga, alla moglie casalinga non vanno estesi i diritti dell'art. 230-bis perché il lavoro domestico recede, in tal caso, alla sua valenza originaria di adempimento del dovere di contribuzione ai sensi del citato art. 143 c.c. (Cass. n. 27839/2005). Naturalmente se i familiari costituiscono e regolano con atto negoziale la quota degli utili a ciascuno spettante per l'apporto fornito all'impresa familiare, includendovi anche il coniuge che svolge esclusivamente lavoro domestico, nulla quaestio; il problema viene risolto a monte.

I diritti patrimoniali.

Venendo ora al contenuto dei diritti patrimoniali attribuiti dalla norma in commento, occorre soffermarsi primariamente sul mantenimento. Il mantenimento ha per oggetto la somministrazione di quanto necessario a soddisfare le normali esigenze di vita del familiare lavoratore, da intendersi non già nel ristretto senso di mezzi strettamente indispensabili, bensì di mezzi in grado di assicurare un'esistenza libera e dignitosa. Tale diritto, che deve essere prestato secondo le condizioni patrimoniali della famiglia dell'imprenditore fa sì che tutti i lavoratori familiari, anche se non conviventi con il datore e non facenti parte, in senso stretto, della sua famiglia, siano trattati in maniera egualitaria. Secondo parte della dottrina, il mantenimento si estende alla famiglia dell'avente diritto ed è identico per tutti i familiari ed è proporzionato alla condizione patrimoniale della famiglia e non dell'impresa, indipendentemente dall'entità del rapporto lavorativo (Colussi, 73; Tanzi, 9; Di Francia, 36; Oppo, 480). Si discute in dottrina se il mantenimento abbia natura di corrispettivo per l'attività lavorativa svolta. Parte della dottrina risponde in modo affermativo, sottolineando che, ad opinar diversamente, qualificandolo come un emolumento di natura assistenziale e familiare, si rischierebbe di configurare il lavoro dei familiari essenzialmente come gratuito, nel caso in cui l'attività aziendale non produca utili (Colussi, 98; Ghezzi, 1388; Oppo, 499). Tale tesi si espone all'obiezione che la mancata produzione degli utili non renderebbe la prestazione gratuita, difettandone la volontà, in quanto la non remunerazione sarebbe l'effetto naturale del rischio di impresa. Più appropriata ed adeguata è la seconda argomentazione proposta dai fautori della tesi in oggetto, secondo cui l'art. 230-bis, a differenza della normativa sull'obbligo alimentare, non fa alcun riferimento allo stato di bisogno dell'avente diritto, escludendo quindi ogni finalità di tipo assistenziale, conseguendone che la giustificazione causale della sua previsione deve rinvenirsi nella prestazione di attività lavorativa per l'impresa. Ciononostante, appare preferibile la conclusione rassegnata dagli autori che escludono la natura corrispettiva del mantenimento, motivando che il dato letterale attribuisce corrispettività solo alla partecipazione agli utili ed agli incrementi aziendali in proporzione al lavoro prestato, differentemente dal mantenimento che spetta a tutti i familiari in misura paritaria secondo la condizione patrimoniale della famiglia nel suo complesso, e non secondo l'andamento aziendale (Balestra, 245; Di Francia, 362). Per quanto concerne la partecipazione agli utili (per tali intendendosi le differenze di valore del patrimonio aziendale nel momento attuale rispetto ad un momento iniziale cfr Corsi, 247 ss.), parte della dottrina ritiene che essa spetti a prescindere dall'accertamento dell'incremento della produttività aziendale per effetto dall'apporto procurato dall'attività lavorativa del convivente, desumendo ciò dal dato letterale che la ricollega esclusivamente alla proporzione della quantità e qualità del lavoro prestato, senza richiedere, quale ulteriore presupposto, l'accrescimento della produttività dell'impresa (Balestra, 233). Il criterio di determinazione della corresponsione degli utili e degli altri elementi patrimoniali richiamati nella norma è costituito dalla proporzione della quantità e qualità al lavoro prestato. Si tratta di un criterio vago che attribuisce al giudice del Lavoro adito un eccesso di discrezionalità nella commisurazione, che non solo comporta incertezze interpretative ed applicative in ordine ai singoli criteri che saranno utilizzati dal magistrato nella quantificazione, ma soprattutto arreca il rischio di disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale per situazioni grossomodo analoghe. Si ritiene, altresì che non è obbligatoria la distribuzione periodica degli utili al termine di ogni esercizio finanziario ma possa essere differita ad un momento diverso, anche alla cessazione dell'impresa (in tal senso Colussi, 74 che perviene a tale conclusione valorizzando il dato testuale nell'inciso ove attribuisce al convivente il diritto di partecipare, non solo agli utili dell'impresa, ma anche ai «beni acquistati con essi», da cui si ricava che gli utili non necessariamente debbono essere distribuiti ma possono essere impiegati per acquistare beni; in tal senso anche Andrini, 225; contra invece Prosperi, 195 ss. secondo cui i familiari hanno diritto alla distribuzione periodica degli utili). Altra questione discussa attiene alla natura giuridica del diritto alla percezione degli utili spettanti al convivente. Si contendono il campo due possibili ipotesi ricostruttive: secondo la prima tale diritto avrebbe la consistenza di un diritto reale, nel senso che si creerebbe una situazione di contitolarità tra imprenditore e familiari nel momento della loro produzione (Finocchiaro A. e M., 1334 ss.; Bianca, 503 ss.), come si evincerebbe dal dettato letterale degli artt. 230-bis e ter c.c., laddove si parla di «partecipazione agli utili». L'altra ipotesi, sostenuta dalla dottrina prevalente lo configura come un diritto di credito nei confronti dell'imprenditore. Tale opzione è nettamente preferibile alla luce delle difficoltà pratiche che scaturiscono dall'altra impostazione e che possono così riassumersi: la contitolarità degli utili comporterebbe l'applicazione della disciplina sulla comproprietà (artt. 1100 ss.) ivi compresa la facoltà per ciascun compartecipe di chiederne lo scioglimento in ogni momento o la cessione della quota a terzi o la liquidazione della quota; si tratta di disposizioni incompatibili coi principi e le regole che governano lo svolgimento di attività di impresa; in secondo luogo occorre rimarcare che il diritto agli utili dei familiari è insuscettibile di una precisa quantificazione dipendendo da un criterio incerto (la proporzione al lavoro prestato) e tra l'altro variabile nel tempo (ogni anno la partecipazione agli utili può variare in misura dell'incremento o della riduzione del lavoro prestato); è necessario, quindi, che la liquidazione della partecipazione agli utili sia posticipata successivamente alla loro produzione, dopo aver valutato la consistenza della qualità e quantità del lavoro prestato in azienda da ogni singolo familiare; e questo modus operandi è strutturalmente incompatibile con la natura di diritto reale degli utili prodotti, che sorgerebbero nel momento stesso in cui si producono (Colussi, 75). Preferibile, quindi, è l'impostazione che configura il diritto agli utili come un diritto di credito, che opera esclusivamente nei rapporti interni tra i familiari. Il credito potrà essere preteso dai familiari al momento della cessazione dell'impresa o di ogni singolo anno finanziario, se non è stato stabilito il reimpiego degli utili (Colussi, 74; Prosperi, 195; Balestra, 239). Oltre che ai beni acquistati, i familiari hanno il diritto di partecipare, sempre in proporzione al lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. L'espressione «incrementi» deve essere intesa in senso ampio, ricomprendendovi qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali (Colussi,). Per quanto concerne l'avviamento, che rappresenta una qualità dell'azienda, suscettibile di valutazione economica, che deriva, in linea di massima, dalla composizione ed organizzazione dei beni aziendali, dai rapporti contrattuali in essere e dalle relazioni con la clientela, al riguardo, si distinguere in dottrina tra avviamento c.d. «oggettivo», inerente agli elementi dell'azienda e all'organizzazione di essi, ed avviamento c.d. «soggettivo», inerente alla persona dell'imprenditore (Colussi, 75, e Balestra, 240). L'avviamento consiste allora nella differenza tra la misura degli utili prodotti dall'impresa prima dell'inizio della collaborazione del familiare e la misura degli utili prodotta successivamente, il cui accertamento dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del familiare, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il suo diritto di credito (Colussi,; Prosperi, 210; Balestra, 241).

