Legge - 1/12/1970 - n. 898 art. 3
1. Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi: 1) quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l'altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza: a) all'ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale; b) a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui all'art. 564 del codice penale e per uno dei delitti di cui agli articoli 519, 521, 523 e 524 del codice penale, ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione 1; c) a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio 2; d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di cui all'art. 582, quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell'art. 583, e agli articoli 570, 572 e 643 del codice penale, in danno del coniuge o di un figlio 3. Nelle ipotesi previste alla lettera d) il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta, anche in considerazione del comportamento successivo del convenuto, la di lui inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare. Per tutte le ipotesi previste nel n. 1) del presente articolo la domanda non è proponibile dal coniuge che sia stato condannato per concorso nel reato ovvero quando la convivenza coniugale è ripresa; 2) nei casi in cui: a) l'altro coniuge è stato assolto per vizio totale di mente da uno dei delitti previsti nelle lettere b) e c) del numero 1) del presente articolo, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio accerta l'inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; b) è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale ovvero è intervenuta separazione di fatto quando la separazione di fatto stessa è iniziata almeno due anni prima del 18 dicembre 1970 4 5. In tutti i predetti casi, per la proposizione della domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, le separazioni devono essersi protratte ininterrottamente da almeno dodici mesi dalla data dell'udienza di comparizione dei coniugi nella procedura di separazione personale e da sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile. Nei casi in cui la legge consente di proporre congiuntamente la domanda di separazione personale e quella di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, quest'ultima è procedibile una volta decorsi i termini sopra indicati. L'eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta 6;7 [ Quando vi sia opposizione del coniuge convenuto il termine di cui sopra è elevato: ad anni sette, nel caso di separazione pronunciata per colpa esclusiva dell'attore; ad anni sei, nel caso di separazione consensuale omologata in data anteriore all'entrata in vigore della presente legge o di separazione di fatto;] 8 c) il procedimento penale promosso per i delitti previsti dalle lettere b) e c) del n. 1) del presente articolo si è concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, quando il giudice competente a pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ritiene che nei fatti commessi sussistano gli elementi costitutivi e le condizioni di punibilità dei delitti stessi; d) il procedimento penale per incesto si è concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo; e) l'altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all'estero l'annullamento o lo scioglimento del matrimonio o ha contratto all'estero nuovo matrimonio; f) il matrimonio non è stato consumato; g) è passata in giudicato sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 164 9. [1] Lettera sostituita dall'articolo 1, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74. [2] Lettera sostituita dall'articolo 2, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74. [3] Lettera modificata dall'articolo 3, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74. [4] Lettera modificata dall'articolo 4, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74. [5] Per la convenzione di negoziazione assistita nei casi di cui alla presente lettera, vedi l'articolo 6, comma 1, del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla Legge 10 novembre 2014, n. 162. [6] Capoverso sostituito dall'articolo 5, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74 , successivamente modificato dall'articolo 12, comma 4, del D.L. 12 settembre 2014 n. 132, convertito, con modificazioni, dalla Legge 10 novembre 2014, n. 162; per l'applicazione vedi il comma 7 del medesimo articolo 12. Da ultimo, capoverso modificato dall'articolo 1, comma 1, della Legge 6 maggio 2015, n. 55; per l'applicazione vedi l'articolo 3, comma 1, della medesima legge. [7] Comma modificato dall'articolo 27, comma 1, lettera a) del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 , con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197. [8] Capoverso soppresso dall'articolo 6, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74. [9] Lettera aggiunta dall'articolo 7, comma 1, della Legge 6 marzo 1987, n. 74. InquadramentoNell'ambito di una previsione di disciplina unitaria per i procedimenti di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio, il legislatore riferì i presupposti necessari per la domanda di divorzio ad una serie di circostanze di fatto che dettagliatamente sono state elencate nell'art. 3 l. n. 898/1970. Verosimilmente per ottenere chiarezza espositiva, queste circostanze furono raggruppate nell'esposizione in gruppi che ne evidenziano i caratteri comuni e ne evidenziano le caratteristiche differenziali. Nel primo comma della norma, al n. 1 vengono indicate alcune ipotesi di condanne penali per gravi reati, passate in giudicato, inflitte al coniuge dopo la celebrazione del matrimonio; queste condanne non costituiscono di per sé motivo sufficiente per il divorzio, in quanto il giudice deve accertare, anche in considerazione del comportamento successivo del convenuto, la di lui inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare. Un secondo gruppo indicato sub 2) dallo stesso art. 3 comprende il caso dell'assoluzione del coniuge per vizio totale di mente da uno fra i delitti indicati nel numero precedente, sempre che il giudice accerti l'inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire l'unità familiare; e, altresì, il caso in cui con sentenza passata in giudicato è stata pronunciata la separazione personale dei coniugi o questa è stata omologata. Le due fattispecie non sono tra loro assimilabili ma la ragione per la quale la normativa le ha avvicinate risiede nell'ulteriore presupposto richiesto dall'art. 3: occorre che i coniugi abbiano vissuto separati e che la separazione si sia protratta per un periodo di tempo prefissato. Infine, la norma citata prosegue nell'indicare circostanze ulteriori che giustificano la proposizione della domanda di divorzio e che risultano diverse tra loro sia sul piano della loro oggettività descrittiva che della loro rilevanza giuridica. Il divorzio è subordinato al verificarsi di condizioni oggettive previste dal legislatore e con accertamento rimesso al giudice; un'impostazione che (per Cass. I, n. 24494/2006 e Cass. III, n. 18202/2008) non pone problemi di costituzionalità: l‘art 3 l. 1 dicembre 1970, n. 898, ricollega la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio a situazioni obiettive, il cui accertamento è rimesso al giudice, senza introdurre alcuna disparità di trattamento dei coniugi, né lesione di diritti inviolabili della persona e pertanto manifestamente non si pone in contrasto con gli artt. 2 e 3 cost. Le disposizioni dettate dall'art. 3 sono state conservate dall'intervento di riforma attuato con il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Questo provvedimento ha sostituito le norme di natura processuale della legge sul divorzio ed ha mantenuto quelle aventi natura sostanziale. Tra queste ultime, resta vigente il detto art. 3, che ha subito modificazioni di mero coordinamento. Presupposti del divorzioSi veda anche sub art. 1 e art. 2 della l. n. 898 del 1970: il motivo che sta alla base della pronuncia di divorzio è la impossibilità di mantenere e ricostituire la comunione materiale e spirituale tra i coniugi. Per l'esigenza di legare questa impossibilità (suscettibile