Codice Civile art. 230 ter - Diritti del convivente (1)[I]Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.
[1] Articolo aggiunto dall'articolo 1, comma 46, l. 20 maggio 2016 n. 76. [2] La Corte cost. 25 luglio 2024, n. 148, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto» e, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale del presente articolo. InquadramentoL'art. 230-ter è di recente conio normativo; è stato introdotto nel codice civile dal comma 46 dell'art. 1 della l. 20 maggio 2016, n. 76, «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Si tratta di una disposizione importante perché afferisce ad uno degli aspetti più rilevanti della convivenza more uxorio; il riconoscimento al convivente di diritti patrimoniali scaturenti dalla sua collaborazione nell'impresa del compagno. La norma estende, con i limiti che saranno precisati, al convivente more uxorio i diritti riconosciuti dall'art. 230-bis c.c. ai familiari dell'imprenditore. Il lavoro del convivente di fatto nell'impresa familiareIl legislatore della riforma del 1975 nell'introdurre l'art. 230-bis c.c. non ha pensato di inserirvi, tra i destinatari, anche i conviventi more uxorio. Tale scelta è dipesa probabilmente da una serie di ragioni: perché la convivenza di fatto era instabile, potendo il legame sentimentale dissolversi rapidamente su iniziativa unilaterale anche improvvisa di uno dei due; perché tali legami erano praeter legem, si svolgevano cioè oltre il campo dei rapporti familiari tipici (come il matrimonio), ed erano insuscettibili quindi di attribuire diritti, alla luce del favor manifestato dalla Costituzione verso la famiglia unita in matrimonio (art. 29 comma 2 Cost.); perché l'unione di fatto era all'epoca un modello sociale ancora residuale rispetto alla famiglia costituita col matrimonio. I mutamenti sociali degli ultimi decenni hanno ribaltato completamente questo quadro fattuale, in quanto l'aumento vertiginoso ed irreversibile di separazioni e divorzi (dal 2014 a seguito dell'introduzione della normativa sugli accordi extragiudiziali in tema di separazione e divorzio, sono stati definiti presso gli Uffici di stato civile 27.040 divorzi pari al 32,8% dei divorzi dell'anno precedente e n. 17.668 separazioni pari al 19,3% delle separazioni dell'anno precedente; la durata media del matrimonio al momento della separazione è di circa 17 anni. Negli ultimi vent'anni è raddoppiata la quota delle separazioni dei matrimoni di lunga durata, passando dall'11,3% del 1995 al 23,5% — fonte ISTAT) ha comportato, in maniera direttamente proporzionale, l'aumento di nuclei familiari non riconosciuti da parte dei coniugi separati. Il fenomeno si è diffuso quindi rapidamente in maniera direttamente proporzionale all'aumento del numero delle separazioni. La mancanza nell'ordinamento di una forma di regolamentazione, di tutela e di diritti ai conviventi more uxorio non poteva, quindi, essere più tollerata, dal momento che la convivenza di fatto si è imposta nella società quale modello familiare alternativo e surrogatorio al modello familiare classico fondato sul matrimonio. Il Parlamento interverrà colmando tale lacuna solo nel 2016 con la l. n. 76, c.d. Legge Cirinnà, in cui offre una regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze di fatto. In questa sede ci si occupa solo della tutela dei diritti patrimoniali conseguenti all'insinuazione di un convivente nell'attività imprenditoriale dell'altro. Prima del varo della legge del 2016, dottrina e giurisprudenza hanno svolto un ruolo di supplenza offrendo la qualificazione giuridica di tali rapporti e fissando i parametri entro i quali è assicurabile una tutela ai conviventi more uxorio. Una prima soluzione caldeggiata da parte della dottrina consisteva nell'applicazione estensiva o analogica dell'art. 230-bis c.c. alle convivenze di fatto, motivando sull'identità di ratio delle situazioni, in quanto anche la convivenza more uxorio è fondata sulla comunione spirituale e materiale che accomuna il lavoro prestato nella famiglia di fatto a quello prestato nella famiglia legittima (Balestra, 214; Bianca, 501; Graziani, 675; Menghini, 221 ss.; Prosperi, 167; Palmeri, 72); ma la dottrina prevalente l'ha ritenuta impraticabile per difetto del presupposto della sussistenza di un legame familiare con l'imprenditore (Andrini, 78; Colussi, 70; Tanzi, 2 ss.; Gabriele, 425 ss., Oberto, 129 ss.; Oppo, 518). In secondo luogo, si perveniva a tale conclusione dalla tradizione normativa, in quanto l'introduzione dell'art. 230-bis c.c. era finalizzata ad estendere formalmente ai familiari espressamente ivi indicati, i diritti patrimoniali previsti nell'antesignano istituto della comunione tacita familiare (su cui Flore, 291 ss.). In terzo luogo si era osservato che l'attribuzione dei diritti doveva rimanere circoscritta nel perimetro delineato dalla disposizione, in considerazione della distinzione di trattamento giuridico che l'ordinamento giuridico, e la Costituzione all'art. 29 comma 2 Cost., riserva alla famiglia fondata sul matrimonio ed ai suoi componenti, rispetto al rapporto di convivenza di fatto, caratterizzato da precarietà, instabilità e dalla possibilità di essere sciolto unilateralmente. Ed infine, l'applicazione analogica della disposizione ai conviventi more uxorio avrebbe implicato numerosi dubbi applicativi circa l'estensibilità della disposizione anche ai parenti entro il terzo grado di lui, ad es., se conviventi con l'imprenditore (si pensi ai figli maggiorenni della convivente dell'imprenditore, avuti dal primo matrimonio, che convivono con loro ed aiutano il nuovo compagno della madre nell'attività d'impresa). La posizione tradizionale della giurisprudenza, come vedremo, tende a configurare il lavoro svolto dai familiari nell'impresa del loro congiunto come gratuito; il consolidamento di tale orientamento è stato uno dei motivi che ha indotto il legislatore della riforma del diritto di famiglia ad introdurre l'art. 230-bis c.c. al fine di assicurare tutela ai familiari che impiegassero tempo e risorse lavorative nell'impresa familiare, ma non potessero avanzare pretese retributive a causa della mancata regolarizzazione del rapporto mediante un contratto di lavoro. Dopo la novella del 1975, il problema si è però riproposto per i familiari, ancorché conviventi, che non rientrano nell'ambito soggettivo di applicazione della norma e per i conviventi more uxorio; e la giurisprudenza ha confermato il tralatizio orientamento che configura come gratuite le prestazioni rese da soggetti legati da vincoli affettivi all'imprenditore. La dottrina, da parte sua, ha tentato di intraprendere vari percorsi argomentativi per assicurare una qualche forma di tutela ai conviventi di fatto che collaborassero nell'impresa del compagno, superando la presunzione giurisprudenziale di gratuità. Alcuni autori hanno posto rilievo alla valutazione della consistenza oggettiva delle prestazioni lavorative: se il convivente le rende saltuariamente, senza l'attribuzione di mansioni specifiche o di un ruolo specifico in azienda, e soprattutto se si prodiga semplicemente per affetto, con animus benevolentiae, non potrà avanzare pretese retributive; diversamente, se egli viene incardinato stabilmente nella realtà aziendale del compagno, con attribuzioni di mansioni specifiche ben precise, non può negarsi che le prestazioni rese presentino carattere oneroso e non gratuito (sul superamento della presunzione di gratuità dopo l'introduzione dell'art. 230-bis c.c., Patti, 103 ss., Cottrau, 740, Menghini, 221 ss., Venditti, 18 ss.). Altri autori hanno evidenziato che in assenza di una disposizione che attribuisse loro diritti patrimoniali per l'attività lavorativa prestata in azienda, potevano ricorrere allo strumento generale dell'azione di arricchimento ex art. 2041 c.c., per conseguire la minor somma tra il loro depauperamento (in termini di dispendio di tempo ed energia lavorativa) e l'arricchimento acquisito dal convivente imprenditore per effetto delle sue prestazioni lavorative (Prosperi, 104; Balestra, 210; Oberto, 573 ss.; Ferrando, 194 ss.). La giurisprudenza tradizionale della S.C. di Cassazione ha sempre postulato la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese da un familiare convivente per l'impresa del congiunto perché adempiute affectionis vel benevolentiae causa nel rispetto dei principi di solidarietà e reciproca collaborazione che caratterizzano i rapporti familiari (principio espresso già negli anni sessanta da Cass. n. 276/1967; Cass. n. 2027/1968), salva la prova rigorosa dell'onerosità del rapporto di lavoro (Cass. n. 1880/1980: «nel caso di prestazioni lavorative rese fra persone conviventi, legate da vincolo di parentela o di affinità, le prestazioni stesse si presumono gratuite e non ricollegabili ad un rapporto di lavoro. Tale presunzione può essere vinta dalla dimostrazione, incombente alla parte che sostiene l'esistenza di un rapporto di lavoro, dei requisiti della subordinazione e della onerosità delle rispettive prestazioni, ma deve trattarsi di prova precisa e rigorosa»; in senso conforme Cass. n. 2987/1982; Cass. n. 141/1983; Cass. n. 5221/1987; Cass. n. 8633/1990 e recentemente Cass. n. 20904/2020), di guisa che la subordinazione del lavoratore familiare è da escludere in caso di «saltuarie ed occasionali prestazioni lavorative» (Cass. n. 8330/2000). Naturalmente la presunzione di gratuità opera, secondo gli Ermellini, quando l'impresa sia gestita ed organizzata, strutturalmente ed economicamente, con criteri prevalentemente familiari, e non quando l'impresa abbia notevoli dimensioni e, per quanto condotta da familiari, sia amministrata con criteri rigidamente imprenditoriali, con il conseguente inserimento dell'organigramma aziendale dei familiari attraverso la stipula di regolari di contratti di lavoro subordinato (Cass. n. 2660/1984). Dopo l'introduzione dell'art. 230-bis c.c. che ha regolato i diritti patrimoniali dei coniugi, dei familiari entro il terzo grado ed affini entro il secondo grado che svolgono attività lavorativa nell'impresa familiare, la Corte di Cassazione è stata chiamata a dirimere la questione della applicazione estensiva o addirittura analogica della suddetta disposizione ai conviventi more uxorio o in linea generale agli altri parenti che non ne rientrassero nel campo di applicazione soggettivo, ma ha risposto negativamente motivando che (Cass. n. 22405/2004) il presupposto per l'applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l'esistenza di una famiglia legittima e, pertanto, l'art. 230-bis c.c. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta «di fatto», trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica. Tale conclusione era stata in precedenza enunciata, seppur incidentalmente, dalla Corte Cost. in sentenza Cass. n. 166/1998, ove si rileva con grande chiarezza che «l'imposizione di norme, applicate in via analogica, a coloro che non hanno voluto assumere i diritti e i doveri inerenti al rapporto coniugale si potrebbe tradurre in una inammissibile violazione della libertà di scelta tra matrimonio ed altre forme di convivenza». La Cassazione ha quindi sempre negato il riconoscimento di diritti patrimoniali, latu sensu retributivi, al convivente more uxorio che abbia prestato attività lavorativa nell'azienda del compagno, presumendone la gratuità, motivando che detta attività trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato (Cass. n. 5632/2006); ciò non esclude che talvolta le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale il convivente superstite deve fornire prova rigorosa. La presunzione di gratuità, di creazione giurisprudenziale, ha carattere quindi relativo, e può essere superata mediante la dimostrazione che l'attività lavorativa prestata presso l'azienda del convivente presentasse i caratteri e gli indici della subordinazione; in tal caso, però, l'attribuzione di compensi non dipenderebbe dall'applicazione estensiva o analogica dell'art. 230-bis c.c. ma dalla qualificazione delle prestazioni lavorative rese come adempimento di un'obbligazione discendente da un rapporto di lavoro subordinato, instauratosi in concreto tra le parti, a prescindere dalla stipula di un contratto di lavoro ed a prescindere del legame sentimentale tra lavoratore ed il convivente imprenditore. Seguendo tali coordinate interpretative, la S.C. ha ritenuto esente da vizi la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda della ricorrente volta ad ottenere dagli eredi il trattamento economico a titolo di lavoro domestico non corrispostole dal defunto convivente, sulla base delle risultanze probatorie escludenti il vincolo di subordinazione ed attestanti, tra l'altro, che tra i due esisteva una relazione sentimentale, sfociata dopo anni di frequentazione a distanza in una prolungata convivenza, e che l'attrice veniva presentata abitualmente come compagna del convivente e trascorreva abitualmente le vacanze in località di villeggiatura con il defunto convivente (Cass. n. 5632/2006 cit.); che il lavoro domestico in situazione di convivenza non va configurato come contratto a prestazioni corrispettive in presenza della dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente affettivo o sessuale, ma dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto in modo che l'esistenza del vincolo di solidarietà porti ad escludere la configurabilità di un rapporto a titolo oneroso (Cass. n. 23624/2010); che di converso, l'esistenza del vincolo di subordinazione non può essere escluso, se la convivenza tra il datore di lavoro e l'impiegata viene sovente interrotta e non vi è alcuna condivisione del tenore di vita in relazione ai cospicui redditi dell'attività commerciale, ove l'interessata beneficia, ad es., solo di alcune elargizioni, quali l'uso gratuito di un appartamento, il pagamento di qualche debito e il prelevamento gratuito di abiti dal negozio (Cass. n. 1833/2009); ed ancora che è configurabile un rapporto di lavoro in caso di attività svolta da una lavoratrice legata da vincolo di coniugio e di affinità ai titolari della società datrice di lavoro, laddove venga ravvisata l'irrilevanza del vincolo di familiarità rispetto alle concrete modalità della prestazione nel contesto aziendale (Cass. n. 14434/2015); che la prestazione di una attività lavorativa, per oltre sei anni, tra due parti legate da una relazione sentimentale, che sia oggettivamente configurabile come di lavoro subordinato, si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un diverso rapporto, istituito «affectionis vel benevolentiae causa», ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, per una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi tale da realizzare una partecipazione, effettiva ed equa, del convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto (Cass. n. 19304/2015). La S.C. di Cassazione ha escluso l'ammissibilità dell'azione di ingiustificato arricchimento, ritenendo che le prestazioni lavorative rese dal convivente nell'impresa e nell'interesse dell'altro costituiscono doveri di natura morale e sociale, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale e si configurano pertanto come adempimento di un'obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. ove siano rispettati i principi di proporzionalità ed adeguatezza (Cass. n. 1266/2016 ove comunque ha confermato la sentenza impugnata, che aveva negato la natura di obbligazione naturale al contributo lavorativo della donna all'azienda del convivente, ma solo perché nel caso di specie il lavoro prestato ha costituito fonte di arricchimento esclusivo del convivente in luogo di quello dell'intera famiglia cui detto apporto lavorativo era preordinato). Il medesimo principio era stato espresso nella precedente sentenza Cass. n. 1277/2014 ove la S.C. ha configurato le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente «more uxorio» effettuate nel corso del rapporto (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente) quale adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. (conforme a Cass. n. 11330/2009). L'introduzione dell'art. 230-ter c.c.La rapida e capillare diffusione del fenomeno della convivenze di fatto richiedeva una regolamentazione del fenomeno, sia per quanto concerne gli aspetti dei rapporti personali sia di quelli patrimoniali, ivi compreso il riconoscimento di diritti in favore del convivente more uxorio che prestasse attività lavorativa nell'interesse e nell'impresa del compagno. L'idea di un intervento normativo in tal senso fu accarezzata dal legislatore già nel 2007, nel Disegno di Legge n. 1339 presentato al Senato, rubricato «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi», il cui art. 9 comma 2 recitava: «Il convivente che abbia prestato attività lavorativa continuativa nell'impresa di cui sia titolare l'altro convivente può chiedere, salvo che l'attività medesima si basi su di un diverso rapporto, il riconoscimento della partecipazione agli utili dell'impresa, in proporzione all'apporto fornito». Il DDL non ha perfezionato il suo iter e fu abbandonato; l'intento di accordare una tutela patrimoniale minima ai conviventi more uxorio è stato successivamente perseguito nel 2016 in occasione del varo della l. 20 maggio 2016, n. 76, sulla «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», il cui art. 1, comma 46, ha introdotto nel codice civile l'art. 230-ter c.c. che ci si appresta ad esaminare compiutamente. Va subito evidenziato che il legislatore non ha equiparato la convivenza more uxorio alla famiglia unita in matrimonio ed all'unione civile formalizzata, regolata dalla stessa l. n. 76/2016 che invece è stata equiparata a tutti gli effetti alla famiglia matrimoniale. In questa sede occorre rilevare che il legislatore non ha ricompreso le convivenze di fatto tra i rapporti familiari idonei alla costituzione dei diritti sanciti dall'art. 230-bis c.c., come ha fatto con le unioni civili (art. 1 comma 13), ma vi ha dedicato una norma ad hoc, nel comma 46, l'art. 230-ter c.c. appunto, ove è prevista una tutela minimale e più ridotta al convivente lavoratore rispetto a quella assicurata dall'art. 230-bis c.c. (alcuni autori hanno criticato tale scelta, evidenziando che sarebbe stato più opportuno estendere anche a loro la tutela prevista dall'art. 230-bis c.c.: Romano, 346; Macario, 8). La disposizione recita «Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato». Il presupposto soggettivo I diritti di partecipazione agli utili si applicano al convivente in presenza di due presupposti costitutivi, uno soggettivo e l'altro oggettivo. Il primo consiste nella sussistenza di un rapporto di convivenza more uxorio tra il prestatore di lavoro e l'imprenditore; la definizione di «convivenza di fatto» è contenuta nel comma 36 dell'art. 1 l. n. 78/2016, che recita: «si intendono per conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile» come integrata dal successivo comma 37, secondo cui «per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica prevista dall'art. 4 d.P.R. n. 223/1989». Quest'ultima previsione ha destato in dottrina il dubbio sul carattere costitutivo o probatorio della dichiarazione anagrafica; in considerazione del fatto che la norma parla di «accertamento», lo scrivente si allinea alla tesi che accorda alla dichiarazione anagrafica natura probatoria (Iorio, 1021; Balestra, 5). Ne consegue che i diritti dell'art. 230-ter spettano al convivente di fatto che collabori nell'impresa familiare per il sol fatto di aver instaurato una convivenza stabile e duratura con l'imprenditore, la cui prova sarà agevolata, in un eventuale giudizio, dalla esibizione della dichiarazione anagrafica di cui all'art. 4 d.P.R. n. 223/1989, che ha appunto efficacia solo probatoria; ma, ove difetti tale dichiarazione, il convivente potrà provare anche in altro modo (con prova testimoniale), la stabilità del rapporto sentimentale. Parte della dottrina interpreta il requisito della convivenza di fatto in senso estensivo, ricomprendendovi anche le coppie stabili e durature non rientranti perfettamente nella definizione dell'art. 1 comma 36 l. n. 76/2016, come ad es. nel caso in cui uno dei due risulti ancora coniugato con altra persona, circostanza che può verificarsi nell'ipotesi di durata molto lunga di un giudizio di separazione o divorzio, in pendenza del quale una delle parti inizi ad intrattenere un rapporto di convivenza con altra persona, che nel tempo si consolidi, acquistando i caratteri di stabilità richiesti dall'art. 1 comma 36 (è favorevole all'interpretazione estensiva Auletta, 629). Il presupposto oggettivo Il secondo presupposto costitutivo consiste nella prestazione stabile di lavoro all'interno dell'impresa del convivente, definizione sostanzialmente analoga alla formulazione dell'art. 230-bis c.c. (Blasi, 245, rileva che i termini, pur avendo in sostanza un significato analogo, «sono però evocativi della differente natura delle relazioni sottostanti, avendo riguardo, da un lato, alla famiglia legittima, dove la stabilità è presunta in quanto tale e, dall'altro, alla collaborazione del convivente che, proprio come la relazione sottostante, deve rinnovare il suo essere con la stabilità del rapporto e dunque anche del lavoro») La locuzione «stabilmente» richiede che la collaborazione non sia occasionale o saltuaria, ma deve perdurare nel tempo e comportare un impegno costante del lavoratore volto a soddisfare un interesse durevole del destinatario. Dalla definizione non emerge che la prestazione di lavoro debba necessariamente essere svolta a tempo pieno, o con carattere di esclusività e prevalenza, dovendosi soltanto concretizzare in un apporto continuativo all'impresa del convivente. La prestazione può esplicarsi in qualunque attività manuale o intellettuale, di natura esecutiva o direttiva, senza però, sconfinare in una cogestione dell'impresa, che farebbe sorgere un rapporto di tipo societario, escluso dal campo di applicazione dell'art. 230-ter c.c.(Blasi, 245). La dottrina prevalente ritiene che l'apporto collaborativo del convivente possa consistere solo in prestazioni inquadrabili in un rapporto di lavoro autonomo; la disciplina dell'art. 230-ter c.c. sarebbe, infatti, incompatibile con prestazioni che presentino indici di subordinazione (in relazione alle quali il convivente che ne pretende il compenso deve agire in giudizio dimostrando la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato con il convivente imprenditore, sebbene non contrattualizzato, al fine di conseguirne il diritto alla retribuzione secondo la disciplina giuridica specificamente applicabile al tipo di rapporto), mutuando la stessa conclusione emersa in seno all'analogo dibattito che si è aperto sulla questione con riferimento all'art. 230-bis c.c. (Ichino, 306 ss., Oppo, 475; Germano, 240; Palmeri, 90; Prosperi, 113 ss., Balestra, 184 ss.; Venditti, 18 s., Menghini, 221 ss.). Tale conclusione si evince dal dettato letterale della norma, con particolare riferimento alla tipologia di diritti patrimoniali spettanti al convivente, ossia «partecipazione agli utili dell'impresa familiare; ai beni acquistati con essi; agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento»; si tratta di diritti patrimoniali incompatibili con quelli che scaturiscono da un rapporto lavorativo di tipo subordinato, come la retribuzione, l'accantonamento del TFR, la tredicesima mensilità, ecc. Per l'effetto, l'art. 230-ter c.c. deve ritenersi inapplicabile anche alle prestazioni riconducibili ad un rapporto di lavoro coordinato e continuativo, attesa l'equiparazione di disciplina tra le due figure prevista dal d.lgs. n. 81/2015 (Persiani, 313 ss.; Ferraro, 53 ss.; Marazza, 1168 ss.; Nogler, 47 ss.; Santoni, 505 ss.; Zoppoli, 33 ss.). La dottrina offre un'interpretazione restrittiva del concetto di «impresa», escludendo l'applicazione dell'art. 230-ter c.c. alle attività lavorative del convivente prestate in altre forme produttive, come ad es. la collaborazione nello studio professionale del convivente(commercialista, avvocato), analogamente a quanto avviene per l'art. 230-bis c.c. Anche in tal caso la conclusione è favorita dal dato letterale, in quanto l'art. 230-ter c.c. richiede necessariamente l'esistenza di un'impresa tipica, allo scopo di dare un senso ai concetti di partecipazione agli utili, ai beni e agli incrementi dell'azienda, all'avviamento (Oberto, 129 ss.; Colussi, 55 ss.; Menghini, 221 ss.). Ciò chiarito, la dimensione dell'impresa può indifferentemente essere piccola, media o grande, e l'oggetto sociale può essere di qualsiasi tipo, ad eccezione delle attività per le quali è prevista una particolare forma societaria (ad es. bancarie e assicurative). La dottrina maggioritaria estende l'applicazione dell'art. 230-ter c.c. anche alle imprese costituite in forma societaria, e non solo individuale (Oppo, 490 ss.; Prosperi, 42 ss. e Balestra, 548 ss.; Menghini, 221). A soluzione opposta pervengono altri autori (Cicero, 34; Di Francia, 229; Scotti, 1249 ss.) secondo cui le norme dell'art. 230-bis e di conseguenza del 230-ter c.c. si riferirebbero esclusivamente alla partecipazione ad un'impresa individuale. Si motiva sul punto che la partecipazione agli utili attribuita ai familiari ed al convivente sarebbero incompatibili con imprese costituite in forma societaria, perché il rapporto di parentela o convivenza del lavoratore con uno dei soci non può estendere i suoi effetti agli altri soci. Il carattere residuale. L'ultimo periodo della norma contiene un ulteriore presupposto, ma in negativo, secondo il quale il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavorosubordinato. Tale previsione attribuisce carattere residuale alla norma, in linea con quanto previsto dall'art. 230-bis c.c. Ne consegue che il diritto alla partecipazione agli utili dell'impresa spetta al convivente di fatto, che vi lavora stabilmente, solo in mancanza di altra disciplina applicabile al rapporto, come quella del rapporto di lavoro subordinato o di società. La locuzione rapporto di lavoro subordinato deve essere interpretata in senso estensivo, come tale comprensiva delle altre forme di rapporto lavoro ad esso equiparate, come la collaborazione coordinata e continuativa e l'associazione in partecipazione con apporto di lavoro, a seguito della riforma sui rapporti di lavoro operata dal Jobs Act (Ferraro, 281 ss.; Mignone, 723 ss.). La configurazione di un rapporto di lavoro continuativo nell'azienda del convivente (ad es. in qualità di commercialista o di geometra, che presti in maniera continuativa attività nell'azienda del compagno) è compatibile con l'art. 230-ter c.c. e la specifica disciplina ad esso dedicata (determinazione del compenso; assolvimento degli obblighi assicurativi e previdenziali) va ad integrare il diritto alla partecipazione agli utili. I diritti patrimoniali riconosciuti dall'art. 230-ter c.c. Venendo ora al contenuto dei diritti patrimoniali attribuiti dalla norma in commento, la partecipazione agli utili (per tali intendendosi le differenze di valore del patrimonio aziendale nel momento attuale rispetto ad un momento iniziale cfr Corsi, 247 ss.) spetta a prescindere dall'accertamento dell'incremento della produttività aziendale per effetto dall'apporto procurato dall'attività lavorativa del convivente; ciò perché il dato letterale sembra riferirsi esclusivamente alla prestazione stabile di lavoro, quale presupposto per la nascita dei diritti del convivente, e alla commisurazione al lavoro prestato, quale criterio per quantificare la partecipazione ai risultati economici dell'impresa, senza richiedere, quale ulteriore presupposto, l'accrescimento della produttività dell'impresa (Balestra, 233). Il criterio di determinazione della corresponsione degli utili e degli altri elementi patrimoniali richiamati nella norma è costituito dalla commisurazione del lavoro prestato. Si tratta del vero nodo gordiano della formulazione, in quanto il legislatore offre solo un criterio vago ed indeterminato, un principio astratto privo di indicazioni e parametri per la liquidazione concreta (analoghi problemi ha suscitato anche la formulazione dell'art. 230-bis c.c. al cui commento si rinvia). Naturalmente, il primo criterio di liquidazione degli utili è l'accordo delle parti (ad es. l'imprenditore riconosce al suo convivente il 20% degli utili prodotti dall'impresa ogni anno), che può anche superare il criterio normativo della commisurazione ed ha efficacia vincolante (Palmeri, 157 ss.). Tale opinione deve condividersi tanto più quando l'accordo tende a riconoscere al convivente una partecipazione agli utili sensibilmente maggiore dell'apporto lavorativo effettivamente prestato in azienda (si pensi al riconoscimento di metà degli utili prodotti ogni anno a fronte di un apporto lavorativo di 3 ore giornaliere; contra Prosperi, 202 che sostiene che l'art. 230-ter c.c. è norma imperativa insuscettibile di essere derogata dall'accordo delle parti). Il problema della quantificazione degli utili si pone, pertanto, in ipotesi di mancato accordo tra i conviventi, ragione che spinge il convivente lavoratore ad agire in sede giudiziale. Spetta, in questo caso, al giudice del Lavoro adito il compito di interpretare ed arricchire di contenuti concreti il criterio astratto della commisurazione del lavoro prestato. Naturalmente tale parametro richiede che la quantificazione debba essere fondata sulla valutazione della quantità e qualità del lavoro prestato in azienda, e debba rispettare il principio di proporzionalità (quindi il giudice deve valutare in che misura la quantità e qualità dell'attività lavorativa abbia inciso sulla produttività aziendale). La difficoltà pratica posta dalla formulazione della norma consiste nell'attribuzione di un eccesso di discrezionalità al giudicante, che non solo comporta incertezze interpretative ed applicative in ordine ai singoli criteri che saranno utilizzati dal magistrato nella quantificazione, ma soprattutto arreca il rischio di disparità di trattamento da Tribunale a Tribunale per situazioni grossomodo analoghe. Altro problema attiene al concorso nella partecipazione agli utili anche dei familiari dell'imprenditore. Se infatti partecipano all'impresa familiare sia il convivente che i familiari dell'imprenditore (circostanza che può verificarsi concretamente nella pratica quando la convivente dell'imprenditore inizia a prestare attività lavorativa nell'impresa ove già collaborano i figli maggiorenni del titolare, avuti dalla prima moglie da cui è divorziato), si applicheranno simultaneamente tanto l'art. 230-bis c.c. quanto l'art. 230-ter c.c. Un'ipotesi di accordo sulla liquidazione degli utili tra tutte le parti appare ardua ed improbabile, attesa la naturale riluttanza dei familiari del titolare a dividere gli utili dell'impresa di famiglia con una persona esterna, Pertanto, ove si adiscano le vie giudiziali, il giudice del lavoro potrà diversificare gli utili da assegnare ai familiari ed al convivente a seconda delle varie posizioni e dei singoli apporti lavorativi, tenendo conto che le disposizioni degli artt. 230-bis e ter c.c offrono nella sostanza lo stesso criterio determinativo e valutativo, pur a fronte di una formulazione letterale non del tutto speculare. Da notare come la maggior ricchezza contenutistica dell'art. 230-bis c.c. rispetto all'art. 230-ter c.c. possa comportare specifiche ipotesi di interferenza dell'una disposizione sull'altra: si pensi alle decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi ed alla cessazione dell'impresa che in base all'art. 230-bis c.c. sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa; mentre l'art. 230-ter c.c. non prevede analogo diritto per il convivente, conseguendone che quest'ultimo subirà le decisioni sul futuro dell'impresa che saranno assunte dai familiari del convivente, nonostante abbia con costoro una posizione di conflitto sulla ripartizione degli utili. Altro profilo di interferenza tra le due disposizioni, che può comportare uno svantaggio per il convivente di fatto, attiene al diritto riconosciuto dall'art. 230-bis c.c. ai familiari di conseguire anche il mantenimento oltre alla partecipazione agli utili; diritto non previsto dall'art. 230-ter c.c. a favore del convivente. Ne consegue che ai fini della determinazione degli utili da dividere, dovranno essere detratti dal fatturato complessivo i costi di gestione, i costi fiscali ed anche il mantenimento per i familiari, riducendosi così l'utile su cui il convivente può vantare diritti; i familiari invece non subiscono tale pregiudizio perché la riduzione degli utili è compensata dal mantenimento. Ovviamente questa sperequazione può essere eliminata laddove il coniuge imprenditore, nei rapporti interni, si impegni a versare al convivente un mantenimento mensile analogo a quello assicurato ai familiari; ma ove non sia offerta tale disponibilità, il convivente non può pretenderlo se non vi è una previsione in tal senso nel contratto di convivenza stipulato inter partes ai sensi dell'art. 1 comma 50 ss. l. n. 76/2016. Peraltro, questa asimmetria normativa tra le due disposizioni potrebbe costituire il modo per i familiari per arrecare volutamente un danno patrimoniale alla convivente del loro congiunto a loro invisa. Non essendo prevista obbligatoriamente la distribuzione periodica degli utili al termine di ogni esercizio finanziario (in tal senso Colussi, 74 che perviene a tale conclusione valorizzando il dato testuale nell'inciso ove attribuisce al convivente il diritto di partecipare, non solo agli utili dell'impresa, ma anche ai «beni acquistati con essi», da cui si ricava che gli utili non necessariamente debbono essere distribuiti ma possono essere impiegati per acquistare beni; in tal senso anche Andrini, 225; contra invece Prosperi, 195 ss. secondo cui i familiari hanno diritto alla distribuzione periodica degli utili), potendo gli stessi essere reinvestiti in azienda, e dovendo le decisioni sugli utili essere assunti a maggioranza dei familiari, potrebbe capitare che ogni anno i familiari (ad es. i tre figli dell'imprenditore) decidano a maggioranza di reinvestire gli utili prodotti o di iscriverli a riserve, così da impedirne deliberatamente la percezione pro quota alla convivente del loro congiunto, a loro invisa, confidando che la loro posizione patrimoniale non subirebbe pregiudizi dal momento che è loro assicurato almeno il mantenimento, non previsto per la convivente. Si tratta naturalmente di un'ipotesi limite, un paradosso, che però è in grado di dimostrare i problemi pratici che scaturiscono dalla formulazione dell'art. 230-ter c.c. a conforto dell'opzione dottrinale che ha sostenuto che il legislatore con maggior prudenza avrebbe dovuto incorporare i diritti spettanti ai conviventi more uxorio all'interno del dettato dell'art. 230-bis c.c. in luogo di introdurre una diversa disposizione con tutela ridotta rispetto a quest'ultima. Altra questione interpretativa di notevole importanza, sorta già nel dibattito conseguito all'art. 230-bis c.c., attiene alla natura giuridica del diritto alla percezione degli utili spettanti al convivente. Si contendono il campo due possibili ipotesi ricostruttive: secondo la prima tale diritto avrebbe la consistenza di un diritto reale, nel senso che si creerebbe una situazione di contitolarità tra imprenditore, familiari e conviventi nel momento della loro produzione (Finocchiaro A. e M., 1334 ss.; Bianca, 503 ss.), come si evincerebbe dal dettato letterale degli artt. 230-bis e ter c.c., laddove si parla di «partecipazione agli utili». L'altra ipotesi, sostenuta dalla dottrina prevalente lo configura come un diritto di credito nei confronti del convivente imprenditore. Tale opzione è nettamente preferibile alla luce delle difficoltà pratiche che scaturiscono dall'altra e che possono così riassumersi: la contitolarità degli utili comporterebbe l'applicazione della disciplina sulla comproprietà (artt. 1100 ss.) ivi compresa la facoltà per ciascun compartecipe di chiederne lo scioglimento in ogni momento o la cessione della quota a terzi o la liquidazione della quota; si tratta di disposizioni incompatibili i principi e le regole che governano lo svolgimento di attività di impresa; in secondo luogo, la mancata previsione di forme pubblicitarie attestanti la collaborazione del convivente nell'impresa comporterebbe un'intollerabile situazione di incertezza nei rapporti coi terzi, soprattutto in caso di acquisti compiuti dall'imprenditore con i proventi e gli utili aziendali; infatti, dal momento che il convivente non può partecipare alle decisioni sull'utilizzo degli utili, appare difficile sostenere che l'imprenditore agisca anche come suo mandatario senza rappresentanza (Balestra, 237); ed infine occorre rimarcare che il diritto agli utili del convivente è insuscettibile di una precisa quantificazione dipendendo da un criterio incerto (la commisurazione al lavoro prestato) e tra l'altro variabile nel tempo (ogni anno la partecipazione agli utili può variare in misura dell'incremento o della riduzione del lavoro prestato); è necessario, quindi, che la liquidazione della partecipazione agli utili sia posticipata successivamente alla loro produzione, dopo aver valutato la consistenza della qualità e quantità del lavoro prestato in azienda dal convivente; e questo modus operandi è strutturalmente incompatibile con la natura di diritto reale degli utili prodotti che sorgerebbe nel momento stesso in cui gli utili sono prodotti (Colussi, 75). Preferibile, quindi, è l'impostazione che configura il diritto agli utili come un diritto di credito, che opera esclusivamente nei rapporti interni tra i due conviventi. Il credito potrà essere preteso dal convivente al momento della cessazione dell'impresa o di ogni singolo anno finanziario, se non è stato stabilito il reimpiego degli utili (Colussi, 74; Prosperi, 195; Balestra, 239). Oltre che ai beni acquistati, il convivente lavoratore ha il diritto di partecipare, sempre in considerazione del lavoro prestato, agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento. L'espressione «incrementi» deve essere intesa in senso ampio, ricomprendendovi qualunque aumento di valore dell'azienda o dei singoli beni aziendali (Colussi). Per quanto concerne l'avviamento, che rappresenta una qualità dell'azienda, suscettibile di valutazione economica, che deriva, in linea di massima, dalla composizione ed organizzazione dei beni aziendali, dai rapporti contrattuali in essere e dalle relazioni con la clientela, al riguardo, si distinguere in dottrina tra avviamento c.d. «oggettivo», inerente agli elementi dell'azienda e all'organizzazione di essi, ed avviamento c.d. «soggettivo», inerente alla persona dell'imprenditore (Colussi, 75, e Balestra, 240). L'incremento di avviamento consiste nella differenza tra la misura degli utili prodotti dall'impresa prima dell'inizio della collaborazione del convivente e la misura degli utili prodotta successivamente, il cui accertamento dovrà avvenire al momento della estinzione o alienazione dell'impresa o della cessazione della partecipazione del convivente, sorgendo proprio all'esito della suddetta attività di liquidazione il diritto di credito del convivente (Colussi; Prosperi, 210; Balestra, 241). La detrazione degli stipendi riconosciuti e corrisposti ai familiari dagli utili da ripartire fra gli stessi compartecipi dell'attività di impresa familiare non risulta coerente con quanto disposto dall'art. 230-bis c.c., che esclude la detraibilità dai predetti utili delle somme destinate al mantenimento dei familiari, considerando l'autonomia del diritto alla quota degli utili rispetto al diritto al mantenimento del partecipante all'impresa medesima. (Cass. n.15962/2019). La partecipazione agli utili per la collaborazione nell'impresa familiare, ai sensi dell'art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, in quanto, in assenza di un patto di distribuzione periodica, gli utili sono naturalmente destinati al reimpiego nell'azienda o in acquisti di beni e non, invece, ad essere ripartiti tra i partecipanti; inoltre, gli utili da attribuire ai partecipanti all'impresa familiare vanno calcolati al netto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l'impresa, mentre spetta al partecipante che agisce per il conseguimento della propria quota l'onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l'ammontare degli utili da distribuire (Trib. Fermo, n.149/2019). Il partecipante che agisce per ottenere la propria quota di utili ha l'onere di provare la consistenza del patrimonio aziendale e la quota astratta della propria partecipazione, potendo a tal fine ricorrere anche a presunzioni semplici, tra cui la predeterminazione delle quote operata a fini fiscali; sul familiare esercente l'impresa grava invece l'onere di fornire la prova contraria rispetto alle eventuali presunzioni semplici, nonché di dimostrare il pagamento degli utili spettanti “pro quota” a ciascun partecipante (Cass. civ. n. 27966/2018). La quota spettante al familiare partecipante al momento della cessazione che, ex art. 230-bis c.c., va determinata esclusivamente sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto nell'impresa, è relativa nella stessa misura tanto agli utili che agli incrementi, siano essi materiali o immateriali (Cass., n. 27108/2017; Cass. n. 1401/2021). Bilancio critico Terminata la disamina sull'ambito di applicazione della disposizione, si può tracciare un bilancio critico. Parte della dottrina ha mostrato scetticismo ed insoddisfazione per la formulazione della norma, reputata insufficiente ad assicurare una tutela seria ed adeguata al convivente che presti continuativamente attività lavorativa nell'impresa familiare del compagno. I rilievi sono stati mossi con riguardo all'omessa previsione del diritto del convivente di fatto a partecipare alle decisioni che riguardano l'azienda e di un mantenimento in suo favore in linea con quanto previsto per i familiari dall'art. 230-bis c.c.; a questo proposito si è mostrata preoccupazione per il vuoto di tutela patrimoniale per il convivente in caso di mancata produzione di utili dell'azienda del compagno, in cui ha impiegato il suo tempo e le sue energie in via prevalente, ed in mancanza di una previsione di mantenimento nel contratto di convivenza (Venuti, 1003, che però evidenzia che anche nel caso in cui non sia esercitabile alcun diritto patrimoniale da parte del convivente, l'altro dovrà in ogni caso prevedere al suo sostentamento in adempimento degli obblighi morali e di solidarietà che scaturiscono innatamente dalla convivenza). Il primo rilievo è condivisibile in astratto, dal momento che, come visto, il convivente subisce le decisioni assunte dai familiari dell'imprenditore in merito a poste attive su cui vanta diritti patrimoniali (gli utili e gli incrementi dell'azienda); ma, d'altra parte, occorre considerare la ponderatezza della scelta del legislatore di non equiparare giuridicamente la condizione dei parenti stretti che lavorano nell'impresa familiare (come i figli del titolare), il cui rapporto di parentela non si estinguerà mai fino al decesso di uno di loro, a quella del convivente di fatto, il cui legame sentimentale con il titolare potrebbe interrompersi in ogni momento anche su decisione unilaterale di uno dei due. Anche con riguardo al secondo rilievo mosso dalla dottrina, corre l'obbligo di evidenziare che la mancata previsione del mantenimento a favore del convivente risiede nella scelta legislativa di diversificarne la posizione rispetto ai familiari dell'imprenditore, in ossequio alla ratio ispiratrice dell'istituto dell'impresa familiare. Per comprendere appieno questo concetto, si ponga mente ai figli del titolare dell'impresa, che sono cresciuti nell'azienda paterna, godendone dei frutti per il loro sostentamento, e che fin da piccoli hanno coadiuvato il padre nell'attività dell'impresa, contribuendone al funzionamento ed all'accrescimento, rinunciando quindi ad altri percorsi di studio, professionali o lavorativi. L'istituto dell'impresa familiare tende a garantire diritti patrimoniali ai prossimi congiunti dell'imprenditore appunto per ricompensare le rinunce fatte in vita a percorsi di studio più elevati o a ricercare altre occasioni lavorative per coadiuvare il genitore. Essendo questa la ratio dell'istituto, appare condivisibile l'attribuzione nell'art. 230-bis c.c. del mantenimento economico, della partecipazione agli utili ed incrementi aziendali, ivi compreso l'avviamento, e dei diritti amministrativi e decisionali ai familiari (i figli nell'esempio fatto), che vi hanno dedicato la vita; sarebbe stato irragionevole da parte del legislatore prevedere nella formulazione dell'art. 230-ter c.c. un'identica piattaforma di diritti anche al convivente del titolare dell'impresa, che si è insinuato in azienda solo da un certo momento della vita in poi e dopo aver avuto la possibilità di sperimentare altre opportunità di studio e professionali. Lo scrivente prende le distanze, pertanto, dall'opinione degli autori che postulano un'interpretazione analogica dell'art. 230-ter c.c. volta ad attribuire al convivente anche gli altri diritti previsti per i familiari dall'art. 230-bis c.c. (Quadri, 274, Lenti, 937, Blasi, 242 ss.); peraltro, tale opzione ermeneutica sarebbe giuridicamente impraticabile, perché contrasterebbe con il principio ubi lex voluit dixit, noluit tacuit; in quanto l'estensione del contenuto e l'oggetto della disposizione contrasterebbe con la voluntas legis di circoscriverne l'ambito di applicazione entro un perimetro ben preciso e delineato (mostra contrarietà all'applicazione analogica dell'art. 230-bis c.c. anche De Filippis, 268). Altre disparità di trattamento tra il convivente di fatto ed i familiari conviventi che collaborano nell'impresa sono previste in campo tributario e previdenziale. Per quanto concerne il primo aspetto si ricorda che il comma 4 dell'art. 5 d.P.R. n. 917/1986 che prevede: «I redditi delle imprese familiari di cui all'art. 230-bis del c.c., limitatamente al 49% dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione: a) che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo d'imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente». Tale norma non è applicabile al convivente di fatto poiché tale categoria non è ivi richiamata e non è ammessa, comunemente, l'applicazione analogica di norme fiscali e tributarie in quanto considerate eccezionali e di stretta applicazione. Lo scrivente però evidenzia che la mancata inclusione del convivente di fatto nell'art. 5 comma 4 sia frutto di un difetto di coordinamento normativo ascrivibile al legislatore della l. n. 76/2016 che ha tralasciato, per dimenticanza, di modificare la norma in tal senso. Non può trattarsi di un'omissione voluta, stante la perfetta identità di ratio tra le posizioni dei familiari e del convivente che prestano stabile lavoro in azienda, ed essendo di conseguenza irragionevole una disparità di trattamento. Per quanto concerne l'estensione al convivente delle norme sull'assicurazione previdenziale degli artigiani (l. 4 luglio 1959, n. 463) o degli esercenti attività commerciali (l. 22 luglio 1966, n. 613) che prevedono l'applicazione dell'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti rispettivamente degli artigiani o degli esercenti attività commerciali anche al coniuge, ai familiari, nonché, in seguito all'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. n.485/1992) agli affini entro il secondo grado, si registra l'identico difetto di coordinamento normativo ad opera del legislatore della l. n. 76/2016. La ratio dell'estensione dell'assicurazione obbligatoria è comune ai familiari ed al convivente dell'imprenditore, essendo entrambi legati da rapporto affettivo all'imprenditore e prestando entrambi attività lavorativa stabile nell'impresa familiare; quindi è irragionevole che i primi possano essere assicurati e l'altro no. La disparità di trattamento non è supportabile da adeguate ragioni. Si evidenzia che recentemente l'INPS nella circolare n. 66 del 31 marzo 2017 ha escluso l'applicabilità delle disposizioni previdenziali richiamate al convivente di fatto, in considerazione del differente trattamento normativo riservato a tale figura rispetto a quello riconosciuto dall'art. 230-bis c.c. ai familiari del titolare dell'impresa familiare. Ci si discosta da tale interpretazione; le circolari dell'INPS sono atti interni privi di valore normativo per cui possono essere disattesi da qualsiasi giudice. Diversamente, l'asserito difetto di coordinamento normativo ha creato un'evidente aporia nell'ordinamento che dovrà nel tempo essere rimossa dal legislatore oppure dalla Corte Costituzionale che dichiari costituzionalmente illegittime le tre disposizioni citate nella parte in cui non prevedono l'estensione del loro ambito di applicazione al convivente di fatto nella stessa misura in cui la Corte nel 1992 ne ha esteso l'applicazione agli affini di secondo grado. 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