In merito alla natura giuridica del mantenimento, la Cassazione ne esclude il carattere di corrispettività desumendo tale conclusione dal tenore letterale della disposizione, ove il mantenimento viene configurato come emolumento autonomo ed affiancato agli utili (Cass. n. 4057/1992); infatti la S.C. ritiene che ai fini della determinazione degli utili prodotti, dal fatturato complessivo dell'impresa deve essere detratto, oltre alle spese gestionali e fiscali, anche il mantenimento da riconoscere ai familiari partecipanti all'impresa (Cass. n. 5603/2002). Inoltre, il reddito percepito dal titolare, che è pari al reddito conseguito dall'impresa al netto delle quote di competenza dei familiari collaboratori, costituisce un reddito d'impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori, che non sono contitolari dell'impresa familiare, costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa, e devono essere assoggettati all'imposizione nei limiti dei redditi dichiarati dall'imprenditore; ne consegue che, dal punto di vista fiscale, in caso di accertamento di un maggior reddito imprenditoriale, lo stesso deve essere riferito soltanto al titolare dell'impresa, rimanendo escluso che possa essere attribuito "pro quota" agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d'impresa (Cass.   n. 9198/2022 e Cass. n. 34222/2019). Quanto al momento della maturazione del diritto alla ripartizione degli utili, la Cassazione ha precisato che la liquidazione va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell'accrescimento, a tale data, della produttività dell'impresa («beni acquistati» con essi, «incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento») in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall'azienda, atteso che i proventi — in assenza di un patto di distribuzione periodica — non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell'azienda o in acquisti di beni (conforme a Cass. n. 24560/2015 e Cass. n. 5448/2011). Quindi la S.C. sposa l'interpretazione letterale della norma prevedendo che la distribuzione periodica degli utili dell'impresa familiare è possibile solo se espressamente convenuta; diversamente, gli stessi utili saranno naturalmente destinati al reimpiego nell'azienda o in acquisti di beni. Per quanto concerne la natura giuridica del diritto di partecipazione agli utili ed incrementi aziendali, la Corte di legittimità aderisce pienamente all'orientamento che lo configura come un diritto di credito nei confronti dell'imprenditore e non come un diritto reale; precisamente tale credito matura di regola, in assenza di un patto di distribuzione periodica, al momento della cessazione dell'impresa familiare o della collaborazione del singolo partecipante (Cass. n. 11921/1999 e n. Cass. 4650/1992); il diritto di prescrive nell'ordinario termine decennale dal giorno della sua maturazione (Cass. n. 20273/2010 e Cass. n. 16477/2009) ed il suddetto termine non è soggetto alla sospensione in costanza di rapporto di lavoro non assistito dalla garanzia della stabilità (cfr. Corte cost. n. 63/1966 e Corte cost. n. 174/1972); infatti il principio di sospensione della prescrizione non trova applicazione per l'impresa familiare e per il relativo diritto del partecipante al riparto dei conferimenti, poiché la stabilità del rapporto è assicurata non solo dal vincolo familiare, ma anche dall'onerosità della liquidazione della quota di utili ed incrementi, compreso l'avviamento, spettanti al partecipante in caso di scioglimento (Cass. n. 6631/2007). Gli Ermellini si discostano dalla tesi dottrinale che ritiene dovuti gli utili a prescindere dall'accertamento del beneficio concreto arrecato all'impresa dall'apporto lavorativo di ogni singolo familiare; diversamente, ai fini del riconoscimento dei diritti patrimoniali assicurati dall'art. 230-bis è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento, da parte del partecipante, di una attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno), sia dell'accrescimento della produttività della impresa procurato dal lavoro del partecipante necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi (conforme a Cass. n. 27839/2005 ). Per quanto concerne l'onere della prova, il partecipante che agisce per ottenere la propria quota di utili ha l'onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, potendo a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali, mentre sul familiare esercente l'impresa grava l'onere di fornire la prova contraria rispetto alle eventuali presunzioni semplici, nonché di dimostrare il pagamento degli utili spettanti "pro quota" a ciascun partecipante (Cass. n. 12965/2023 e Cass. n. 27966/2018). Quanto ai criteri di liquidazione degli utili, in giurisprudenza di legittimità si precisa opportunamente che non può essere utilizzato a tal fine, come parametro, l'importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività che prescinde dall'entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell'impresa familiare e che, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell'impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all'apporto lavorativo effettivamente prestato (Cass. n. 20574/2008, conforme a Cass. n. 6631/2007 e Cass. n. 1332/1999). Su quest'ultimo aspetto, relativo alla determinazione negoziale delle quote, si registra un contrasto con altre pronunce ove si è affermato l'opposto principio che il giudice non può disattendere il valore probatorio della scrittura privata ove è contenuta la determinazione delle quote trai familiari, in difetto di prova della simulazione (Cass n. 9897/2003); opinione che secondo lo scrivente è preferibile. In caso di mancanza di accordo sulla ripartizione delle quote, il familiare che agisce in giudizio per vedersi attribuita la partecipazione agli utili spetta a lui l'onere di provare la consistenza del patrimonio familiare, l'ammontare degli utili da distribuire e l'entità della sua quota di partecipazione in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (Cass. n. 9683/2003 e Cass. n. 17057/08). Il giudice del lavoro può, infine, sede di ripartizione degli utili in favore dei familiari compartecipanti differenziare quello dell'imprenditore, ove più gravoso per le maggiori responsabilità assunte, da quello del familiare che ha prestato la sua attività in posizione di subordinazione (Cass. n. 1917/1999).