di essere soltanto labialmente affermata) ad elementi accertabili in concreto e incontrovertibili, si è disposto che essa debba risultare collegata a circostanze che di quella impossibilità danno ragione e costituiscono occasione rivelatrice. Tuttavia, se può darsi per certo che con l'elencazione contenuta nel testo dell'art. 3 il legislatore ha voluto ancorare a fatti di individuazione oggettiva e precisa l'accertamento dell'impossibilità di mantenere o di ricostituire la comunione materiale e spirituale tra i coniugi, una parte degli studiosi aveva in proposito affermato che in realtà si era inteso limitare la discrezionalità del giudice con il prefissare circostanze in fatto ben determinate: ragione per la quale la sola ricorrenza dei casi menzionati nella norma è sufficiente, di per sé, a motivare il divorzio e giustificarne la pronuncia. In questo modo il divorzio diverrebbe “automatico”, dipendendo unicamente dal riscontro di volta in volta del presupposto legale. L'opinione prevalente si è formata nel diverso senso di ritenere attribuito al giudice un accertamento duplice, esteso alla verifica della sussistenza del presupposto generale costituito dalla ricordata impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione coniugale; con la conseguenza per cui il divorzio potrebbe essere negato ove il giudice ritenesse che la comunione potrebbe essere ricomposta e diventare, dunque, nuovamente possibile. In questo modo, si afferma, al giudicante compete di compiere un controllo su tutti gli elementi idonei a comporre un quadro descrittivo della probabilità, o meno, di ricostituire l'unità e l'armonia familiare. I sostenitori dell'automaticità del divorzio oppongono a questa concezione che, in presenza delle situazioni indicate dalla legge, al giudice non residuano poteri ulteriori e significativi di indagine. La stessa presentazione della domanda di divorzio, si fa notare, dimostra in modo palese la decisione maturata in uno dei coniugi. E un elemento ulteriore di convincimento in tal senso è desumibile dai casi contemplati nell'art. 3 al n. 1, lett. d) e al n. 2, lett. a), nei quali soltanto è previsto un autonomo potere di valutazione attribuito all'ufficio: circostanza, questa, che viene considerata come l'eccezione confermativa di una contraria regola generale. La giurisprudenza si era pronunciata nel senso contrario all'automaticità del divorzio (Cass. 7799/1990; Cass. 6006/1988; Cass. 6031/1988). La declaratoria di scioglimento del matrimonio non consegue automaticamente alla ricorrenza di una delle cause previste dall'art. 3 l. n. 898 del 1970, ma presuppone in ogni caso, attesi i riflessi pubblicistici riconosciuti dall'ordinamento all'istituto familiare, l'accertamento, da parte del giudice, e la verifica della concreta impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione fra i coniugi, per effetto della definitività della rottura dell'unione spirituale e materiale tra i coniugi (Cass. I, n. 26165/2006). In questo senso, lo stato di separazione dei coniugi concreta un requisito dell'azione, necessario secondo la previsione dell'art. 3, n. 2, lett. b), della citata l. n. 898 del 1970, la cui interruzione, da opporsi a cura della parte convenuta (art. 5 l. n. 74 del 1987) in presenza di una richiesta di divorzio avanzata dall'altra parte, postula l'avvenuta riconciliazione, la quale si verifica quando sia stato ricostituito l'intero complesso dei rapporti che caratterizzano il vincolo matrimoniale e che, quindi, sottende l'avvenuto ripristino non solo di quelli riguardanti l'aspetto materiale del consorzio anzidetto, ma altresì di quelli che sono alla base dell'unione spirituale tra i coniugi. La riconciliazione va accertata attribuendo rilievo preminente alla concretezza degli atti, dei gesti e dei comportamenti posti in essere dai coniugi — valutati nella loro effettiva capacità dimostrativa della disponibilità alla ricostruzione del rapporto matrimoniale — piuttosto che con riferimento al mero elemento psicologico, tanto più difficile da provare in quanto appartenente alla sfera intima dei sentimenti e della spiritualità soggettiva (Cass. I, n. 26165/2006). Condanne penaliUn primo gruppo di presupposti, contemplato nel n. 1 del primo comma, riguarda i casi di condanna penale a carico di uno dei coniugi, passata in giudicato dopo la celebrazione del matrimonio. Le lettere a), b), c) e d) si riferiscono a condanne per reati dolosi a una pena detentiva prolungata ed a condanne per reati nei confronti del coniuge e dei suoi discendenti. In proposito l'art. 3 fissa tre condizioni di ordine generale perché la varia tipologia di sentenze penali di condanna possa avere rilevanza quale ragione di richiesta di divorzio; a) La sentenza deve essere passata in giudicato posteriormente alla celebrazione del matrimonio, anche se i fatti illeciti sono stati commessi in precedenza. La ratio della disposizione è individuata nel rilievo attribuito non al fatto-reato in sé ma all'accertamento formale e non più dubitabile del reato. La dottrina tende a valorizzare anche la conoscenza che del fatto riceve il coniuge e il momento di questa conoscenza. Si afferma, ad esempio, che vanno considerate equivalenti le fattispecie in cui il coniuge viene a conoscenza dopo il matrimonio di un fatto perpetrato in precedenza; e la conoscenza, al momento del matrimonio, della condanna riportata dal coniuge ma non ancora passata in giudicato. Si ribatte che soltanto con la definitività della condanna si acquisisce la certezza della responsabilità penale e dell'irrimediabile cessazione della comunione di vita per la lunga durata della pena che si prospetta. La disposizione normativa è riferita alle sole sentenze di condanna e non riguarda pertanto l'applicazione di misure di prevenzione o di sicurezza. b) La domanda di divorzio non è proponibile dal coniuge che sia stato condannato per concorso nel reato. La menzione del concorso nel reato è intesa come riferimento preciso all'istituto regolato dall'art. 110 codice penale, costituito dalla compartecipazione alla realizzazione dell'illecito sotto il profilo del contributo causale apportato alla sua perpetrazione. Per questa ragione rientra nella nozione richiamata di concorso l'apporto del concorrente non punibile penalmente per minore età o perché in stato di minorata capacità di intendere o di volere che sia stato determinato alla commissione del reato dal coniuge. Ne sono estranee la connivenza e le condotte di favoreggiamento, istigazione, cooperazione post factum, inidonee a costituire vero e proprio concorso. c) Mancata ripresa della convivenza familiare successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna. La ripresa della convivenza familiare quando la condanna è divenuta irrevocabile dimostra che la circostanza non ha suscitato repulsa nel coniuge di chi si è reso autore dell'illecito. Alla circostanza viene equiparata la situazione della convivenza mai cessata. La prima ipotesi descritta dall'art. 3 è quella di condanna all'ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici, per delitti dolosi, commessi anche prima del matrimonio. Lo scioglimento del vincolo è, in questo caso, collegato essenzialmente alla gravità del fatto, manifestata dall'entità della pena irrogata in concreto e dalla sua durata temporale. La protratta privazione della libertà personale incide in modo rilevante sulla possibilità di vita in comune dei coniugi e questa circostanza di esperienza costituisce la ragione che ammette la richiesta di divorzio. Per la giurisprudenza ha rilievo la condanna in sé, indipendentemente dal successivo regime giuridico di espiazione, di amnistia o di condono. È espressamente esclusa la rilevanza dei reati colposi, dei reati politici (art. 8 c.p.) e di quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale. La dottrina si è espressa criticamente ed ha osservato che se la ratio legislativa è costituita dalla gravità e dalla durata della pena non dovrebbero avere importanza i motivi soggettivi del reato: l'incidenza della condanna sulla protrazione della convivenza e della comunione di vita è la