I diritti amministrativi e gestionali.

L'art. 230-bis al comma 1, attribuisce al familiare-lavoratore il diritto di decidere, a maggioranza, in ordine alle scelte concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi, nonché quelle inerenti la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell'impresa. Detto diritto è riconosciuto a tutti i familiari che collaborano nell'impresa, che dispongono di un voto a testa, a prescindere dalla quantità e qualità dell'apporto lavorativo di ciascuno. I familiari che non hanno capacità di agire sono rappresentati nel voto dal loro rappresentante legale. Non partecipa invece alla decisione (e quindi è privo di diritto di voto) l'imprenditore che la legge configura come destinatario delle decisioni prese dai familiari. Nessuna formalità è richiesta dalla legge per la formazione della volontà di questi ultimi; è da escludere pertanto la necessità di indire un'assemblea (organo che nemmeno sussiste nelle società di persone). Il familiare potrà così esprimere la sua opinione in qualsiasi momento e con qualsiasi modalità, anche tacitamente o per facta concludentia (Balestra, 273; Di Francia, 401). La dottrina prevalente trae dal tenore letterale della disposizione la convinzione che l'impresa familiare attribuisce al familiare-lavoratore (che non gode di un salario minimo garantito e la cui retribuzione è soggetta al rischio di impresa) almeno uno strumento di tutela dei suoi diritti patrimoniali e della sua posizione di prestatore d'opera: in particolare, attribuisce il potere di partecipare agli atti più importanti e di concorrere alle scelte programmatiche che influenzeranno la produzione dei risultati attivi netti di esercizio, consentendogli, con ciò, di controllare la gestione dell'imprenditore (Tanzi, 12). Si tratta di una posizione condivisibile; i familiari che lavorano nell'impresa non hanno poteri gestori; la gestione e l'amministrazione dell'impresa spetta unicamente all'imprenditore; in mancanza di forme di pubblicità della partecipazione dei familiari, l'imprenditore è anche l'unico soggetto che può intrattenere rapporti coi terzi, assumendone le relative obbligazioni; ed i rapporti tra lui e i familiari rimarranno confinati nella sfera dei rapporti interni, non spiegando alcuna efficacia all'esterno. L'art. 230-bis conferisce un potere deliberativo ai familiari solo saltuario e relativo ad alcuni eventi dell'azienda così consentendo loro anche il controllo ed il concorso nella decisione sulla destinazione di poste attive patrimoniali su cui loro vanteranno in futuro una legittima pretesa. Essendo, tuttavia, di esclusiva pertinenza dell'imprenditore il potere gestorio ed amministrativo, sorge il problema di stabilire le conseguenze che discendono dall'inottemperanza del titolare dell'impresa alle decisioni assunte da tutti i familiari a maggioranza; se ad es. questi disattenda la decisione assunta a maggioranza di ripartire gli utili prodotti dall'impresa, destinandoli con decisione unilaterale all'acquisto di beni per l'incremento aziendale. Deve ritenersi che gli acquisti siano fatti salvi, non potendo i familiari opporre ai terzi la deliberazione contraria assunta a maggioranza, perché ha un'efficacia meramente interna; potranno però agire contro l'imprenditore per il risarcimento dei danni scaturiti dalla violazione del deliberato maggioritario. Tale discorso vale anche per la più importante e incisiva decisione collettiva, ossia la cessazione dell'impresa; anche se viene adottata dalla maggioranza dei familiari contro il voto contrario dell'imprenditore, tale deliberazione non obbliga l'imprenditore a chiudere l'azienda; né, di converso, il voto dei familiari di mantenimento dell'impresa potrà obbligare il titolare a continuarla contro la sua volontà, se ritiene che l'impegno, di cui lui è unico responsabile, sia divenuto troppo gravoso. Anche in tal caso l'inottemperanza alla deliberazione assunta a maggioranza lo esporrà alla richiesta dei familiari di risarcimento dei danni che ne saranno conseguiti. Per completezza si segnalano le uniche norme giuridiche in cui la partecipazione dei familiari all'impresa individuale di un loro congiunto rileva anche nei rapporti esterni. Si tratta del comma 4° dell'art. 5 d.P.R. n. 917/1986 che prevede: «I redditi delle imprese familiari di cui all'art. 230-bis, limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione: a) che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo d'imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente»; e delle norme sull'assicurazione previdenziale degli artigiani (l. 4 luglio 1959, n. 463) o degli esercenti attività commerciali (l. 22 luglio 1966, n. 613) che prevedono l'applicazione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti rispettivamente degli artigiani o degli esercenti attività commerciali anche al coniuge, ai familiari, nonché, in seguito all'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. 29 dicembre 1992, n. 485) agli affini entro il secondo grado.

Come rilevato sinora, il potere di gestione ordinaria dell'impresa familiare spetta ex art. 230-bis esclusivamente al titolare della stessa e l'eventuale esercizio di tale potere in violazione degli obblighi scaturenti dalla norma suddetta comporta non l'invalidità degli atti posti in essere ma unicamente l'obbligo di risarcire i danni provocati (Cass. n. 1917/1999 e Cass. n. 10412/1995).

L'esclusione, l'alienazione, il recesso e la liquidazione della quota di partecipazione di un familiare.

Lo scioglimento del rapporto col singolo partecipante potrà derivare da morte del lavoratore, impossibilità definitiva di prestare il lavoro per motivi di età, salute, invalidità, ecc. (un'impossibilità solo momentanea, anche se prolungata, avrebbe solo la conseguenza di incidere sulla partecipazione all'impresa, diminuendo la quantità del lavoro prestato), nonché dalla perdita della qualità di familiare. Quando si estingue la singola partecipazione, il familiare ha diritto alla liquidazione della quota di utili e di incrementi dell'azienda, commisurati alla qualità e quantità del lavoro prestato. La prestazione di lavoro può poi estinguersi per recesso del lavoratore o dell'imprenditore. Si ritiene che il familiare lavoratore possa decidere di abbandonare il lavoro senza onere di preavviso (ed anzi con un diritto al risarcimento quando il recesso sia giustificato dalla condotta dell'imprenditore) e che ben può configurarsi il recesso tacito (quando l'interessato trovi un'altra attività lavorativa incompatibile con la precedente); di contro, il recesso dell'imprenditore sarebbe lecito solo in presenza di giusta causa (che può consistere anche nel solo interesse della famiglia o dell'impresa familiare). In ogni caso la mancanza di giusta causa non rende inefficace il recesso, né può avere come conseguenza il mantenimento coatto del rapporto; l'unico effetto è l'obbligo di risarcire il danno cagionato al lavoratore. La valutazione della partecipazione va fatta al momento della cessazione dell'impresa o del singolo rapporto ((Balestra, 273; Di Francia, 401). Si ritiene che può aversi la liquidazione della partecipazione, malgrado il familiare continui ad esercitare il proprio lavoro nell'impresa; ciò avviene quando l'azienda sia alienata da un imprenditore ad un altro familiare, piuttosto che ad un terzo estraneo. La norma intende tutelare al meglio il lavoratore che potrebbe perdere i suoi diritti, ove la nuova gestione dell'impresa non fosse all'altezza della precedente (Oppo op cit. 516).