medesima, a parità di punizione. Quanto alla valutazione dei motivi di particolare valore morale o sociale, si afferma che essa compete unicamente al giudice penale e non già al giudice del divorzio, che non può riconsiderare autonomamente i fatti oggetto della pronuncia. Si discute sugli effetti che possa avere la sentenza di revisione della sentenza di condanna, con conseguente assoluzione. Si propende a ritenere che essa non abbia effetti sul divorzio già pronunciato, posto che questo era stato fondato su una accertata cessazione della comunanza di vita. La seconda ipotesi è quella di condanna per reati commessi contro il coniuge o i suoi discendenti; lo scioglimento del vincolo è, in questo caso, collegato al fatto che la gravità del reato è manifestata dall'interesse offeso, che attiene alla sfera dei rapporti familiari; infatti si prescinde dall'entità della pena. Si tratta di reati di natura diversa: - contro la vita del coniuge o di un figlio (omicidio volontario, anche tentato). La nozione di omicidio è quella dell'omicidio volontario definita dal codice penale. Essa esclude il delitto preterintenzionale e il delitto colposo. La dottrina vi considera comprese le fattispecie di infanticidio o feticidio in condizioni di abbandono materiale e morale (art. 578 c.p.) e quella di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.). Una modifica apportata dalla l. n. 74/1987 ha eliminato dal testo della norma la menzione, quali soggetti passivi del reato, dei discendenti e dei figli adottivi. Dunque, non ha rilievo che le vittime siano i nipoti del reo; e, quanto agli adottati, la loro successiva equiparazione ai figli nati nel matrimonio (nuovo art. 74 c.c., come sostituito dalla l. n. 219/2012) ha poi ricondotto costoro all'ambito dei soggetti passivi previsti dalla disposizione in commento. Non ha rilievo la quantità della pena inflitta con la condanna. Si ritiene, per questa ragione, che la situazione rilevante ai fini del divorzio sussiste anche se l'autore del reato è assolto per vizio di mente o se il reato è estinto per prescrizione. - contro la libertà personale in danno del coniuge o di un figlio; al riguardo, a parte l'incesto (art. 564 c.p.) i richiami normativi effettuati dalla lettera b) del numero 1 del primo comma (artt. 519,521,523 e 524 c.p.) vanno intesi, attualmente, con riferimento ai successivamente introdotti artt. 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies c.p. (violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, corruzione di minorenne, violenza sessuale di gruppo). Si tratta dei delitti contro la libertà sessuale, adesso considerati contro la libertà personale. Non furono dettate norme per regolare il coordinamento tra la legge sul divorzio e il nuovo regime penale ed è spettato all'interprete valutare la compatibilità tra le figure criminose disciplinate in precedenza e quelle ad esse sostituite od aggiunte. Si ritiene che la abolitio criminis escluda attualmente dalle condizioni per il divorzio l'anteriore condanna per il delitto di ratto a fine di libidine, non più previsto come reato dalla normativa vigente. - in materia di prostituzione: induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione (art. 600-bis c.p.). L'evoluzione normativa ha condotto a ritenere compresa in questa indicazione anche la fattispecie della prostituzione minorile (art. 600-bis c.p.); - contro l'incolumità e l'assistenza familiare, commessi in danno del coniuge o di un figlio e accertati con ripetute sentenze di condanna (due o più): lesioni personali gravissime (artt. 582 e 583 c.p.); violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.); maltrattamenti (art. 572 c.p.); circonvenzione di incapace (art. 643 c.p.). In quest'ultimo gruppo di ipotesi il giudice non può pronunciare il divorzio senza accertare, in concreto, che il coniuge condannato è inidoneo a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; in questa valutazione deve tenere conto delle circostanze del reato e del comportamento del reo, anche successivo alla condanna. Nei casi in cui il presupposto per il divorzio è costituito da una condanna penale, assume comunque rilievo la ripresa della convivenza coniugale; tale evento, infatti, se successivo alla condanna, preclude la pronuncia del divorzio, rendendo non proponibile la domanda per tutte le ipotesi previste nel n. 1) dell'articolo in commento. In questo caso il legislatore considera prevalente il dato obiettivo della ripresa della vita familiare come indice del definitivo superamento della causa di scioglimento del vincolo. Fatti non punibili pregiudizievoliIl n. 2 del primo comma dell'art. 3 prevede quali motivi validi per il divorzio alcune pronunce del giudice penale diverse dalle sentenze di condanna e che, tuttavia, evidenziano in modo oggettivo situazioni di impossibilità di prosecuzione o di ripristino della comunione materiale e spirituale tra i coniugi. Gli stessi fatti che la l. n. 898/1970 prende in considerazione per desumerne la gravità del reato e dell'offesa recata all'interesse protetto del coniuge o dei figli, possono fondare la pronuncia di divorzio, anche in assenza di condanna penale, se il giudice civile accerta comunque — cioè autonomamente rispetto al giudizio penale - l'inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare. Anche in caso, infatti, di estinzione del reato o di assoluzione dell'imputato per infermità mentale, possono essere valutate come cause di divorzio i comportamenti del coniuge rilevanti ai sensi delle lettere b) e c) del numero 1), e quindi l'omicidio e il tentato omicidio, i reati contro la libertà personale e quelli in materia di prostituzione. Quanto all'incesto, il procedimento penale può concludersi con sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche nel caso che risulti la mancanza di pubblico scandalo, che è un elemento costitutivo del reato; in tal caso la lettera d) prevede espressamente la rilevanza dell'incesto ai fini della pronuncia di divorzio, a prescindere dall'esistenza del pubblico scandalo, che diviene elemento irrilevante per il giudice civile, in considerazione della gravità che già caratterizza l'offesa all'interesse protetto. Separazione personaleLa lettera b) della disposizione in commento assume come situazione rilevante ai fini del divorzio la cessata convivenza tra i coniugi protratta per un determinato periodo temporale e munita di effetti giuridici in quanto accertata con un provvedimento formale dell'autorità giudiziaria. Due sono le condizioni richieste dalla normativa. Una di esse è costituita dal trascorrere del tempo, successivamente alla cessazione della convivenza: il legislatore l'ha considerata necessaria perché l‘accertamento della finita comunione materiale e morale tra i coniugi risulti fondato su dati oggettivi e dimostrati. Si è inoltre preteso che detta situazione sia accertata con un atto ufficiale e non più controvertibile, per esigenza di certezza nei rapporti giuridici. Entrambe queste condizioni hanno subìto nel tempo variazioni. In origine si era voluto che il lasso temporale di durata della mancata convivenza fosse di un rilievo idoneo a far ritenere il proposito di chiedere il divorzio meditato a sufficienza e frutto di una decisione ponderata, ed esso era stato fissato in tre anni. In seguito è stato ridotto a un anno per la richiesta contenziosa di divorzio e a sei mesi per il divorzio a richiesta congiunta. Inoltre, lo spazio concesso alla libera volontà delle parti anche in tema di diritti personalissimi ha condotto a considerare sufficiente in vece e luogo del provvedimento giudiziale l'accordo tra gli interessati conseguente alla negoziazione assistita o alla dichiarazione effettuata dinanzi all'ufficiale dello stato civile. In particolare, la l. 6 maggio 2015, n. 55, cui si devono importanti modificazioni in questa materia, ha fissato nei seguenti termini le condizioni richieste per il divorzio motivato dalla precedente separazione personale: - la durata minima della separazione è di dodici mesi nel caso in cui la separazione è stata dichiarata in sede contenziosa (separazione giudiziale) anche quando il giudizio contenzioso si è trasformato in consensuale; - la durata minima della separazione è di sei mesi nel caso di separazione giudiziale consensuale, di convenzione di negoziazione assistita, di accordo concluso dinanzi all'ufficiale di stato civile; - in entrambi i casi il termine decorre (secondo la normativa modificata dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, e poi ripresa dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, di riforma del processo civile, che ha soppresso la menzione dell'udienza presidenziale) dalla data della comparizione dei coniugi innanzi al giudice nelle procedure di separazione; ovvero dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da un avvocato ovvero dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale di stato civile. Le Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. 