In caso di estinzione dell'impresa familiare per morte del titolare, l'impresa cessa ed i beni di cui è composta passano per intero nell'asse ereditario del de cuius; rispetto a tali beni i componenti dell'impresa familiare possono vantare solo un diritto di credito commisurato ad una quota dei beni o degli utili e degli incrementi e un diritto di prelazione sull'azienda (Cass. n. 7223/2004). Se l'impresa si estingue per volontà dell'imprenditore contro il voto contrario della maggioranza dei familiari, i quali propongono esclusivamente domanda di risarcimento dei danni nei suoi confronti, il giudice del lavoro che liquidi in sentenza anche gli utili prodotti al momento della cessazione dell'attività, ripartendoli tra i familiari secondo le singole quote di spettanza, non viola il divieto di ultrapetizione (Cass. n. 9897/2003). Il recesso del singolo familiare dall'impresa familiare può avvenire in qualsiasi momento senza preavviso e senza formalità, anche perfacta concludentia (Cass. n. 7981/2013).

Il diritto di prelazione

L'art. 230-bis concede al comma 5 ai familiari-lavoratori la prelazione legale sull'azienda in caso di suo trasferimento o di divisione ereditaria, in tal modo tutelando il loro interesse alla prosecuzione dell'attività in ambito familiare. D'altra parte la prelazione comporta un minimo sacrificio per l'imprenditore: questi infatti rimane libero di disporre della sua azienda alienandola al prezzo che vorrà, con il solo limite di preferire i familiari a parità di condizioni offerte da terzi. Come si è anticipato, titolari del diritto di prelazione sono tutti i familiari-lavoratori, a prescindere dalla quantità e dalla qualità del lavoro prestato; l'esercizio potrà essere congiunto, ovvero disgiunto, quando solo alcuni vi abbiano interesse. Oggetto della prelazione è l'azienda nel suo complesso; ne consegue che la prelazione non opera, ove il trasferimento abbia ad oggetto singoli cespiti, salvo che l'importanza del bene sia tale da identificarlo praticamente con l'azienda (si fa l'esempio del fondo nel caso di impresa agricola). È ammissibile la prelazione su un ramo dell'azienda, stante l'idoneità dello stesso allo svolgimento dell'attività d'impresa (Colussi, 144; Balestra, 318; Florio, 148; Amoroso, 121). La disciplina del diritto di prelazione è mutuata dall'art. 732 c.c. cui l'art. 230-bis c.c. fa espresso richiamo; ne consegue che l'imprenditore che intende alienare l'azienda deve notificare ai familiari-lavoratori la proposta di alienazione, indicandone il prezzo.

Sull'ambito di applicazione del diritto di prelazione, si segnala una recente interessante sentenza della Cassazione in cui si precisa che il diritto di prelazione opera quando vi sia un trasferimento d'azienda anche se la cessione avvenga mediante conferimento in una società di persone, di cui il titolare dell'azienda stessa conservi un ruolo dominante quale socio illimitatamente responsabile ed amministratore, poiché la norma tutela il familiare estromesso e non colui che sia stato incluso nella vicenda traslativa, senza che rilevi il requisito dell'estraneità di cui all'art. 732 c.c., norma richiamata dall'art. 230-bis solo «in quanto compatibile» (Cass. n. 10147/2017). In un'altra pronuncia la S.C. ritorna sul rapporto di compatibilità tra la prelazione dell'art. 230-bis e quella disciplinata nell'art. 732 c.c. precisando siffatta compatibilità deve essere considerata coerentemente con le finalità dell'istituto, che è quella di predisporre una più intensa tutela del lavoro familiare; ne consegue che la prelazione prevista dalla norma in favore del familiare, nel caso di alienazione dell'impresa familiare, è una prelazione legale, che consente il riscatto nei confronti del terzo acquirente fino al momento in cui sia liquidata la quota del partecipe, senza che all'applicazione di tale istituto possa essere d'ostacolo la mancanza di un sistema legale di pubblicità dell'impresa familiare, avendo il legislatore inteso tutelare il lavoro più che la circolazione dei beni (Cass. n. 27475/2008). Ai fini dell'individuazione del limite temporale del perdurare del diritto di prelazione e riscatto di cui al comma 5 dell'art. 230-bis deve aversi riguardo, in virtù del rinvio all'art. 732 c.c., al momento della liquidazione della quota, il quale coincide con il consolidarsi, alla cessazione del rapporto con l'impresa familiare, del diritto di credito del partecipe a percepire la quota di utili e di incrementi patrimoniali riferibili alla sua posizione, restando irrilevante la data del passaggio in giudicato della sentenza che su quel diritto ha statuito, in ragione del prodursi degli effetti della medesima alla data dello scioglimento del rapporto (Cass. n. 17639/2016). Sempre sull'operatività della prelazione, la Cassazione, sul presupposto che l'impresa familiare non ha alcuna rilevanza esterna e non permette di ritenere esistente un rapporto di rappresentanza reciproca tra i familiari e la persona a capo dell'impresa, precisa che in caso di alienazione di un fondo, la «denuntiatio» ex art. 8, della legge 26 maggio 1965, n. 590, ad uno solo dei coniugi componenti l'impresa non ha effetto nei confronti dell'altro ai fini del decorso del termine di esercizio del diritto di prelazione (Cass. n. 15754/2014). Su tale questione la S.C. di Cassazione si è soffermata in modo più approfondito in Ord. n. 24982/2020 ove ha distinto l'ipotesi, in cui il rapporto agrario si è costituito anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 203 del 1982, da quella, in cui si è costituito successivamente, e, con riferimento alla prima ipotesi, ha ritenuto che, stante la tassativa elencazione contenuta nella l. n. 590 del 1965, art. 8, il diritto di prelazione non può essere riconosciuto a coloro che coadiuvano il titolare del rapporto nella coltivazione del fondo, quali i componenti della sua famiglia, neppure se sia configurabile un'impresa familiare a norma dell'art. 230-bis c.c. 