16379/2014) affrontarono il tema del rapporto con il diritto canonico della Chiesa cattolica in un caso in cui la convivenza tra i coniugi si era protratta nonostante l'avvenuta dichiarazione di nullità del loro matrimonio ad opera del giudice ecclesiastico. Esse affermarono che la convivenza come coniugi protratta per almeno tre anni (termine individuato in questa misura perché tanto era in allora richiesto per domandare il divorzio) dalla celebrazione del matrimonio concordatario integra una situazione di ordine pubblico italiano la cui valutazione spetta esclusivamente allo Stato in nome dei principi supremi di laicità che lo caratterizzano (già affermati più volte dalla Corte costituzionale: sentt. n. 18 del 1982 e n. 203 del 1989): con la conseguenza per cui doveva ritenersi inefficace nello Stato la sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio canonico per uno (qualsiasi) dei vizi genetici di esso in quanto risultava che comunque la convivenza dei coniugi si era protratta per un periodo sufficientemente lungo a far ritenere non cessata tra loro la comunione coniugale, presupposto necessario per la dichiarazione di divorzio. Si veda in proposito V. Fasano, L'eccezione di convivenza ultratriennale dei coniugi sotto il profilo dell'anomala convivenza, ilfamiliarista 11-17 marzo 2021. Si veda anche sub art. 2. Del principio così affermato fu però evidenziato il limite applicativo. Il dato di fatto costituito dalla protratta convivenza non poteva essere opposto quale causa impeditiva del divorzio quando la sentenza ecclesiastica di nullità o di annullamento era stata pronunciata per un vizio avente conseguente distruttive della valida instaurazione di un rapporto matrimoniale anche nell'ambito del diritto civile. Fu in proposito affermato che, se pure la convivenza "come coniugi" costituisce un elemento essenziale del "matrimonio-rapporto" e se, anche, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione essa viene a integrare una situazione giuridica di "ordine pubblico italiano", non è di ostacolo alla dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità per vizi genetici del "matrimonio-atto" che siano a loro volta presidiati da nullità nell'ordinamento italiano; in particolare, tale limite non opera rispetto alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità per un vizio psichico che renda incapaci a contrarre matrimonio, corrispondente a quello pure previsto nell'ordinamento italiano dall'art. 120 c.c. (Cass. I, ord. n. 149/2023; Cass. ord. n. 28307/2023). Nello stesso senso Cass. ord. n. 17910/2022 per il caso di dichiarata nullità del matrimonio religioso per errore essenziale sulle qualità personali dell'altro coniuge; e Cass. ord. 18429/2022 per il caso di esclusione dei “bona matrimonii” non rimasta a livello di riserva mentale e con il consenso, o quanto meno con la presa d'atto, dell'altro coniuge. Sotto il profilo processuale, la convivenza ultratriennale costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto, nel giudizio di delibazione, da proporrsi tempestivamente dal convenuto (Cass. ord. n. 20864/2021; Cass. ord. n.11791/2021; Cass. ord. n. 723/2020). La giurisprudenza si è ripetutamente pronunciata sulla natura, sulla ratio normativa e sugli effetti del presupposto costituito dalla protrazione della convivenza come coniugi richiesta dalla legge per un tempo minimo definito. Per Cass. VI, ord. n. 36176/2021, l'art. 3 l. n. 898/1970 dà vita ad una fattispecie complessa che contempla sia l'autorizzazione dei coniugi a vivere separati che la determinazione del periodo temporale minimo della separazione ai fini della proponibilità della domanda di divorzio: la domanda non può trovare accoglimento tanto nell'ipotesi in cui non sia passata in giudicato la pronuncia sulla separazione personale quanto nell'ipotesi in cui il predetto termine dilatorio non sia integralmente decorso. La separazione e la protrazione della mancata convivenza per il tempo voluto dalla legge costituiscono un presupposto indispensabile per la pronuncia di divorzio: sì che nella pendenza del giudizio di divorzio questo deve essere sospeso ex art. 295 c.p.c. se contemporaneamente pende una lite sulla validità dell'accordo di separazione consensuale (Cass. ord. n. 25861/2014). Non hanno rilevanza ai fini della decorrenza del termine né la separazione temporanea disposta in pendenza dell'azione di nullità del matrimonio (art. 126 c.p.c.) né la separazione temporanea autorizzata dal presidente in sede di comparizione dei coniugi (art. 708 c.p.c.). La normativa dettata dall'art. 3 della l. n. 898/1970 giustificava pronunce giurisprudenziali di contenuto rigoroso: “Il termine di durata della separazione deve essere decorso integralmente nel momento in cui il ricorso introduttivo del divorzio è depositato nella cancelleria del tribunale (Cass. n. 18448/2004) e dunque non è proponibile la domanda di divorzio depositata prima del passaggio in giudicato della pronuncia sulla separazione e neppure è rilevante la formazione del giudicato sulla separazione nel corso del procedimento di divorzio” (Cass. n. 1819/1997; Cass. n. 2725/1995). La dottrina si era dichiarata contraria all'orientamento ispiratore di queste pronunce e faceva notare che già l'autorizzazione presidenziale a vivere separati forniva una data certa all'inizio della separazione giuridicamente rilevante, con una efficacia, dell'ordinanza, persistente pur dopo l'estinzione del giudizio. Ciò che dovrebbe avere importanza, si era affermato, è che comunque sia trascorso il periodo di mancata convivenza richiesto dalla legge. Alcune decisioni si sono occupate di aspetti diversi. Per la giurisprudenza: è sufficiente che sia divenuto definitivo il capo di pronuncia della separazione, essendo irrilevante che la sentenza stessa sia stata impugnata nel solo capo relativo ai provvedimenti consequenziali (Cass. n. 416/2000); la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere proposta anche se la sentenza di separazione è stata impugnata relativamente all'affidamento dei figli e all'assegnazione della casa coniugale (Cass. n. 40/2013). In tutte queste situazioni sul capo della sentenza che ha pronunciato la separazione, in quanto non soggetto ad appello, si forma il giudicato interno, sì che la domanda di divorzio può essere legittimamente proposta. La giurisprudenza di merito si è pronunciata nel solco dei principi indicati dal giudice di legittimità. Si è, ad esempio, concordato nell'affermare che per configurare l'ipotesi di cui al n. 2, lett. b), occorrono due presupposti: che la pronuncia di separazione sia passata in giudicato (ovvero sia stata omologata la separazione consensuale), e il passaggio di un certo periodo di tempo. In mancanza di giudicato sulla separazione alla data di proposizione del ricorso per il divorzio, la domanda è improponibile (Trib. Padova I, 14 ottobre 2005). Il termine dilatorio di dodici mesi della protrazione dello stato di separazione dei coniugi dalla loro comparizione innanzi al [presidente del tribunale] non è soggetto alla sospensione feriale, non avendo natura né di termine processuale né di termine di decadenza sostanziale (Cass. VI, ord. n. 36176/2021). La decorrenza del termine rimane la medesima anche in caso di estinzione del giudizio contenzioso: al fine della proponibilità della domanda di divorzio, che venga fondata su sentenza di separazione giudiziale ovvero su omologazione di separazione consensuale, e per il caso in cui vi sia stato in precedenza un altro procedimento di separazione, poi estintosi, la comparizione dei coniugi davanti al presidente del tribunale, in detta pregressa procedura, è idonea a segnare il giorno iniziale per il computo del prescritto periodo di ininterrotta separazione, tenuto conto che tale comparizione personale comporta la formale constatazione della volontà dei coniugi di cessare la convivenza, e che gli effetti della stessa non restano travolti dall'estinzione del relativo processo (Cass. I, n. 139/2014; Cass. I, n. 15157/2005). La riforma del processo introdotta con il ricordato d.lgs. n. 149/2022 ha tenuto conto di esigenze espresse dagli operatori e dalla stessa giurisprudenza. L'art. 473-bis.49 consente la proposizione contestuale alla domanda di separazione personale della domanda di divorzio e risolve il cumulo tra esse nel medesimo processo con il disporre che le domande così proposte sono procedibili decorso il termine a tal fine previsto dalla legge e previo passaggio in giudicato della sentenza che pronuncia la separazione personale. Il termine è di sei mesi nel caso: - della negoziazione assistita da un avvocato, introdotta con d.l. 12 settembre 2014 n. 132, convertito, con modificazioni, dalla l. 10 novembre 2014, n. 162. Il termine decorre dalla data certificata nell'accordo di separazione raggiunto a seguito della negoziazione assistita; - dalla data dell'atto contenente l'accordo di separazione concluso innanzi all'ufficiale dello stato civile, come disposto dall'art. 12, comma 4, d.l. 12 settembre 2014 n. 132, convertito, con modificazioni, dalla l. 10 novembre 2014, n. 162, che in tal senso ha modificato il testo dell’art. 3 l. n. 898/1970. A livello pratico, in assenza di elementi di segno contrario, il passaggio del tempo previsto dalla norma e la mancata ripresa della convivenza sono dati istruttori sufficienti per la pronuncia di divorzio: in materia di separazione tra i coniugi, qualora si sia protratto lo stato di separazione tra i medesimi per il periodo previsto dalla legge, e non sia intervenuta riconciliazione ricorrono gli estremi previsti dall'art. 3 n. 2 lett. b) l. n. 898/1970 e successive modifiche per la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, dovendosi ritenere accertato che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita (Trib. Milano, IX, 5 marzo 2014, n. 3115). Un ulteriore elemento di convincimento risiede nel fallimento del tentativo di conciliazione esperito in fase presidenziale anche nel procedimento di divorzio (Trib. Milano, IX, 13 marzo 2013, n. 3446). Parimenti assume rilievo l'adesione alla domanda di scioglimento del vincolo proposta ex adverso (Trib. Bari, I, 23 marzo 2012, n. 1062, giurisprudenzabarese.it 2012), così come la volontà espressa da entrambi i coniugi all'udienza in camera di consiglio (Trib. Torre Annunziata, 6 novembre 2012, n. 1052), come avviene nel caso del ricorso a domanda congiunta (Trib. Vicenza, II, 18 giugno 2012, n. 652, Guida dir. 2012, 42, 99). La regola della previa separazione per un determinato periodo di tempo non è adottata da tutti gli ordinamenti giuridici diversi dal nostro. In proposito la Corte di cassazione (Cass. I, ord. n. 12473/2018) ha affermato che la diversità in proposito non è di ostacolo al riconoscimento in Italia della sentenza straniera per quanto concerne il rispetto dell'ordine pubblico, richiesto dall'art. 64, comma 1, l. n. 218 del 1995, essendo a tal fine necessario, ma anche sufficiente, che il divorzio segua all'accertamento dell'irreparabile venir meno della comunione di vita tra i coniugi. Ancora per il giudizio ai sensi della l. n. 898/1970: Alla luce delle novità introdotte con l. n. 55/2015, in caso di separazione consensuale il termine semestrale per la proposizione del ricorso per divorzio decorre dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente che li autorizza a vivere separati (art. 708 c.p.c): in caso di separazione giudiziale trasformata in consensuale il termine semestrale decorre ugualmente dall'udienza ex art. 708 c.p.c. e non da quella ex art. 711 c.p.c., altrimenti si creerebbe una inutile disparità di trattamento, peraltro contraria ai principi del giusto processo ex art. 101 Cost., e all'obiettivo stesso enunciato dalla novella legislativa, che è quello di ridurre i tempi necessari allo scioglimento del vincolo (Trib. Milano, IX, 9 luglio 2015, n. 37959). Trasformazione della separazioneIl processo contenzioso di separazione personale dei coniugi si caratterizza, tra l'altro, per la possibilità che il giudizio ordinario di cognizione si trasformi in una diversa procedura, che definisce il giudizio senza dover estinguere la prima né procedere a nuova iscrizione. Ciò accade quando tra i coniugi interviene una sorta di parziale conciliazione: se tra i coniugi interviene un nuovo accordo totale si ha la riconciliazione, che appunto estingue il giudizio perché i coniugi riprendono la vita comune matrimoniale. Se, invece, tra i coniugi viene raggiunto un accordo sulle condizioni di separazione, la situazione che viene a determinarsi è identica a quella della separazione consensuale, e in questo caso non occorre estinguere il giudizio contenzioso e iscrivere a ruolo un nuovo ricorso per separazione consensuale, ma il giudice istruttore può disporre con ordinanza la trasformazione del rito rimettendo le parti al presidente del tribunale, per un'udienza di comparizione coniugi quale prevista nel giudizio consensuale. La trasformazione — una peculiarità del procedimento di separazione - trova fondamento normativo specifico nel 3° comma, n. 2), lett. b), capoverso, dell'articolo in commento, che prevede, come condizione di proponibilità della domanda di divorzio, che il termine, previsto dallo stesso articolo, decorre «anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale». In caso di trasformazione della separazione giudiziale in consensuale si applica quindi il termine semestrale. Ancora per il giudizio ai sensi della l. 898/1970: Alla luce delle novità introdotte con l. n. 55/2015, in caso di separazione consensuale il termine semestrale per la proposizione del ricorso per divorzio decorre dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente che li autorizza a vivere separati (art. 708 c.p.c): in caso di separazione giudiziale trasformata in consensuale il termine semestrale decorre ugualmente dall'udienza ex art. 708 c.p.c. e non da quella ex art. 711 c.p.c., altrimenti si creerebbe una inutile disparità di trattamento, peraltro contraria ai principi del giusto processo ex art. 101 Cost., e all'obiettivo stesso enunciato dalla novella legislativa, che è quello di ridurre i tempi necessari allo scioglimento del vincolo (Trib. Milano, IX, 9 luglio 2015, n. 37959). Interruzione della separazioneL'ultimo periodo della lettera b), punto 2) nel primo comma dell'art. 3, dispone che « l'eventuale interruzione della separazione deve essere eccepita dalla parte convenuta ». La separazione deve protrarsi per tutto il tempo richiesto dalla legge senza interruzione. Se questa si verifica, l'evento interruttivo può essere considerato come occasione che ripristina la convivenza e dunque come situazione oggettiva che preclude l'azione di divorzio. Spetta pertanto a chi si oppone alla domanda di divorzio allegare la circostanza ostativa nella forma di una eccezione. La normativa sul divorzio non menziona come evento interruttivo della vita separata, significativo a precludere il divorzio nel suo requisito di protratta non convivenza, la riconciliazione dei coniugi. Questa circostanza è invece considerata dal codice civile in relazione al giudizio di separazione, dagli artt. art. 154 (riconciliazione nel corso del giudizio, cui consegue l'abbandono della domanda) e 157 (riconciliazione successiva alla sentenza di separazione, cui consegue la cessazione dei suoi effetti). La detta normativa sul divorzio menziona unicamente l'interruzione, quale situazione idonea a incidere sulla protrazione della mancata convivenza che costituisce uno dei presupposti per lo scioglimento del matrimonio o per la cessazione dei suoi effetti civili. La dottrina si è chiesta se alla nozione di interruzione di cui all'art. 3 l. n. 898/1970 possa essere ricondotta quella di riconciliazione menzionata a proposito della separazione per farne derivare le medesime conseguenze con riguardo al giudizio di divorzio. Per alcune opinioni i due concetti non coincidono in quanto l'interruzione non è altro che un presupposto in fatto della riconciliazione, la quale implica in più la vera e propria ripresa della comunione coniugale. Altri autori, e la giurisprudenza, richiamano per il divorzio il dettato dell'art. 157 c.c., per il quale la separazione può dirsi interrotta soltanto quando i coniugi ricostituiscono l'unità familiare con l'animus di comportarsi nuovamente come uniti dalla comunanza di vita e dall'osservanza dei doveri materiali e spirituali che caratterizzano il rapporto di coniugio. In questo ordine di idee non sono significativi di una effettiva interruzione della separazione episodi sporadici di ripresa della coabitazione o gli incontri occasionali, anche di natura sessuale. Acquista rilevanza fra coniugi separati l'inequivoca intenzione di dar nuova vita all'unione coniugale, non essendone espressione il ritrovarsi per le vacanze o i fine settimana e tanto meno la cura prestata al coniuge bisognoso oppure la presenza in occasione di ricorrenze e festività. Nel divorzio, più che alla riconciliazione formale, viene dato rilievo al dato oggettivo della interruzione della separazione, la durata protratta e continuativa della quale costituisce, appunto, un presupposto del divorzio. Occorre però che la ripresa della convivenza abbia caratteristiche inequivocabili: per interrompere gli effetti della separazione ai fini della dichiarazione di scioglimento del matrimonio, la ripresa della convivenza non deve essere caratterizzata da temporaneità, essendo necessaria una concreta ricostruzione del preesistente vincolo coniugale nella sua peculiare essenza materiale e spirituale (Cass. VI, n. 27386/2014: rigettato, nella specie, il ricorso della ex moglie avverso la sentenza della Corte di merito che aveva confermato lo scioglimento del matrimonio, atteso che non vi era alcuna prova della dedotta riconciliazione tra le parti dal momento che l‘ex marito usava la casa coniugale come alloggio quando usciva dal carcere ove era detenuto). Poiché lo stato di separazione dei coniugi concreta un requisito dell'azione, la sua interruzione deve essere eccepita dalla parte convenuta (Cass. I, n. 22346/2004). Essa costituisce un'eccezione in senso stretto e pertanto deve essere dedotta dalla parte interessata e non può essere rilevata d'ufficio (Cass. n. 23510/2010). L'eccezione di riconciliazione è soggetta a specifici limiti temporali: nei giudizi di divorzio l'eccezione di sopravvenuta riconciliazione non è rilevabile d'ufficio e deve essere tempestivamente proposta esclusivamente ad istanza della parte convenuta, in quanto non ne è ammissibile la successiva proposizione da parte del coniuge che aveva chiesto il divorzio (Cass. I, n. 11885/2015: nella specie, è stata cassata la sentenza di merito che aveva invece accolto l'eccezione di riconciliazione proposta dalla ricorrente, dopo che il marito, costituendosi, aveva aderito alla domanda di divorzio, sussistendo però contrasto quanto ai profili economici). Ne consegue anche che nel giudizio di divorzio l'eccezione è improponibile per la prima volta in appello (Cass. I, n. 19535/2014; Cass. I, n. 23510/2010). Quanto alla prova, deve attribuirsi prevalente valore, piuttosto che ad elementi psicologici e soggettivi, a quelli esteriori, oggettivamente diretti a dimostrare la volontà dei coniugi di ripristinare la comunione di vita, quali la ripresa della convivenza e le sue modalità (Cass. I, n. 21001/2008); tuttavia essa può risultare anche da precedenti atti processuali: osta alla pronuncia del divorzio l'esibizione di una espressa dichiarazione dei coniugi relativa alla loro intervenuta riconciliazione, verbalizzata in un precedente giudizio di divorzio tra le stesse parti, non essendo invece necessaria anche la prova dell'effettivo ripristino della convivenza (Cass. VI, n. 334/2012). Il coniuge che ha interesse a far accertare l'avvenuta riconciliazione, dopo la separazione, ha l'onere di fornire una prova piena e incontrovertibile della ricostituzione del consorzio familiare, che il giudice di merito è chiamato a verificare, compiendo un apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, in presenza di una motivazione adeguata ed esaustiva. Tipica della pronuncia sul divorzio, una volta intervenuto il giudicato, è l'impossibilità di far cessare gli effetti della statuizione con la riconciliazione, come previsto nell'art. 157 c.c. in tema di separazione. Per il ripristino dello status occorre un nuovo matrimonio. Invece, se la separazione tra i coniugi scioglie la loro comunione legale, la riconciliazione ripristina automaticamente il regime comunitario antecedente, salvi gli acquisti effettuati durante il periodo di separazione (Cass. II, ord. n. 6820/2021). Divorzio o matrimonio dell'altro coniugeLa lettera e) dell'articolo in commento prevede come motivo per chiedere il divorzio il caso in cui l'altro coniuge, cittadino straniero, ha ottenuto all'estero l'annullamento o lo scioglimento del matrimonio valido in Italia o ha contratto all'estero un nuovo matrimonio. La situazione così individuata trova la sua evidente giustificazione nell'incompatibilità della prosecuzione della comunione coniugale con una persona che, grazie a normative straniere e alla sua particolare posizione soggettiva, si è sciolto dal vincolo o ne contrae un altro. L'evento in questione ha per presupposto che la pronuncia straniera, di annullamento o di scioglimento del matrimonio, possa essere fatta valere in Italia e quivi delibata o riconosciuta; mentre la duplicità dei matrimoni risulta, di per sé e in genere per documenti inoppugnabili, come circostanza di intrinseca incompatibilità. In proposito valgono le regole generali in tema di efficacia nell'ordinamento interno delle sentenze e degli altri provvedimenti di volontaria giurisdizione stranieri, dettate dagli artt. da 64 a 71 della l. n. 218/1995 e dalle convenzioni internazionali in materia matrimoniale esecutive nel nostro Stato. Si tratta di un elemento di evidente valenza obiettiva. La sua rilevanza prescinde dall'intervenuta delibazione o meno della sentenza straniera, o dalla trascrizione del matrimonio straniero negli atti dello stato civile italiano. Quello che rileva ai fini del divorzio è che all'estero sia stata emanata una sentenza dichiarativa dell'annullamento o dello scioglimento del matrimonio, avente efficacia per l'ordinamento estero, e che ciò sia avvenuto su iniziativa dell'altro coniuge; ovvero che l'altro coniuge abbia contratto all'estero un matrimonio con altra persona, avente efficacia per l'ordinamento estero. Il testo della disposizione dettata dall'art. 3 l. n. 898/1970 attribuisce il diritto a proporre la richiesta di divorzio al coniuge diverso da quello che si trova nella condizione descritta dalla norma. La prevalente dottrina fa leva sul chiaro dato testuale per negare legittimazione all'azione di divorzio al coniuge che ha dato causa a quella condizione. In contrario si è osservato che si dovrebbe tener conto della ratio legislativa, per la quale ciò che ha rilevanza come motivo per il venir meno degli effetti giuridici del vincolo matrimoniale è l'accertata e irreversibile cessazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo escluso la legittimazione all'azione del coniuge che ha ottenuto il divorzio o l'annullamento all'estero (Cass. S.U. 2126/1974). E' stata attribuita rilevanza anche al provvedimento straniero avente forma diversa dalla sentenza quando idoneo a conferire lo stato libero, l'unico requisito essendo che si tratti di un atto definitivo. Il soggetto passivo dell'azione è il cittadino straniero, non avente cittadinanza italiana neppure come doppia cittadinanza. Allo straniero è equiparato l'apolide. InconsumazioneLa lettera f) dell'articolo in commento prevede come causa di divorzio la mancata consumazione del matrimonio. La mancata consumazione del matrimonio costituisce una situazione che nel diritto canonico preclude una delle finalità essenziali del sacramento del coniugio, costituita dal perseguimento dello scopo della procreazione. Il difetto di questo requisito (matrimonio rato e non consumato) impedisce ad un evento umano di trasformarsi in un sacramento: e, per il caso in cui tale difetto sia accertato, la Chiesa cattolica prevede una speciale dispensa dal vincolo che si sostanzia, in pratica, in un annullamento. Al riguardo, ciò che assume importanza per il diritto canonico è l'atto sessuale idoneo alla procreazione, con assoluta irrilevanza giuridica degli atti sessuali privi di questa caratteristica. Il nostro ordinamento si è progressivamente distaccato da questa concezione. Per il diritto civile la procreazione non rientra tra i fini essenziali per la sussistenza e la validità del matrimonio; e la nozione di consumazione comprende tutti gli atti cui può essere attribuito un connotato di soddisfacimento della pulsione sessuale. Ciononostante, secondo l'originario Concordato, la dispensa ecclesiastica per nullità del matrimonio rato e non consumato, in quanto privo degli specifici atti finalizzati alla procreazione, poteva essere dichiarata automaticamente esecutiva agli effetti civili. Essa, in pratica, costituiva giudicato efficace come tale nell'ordinamento italiano. La Corte costituzionale dichiarò (2 aprile 1982, n. 18) contrario ai principi di tutela dell’ordine pubblico italiano un effetto automatico di tale genere. I successivi accordi di Villa Madama dell’84, recepiti dalla l. 25 marzo 1985, n. 121, di revisione del Concordato, disposero che la delibazione delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale emesse da un Tribunale Ecclesiastico è possibile solo dopo che sul provvedimento canonico è stato effettuato il vaglio della Corte d’Appello italiana (c.d. giudizio di delibazione). Infatti, ai sensi dell'articolo 8, n. 2), dell'Accordo di revisione del Concordato, le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio possono essere rese esecutive nella Repubblica Italiana mediante uno speciale procedimento innanzi la Corte di Appello territorialmente competente. La conseguente autonomia dei due ordinamenti, canonico e italiano, comporta attualmente valutazioni separate; ciò che è rilevante per l’uno non necessariamente è produttivo di effetti per l’altro. E così, tornando in argomento, per il nostro diritto la non consumazione del matrimonio, per avere rilievo ai fini del divorzio, deve rappresentare una manifestazione concreta della cessata comunione d'affetti tra i coniugi. L'unione di due persone implica l'aspettativa reciproca di trovare appagamento nelle naturali aspirazioni a una vita sessuale completa, fondata sul consenso, sulla compartecipazione e sull'intesa. Il mancato compimento di atti satisfattivi di questo genere è sintomo di distanza tra i coniugi (se non dovuto a vecchiaia o a malattia) e ne vizia profondamente la comunanza di vita. Tanto assodato, la dottrina controverte, poi, sulla nozione di atto sessuale rilevante per il nostro ordinamento e discute sul concetto di “normalità” con riferimento all'ordinario rapporto matrimoniale e sul suo connotato di atto completo, quale quello naturalmente occorrente per la procreazione. Si propende a ritenere che la valutazione debba dipendere dalle aspettative che ciascun coniuge poteva nutrire nel contrarre il vincolo. La mancata consumazione opera quale fatto oggettivo, essendo irrilevante la causa dalla quale provenga. Un orientamento che appare condivisibile vuole che il presupposto per il divorzio ricorra anche quando la consumazione è effettuata ma senza la partecipazione della volontà di uno dei coniugi, come avviene nei casi di violenza o di narcosi. L'azione di divorzio può essere esercitata da entrambi i coniugi, senza limiti di tempo. E' tuttavia discusso se la legittimazione spetti a soggetti che si sposano in età avanzata, nella quale in genere il matrimonio si fonda su esigenze diverse da quelle del sesso, divenuto, in genere, non più praticabile. La principale questione che si pone nel giudizio riguarda la dimostrazione della mancata effettuazione degli atti sessuali. Poiché la prova può essere data con ogni mezzo, soccorrono le consulenze tecniche e le presunzioni; non rilevano le dichiarazioni delle parti, la confessione e il giuramento; e le testimonianze sono affidabili soltanto se le circostanze di fatto appaiono tali da rendere verosimili, se non certe, le affermazioni per tal modo acquisite. Si discute in dottrina sull'ammissibilità della richiesta congiunta di divorzio per mancata consumazione: si rileva da alcuni che nel caso affermativo si eluderebbero le disposizioni sulla simulazione del matrimonio (art. 123 c.c.). Una eventuale istanza di risarcimento danni deve comunque passare attraverso la sentenza di divorzio: la sistemazione dei rapporti tra i coniugi ha la sua sede appropriata nel giudizio e non è ammissibile un'azione autonoma. La non consumazione del matrimonio ex art. 3, n. 2 , lett. f) della l. n. 898 del 1970 non incide, di per sé, sull'esistenza e sulla validità giuridica del matrimonio, come atto e come rapporto, ma è causa di scioglimento del matrimonio civile o di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, cosicché essa non tocca - di per sé - la validità e idoneità del matrimonio a produrre effetti sino al passaggio in giudicato della sentenza di divorzio, né incide sull'applicabilità della normativa relativa all'assegno divorzile, potendo la mancata unione sessuale concorrere soltanto a formare la presunzione della mancanza di comunione spirituale e materiale tra coniugi, senza integrare - come nel diritto canonico - una presunzione assoluta di assenza del sacramento del matrimonio; l'accertamento sul punto costituisce apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità se correttamente e adeguatamente motivato (Cass. I, n. 3645/2023). .Siccome la coabitazione dopo il matrimonio consente di presumere che il matrimonio sia stato consumato, in caso di assenza di coabitazione la consumazione non può essere presunta e la parte che l'abbia dedotta come causa di divorzio (art. 3, comma 2, lett. f), l. n. 898 del 1970) non ha l'onere di fornire la prova di tale circostanza negativa, dovendo — al contrario — in tal caso presumersi l'inconsumazione, senza che peraltro a tal fine rilevi la circostanza che i coniugi avessero già un figlio prima del matrimonio, giacché il concepimento potrebbe essere avvenuto senza l'atto di consumazione, ma soprattutto perché l'inconsumazione non deve essere considerata sotto l'aspetto meramente naturalistico. In buona sostanza, il presupposto per l'accoglimento della domanda di divorzio per inconsumazione è dato dalla circostanza della mancanza di coabitazione dopo le nozze e dell'inesistenza — la cui prova può avvenire anche attraverso presunzioni — di un'unione fisica tra i coniugi dopo il matrimonio (Trib. Modena, 7 marzo 2005, Giurisprudenza locale - Modena 2008: nel caso di specie era stato provato per testi — genitori dei coniugi — che il matrimonio era stato celebrato al solo scopo di riconoscere e legittimare il minore e che i coniugi non avevano mai coabitato prima del matrimonio, continuando a vivere, anche dopo la celebrazione, nelle case dei rispettivi genitori). La mancata consumazione ai fini della pronuncia di scioglimento del matrimonio ai sensi dell'art. 3 comma 2 lett. f) l. 1 dicembre 1970, n. 898 può ritenersi provata, anche in assenza di un accertamento effettivo della circostanza, dalla mancata costituzione in giudizio della convenuta e dalla prova dell'accordo dei coniugi per la simulazione del matrimonio finalizzato all'acquisto della cittadinanza italiana da parte della moglie (Trib. Modena, 27 febbraio 2004, Gius. 2004, 2444; Il civilista 2009, 6, 12). Nell'ipotesi in cui l'inconsumazione del matrimonio civile sia stata dai nubendi preordinata — come avviene qualora il matrimonio sia simulato in quanto, ad esempio, celebrato al solo fine di far acquistare alla moglie la cittadinanza italiana — per sciogliere il vincolo la legge accorda due distinti rimedi: il primo consiste nel dedurre l'invalidità del matrimonio nel termine di decadenza di cui all'art. 123 c.c.; il secondo, nel proporre domanda di divorzio per inconsumazione ex art. 3, n. 2, lett. f), della legge n. 898/1970, rimedio che ben può essere fatto valere anche quando sia già maturato il termine di decadenza previsto per l'azione di simulazione e tra i coniugi non si sia mai instaurata una comunione spirituale e materiale (Trib. Salerno I, 9 agosto 2007, n. 1909, Il merito 2008, 14). Mutamento di sessoLa lettera g) dell'articolo in commento prevede come causa di divorzio il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 164. L'art. 4 l. 14 aprile 1982, n. 164 prevede, infatti, che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Per coordinare la disciplina del divorzio con quella della rettificazione di sesso la l. n. 74/1987 introdusse nell'art. 3 della legge divorzio la disposizione dettata dalla ricordata lettera g), che considera quale situazione legittimante la richiesta di scioglimento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili appunto l'intervenuto mutamento ufficiale del sesso di uno dei soggetti. Le citate disposizioni di cui alla l. n. 164/1982 e alla l. n. 898/1970 hanno assunto, nel tempo e nell'evoluzione normativa, un contenuto notevolmente diverso da quello che si desume dal loro dato testuale. Esse si rifacevano, in origine, alle norme del codice civile per le quali requisito essenziale del matrimonio era la diversità di sesso tra i coniugi. Ne seguiva una interpretazione dovuta: la sentenza di rettificazione e di attribuzione di un sesso diverso ad uno dei coniugi cagionava automaticamente lo scioglimento del matrimonio e legittimava il divorzio senza necessità di intraprendere l'apposito procedimento giurisdizionale. Sarebbe, altrimenti, esistito nel tempo occorrente a pronunciare il provvedimento giudiziale un vincolo coniugale tra soggetti aventi lo stesso sesso. Sulla coerenza di questo sistema intervenne la menzionata legge n. 74/1987, la quale dispose che il divorzio poteva essere chiesto dopo il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione e di attribuzione di sesso. Ne conseguivano vari interrogativi in via di interpretazione e di applicazione. Ci si chiese se la disposizione doveva essere intesa come confermativa dell'assetto precedente; o come frutto di una non voluta incongruenza; oppure come fonte della validità e dell'efficacia del matrimonio tra due persone del medesimo sesso per tutto il lasso temporale intercorrente tra la rettifica e la sentenza di divorzio su tale circostanza. Un dato non poteva essere dimenticato. Il divorzio è legato all'istanza della parte che vi deve avere interesse e all'accertamento che della causa giustificatrice ne faccia il giudice: pertanto non sarebbe stato possibile fare a meno di riconoscere che nel frattempo risultavano essere coniugi persone aventi identico sesso. Si fece strada una tesi che cercava di ricomporre il quadro. Si affermò che la rettifica del sesso produceva automaticamente le sue conseguenze sul matrimonio e che la pronuncia di divorzio assumeva la funzione di definire formalmente i diritti e gli obblighi conseguenti alla già avvenuta cessazione del vincolo per gli effetti civili. Si affermò, anche, che la sentenza di divorzio aveva la sola natura di una dichiarazione dell'effetto già verificatosi. E si giunse a ritenere che la sentenza di rettifica di sesso di un coniuge legittimava l'ufficiale dello stato civile ad annotare nell'atto di matrimonio l'avvenuto suo scioglimento, essendo chiaramente venuto meno il presupposto indispensabile della diversità sessuale tra i coniugi. In questo contesto intervenne la decisione della Corte costituzionale (Corte cost., n. 170/2014) che dichiarò l'illegittimità degli artt. 2 e 4 della l. n. 164/1982 nella parte in cui non prevedevano che la sentenza di attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che pure provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione dei suoi effetti civili conseguenti alla trascrizione, consenta comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente rilevante perché disciplinato dalla legge. Si desumeva dalla pronuncia che in conseguenza dell'attribuzione del sesso il rapporto di coppia non ne veniva annullato e che, se non poteva più essere considerato come matrimonio, esso aveva ugualmente una sua esistenza e una realtà, fonti di obblighi e diritti reciproci, secondo un regime che spettava al legislatore ordinario di determinare. La comune volontà dei componenti la coppia, in sostanza, anche se non idonea a impedire lo scioglimento del matrimonio, poteva e doveva trasformare il precedente rapporto matrimoniale in un vincolo di convivenza degno di avere dignità giuridica. La giurisprudenza ordinaria aveva ripreso le ragioni della pronuncia costituzionale. Cass. I, n. 8097/2015 ad esempio affermò che la rettificazione di attribuzione di sesso di persona coniugata non poteva comportare, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164, operata con la sentenza, additiva di principio, n. 170 del 2014 della Corte costituzionale, la caducazione automatica del matrimonio, poiché non è costituzionalmente tollerabile, attesa la tutela di cui godono le unioni tra persone dello stesso sesso ai sensi dell'art. 2 Cost., una soluzione di continuità del rapporto, tale da determinare una situazione di massima indeterminatezza del nucleo affettivo già costituito, sicché il vincolo deve proseguire, con conservazione ai coniugi del riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al matrimonio, sino a quando il legislatore non fosse intervenuto per consentire alla coppia di mantenere in vita il rapporto con altra forma di convivenza registrata che ne potesse tutelare adeguatamente diritti ed obblighi. Sul punto è poi intervenuta la l. n. 76/2016. Essa, al comma 27 dell'art. 1, dispone che in conseguenza della rettificazione di sesso, ove i coniugi manifestino la volontà di non sciogliere il loro rapporto o di non farne cessare gli effetti civili, si verifica l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. Il matrimonio è automaticamente sciolto o ne cessano gli effetti civili per effetto di un evento che lo priva di una condizione costitutiva essenziale ma la legge consente alle parti di trasformare il loro rapporto in un altro riconosciuto dall'ordinamento, del quale l'identità dei sessi viene a dar luogo ad un presupposto costitutivo. Non avviene, tuttavia, l'inverso. L'unione civile non può trasformarsi in matrimonio in conseguenza della rettificazione di sesso che lo consentirebbe, atteso che il matrimonio richiede condizioni e formalità apposite, previste per la sua stessa esistenza giuridica. Come per tutte le altre ipotesi, peraltro, anche in questo caso per lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili occorre la domanda di parte. È da escludere, quindi, che l'ufficiale di stato civile possa annotare lo scioglimento del vincolo matrimoniale sulla base della sola pronuncia della sentenza definitiva di mutamento di sesso, al momento della sua annotazione negli atti relativi all'interessato (Cass. I, n. 8097/2015). Non potrà essere annotato lo scioglimento del matrimonio a seguito della rettificazione dello stato civile di uno dei coniugi, qualora le parti intendano mantenere il vincolo coniugale (Trib. Roma, I, 5 aprile 2016). Lo stesso art. 4 l. 14 aprile 1982, n. 164, inoltre, dispone che in tal caso «si applicano le disposizioni del codice civile e della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni; la prosecuzione del rapporto è possibile nelle forme previste dalla l. 20 maggio 2016, n. 76 (Trib. Roma I, 3 maggio 2016). 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