Bibliografia

Andrini, L'impresa familiare, in Vittoria-Andrini, Azienda coniugale e impresa familiare, in Galgano (a cura di), Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. econ., XI, Padova, 1989, 78 ss.; Balestra, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2008; Balestra, L'impresa familiare, Milano, 1996; Bellelli, I soggetti dell'impresa familiare, Padova, 1977; Bianca, Diritto civile, II, La famiglia, Milano, 2005; Colussi, Impresa familiare, in Noviss. Digesto it., App., IV, Torino, 1983, 54 ss.; Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1987; Costi, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale, Milano, 1976, 65 ss.; Cottrau, Lavoro familiare, in Noviss. Digesto it., App., IV, Torino, 1983, 740 ss.; Di Francia, Il rapporto di impresa familiare, Padova, 1991; Dogliotti-Figone, Impresa familiare, in Bessone (diretto da), Trattato di diritto privato, II, 1999, 610 ss.; Ferraro, Collaborazioni organizzate dal committente, in Riv. it. dir. lav., 2016, I,53 ss.; Finocchiaro A. e M., Diritto di famiglia, Milano, 1984; Florio, Famiglia e impresa familiare, in Dir. Fam. e pers., 1976, II, 148 ss.; Germano, Lavoro familiare, in Digesto Disc. Priv., Sez. Comm., Torino, 1992, 240; Ghezzi, La prestazione di lavoro nella comunità familiare, Milano, 1960; Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 1361 ss.; Graziani, L'impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in Riv. dir. agr. 1975 675; Marazza, Collaborazioni organizzate e subordinazione: il problema del limite qualitativo di intensificazione del potere di istruzione, in Arg. dir. lav., 2016, 1168 ss.; Menghini, Lavoro gratuito e volontariato, in Carinci (diretto da), Diritto del lavoro, Commentario, II, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, a cura di Cester, Torino, 2007, 221 ss.; Nogler, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell'«autorità dal punto di vista giuridico», in Arg. dir. lav., 2016, 47 ss.; Oppo, Impresa familiare, in Cian-Oppo-Trabucchi (a cura di), Commentario al diritto italiano della famiglia, III, Padova, 1992, 518 ss.; Palmeri, Commentario del Codice. Art. 230-bis. Regime patrimoniale della famiglia, Bologna, 2004, 72 ss.; Patti, La prestazione di lavoro nell'impresa familiare, in Dir. lav., 1976, 103 ss.; Persiani, Ancora note sulla disciplina di alcune collaborazioni autonome, in Arg. Dir. Lav., 2016, 313 ss.; Prosperi, Impresa familiare, Milano, 2006; Santoni, Autonomia e subordinazione nel riordino delle tipologie contrattuali del lavoro non dipendente, in Il diritto del mercato del lavoro, 2016, 505 ss.; Tanzi, Impresa familiare, I) Diritto commerciale, in Enc. giur., XVI, Roma, 2008, 2 ss.; Venuti, Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni al margine del d.d.l. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, in Nuove leggi civ. comm., 2015; Zoppoli, La collaborazione eterorganizzata: fattispecie e disciplina, in Diritti Lavori Mercati, 2016, 33 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario