Legge - 20/05/2016 - n. 76 art. 1Art. 1 (A) 1. La presente legge istituisce l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto. 2. Due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un'unione civile mediante dichiarazione di fronte all'ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni. 3. L'ufficiale di stato civile provvede alla registrazione degli atti di unione civile tra persone dello stesso sesso nell'archivio dello stato civile. 4. Sono cause impeditive per la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso: a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un'unione civile tra persone dello stesso sesso; b) l'interdizione di una delle parti per infermita' di mente; se l'istanza d'interdizione e' soltanto promossa, il pubblico ministero puo' chiedere che si sospenda la costituzione dell'unione civile; in tal caso il procedimento non puo' aver luogo finche' la sentenza che ha pronunziato sull'istanza non sia passata in giudicato; c) la sussistenza tra le parti dei rapporti di cui all'articolo 87, primo comma, del codice civile; non possono altresi' contrarre unione civile tra persone dello stesso sesso lo zio e il nipote e la zia e la nipote; si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 87; d) la condanna definitiva di un contraente per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l'altra parte; se e' stato disposto soltanto rinvio a giudizio ovvero sentenza di condanna di primo o secondo grado ovvero una misura cautelare la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso e' sospesa sino a quando non e' pronunziata sentenza di proscioglimento. 5. La sussistenza di una delle cause impeditive di cui al comma 4 comporta la nullita' dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. All'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano gli articoli 65 e 68, nonche' le disposizioni di cui agli articoli 119, 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129 e 129-bis del codice civile. 6. L'unione civile costituita in violazione di una delle cause impeditive di cui al comma 4, ovvero in violazione dell'articolo 68 del codice civile, puo' essere impugnata da ciascuna delle parti dell'unione civile, dagli ascendenti prossimi, dal pubblico ministero e da tutti coloro che abbiano per impugnarla un interesse legittimo e attuale. L'unione civile costituita da una parte durante l'assenza dell'altra non puo' essere impugnata finche' dura l'assenza. 7. L'unione civile puo' essere impugnata dalla parte il cui consenso e' stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravita' determinato da cause esterne alla parte stessa. Puo' essere altresi' impugnata dalla parte il cui consenso e' stato dato per effetto di errore sull'identita' della persona o di errore essenziale su qualita' personali dell'altra parte. L'azione non puo' essere proposta se vi e' stata coabitazione per un anno dopo che e' cessata la violenza o le cause che hanno determinato il timore ovvero sia stato scoperto l'errore. L'errore sulle qualita' personali e' essenziale qualora, tenute presenti le condizioni dell'altra parte, si accerti che la stessa non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purche' l'errore riguardi: a) l'esistenza di una malattia fisica o psichica, tale da impedire lo svolgimento della vita comune; b) le circostanze di cui all'articolo 122, terzo comma, numeri 2), 3) e 4), del codice civile. 8. La parte puo' in qualunque tempo impugnare il matrimonio o l'unione civile dell'altra parte. Se si oppone la nullita' della prima unione civile, tale questione deve essere preventivamente giudicata. 9. L'unione civile tra persone dello stesso sesso e' certificata dal relativo documento attestante la costituzione dell'unione, che deve contenere i dati anagrafici delle parti, l'indicazione del loro regime patrimoniale e della loro residenza, oltre ai dati anagrafici e alla residenza dei testimoni. 10. Mediante dichiarazione all'ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte puo' anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all'ufficiale di stato civile. 11. Con la costituzione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacita' di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. 12. Le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato. 13. Il regime patrimoniale dell'unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, e' costituito dalla comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacita' per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non possono derogare ne' ai diritti ne' ai doveri previsti dalla legge per effetto dell'unione civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. 14. Quando la condotta della parte dell'unione civile e' causa di grave pregiudizio all'integrita' fisica o morale ovvero alla liberta' dell'altra parte, il giudice, su istanza di parte, puo' adottare con decreto uno o piu' dei provvedimenti di cui all'articolo 342-ter del codice civile. 15. Nella scelta dell'amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, la parte dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. L'interdizione o l'inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell'unione civile, la quale puo' presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa. 16. La violenza e' causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni dell'altra parte dell'unione civile costituita dal contraente o da un discendente o ascendente di lui. 17. In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennita' indicate dagli articoli 2118 e 2120 del codice civile devono corrispondersi anche alla parte dell'unione civile. 18. La prescrizione rimane sospesa tra le parti dell'unione civile. 19. All'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni di cui al titolo XIII del libro primo del codice civile, nonche' gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma, numero 4), e 2659 del codice civile. 20. Al solo fine di assicurare l'effettivita' della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall'unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonche' negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonche' alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti. 21. Alle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V-bis del titolo IV del libro secondo del codice civile. 22. La morte o la dichiarazione di morte presunta di una delle parti dell'unione civile ne determina lo scioglimento. 23. L'unione civile si scioglie altresi' nei casi previsti dall'articolo 3, numero 1) e numero 2), lettere a), c), d) ed e), della legge 1° dicembre 1970, n. 898. 24. L'unione civile si scioglie, inoltre, quando le parti hanno manifestato anche disgiuntamente la volonta' di scioglimento dinanzi all'ufficiale dello stato civile. In tale caso la domanda di scioglimento dell'unione civile e' proposta decorsi tre mesi dalla data della manifestazione di volonta' di scioglimento dell'unione. 25. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 4, 5, primo comma, e dal quinto all'undicesimo comma, 8, 9, 9-bis, 10, 12-bis, 12-ter, 12-quater, 12-quinquies e 12-sexies della legge 1° dicembre 1970, n. 898, nonche' le disposizioni di cui al Titolo II del libro quarto del codice di procedura civile ed agli articoli 6 e 12 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 1621. 26. La sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell'unione civile tra persone dello stesso sesso 2. 27. Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volonta' di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l'automatica instaurazione dell'unione civile tra persone dello stesso sesso. 28. Fatte salve le disposizioni di cui alla presente legge, il Governo e' delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu' decreti legislativi in materia di unione civile tra persone dello stesso sesso nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) adeguamento alle previsioni della presente legge delle disposizioni dell'ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni3; b) modifica e riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo l'applicazione della disciplina dell'unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all'estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo4; c) modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti5. 29. I decreti legislativi di cui al comma 28 sono adottati su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell'interno, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. 30. Ciascuno schema di decreto legislativo di cui al comma 28, a seguito della deliberazione del Consiglio dei ministri, e' trasmesso alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica perche' su di esso siano espressi, entro sessanta giorni dalla trasmissione, i pareri delle Commissioni parlamentari competenti per materia. Decorso tale termine il decreto puo' essere comunque adottato, anche in mancanza dei pareri. Qualora il termine per l'espressione dei pareri parlamentari scada nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto dal comma 28, quest'ultimo termine e' prorogato di tre mesi. Il Governo, qualora non intenda conformarsi ai pareri parlamentari, trasmette nuovamente i testi alle Camere con le sue osservazioni e con eventuali modificazioni, corredate dei necessari elementi integrativi di informazione e motivazione. I pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione. Decorso tale termine, i decreti possono essere comunque adottati. 31. Entro due anni dalla data di entrata in vigore di ciascun decreto legislativo adottato ai sensi del comma 28, il Governo puo' adottare disposizioni integrative e correttive del decreto medesimo, nel rispetto dei principi e criteri direttivi di cui al citato comma 28, con la procedura prevista nei commi 29 e 30. 32. All'articolo 86 del codice civile, dopo le parole: «da un matrimonio» sono inserite le seguenti: «o da un'unione civile tra persone dello stesso sesso». 33. All'articolo 124 del codice civile, dopo le parole: «impugnare il matrimonio» sono inserite le seguenti: «o l'unione civile tra persone dello stesso sesso». 34. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'interno, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite le disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello stato civile nelle more dell'entrata in vigore dei decreti legislativi adottati ai sensi del comma 28, lettera a)6. 35. Le disposizioni di cui ai commi da 1 a 34 acquistano efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge. 36. Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinita' o adozione, da matrimonio o da un'unione civile. 37. Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. 38. I conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. 39. In caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonche' di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari. 40. Ciascun convivente di fatto puo' designare l'altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacita' di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalita' di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. 41. La designazione di cui al comma 40 e' effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilita' di redigerla, alla presenza di un testimone. 42. Salvo quanto previsto dall'articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni (B). 43. Il diritto di cui al comma 42 viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto. 44. Nei casi di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente di fatto ha facolta' di succedergli nel contratto. 45. Nel caso in cui l'appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parita' di condizioni, i conviventi di fatto. 46. Nella sezione VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, dopo l'articolo 230-bis e' aggiunto il seguente: « Art. 230-ter (Diritti del convivente). - Al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonche' agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di societa' o di lavoro subordinato». 47. All'articolo 712, secondo comma, del codice di procedura civile, dopo le parole: «del coniuge» sono inserite le seguenti: «o del convivente di fatto». 48. Il convivente di fatto puo' essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, qualora l'altra parte sia dichiarata interdetta o inabilitata ai sensi delle norme vigenti ovvero ricorrano i presupposti di cui all'articolo 404 del codice civile. 49. In caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. 50. I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza. 51. Il contratto di cui al comma 50, le sue modifiche e la sua risoluzione sono redatti in forma scritta, a pena di nullita', con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformita' alle norme imperative e all'ordine pubblico. 52. Ai fini dell'opponibilita' ai terzi, il professionista che ha ricevuto l'atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione ai sensi del comma 51 deve provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l'iscrizione all'anagrafe ai sensi degli articoli 5 e 7 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. 53. Il contratto di cui al comma 50 reca l'indicazione dell'indirizzo indicato da ciascuna parte al quale sono effettuate le comunicazioni inerenti al contratto medesimo. Il contratto puo' contenere: a) l'indicazione della residenza; b) le modalita' di contribuzione alle necessita' della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacita' di lavoro professionale o casalingo; c) il regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. 54. Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza puo' essere modificato in qualunque momento nel corso della convivenza con le modalita' di cui al comma 51. 55. Il trattamento dei dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche deve avvenire conformemente alla normativa prevista dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, garantendo il rispetto della dignita' degli appartenenti al contratto di convivenza. I dati personali contenuti nelle certificazioni anagrafiche non possono costituire elemento di discriminazione a carico delle parti del contratto di convivenza. 56. Il contratto di convivenza non puo' essere sottoposto a termine o condizione. Nel caso in cui le parti inseriscano termini o condizioni, questi si hanno per non apposti. 57. II contratto di convivenza e' affetto da nullita' insanabile che puo' essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse se concluso: a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un'unione civile o di un altro contratto di convivenza; b) in violazione del comma 36; c) da persona minore di eta'; d) da persona interdetta giudizialmente; e) in caso di condanna per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile. 58. Gli effetti del contratto di convivenza restano sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il delitto di cui all'articolo 88 del codice civile, fino a quando non sia pronunciata sentenza di proscioglimento. 59. Il contratto di convivenza si risolve per: a) accordo delle parti; b) recesso unilaterale; c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona; d) morte di uno dei contraenti. 60. La risoluzione del contratto di convivenza per accordo delle parti o per recesso unilaterale deve essere redatta nelle forme di cui al comma 51. Qualora il contratto di convivenza preveda, a norma del comma 53, lettera c), il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile. Resta in ogni caso ferma la competenza del notaio per gli atti di trasferimento di diritti reali immobiliari comunque discendenti dal contratto di convivenza. 61. Nel caso di recesso unilaterale da un contratto di convivenza il professionista che riceve o che autentica l'atto e' tenuto, oltre che agli adempimenti di cui al comma 52, a notificarne copia all'altro contraente all'indirizzo risultante dal contratto. Nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilita' esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullita', deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l'abitazione. 62. Nel caso di cui alla lettera c) del comma 59, il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all'altro contraente, nonche' al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l'estratto di matrimonio o di unione civile. 63. Nel caso di cui alla lettera d) del comma 59, il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l'estratto dell'atto di morte affinche' provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l'avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all'anagrafe del comune di residenza. 64. Dopo l'articolo 30 della legge 31 maggio 1995, n. 218, e' inserito il seguente: «Art. 30-bis (Contratti di convivenza). - 1. Ai contratti di convivenza si applica la legge nazionale comune dei contraenti. Ai contraenti di diversa cittadinanza si applica la legge del luogo in cui la convivenza e' prevalentemente localizzata. 2. Sono fatte salve le norme nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima». 65. In caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente e gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. In tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'articolo 438, secondo comma, del codice civile. Ai fini della determinazione dell'ordine degli obbligati ai sensi dell'articolo 433 del codice civile, l'obbligo alimentare del convivente di cui al presente comma e' adempiuto con precedenza sui fratelli e sorelle. 66. Agli oneri derivanti dall'attuazione dei commi da 1 a 35 del presente articolo, valutati complessivamente in 3,7 milioni di euro per l'anno 2016, in 6,7 milioni di euro per l'anno 2017, in 8 milioni di euro per l'anno 2018, in 9,8 milioni di euro per l'anno 2019, in 11,7 milioni di euro per l'anno 2020, in 13,7 milioni di euro per l'anno 2021, in 15,8 milioni di euro per l'anno 2022, in 17,9 milioni di euro per l'anno 2023, in 20,3 milioni di euro per l'anno 2024 e in 22,7 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025, si provvede: a) quanto a 3,7 milioni di euro per l'anno 2016, a 1,3 milioni di euro per l'anno 2018, a 3,1 milioni di euro per l'anno 2019, a 5 milioni di euro per l'anno 2020, a 7 milioni di euro per l'anno 2021, a 9,1 milioni di euro per l'anno 2022, a 11,2 milioni di euro per l'anno 2023, a 13,6 milioni di euro per l'anno 2024 e a 16 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2025, mediante riduzione del Fondo per interventi strutturali di politica economica, di cui all'articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 novembre 2004, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307; b) quanto a 6,7 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2017, mediante corrispondente riduzione delle proiezioni, per gli anni 2017 e 2018, dello stanziamento del fondo speciale di parte corrente iscritto, ai fini del bilancio triennale 2016-2018, nell'ambito del programma «Fondi di riserva e speciali» della missione «Fondi da ripartire» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2016, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero. 67. Ai sensi dell'articolo 17, comma 12, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sulla base dei dati comunicati dall'INPS, provvede al monitoraggio degli oneri di natura previdenziale ed assistenziale di cui ai commi da 11 a 20 del presente articolo e riferisce in merito al Ministro dell'economia e delle finanze. Nel caso si verifichino o siano in procinto di verificarsi scostamenti rispetto alle previsioni di cui al comma 66, il Ministro dell'economia e delle finanze, sentito il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, provvede, con proprio decreto, alla riduzione, nella misura necessaria alla copertura finanziaria del maggior onere risultante dall'attivita' di monitoraggio, delle dotazioni finanziarie di parte corrente aventi la natura di spese rimodulabili, ai sensi dell'articolo 21, comma 5, lettera b), della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nell'ambito dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. 68. Il Ministro dell'economia e delle finanze riferisce senza ritardo alle Camere con apposita relazione in merito alle cause degli scostamenti e all'adozione delle misure di cui al comma 67. 69. Il Ministro dell'economia e delle finanze e' autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sara' inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E' fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
------------------------------------------------ (A) Vedi la Circolare del Ministero dell'Interno 1° giugno 2016 , n. 7 e la Circolare del Ministero dell'Interno 5 agosto 2016, n. 3511. (B) In riferimento al presente comma vedi la Risposta Agenzia delle Entrate 12 ottobre 2018, n. 37. - In riferimento alla Dichiarazione di successione e diritto di abitazione vedi: Risposta Agenzia delle Entrate 04/11/2019 n. 463. [1] Comma sostituito dall'articolo 29, comma 6, del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023, come stabilito dall'articolo 35, comma 1, del D.Lgs. 149/2022 medesimo, come modificato dall'articolo 1, comma 380, lettera a), della Legge 29 dicembre 2022, n. 197. [2] La Corte Costituzionale, con sentenza 22 aprile 2024, n. 66, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui stabilisce che la sentenza di rettificazione anagrafica di attribuzione di sesso determina lo scioglimento automatico dell’unione civile senza prevedere, laddove l’attore e l’altra parte dell’unione rappresentino personalmente e congiuntamente al giudice, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, l’intenzione di contrarre matrimonio, che il giudice disponga la sospensione degli effetti derivanti dallo scioglimento del vincolo fino alla celebrazione del matrimonio e comunque non oltre il termine di centottanta giorni dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione. [3] In riferimento alla presente lettera vedi il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5. [4] In riferimento alla presente lettera vedi il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 7. [5] In riferimento alla presente lettera vedi i D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5 e D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6. [6] Per il regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello stato civile, ai sensi del presente comma vedi il D.P.C.M. 23 luglio 2016, n. 144. InquadramentoLa l. n. 76/2016 dedica ai rapporti personali tra persone unite civilmente solo tre commi (art. 1, commi 10, 11, 12, l. n. 76/2016 cit.), per il resto regolamenta i rapporti patrimoniali (art. 1, commi 13 e 14, l. n. 76/2016, cit.). Il comma 10 delinea il nome della coppia, quello successivo, il comma 11, ne enuncia i diritti e doveri reciproci, nel rispetto del principio di uguaglianza, mentre il comma 12 rimette all'accordo delle parti la determinazione “dell'indirizzo della vita familiare”. Dalla costituzione dell'unione civile conseguono anche effetti nel patrimonio degli uniti. Gli effetti personali sono regolati dalla legge e da quelle disposizioni richiamate dal comma 20 art. 1. La norma, infatti, stabilisce l'equivalenza tra il matrimonio e l'unione civile parificando i coniugi e i partner nei casi previsti dalla legge costituendo “al contempo la chiave di volta dell'istituto dell'unione civile e la norma di chiusura dell'intera sua disciplina positiva” (T.A.R. Lombardia I, Brescia, 27 giugno 2016, n. 1791). In applicazione della disposizione “tutti i diritti previsti dalla legge per il matrimonio sono riconosciuti anche ai partner di unione civile in materia di lavoro, assistenza previdenza, sanità, pensioni, immigrazioni e in campo penale, penitenziario, fiscale “ (T.A.R. Lombardia n. 1791/2016, cit.). Principio di eguaglianza e inderogabilità dei doveriLa l. n. 76/2016 stabilisce che «con la costituzione dell'unione civile le parti acquisiscono gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri» (art. 1, comma 11), con ciò evidenziando che il principio ispiratore dell'unione civile è l'uguaglianza dei diritti e la reciprocità dei doveri tra le parti. Viene naturale un confronto con il rapporto coniugale ed in particolare con l'art. 143 c.c. L'istituzionalizzazione dei diritti e dei doveri è la manifestazione che l'ordinamento ha preso atto dell'impegno e della volontà dei nubendi espresso nel matrimonio e, pertanto, fornisce garanzia sociale e giuridica dei contenuti del loro rapporto. La dottrina non esita a ritenere indefinito il contenuto legislativo dei doveri degli uniti civilmente, indicandolo come l'espressione di una apertura verso l'ammissione nel rapporto di coniugio dei cosiddetti «doveri impliciti», ispirati al perseguimento del rispetto della personalità del singolo secondo il generale dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) che impone il riconoscimento dei diritti inviolabili del singolo anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Un orientamento nega che dall'unione civile sorga un impegno di realizzare la comunione di vita materiale e spirituale fra i contraenti come accade invece per il matrimonio, in quanto «né in sede di definizione generale dell'istituto, né in sede di descrizione del contenuto delle dichiarazione delle parti che manifestano la volontà di costituire una unione civile, né in sede di determinazione degli effetti dell'unione civile, né, più in generale, in alcuna delle disposizioni che disciplinano l'unione civile si fa infatti benché minimo riferimento alla “comunione di vita materiale e spirituale” fra le parti dell'unione civile» (De Cristofaro, 101). L'obiezione non coglie nel segno, tenuto conto che anche con riferimento alla disciplina che regolamenta l'istituto matrimoniale non è dato rinvenire alcun riferimento alla comunione di vita materiale e spirituale nella disciplina codicistica. L'analisi complessiva delle singole disposizioni, che rimangono indefinite a livello legislativo, consente di individuare una linea oltre la quale non è possibile andare, rappresentata dal rispetto dei diritti fondamentali di ciascun partner. Secondo alcuni autori l'ulteriore limite è rappresentato dall'interesse familiare, salvo negare la stessa inderogabilità dei doveri. L'ordinamento sembra affidare sostanzialmente all'accordo il modo di atteggiarsi dei singoli diritti e doveri, con gli unici limiti posti nel rispetto dei diritti fondamentali di ciascun e dell'interesse familiare. Per lungo tempo si è creduto che all'interno della famiglia fondata sul matrimonio i diritti fondamentali dei componenti andavano conformati alla peculiarità della società naturale alla quale si riferivano, ossia l'appartenenza al gruppo imponeva che le situazioni esistenziali dei singoli dovessero subire alterazioni all'interno della famiglia, in relazione ad un presunto interesse superiore familiare. L'assunto deve ritenersi superato a seguito del tramonto del concetto di famiglia come entità sovraordinata ai coniugi, figura incompatibile con il concetto di uguaglianza tra tutti i componenti il nucleo familiare. La preminenza accordata alle esigenze del gruppo ed il contenuto stesso dei doveri derivanti dal matrimonio, di cui agli artt. 143 c.c. e ss. vanno confrontati con il nuovo ruolo assunto dall'individuo nel sistema, ispirato agli artt. 2 e 3 Cost. Il limite intrinseco della loro estensione è rappresentato dalla libertà individuale e dalla realizzazione dei partecipanti indipendentemente dal perseguimento di un supremo interesse familiare e delle necessità dell'unione familiare. La famiglia, come oggi largamente intesa, si fonda sulla pari dignità morale e giuridica dei suoi componenti. Di questo la legge sulle unioni civili tiene adeguatamente conto, atteso che la finalità del legislatore è stata proprio quella di assicurare la parità e l'uguaglianza tra i partner. L'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi è espressione di un principio di rango costituzionale (art. 29 Cost.), e stessa cosa può affermarsi per le unioni civili, sebbene il riferimento costituzionale, ai sensi dell'art. 1 comma 1 legge n. 76, non sia l'art. 29 Cost., bensì gli artt. 2 e 3 Cost. Il richiamo a queste disposizioni di rango costituzionale rispetto all'art. 29 Cost. risponde alla chiara volontà del legislatore di mettere in evidenza la differenza tra il matrimonio e il legame tra persone dello stesso sesso disciplinato dalla legge n. 767 2016. In proposito è stato sostenuto che, anche qualora non si volesse riconoscere piena analogia con il matrimonio sotto tale profilo, la parità tra i partner dovrebbe ugualmente essere affermata in virtù del principio di eguaglianza espresso dall'art. 3 Cost. (De Filippis, 183). Va comunque evidenziato come il legislatore nel regolamentare l'istituto delle unioni civili abbia scelto di non rinviare alle disposizioni in tema di matrimonio (artt. 143 e ss c.c.), ma ha comunque riscritto parte dell'art. 143 c.c. Si deve comunque ribadire che mentre per le unioni civili il legislatore moderno ha registrato il nuovo percorso fatto in questi anni dalla società civile, lo stesso non può dirsi per le norme che regolamentano il rapporto di coniugio, ancora regolamentato da norme che secondo alcuni debbono ritenersi superate. Parità ed autonomia nel rapporto di coniugio rappresentano un processo ancora in corso. Con riferimento ai rapporti personali tra coniugi questa tensione verso l'uguaglianza e le pari opportunità si è espressa anche con l'avvertita esigenza di modificare le regole di attribuzione del cognome familiare. Infatti, residue zone di disuguaglianza perdurano non solo per la disciplina del cognome, ma anche per le decisioni urgenti nell'interesse dei figli, anche se, a seguito della recente riforma in materia di filiazione, intervenuta con la legge n. 219 del 2012, quest'ultima disparità è stata eliminata. Proprio in tema di cognome l'art. 143-bis c.c. stabilisce che la donna aggiunga al proprio cognome quello del marito, sicché la norma in esame costituisce una deroga al principio di eguaglianza di cui all'art. 29 Cost., ed appare ispirata, come ha sostenuto la dottrina prevalente, all'esigenza di assicurare la salvaguardia dell'unità familiare. Tuttavia da parte di molti si propende per il cambiamento tenuto conto che l'uso del proprio cognome è un diritto della personalità, quale diritto all'identità personale, garantito costituzionalmente. La disciplina del cognome degli uniti civilmente si differenzia sensibilmente da quella prevista per il matrimonio, non solo perché interviene ad anni di distanza, ma soprattutto perché, trattandosi di una coppia del medesimo sesso, non appare ragionevole dare una prevalenza al cognome dell'uno o dell'altro dei suoi componenti. Gli uniti civilmente possono scegliere liberamente tra i cognomi di entrambi mentre nessuna specifica disposizione è data con riferimento all'ipotesi in cui il cognome prescelto sia composto dai due cognomi e quindi se sia necessario operare la scelta tra questi. Dall'unione civile derivano, ai sensi dell'art. 1, comma 11, legge n. 76/2016, l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Inoltre, entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. È evidente che il fine dei diritti e doveri reciproci nascenti dall'unione civile è la costituzione e realizzazione di una comunanza di vita materiale e spirituale. L'istituzionalizzazione dei diritti e dei doveri dei partner è la manifestazione che l'ordinamento ha preso atto dell'impegno e della volontà espresso nell'unione civile e, pertanto, dà garanzia sociale e giuridica al contenuto pattizio del rapporto (Fasano-Gassani, 68). Il comma 11 dell' art. 1 legge n. 76 riprende, nella sostanza, l'art. 143 c.c. in tema di diritti e doveri reciproci dei coniugi, pur con alcune evidenti differenze: sono, infatti, stati esclusi l'obbligo di fedeltà e l'obbligo di collaborazione nell'interesse della famiglia. La legge non menziona i doveri di fedeltà e di collaborazione, contenuti invece nel testo licenziato in commissione ed eliminati successivamente. La legge non prevede l'intervento del giudice al fine di risolvere il contrasto tra gli uniti civilmente riguardo alla determinazione dell'indirizzo di vita e delle altre decisioni familiari. L'omissione del richiamo al dovere di fedeltà delle parti dell'unione civile nel comma 11, che era invece contenuto nell'art. 3, comma 1, del disegno di legge originario, ha suscitato molte critiche. Rimuovere la fedeltà dai diritti-doveri dell'unione omosessuale, tra i quali si sarebbe potuta inserire senza alcuna difficoltà, è sembrata una scelta politica. Secondo alcuni questa scelta ha voluto mettere in evidenza una prospettiva distorta delle coppie omosessuali a cui non vengono riconosciuti quei valori di stabilità ed esclusività tipici del matrimonio. Secondo questo indirizzo, il legislatore avrebbe voluto affidare al potere di autoregolamentazione delle parti l'aspetto connesso alla lealtà reciproca nell'ambito della relazione affettiva. Inoltre, l'obbligo di fedeltà non troverebbe giustificazione nell'unione civile, in quanto naturale proiezione della relazione eterosessuale coniugale verso la procreazione, sicché l'esclusione eliminerebbe ogni prospettiva procreativa della coppia omosessuale. Alcuni autori hanno ritenuto che l'articolata formulazione della previsione e il suo rilievo sistematico indurrebbero ad escludere la sussistenza di una lacuna frutto di una semplice svista e porterebbe a valutare la riscrittura dell'art. 143 c.c. come scelta operata in via prudenziale per le medesime ragioni sottese al tentativo di differenziare la unioni civili dal matrimonio. La giurisprudenza di legittimità ha sempre ritenuto che la fedeltà sessuale è solo una componente dell'obbligo di fedeltà, da intendersi come ‘impegno globale di devozione, che presuppone una comunione spirituale tra i coniugi, volto a garantire e consolidare l'armonia interna tra essi'. Se, invece, analizziamo i doveri coniugali, il primo obbligo è quello della fedeltà, fondamento del matrimonio e, più in particolare, quale riassunto dell'essenza giuridica dell'istituto atto a tutelare la comunione spirituale e materiale tra i coniugi. . Anche di recente la Corte di Cassazione ha ribadito che, in tema di addebito della separazione personale per inosservanza dell’obbligo di fedeltà, ai fini dell’esclusione del nesso causale tra la relativa condotta e l’impossibilità della prosecuzione della convivenza, non assume rilievo la tolleranza dell’altro coniuge, non essendo configurabile una esimente oggettiva che faccia venire meno l’illiceità del comportamento, né una rinuncia tacita all’adempimento dei doveri coniugali, aventi carattere indisponibile, anche se la sovrapposizione dell’infedeltà altrui può essere presa in considerazione, unitamente ad altri elementi, quale indice rivelatore del fatto che l’affectio coniugalis era già venuta meno (Cass. n. 25966/2022). Il dovere di fedeltà si esprime con contenuti che prescindono il semplice profilo della fedeltà sessuale spingendosi alla dedizione spirituale, al sostegno ed affidamento esclusivo di un coniuge nei confronti dell'altro, ed è di fondamentale rilievo per la realizzazione della comunione tra i coniugi. Le pronunzie della Corte costituzionale, in merito alla depenalizzazione delle relazioni adulterine, se lette semplicisticamente, potrebbero indurre a sminuire questo principio che da sempre ha rivestito importante primaria nel rapporto matrimoniale, se non costitutiva, nella formazione e sviluppo dell'istituto. Tale tesi non è sostenibile, atteso che ancora oggi la fedeltà è il principio ispiratore della comunione tra coniugi, trovando anche compiuta sanzione nel momento cosiddetto patologico del negozio tramite l'istituto dell'addebito. La condotta del coniuge che si sottrae all'obbligo di osservare la fedeltà in alcuni casi viene pesantemente penalizzata, con importanti ripercussioni, sia a livello personale che patrimoniale, dall'altro invece rimasto fedele, anche se nell'attuale sistema, la violazione di tali doveri non è più sanzionata dalla pronuncia di separazione, che si fonda sulla mera intollerabilità della convivenza, e può acquistare rilievo, ove sia richiesto e qualora ne sussistano le circostanze, ai fini dell'addebito della responsabilità. Il dovere di fedeltà coniugale ingloba, sino a confondersi, i principi della lealtà e della vincolatività del matrimonio, assurgendo al ruolo di forma dell'istituto, quale dedizione non solo fisica, ma anche spirituale che deve informare e caratterizzare l'unione per tutta la sua durata. Il successivo obbligo, quello di assistenza, è stato oggetto di un importante ampliamento a seguito della riforma. È noto come la violazione dell'obbligo di assistenza determina anche una responsabilità penale ai sensi dell'art. 570 cpv. c.p., quando l'omissione è caratterizzata da presupposti particolari, quale l'esistenza di uno stato di bisogno particolarmente grave. La dottrina prevalente ritiene che l'obbligo di assistenza interagisca con quello della fedeltà e con quello della collaborazione e contribuzione, per poi confluire in quello della coabitazione. Nel matrimonio la fedeltà e l'assistenza morale esprimono infinite possibilità di concretizzazione del costume sociale. Nelle unioni civili, anche a seguito dell'eliminazione del dovere di fedeltà, questa interazione non può ritenersi venuta meno. La fedeltà è uno dei doveri impliciti che connota i rapporti basati su vincoli affettivi, come quello degli uniti civilmente. Fedeltà non significa solo assenza di altri legami sentimentali, ma soprattutto tenere fede ad un progetto di vita comune, della coppia, che si è promesso di perseguire al momento della costituzione dell'unione, basato sul dovere di solidarietà che connota questa formazione sociale (art. 2 Cost.). Quindi, anche se il legislatore ha volutamente omesso ogni riferimento a questo obbligo, interpretando questo valore riduttivamente, non si può ritenere validamente costituita una unione civile senza la promessa di fedeltà da parte degli uniti al programma futuro della coppia ed al percorso di vita che si intende intraprendere. Ne consegue che il silenzio della legge non comporta rilevanti effetti da un punto di vista sostanziale.. Le coppie unite civilmente hanno un obbligo di assistenza morale e materiale, oltre che di coabitazione. Assistenza intesa come perfetta corrispettività riconducibile alla logica della solidarietà familiare, e nel suo ambito, deliberatamente indefinito, sono ricomprese tutte le esigenze degli uniti civilmente, così potendosi passare dalle più elementari necessità materiali, a quelle più profonde, di carattere morale, quale può essere il dovere di sostenere il proprio partner sotto il profilo psicologico, affettivo e spirituale. In tale ambito, così rinnovato, diventa così facile spaziare dal più generale principio della comprensione, quale compenetrazione nei problemi dell'altro coniuge, incitandolo e sostenendolo in tutti i momenti di difficoltà indissolubilmente connessi allo stare insieme, sino alle ipotesi più estreme e dolorose, quali la dedizione ed assistenza in caso di malattia. Tale obbligo così interpretato diventa anche dovere di fedeltà, inteso come fedeltà ad un progetto comune, al percorso che i partners hanno deciso insieme, nell'ambito del vincolo affettivo che li unisce, nel rispetto del principio di solidarietà (art. 2 Cost.). Ne consegue che il dovere di fedeltà viene assorbito in quello di assistenza, inteso quale dedizione non solo fisica, ma anche spirituale, che deve caratterizzare l'unione per tutta la sua durata. Il dovere di assistenza, pertanto, presuppone quello di fedeltà, come perfetta corrispettività di interessi, e comunione di intenti, riconducibile alla logica della solidarietà. Il fatto che, nell'unione civile, l'obbligo di fedeltà non sia stato espresso non significa certamente che le parti siano svincolate da quella progettualità e da quella fiducia reciproca che permea il matrimonio (posto che in difetto, l'unione civile si configurerebbe come unione del tutto libera in contrasto con le esigenze solidaristiche che stanno alla base di essa). La fedeltà è, invece, immanente nel più generale dovere di assistenza morale e materiale, espressione di una «affectio» non più solo coniugalis (A. Figone). L'obbligo di fedeltà non si traduce più nel mero divieto di intrattenere relazioni sessuali (o sentimentali) con persona diversa dal partner, quanto piuttosto nell'impegno di intendere l'altro come parte di una progettualità condivisa di vita familiare; fedeltà è in primis dedizione fisica e spirituale, impegno di lealtà, «fedeltà alla condivisione, alla solidarietà e dunque si apparenta strettamente all'obbligo di assistenza, morale ancor prima che materiale» (Dogliotti, 879). Le posizioni della dottrina sul silenzio del legislatore con riferimento agli uniti civilmente dei doveri previsti per il matrimonio, sono state sostanzialmente tre. Un indirizzo, che si è appena espresso e che si condivide, ritiene questa omissione irrilevante in quanto la vigenza di questi doveri si può desumere mediante una interpretazione sistematica dal complesso delle norme che regolamentano l'istituto. Un altro orientamento inquadra la scelta legislativa nella volontà di differenziare l'istituto dal matrimonio, rendendo il vincolo meno significativo e rendendo priva di forza la fase della crisi e della patologia del rapporto. Ciò con specifico rilievo al dovere di fedeltà che appare svilita, come la relazione sessuale che ne consegue. Infine, secondo altri, l'opzione normativa di non porre la fedeltà tra i doveri della coppia rappresenta una evoluzione dell'ordinamento che tende a lasciare alla libertà dei singoli, e questo potrebbe addirittura preludere alla soppressione di tale dovere anche nel rapporto coniugale. Si potrebbe ritenere invece che, prescindendo da ogni istituzionalizzazione, sono i partner che decidono tacitamente di stabilire dei doveri, attraverso un patto implicito, all'interno del rapporto, potendo pretendere l'osservanza di tali doveri ai fini della funzionalità dell'unione. Come correttamente posto in evidenza da certa dottrina: “la prospettazione di un impianto di doveri meno impegnativo rispetto a quello del matrimonio (se non intervenisse rapidamente una modifica) potrebbe persino porre dubbi di costituzionalità per contrarietà agli artt. 3 e 29 Cost., tenuto conto che i diritti riconosciuti ai membri dell'unione civile sono molto simili a quelli derivanti dal matrimonio. Non incisivo è anche l'argomento che fa riferimento, riguardo al dovere di fedeltà, allo scopo precipuo di assicurare certezza della generazione, non essendo possibile ai membri dell'unione civile generare né naturalmente né mediante ricorso PMA, essendo quest'ultima preclusa dal nostro ordinamento alle coppie del medesimo sesso, perché la mancanza di questa esigenza non esclude che possano esservi “ragioni di coppia” che ne giustifichino il fondamento (Auletta, 289). Come avviene per i coniugi (l'art. 160 c.c.), anche le parti dell'unione non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell'unione (art. 1, comma 13 legge n. 76). La circostanza che la disposizione sull'inderogabilità sia stata inserita nel comma delle legge n. 76 relativo al regime patrimoniale, indurrebbe a ritenere che il principio trovi applicazione solo in ambito di diritti e doveri di natura patrimoniale. In tema di unioni, si ripropongono le problematiche relative alla validità degli accordi che derogano al criterio della proporzionalità, già sollevate in ambito matrimoniale. L'accordo che contrasta con i doveri di coppia non risulta vincolante e quindi non se ne può esigere l'osservanza. Non possono costituire materia di accordo le scelte connesse all'esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali della persona, che non incidono sulla vita di coppia e possono essere liberamente assunti da ciascuno anche contro la volontà dell'altro, conformemente all'art. 2 della Cost. Obbligo di assistenza morale e materialeL'art. 1, comma 11 legge n. 76/2016 statuisce che dall'unione civile deriva l'obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale. Nel paragrafo precedente si è illustrata l'interessenza tra l'obbligo di fedeltà e l'obbligo di assistenza morale e materiale. Ma per delineare ancora meglio il contenuto di tale obbligo, può farsi riferimento alle interpretazioni date ad esso in ambito matrimoniale, ove si ritiene generalmente che esso comporti un dovere di protezione e di soddisfazione dei bisogni e delle esigenze del partner. L'assistenza non va ristretta al dovere di sopperire alle necessità essenziali in caso di bisogno, adoperandosi per il soddisfacimento dei bisogni materiali, anche mediante contribuzione economia, estendendosi a tutte le esigenze di vita dell'altro, quando lo stesso non sia in grado di provvedervi autonomamente. Più in particolare, con riferimento all'assistenza morale, tale obbligo si esplicita nel sostegno reciproco nella sfera affettiva, psicologica e spirituale, e determina il dovere di rispettare la personalità morale, la cultura, il temperamento, le convinzioni dell'altra parte, le aspirazioni relative all'esistenza ed al vivere comune. Come per il matrimonio, anche nell'unione civile ogni componente è tenuto a concorrere allo sviluppo della personalità dell'altro, rispettandone i sentimenti, i diritti e le libertà fondamentali, dando sostengo nelle difficoltà della vita, assicurando il dovuto sostegno per realizzare la proprie aspirazioni. La previsione del dovere di assistenza morale è fondamentale, in quanto ricollega alla costituzione dell'unione civile effetti di natura personale, oltre a quelli di ordine patrimoniale. I partners sono tenuti ad assicurare l'appagamento delle esigenze di vita ed economicamente valutabili dell'altra parte, assicurando il giusto ausilio in caso di malattia e nel bisogno. Nell'ambito del dovere di assistenza morale e materiale, deliberatamente indefinito, sono ricomprese tutte le esigenze delle parti dell'unione, così potendosi passare dalle più elementari necessità materiali, a quelle più profonde, di carattere morale, quale può essere il dovere di sostenere il proprio compagno sotto il profilo psicologico, affettivo e spirituale. Inoltre, ove si consideri la fedeltà alla stregua di un impegno di lealtà e di correttezza per la vita a due, non vi sarebbe motivo di ritenere la sua violazione legittima nell'ambito di qualsiasi relazione affettiva. L'unione civile contiene, pertanto, una serie di «doveri impliciti» assorbiti nell'ambito del generico obbligo reciproco di assistenza morale e materiale, opportunamente non codificati, ispirati al perseguimento del rispetto della personalità del singolo secondo il generale dovere di solidarietà (art. 2 Cost.), che impone il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona nell'ambito delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità. Il legislatore affida sostanzialmente all'accordo dei componenti dell'unione il modo di atteggiarsi dei diritti e dei doveri, dai contenuti non specificatamente delineati, ma i cui limiti sono rappresentati dalla sanzione prevista genericamente dall'ordinamento per i pregiudizi arrecati al «valore «persona. Si pensi all'espresso rinvio alla legge 4 aprile 2001, n. 154, operato dall'art. 1, comma 14, secondo cui «quanto la condotta della parte dell'unione civile è causa di grave pregiudizio all'integrità fisica e morale ovvero alla libertà dell'altra parte, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all'art. 342- ter del codice civile». Alle unioni civili si applica l'art. 146 c.c., cui fa espresso rinvio l'art. 1, comma 19, legge n. 76/2016, in virtù del quale il diritto all'assistenza morale e materiale è sospeso nei confronti del compagno che, allontanandosi senza giusta causa dalla residenza familiare, si rifiuti di tornarvi. In caso di allontanamento, il giudice può ordinare il sequestro dei beni della parte allontanatasi, nella misura necessaria a garantire l'adempimento degli obblighi di assistenza materiale e contribuzione (art. 146, comma 3 c.c.). Sono, però, previste alcune ipotesi di giusta causa di allontanamento dall'abitazione comune, tra cui la proposizione della domanda di scioglimento o di annullamento dell'unione civile (art. 146, comma 2 c.c.). In ipotesi di violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale, in un primo tempo la dottrina si è divisa sulla rilevanza penaledella violazione dell'obbligo di assistenza familiare. In ragione del principio di tassatività della norma penale non sarebbe stato possibile estendere l'applicazione dell'art. 570 c.p., espressamente previsto per il matrimonio anche alle unioni civili. (De Filippis, 183). Altri autori, invece, ritenevano comunque estensibile alle unioni civili la tutela penale di cui all'art. 570 c.p. Il contrasto è stato definitivamente superato — nel senso della piena applicabilità dell'art. 570 c.p. alle unioni civili — in seguito all'introduzione dell'art. 574-ter c.p., ad opera del d.lgs n. 6/2017 il quale ha statuito che «1. Agli effetti della legge penale il termine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un'unione civile tra persone dello stesso sesso. 2. Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato essa si intende riferita alla parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso». Un indirizzo della dottrina ha rilevato una differenza rispetto al matrimonio, con riferimento al criterio volto a determinare la capacità contributiva. Nell'unione civile si fa riferimento sia al lavoro professionale che a quello casalingo, mentre nel matrimonio essi vengono considerati in alternativa. Sembrerebbe che il legislatore abbia voluto parificare i partner sostenendo che il dovere di contribuzione comprenda anche l'assolvimento dei doveri riguardanti la quotidianità casalinga, ossia la partecipazione di entrambi gli uniti civilmente alla vita domestica. Obbligo di coabitazioneTra gli obblighi che vincolano gli uniti civilmente vi è quello di coabitazione, che scaturisce necessariamente dalla comunanza di vita e di interessi e dall'»affectio» quotidiana di ciascuna delle parti. La giurisprudenza in passato, con riferimento alla convivenza more uxorio, riteneva necessaria la coabitazione. Si ritenere ragionevolmente che un nucleo familiare richieda necessariamente una residenza comune. Strumentale per l'adempimento di tale dovere è la fissazione della residenza comune, mendiante il sistema dell'accordo finalizzato a realizzare l'indirizzo del progetto di vita comune. Con la dichiarazione che fonda l'unione civile, le parti concordano l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune. Come per il matrimonio, quindi, gli uniti civilmente stabiliscono insieme quale sarà il luogo della loro abitazone. L'art. 144 c.c. stabilisce, infatti, che «i coniugi fissano la residenza della famiglia secondo le esigenza di entrambi e secondo quelle preminenti della famiglia stessa». Ai sensi dell'art. 1, comma 12, ciascuna delle parti ha diritto di attuare l'indirizzo concordato. La nozione di coabitazione viene oggi interpretata nella sua accezione letterale di abitazione sotto lo stesso tetto, ma ciò non comporta l'obbligo di non allontanarsi dalla residenza comune, se non per periodi temporanei e per giustificate e concordate ragioni di lavoro, studio, cura, ecc. Pur nel silenzio della legge, che non rinvia all'art. 45 c.c., che consente a ciascun coniuge di avere il proprio domicilio nel luogo in cui ha stabilito la sede principale dei propri interessi, non può ritenersi che ai contraenti civili sia negata questa possibilità. Come già detto, il dovere di assistenza morale e materiale è sospeso nei confronti del compagno che, allontanandosi senza giusta causa dalla residenza familiare, si rifiuti di tornarvi, in virtù dell'espresso rinvio all'art. 146 c.c. contenuto nell'art. 1, comma 19 legge n. 76/2016. Costituiscono giusta causa di allontanamento la domanda di scioglimento e quella di annullamento dell'unione civile, pur nel silenzo della legge, di cui all'art. 1, comma 24 legge n. 76/2016, preliminare alla successiva proposizione della domanda giudiziale. Obbligo di contribuzione ai bisogni comuniL'art. 1, comma 11, legge n. 76/2016 statuisce che entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni. Tale disposizione sottolinea l'aspetto solidaristico dell'unione civile (art. 2 Cost.), quale formazione sociale in cui le parti sono tenute ad apportare quanto è nelle loro possibilità e capacità per la realizzazione del comune progetto di vita. Si è già detto, come a differenza della formulazione del corrispondente obbligo in ambito matrimoniale (in cui l'art. 143, comma 3 c.c. precisa che la contribuzione di ciascun coniuge è rapportato alla rispettiva capacità di lavoro professionale «o» casalingo, rimarcando implicitamente una netta divisione dei ruoli tra marito e moglie), nelle unioni civili, l'apporto che ogni componente è tenuto a fornire deve essere proporzionale al lavoro professionale «e» casalingo di ciascuno. La precisazione assume rilevanza se si tiene conto del principio ispiratore della legge, che è quello di assicurare ai partner totale uguaglianza. Ne consegue che entrambi i partner anche nelle faccende domestiche sono tenuti ad adempiere al dovere di solidarietà che il rapporto impone. Le possibilità di contribuire con le proprie sostanze possono essere di vario tipo, come il conferimento di denaro, la cura del nucleo familiare e l'accudimento del compagno. Secondo un indirizzo della dottrina anche l'obbligo di collaborazione nell'interesse della famiglia — inteso come dovere di cooperare per stabilire e mantenere le condizioni più adeguate all'unità e continuità del gruppo familiare — può intendersi rientrare nell'obbligo di assistenza materiale e morale e nell'obbligo di collaborazione e, pertanto, la sua omessa previsione non sembra attenuare in maniera rilevante i doveri dei contraenti rispetto a quelli dei coniugi (De Filippis, 187). Violazione degli obblighi nascenti dall'unione civileIn ragione della volontà di assicurare maggiore libertà agli uniti civilmente, in un ottica anche di eliminazione dell'addebito, l'unica sanzione prevista dalla legge n. 76/2016 in caso di violazione dei doveri reciproci tra partner di un'unione civile riguarda l'obbligo di coabitazione, la cui inosservanza determina la sospensione del dovere di assistenza materiale e morale ed, eventualmente il sequestro dei beni. Nulla disponendo la legge appare difficile individuare le conseguenze ricollegabili alla violazione degli altri doveri, non essendo applicabile l'istituto dell'addebito, con tutte le sue conseguenze che possono derivare sotto il profilo patrimoniale. Si potrebbe ritenere che dalla violazione dei doveri imposti dall'ordinamento possa derivare una responsabilità risarcitoria. Volendo fare una analogia con l'istituto matrimoniale, la giurisprudenza di legittimità ha chiaramente precisato, con indirizzo consolidato, che la mera violazione dei doveri matrimoniali o la pronuncia di addebito della separazione non sono di per sé fonte di responsabilità risarcitoria. Ne consegue che solo le condotte che integrano una grave violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e quindi dell'unione civile, tanto da ledere l'onore ed il decoro, la lealtà, la dignità dell'altra parte, quali diritti fondamentali della persona e, in quanto tali posti al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, sono rilevanti in materia di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c.. La condanna al risarcimento del danno, ai sensi dell'art. 2043 c.c., colpisce, quindi, il comportamento del coniuge che, violando i doveri dell'unito civilmente, abbia scientemente cagionato all'altro un danno ingiusto, ovvero meritevole di tutela per l'ordinamento. Della violazione degli obblighi nascenti dalla unione civile, si potrà tener conto invece nella determinazione dell'entità dell'assegno di mantenimento per il partner più debole in sede di scioglimento del vincolo, essendo «le ragioni della decisione» uno dei criteri indicati dall'art. 5 l. n. 898/1970- legge div., richiamato dall'art. 1, comma 25 legge n. 76/2016. Secondo la giurisprudenza, infatti, sono esperibili i rimedi in tema di risarcimento del danno c.d. endofamiliare, ritenuti applicabili anche ai rapporti di convivenza (Cass. n. 15481/2013). E' stato, infatti, precisato che la pretesa fatta valere dal convivenza nei confronti dell'altro diretta ad ottenere il risarcimento dei danni per violazione degli obblighi familiari, non può ritenersi manifestamente infondata, sulla base del solo rilievo della insussistenza sia normativa che giurisprudenziale dell'ipotesi di violazione degli obblighi familiari in ipotesi di persone unite dal solo vincolo more uxorio, dovendosi, per contro, verificare in concreto la sussumibilità di tale posizione nell'ambito della categoria dei diritti fondamentali della persona, senza che assuma rilievo il tipo di unione al cui interno la lamentata lesione si sarebbe verificata (Cass. n. 15481/2013). La Corte di Cassazione ha precisato che la violazione dei doveri coniugali non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma può anche, ove ne sussistano tutti i presupposti secondo le regole generali, integrare gli estremi di un illecito civile. Per ottenere il risarcimento dei danni, però, non è sufficiente la semplice violazione dei doveri matrimoniali, e neppure la pronuncia di addebito della separazione. Nel caso di infedeltà va dimostrato che questa per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge, lesione che dovrà essere dimostrata in relazione ai presupposti che regolamentano la responsabilità risarcitoria, quindi il nesso di causalità. In tal caso, affinché si determini un danno ingiusto risarcibile ex art. 2043 e 2059 c.c., non è sufficiente la mera violazione dei doveri, ma è richiesto che tale condotta abbia determinato la lesione della dignità, della libertà, dell'inviolabilità della persona o di altri beni costituzionalmente tutelati. La giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 26383/2020) ammettendo la possibilità di chiedere il risarcimento del danno endoconiugale anche in ipotesi di mancato addebito della separazione, rende l’azione risarcitoria un utile strumento alternativo di ristoro del codice danneggiato. Anche in questo caso, chi agisce deve provare la violazione di un diritto costituzionalmente garantito, il superamento della ‘soglia di tollerabilità’ e il nesso causale tra il comportamento tenuto e il danno che ne è derivato. La Corte di Cassazione ha precisato che integra di per sé danno risarcibile ex art. 2059 c.c., giacché lede un interesse della persona costituzionalmente rilevante, ai sensi dell'art. 2 Cost., il pregiudizio recato al rapporto di convivenza, da intendere quale stabile legame tra due persone connotato da duratura e significativa comunanza di vita e di affetti, anche quando non sia contraddistinto da coabitazione (Cass. n. 7128/2013) Ordini di protezione contro gli abusi familiariAll'interno della famiglia si possono verificare le esperienze più dolorose, i conflitti più devastanti, che lasciano vittime i soggetti più deboli. La casa degli affetti e dell'amore spesso può divenire il terreno di scontro di sentimenti, con sopraffazioni, vessazioni fisiche e morali, che si concretizzano in abusi. Gli attentati alla dignità ed alla integrità fisica e morale dell'unito civilmente e dei figli di quest'ultimo o comunque dei minori che compongono il nucleo familiare, possono esprimersi in vario modo, non solo con le aggressioni fisiche e con le violenze, ma anche con comportamenti subdoli e con manipolazioni affettive. Gli abusi sono integrati con le percosse, le lesioni, ingiurie, minacce, privazioni, umiliazioni imposte alla vittima, ma anche con atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvono in vere e proprie sofferenze morali. Il partner dell'unione civile che subisca abusi ad opera del proprio partner, può chiedere che vengano adottati gli ordini di protezione di cui all'art. 342-ter c.c. L'estensione si giustifica anche a seguito degli ultimi interventi legislativi in tema di protezione dagli abusi familiari. Con la legge n. 172/2012 di Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote si apportate anche modifiche all'art. 572 c.p. La natura abituale e la struttura sostanziale del reato di maltrattamenti (prima indicato «in famiglia e verso i fanciulli» ora «contro familiari e conviventi») sono rimaste sostanzialmente immutate. Le novità riguardano essenzialmente il trattamento sanzionatorio e l'estensione della tutela alle persone conviventi. In relazione a quest'ultimo profilo già da tempo la giurisprudenza aveva valorizzato la famiglia di fatto, estendendo la tutela al convivente «more uxorio». Con le novità legislative, si è ampliato il riferimento al rapporto di convivenza, allargando il concetto a qualsiasi legame prescindendo dalla natura dell'instaurazione. La legge n. 154/2001 ha introdotto una serie di misure, civili e penali, contro la violenza tra le mura domestiche, creando strumenti di tipo cautelare, finalizzati a tutelare i componenti della famiglia di fronte a situazioni di «violenza», ossia situazioni di grave pregiudizio all'integrità fisica o morale, ovvero alla libertà di un componente del nucleo familiare. Con riferimento alle condotte che integrano reati penali, l'art. 282-bis c.p.c. prevede tre diverse tipologie di provvedimenti: l'allontanamento della casa familiare, l'ordine di non avvicinarsi a determinati luoghi, nonché il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi. Tali misure possono essere disposte, anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'art. 280 c.p.p. nel caso in cui si proceda per alcuni reati, specificamente elencati dalla norma, commessi a danno dei prossimi congiunti o del convivente. Ai sensi dell'art. 342-ter c.c., il giudice civile può adottare le misure cautelari a tutela delle vittime delle violenze familiari, che vengono denominate «ordini di protezione contro abusi familiari», e sono disciplinate dagli artt. 342-bis e ter c.c e 736-bis c.p.c. Accertata la situazione di violenza, può ordinare al coniuge o al convivente, che ha tenuto la condotta pregiudizievole, la cessazione della condotta e l'allontanamento dalla casa familiare. Se il caso lo richiede, può prescrivergli di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, e in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia di origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone, e in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per esigenze di lavoro. L'art. 736-bis c.p.c. regolamenta il procedimento volto all'emanazione degli ordini di protezione, secondo i canoni di speditezza ed urgenza. Procedura e contenuto degli ordini di protezione sono disciplinati dall'art. 342-ter c.c. — cui rinvia il comma 14 legge n. 76/2016 — che attribuisce al giudice il potere di ordinare all'abusante la cessazione della condotta pregiudizievole e l'allontanamento dalla casa familiare con eventuale divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall'istante (in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d'origine, al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia). Il giudice può disporre, altresì, ove occorra, l'intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di soggetti vittime di abusi e maltrattati; il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto del provvedimento, rimangono privi di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento e prescrivendo, se del caso, il versamento diretto dal datore di lavoro dell'obbligato. Assai significativa è la previsione di un assegno in favore dei «conviventi», con tali potendosi intendere non solo l'altro partner dell'unione civile, ma anche tutti gli altri conviventi (es. figli del partner abusante o abusato, o di entrambi, altri congiunti) cui vengano a mancare i mezzi di sostentamento che e imposizione dell'obbligo di mantenimento in capo all'abusante. L'ordine di protezione non può avere durata superiore ad un anno (art. 342-ter, comma 3 c.c.) e può essere prorogato su istanza di parte solo se ricorrano gravi motivi e per il tempo strettamente necessario. Nell'indicare le modalità di esecuzione dell'ordine, il giudice ha facoltà di richiedere l'ausilio della forza pubblica e dell'ufficiale sanitario (art. 342-ter, comma 4 c.c.). Anche in assenza di un espressa disposizione legislativa, a seguito delle aperture espresse dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, sembra potersi sostenere che il rimedio previsto dall'art. 342-ter c.c. sarebbe stato, comunque, applicabile alle ipotesi di abusi all'interno della coppia unita civilmente. Questo, poiché l'art. 342-bis c.c., nell'enunciare i presupposti per l'applicazione di tali misure cautelari, fa riferimento non solo alle violenze tra coniugi, ma anche a quelle tra conviventi, in cui rientrano anche le coppie unite ai sensi della legge n. 76/2016. Va precisato, che ai sensi dell'art. 282-bis c.p.p., il giudice può prescrivere al partner abusante o violento: a) di allontanarsi dalla casa familiare o di non farvi ritorno senza autorizzazione giudiziaria per un certo periodo di tempo (sei mesi); b) di non avvicinarsi a luoghi determinati frequentati dalla famiglia; c) di pagare un assegno periodico in favore delle persone conviventi «che per effetto del provvedimento rimangano prive di mezzi adeguati», eventualmente con obbligo di versamento diretto al datore di lavoro. Il comma 4 precisa poi che l'ordine di pagamento ha efficacia fintanto che permane la misura dell'allontanamento disposto dal giudice, stabilendo così una connessione causale e funzionale fra le due previsioni. La misura cautelare dell'allontanamento dalla casa familiare viene applicata non solo quando si proceda per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, ma anche nei casi in cui si proceda per specifiche categorie di delitti, a prescindere dalla considerazione dell'entità della pena prevista per la loro commissione dalla legge. L'art. 291 comma 2-bis c.p.p. prevede che, nel corso delle indagini preliminari o del dibattimento, il p.m. possa chiedere al giudice incaricato «in caso di necessità o di urgenza» l'adozione delle misure patrimoniali provvisorie di cui all'art. 282-bis c.p.p. Con il d.l. 14 agosto 2013, n. 93 convertito con modifiche dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, è stata introdotta la misura dell'allontanamento d'urgenza dalla casa familiare, disciplinato dall'art. 384-bis c.p.p. Importanti novità sono state apportate, dalla legge n. 154, sia all'interno del codice civile che in quello di procedura civile: essa ha introdotto, nel libro I del codice civile, il titolo IX-bis rubricato «Ordini di protezione contro gli abusi familiari» e contenente i nuovi artt. 342-bis e 342-ter. In tema di ordini di protezione, la legge n. 76/2016 rinvia unicamente all'art. 342-ter c.c. e non anche all'art. 342-bis c.c., ma il contenuto di quest'ultimo è stato comunque trasfuso nel comma 14 della stessa legge n. 76/2016. Pertanto, i presupposti per la richiesta degli ordini di protezione in ambito matrimoniale e in ambito di unioni civili sono i medesimi. L'ordine di protezione non può avere durata superiore ad un anno (art. 342-ter, comma 3 c.c.) e può essere prorogato su istanza di parte solo se ricorrano gravi motivi e per il tempo strettamente necessario. Nell'indicare le modalità di esecuzione dell'ordine, il giudice ha facoltà di richiedere l'ausilio della forza pubblica e dell'ufficiale sanitario (art. 342-ter, comma 4 c.c.). La norma prevede l'estensione del divieto di avvicinamento al domicilio della famiglia d'origine o di altri prossimi congiunti o di altre persone (amici, parenti, vicini di casa, medici ecc.) che vivono in stretto contatto con la vittima. L'ordine di protezione civile è in grado di fornire non solo un'adeguata alternativa a quello penale, rappresentando uno strumento di tutela nel contempo forte (per la protezione pronta ed efficace della vittima garantita attraverso l'ordine di allontanamento) e flessibile, dal momento che permette e favorisce ove possibile anche la ricostruzione delle relazioni familiari. Si segnala, inoltre, la rilevanza della ratifica della Convenzione di Istanbul in materia di prevenzione e lotta nei confronti delle donne e la violenza domestica. La Convenzione è entrata in vigore dal 1 agosto 2014 nel nostro Paese. La Convenzione si prefigge l'obiettivo di fornire alle vittime una protezione nel processo e «dal» processo, attraverso l'elaborazione di strumenti informativi e processuali a tutela delle P.O. Alla vittima sono garantiti diritti partecipativi nel processo penale, quali il diritto ad essere informata circa l'esito della denuncia e dell'andamento delle indagini, l'eventuale evasione o rimessione in libertà dell'autore del reato. Con il d.lgs. n. 212/2015, entrato in vigore il 20 gennaio 2016, si è allargato il diritto partecipativo delle vittime di reato, apportando modifiche al c.p.p. art. 90-bis, che adesso prevede la necessità di fornire informazioni alla persona offesa fin dal primo contatto con l'autorità procedente, e la facoltà di ricevere comunicazione dello stato del procedimento, e la possibilità di servirsi di un consulente legale o del patrocinio a spese dello Stato, oltre ad essere avvisata in caso di richiesta di archiviazione. Sebbene i provvedimenti abbiano natura civilistica, la sanzione prevista per la loro inosservanza è di natura penalistica. Si discute se la sanzione penale si riferisce ad ogni comportamento contrario alle prescrizione del giudice o soltanto a quelle finalizzate alla protezione dell’integrità fisica o morale ovvero alla libertà del soggetto protetto. Secondo l’indirizzo prevalente, ogni condotta attiva o omissiva contraria alle prescrizioni dell’ordine di protezione potrebbe avere rilevanza penale e, per evitare una eccessiva dilatazione dell’ambito dei comportamenti che in tesi possono essere elusivi dal punto di vista penale, assume rilievo il bene giuridico tutelato dall’ordinamento. Diritto di concordare l'indirizzo della vita familiare e fissare la residenza comuneAi sensi dell'art. 1, comma 12, legge n. 76/2016, le parti concordano tra loro l'indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna di esse spetta il potere di attuare l'indirizzo concordato. Si noti come il comma 12 dell'art. 1 è l'unica disposizione della legge in esame a contenere l'aggettivo «familiare» riferito alla unioni civili. Il legislatore ha volutamente omesso ogni riferimento al termine «famiglia» per indicare l'unione civile, come ha deliberatamente evitato ogni riferimento all'art. 29 Cost. La disposizione ricalca quella prevista nell'art. 144 c.c. in tema di matrimonio (Indirizzo della vita familiare e residenza della famiglia), con la differenza che per le unioni civili è stato eliminato il riferimento alle «esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia» quali criteri per concordare l'indirizzo della vita familiare e la residenza. Le esigenze di entrambi sono implicite nella necessità di giungere ad un accordo per la scelta della residenza comune, mentre l'omesso riferimento alle esigenze della «famiglia» si ispira alla necessità di evitare di attribuire alle unioni civili il rango di «famiglia», anche se non vi è dubbio che rappresentino in concreto una famiglia .Ciò non impedisce di configurare una residenza della coppia anche se non costituisce la dimora abituale dei suoi componenti, potendo tale soluzione rappresentare una soluzione che consenta di trascorrere più tempo insieme e quindi di consolidare la comunione di vita. Secondo la Corte di cassazione «il processo di costituzionalizzazione delle unioni tra persone dello stesso sesso non si fonda sulla violazione del canone indiscriminatorio dettato dalla inaccessibilità al modello matrimoniale, ma sul riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia e sulla riconducibilità di tali relazioni nell'alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria della personalità umana» (Cass. n. 2400/2015). Tra questi diritti rientra certamente anche quello di stabilire insieme il percorso da seguire nel rapporto, che comprende anche le scelte sulla fissazione della propria residenza familiare, rimessa alla scelta concordata di entrambi i partner, con la conseguenza che questa non deve soddisfare solo le esigenze economiche e professionale di uno di essi, ma deve soprattutto salvaguardare le esigenze di entrambi i partner e quelle preminenti della serenità della famiglia (in tema di matrimonio, Cass. n. 24574/2008). Secondo un indirizzo della dottrina, l'omesso riferimento al concetto di «famiglia» si spiega con l'esigenza di sottolineare spazi più ampi di autonomia che competono alle parti nella definizione delle ragioni dell'accordo (Ferrando, 900). Nelle unioni civili, comunque, al pari del matrimonio, la regola generale in base alla quale devono essere prese le decisioni che riguardano la vita comune, è quella della condivisione e dell'accordo tra le parti. Ciascuna delle parti ha il diritto di attuare l'indirizzo concordato, ponendo in essere ogni attività necessaria per realizzarlo. E naturale che il legislatore non abbia indicato i criteri ispiratori da seguire nella scelta dell'indirizzo della vita familiare (che nel matrimonio sono le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia, ex art. 144 c.c.), e quindi non abbia fornito neppure gli strumenti giuridici per risolvere eventuali disaccordi che nella scelta potrebbero crearsi tra le parti, previsti invece per il matrimonio dall'art. 145 c.c.. Come è noto, la norma disciplina la situazione di conflitto coniugale tra i coniugi, garantendo la possibilità a ciascuno di richiedere l'intervento del giudice, il quale tenterà di raggiungere una soluzione concordata. Ove questa non sia possibile, il giudice può decidere con provvedimento non impugnabile, sempre che entrambi i coniugi stessi concordemente richiedano la sua decisione come arbitro della contesa che concerna la fissazione della residenza ovvero altri affari essenziali. La comunione dei beni quale regime patrimoniale legale delle unioni civiliCon riferimento ai rapporti ed ai regimi patrimoniali degli uniti civilmente, le disposizioni del codice civile, sicuramente escluse dal rinvio, sono costituite dagli artt. 159,160,161,165 e 166 bis c.c., come è dato desumere dal comma 13. Ai sensi dell'art. 1, comma 13 legge n. 76/2016, il regime patrimoniale delle unioni civili è la comunione legale dei beni, pur potendo le parti scegliere un diverso regime patrimoniale. L'espresso richiamo all'art. 162 c.c. consente di affemare che la coppia può optare per il regime di separazione. Essi potranno stipulare tra di loro convenzioni matrimoniali, anche se non uniti in matrimonio. Questo vale anche per le disposizioni in tema di impresa familiare, estese in blocco all'unione civile dall'art. 1 comma 13, mercè l'espresso rinvio al capo VI del titolo VI del libro primo. In ogni caso, il regime patrimoniale, legale o convenzionale che sia, deve essere indicato nel documento attestante la costituzione dell' unione civile (art. 1, comma 9 legge n. 76). Infatti l'atto di costituzione dell'unione civile deve specificamente indicare, ai sensi dell'art. 70-quaterdecies, comma 1, d.P.R. n. 396/2000, introdotto dal d.lgs. n. 5/2017 anche la dichiarazione relativa alla scelta del regime di separazione dei beni o la scelta della legge applicabile ai loro rapporti patrimoniali operata in base alle vigenti norme di diritto internazionale privato. Con riferimento al regime patrimoniale degli uniti civilmente, il legislatore ha operato un rinvio alle disposizioni che regolamentano il matrimonio, ed in particolare alle disposizioni del codice civile in materia del regime patrimoniale della famiglia (sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile) concernenti: - fondo patrimoniale (artt. 167 a 171 c.c.); - comunione legale (artt. 177 a 197 c.c.); - comunione convenzionale (artt. da 210 a 211 c.c.); - regime di separazione dei beni (artt. da 215 a 219 c.c.); - impresa familiare (art. 230-bis c.c.). Va segnalato che il legislatore, probabilmente per un refuso, ha dimentica di rinviare alla sezione I (Disposizioni generali), composta dagli artt. dal 159 al 166-bis c.c. Questa omissione non determina differenze sostanziali, in quanto il contenuto degli artt. 159 e 160 c.c. è in realtà stato trasfuso nella legge, il quale a sua volta rinvia espressamente anche gli artt. 162,163,164 e 166 c.c., in tema di convenzioni patrimoniali. Non sono applicabili alle unioni civili gli artt. 161 c.c. (norma che vieta di pattuire in modo generico i rapporti patrimoniali), 165 c.c. (capacità del minore) e 166-bis c.c. (divieto di costituzione di dote). Appare ragionevole l'esclusione dell'art. 165 c.c., in tema di capacità del minore a prestare validamente il consenso nelle convenzioni patrimoniali, giustificata dal fatto che ai minori non è mai consentito contrarre unioni civili. Implicitamente applicabile l'art. 161 c.c., mentre non si comprende l'omesso rinvio all'art. 166-bis c.c. Come per il matrimonio, se le parti scelgono il regime patrimoniale della comunione dei beni, tutti acquisti compiuti, insieme o separatamente, nel corso dell'unione civile, entrano nella comunione, ad eccezione dei beni personali, secondo lo schema del c.d. coacquisto automatico. Il legislatore ha operato un rinvio a tutte le disposizioni codicistiche in materia di comunione legale e, pertanto, ai sensi dell'art. 177 c.c., rientrano nella comunione dei beni oltre agli acquisti effettuati in costanza di unione civile, anche: - i frutti dei beni propri di ciascuna parte, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione; - i proventi dell'attività separata di ciascuna parte se, allo scioglimento delle comunione, non sono stati consumati; - le aziende gestite da entrambe le parti e costituite dopo l'inizio dell'unione;gli utili e gli incrementi delle aziende appartenenti ad una delle parti da epoca anteriore alla costituzione dell'unione civile ma gestite da entrambi. In ragione del rinvio all'art. 178 c.c., cadono nella c.d. comunionede residuo anche i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei partner dell'unione civile costituita dopo il contratto di convivenza e gli incrementi dell'impresa istituita anche precedentemente si considerano. Come per il matrimonio, non rientrano nella comunione, in quanto considerati beni personali, ai sensi dell'art. 179 c.c.: a) i beni di cui, prima della costituzione dell'unione civile, il partner era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento; b) i beni acquisiti successivamente alla costituzione dell'unione civile per effetto di donazione o successione, quando nell'atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione; c) i beni di uso strettamente personale di ciascuna parte ed i loro accessori; d) i beni che servono all'esercizio della professione della parte, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione; e) i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa; f) i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all'atto dell'acquisto. Inoltre, in caso di acquisto di beni immobili, o di beni mobili elencati nell'articolo 2683 c.c., effettuato dopo la costituzione dell'unione, tali beni sono esclusi dalla comunione, ai sensi delle lettere c), d) ed f), quando tale esclusione risulti dall'atto di acquisto se di esso sia stato parte anche l'altro partner (art. 179, ultimo comma c.c.). Ai sensi degli artt. dal 180 al 185 c.c., sia l'amministrazione dei beni delle comunione che, la rappresentanza in giudizio per gli atti relativi ad essa, spetta disgiuntamente ad entrambe le parti dell' unione civile, mentre i partner sono tenuto a compiere congiuntamente gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano i diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni (art. 180 c.c.). Se una parte rifiuta di dare il proprio consenso nei casi in cui esso è indispensabile per compiere un atto necessario nell'interesse della famiglia o dell'azienda che faccia parte della comunione ai sensi dell'art. 177 lett d), l'altra parte può rivolgersi al giudice per ottenere l'autorizzazione. (art. 181 c.c.). In caso di lontananza o di altro impedimento di una delle parti, l'altra in mancanza di procura del primo risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, può compiere, previa autorizzazione del giudice e con le cautele eventualmente da questo stabilite, gli atti necessari per i quali è richiesto, a norma dell'articolo 180, il consenso di entrambi. Nel caso di gestione comune di azienda, uno dei coniugi può essere delegato dall'altro al compimento di tutti gli atti necessari all'attività dell'impresa (art. 182 c.c.). Come per il matrimonio, se uno dei partner non ha bene amministrato, l'altra può chiedere al giudice di escluderla dall'amministrazione. In ogni caso, la parte privata dell'amministrazione può chiedere al giudice di esservi reintegrata, se sono venuti meno i motivi che hanno determinato l'esclusione. L'esclusione opera di diritto riguardo alla parte interdetta e permane sino a quando non sia cessato lo stato di interdizione (art. 183 c.c.). Gli atti compiuti da una parte senza il necessario consenso dell'altra e da questa non convalidati sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili elencati nell'art. 2683 c.c. In tema di rapporti patrimoniali tra i partner dell'unione civile, come per il matrimono, in regime di comunione legale, la dichiarazione resa dal partner non acquirente in ordine alla natura personale di un immobile acquistato ha portata confessoria sulla provenienza del denaro a tal fine utilizzato, sicchè l'azione di accertamento negativo della natura personale di quel bene postula la revoca della menzionata confessione stragiudiziale nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., cioè per vizio del consenso derivante da errore di fatto o violenza (Cass. n. 23565/ 2016). L'azione di annullamento degli atti non convalidati può essere proposta dalla parte il cui consenso era necessario, entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell'atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Se gli atti riguardano beni mobili diversi da quelli indicati nel comma 1 dell'art. 184 c.c., la parte che li ha compiuti senza il consenso dell'altra è obbligata su istanza di quest'ultima a ricostituire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell'equivalente secondo i valori correnti all'epoca della ricostituzione della comunione (art. 184 c.c.). La natura di comunione senza quote della comunione legale tra gli uniti civilmente permane sino al momento del suo scioglimento, allorquando i beni cadono in comunione ordinaria e ciascuno dei partner, che abbia conservato il potere di disporre della propria quota, può liberaente e separatamente alienarle, essendo venuta meno l'esigenza di tutela del coniuge a non entrare in rapporto di comunione con estranei. Responsabilità patrimoniale delle parti dell'unione civile in regime di comunione legaleAi sensi degli artt. da 186 a 190 c.c. il regime della comunione legale dei beni comporta alcune deroghe ai principi comuni in materia di responsabilità patrimoniale e di aggredibilità dei beni. La disciplina può essere sintetizzata nei seguenti termini (Minneci, 341): a) per i debiti riconducibili ad interessi comuni del ménage (anche se derivanti dall'iniziativa di una sola della parti), rispondono anzitutto i beni della comunione. Se questi non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essa gravanti, i creditori hanno facoltà di aggredire, in via sussidiaria, i cespiti personali di ciascuna parte: per l'intero importo dovuto nei confronti della parte formalmente debitrice e pro quota, fino a metà della pretesa, nei riguardi dell'altra (art. 190 c.c.); b) per i debiti riferibili ad interessi particolari del singolo partner (artt. 187,188,189, comma 2 c.c.) o che discendono da atti eccedenti l'ordinaria amministrazione compiuti da un solo partner senza la necessaria autorizzazione dell'altro (art. 189, comma 1 c.c.), i creditori sono legittimati a soddisfarsi, in primo luogo, sui beni personali della parte debitrice e, in subordine, su quelli della comunione, nei limiti della metà del valore complessivo del patrimonio in comunione . L'art. 186 lett. b) c.c. prevedendo una responsabilità patrimoniale dei beni della comunione per i carichi dell'amministrazione e, cioè, per i debiti di qualsiasi natura contratti per la manutenzione ordinaria dei singoli beni non ha escluso che di esse ciascun partner debba rispondere per l'intero, spettando l'amministrazione dei beni della comunione e lo stesso potere di rappresentanza in giudizio, a norma dell'art. 180 c.c., disgiuntamente ad entrambi.L'art. 186 c.c. individua i rapporti in base ai quali è consentito al creditore aggredire direttamente i beni comuni, i quali rispondono di: a) pesi ed oneri gravanti sui beni al momento dell'acquisto: in tale categoria rientrano senza dubbio i vincoli di carattere reale (pegno, ipoteca e privilegio speciale). Alcuni autori vi includono anche i diritti reali di godimento (usufrutto, servitù prediali, ecc..) gravanti sul bene al momento dell'acquisto e altri anche le c.d. obbligazioni propter rem (es. obbligo del proprietario del fondo servente di eseguire opere che risultino idonee a rendere più agevole l'esercizio della servitù) (Minneci, 341); b) tutti i carichi dell'amministrazione: in tale categoria si suole includere i debiti di qualsiasi natura contratti per la manutenzione ordinaria dei singoli beni della comunione, come le spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune, i contributi condominiali, le spese per le innovazioni e per i miglioramenti purché non eccessivamente gravose per il bilancio familiare; c) spese per il mantenimento della famiglia e per l'istruzione e l'educazione dei figli e ogni obbligazione contratta dalle parti, anche separatamente, nell'interesse della famiglia: sono generalmente ricondotte in tale categoria, tra le altre, le spese per l'arredamento della casa familiare. Se l'obbligazione è stata contratta separatamente, non si configurerà una responsabilità solidale, bensì sussidiaria (nei limiti di quanto precisato dal successivo art. 190 c.c.), dovendosi considerare la stessa come strumento mediato di attuazione del dovere di contribuzione e, comunque, salvo il ragionevole affidamento del terzo (Cass. n. 3471/2007); d) ogni obbligazione contratta congiuntamente dalle parti. L'avverbio congiuntamente deve essere inteso non nella sua accezione temporale, ma in quella strutturale della vicenda posta in essere. La categoria si riferirebbe, quindi, a tutti i vincoli caratterizzati, sotto il profilo del lato passivo, dalla qualità di condebitori in capo ad entrambe le parti dell'unione civile . La natura di comunione senza quote della comunione legale degli uniti civilmente comporta che l'espropriazione, per crediti personali di uno solo dei partner, di un bene o più beni in comunione, abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e nonla metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all'atto della sua vendita o assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione.Secondo la regola generale, valida anche per il matrimonio, i beni della comunione rispondono esclusivamente delle obbligazioni contratte da una delle parti unite civilmente dopo la costituzione dell'unione civile (art. 187 c.c.). Il principio secondo il quale l'obbligazione assunta separatamente da uno degli uniti in regime di comunione legale non pone l'altro nella situazione di coobligato solidale e non spiega alcuna influenza nei rapporti interni tra i partner stessi, rilevando soltanto sotto il diverso profilo della invocabilità, da parte del terzo creditore, della garanzia dei beni della comunione ovvero del coniuge non stipulante. Ne consegue che, adempiuta in toto l'obbligazione nei confronti del terzo creditore, il partenr personalmente obbligatosi ha diritto alla restituzione, da parte dell'altro partner, della metà della somma versata (Cass. n. 5487/1999). Nel caso in cui il credito sia sorto anteriormente alla costituzione dell'unione civile, se il patrimonio personale del debitore non è sufficiente a soddisfare il creditori particolari, questi ultimi possono rivalersi, in via sussidiaria, sulla comunione, fino al valore della quota del partner obbligato. A tali creditori, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione (art. 189 c.c.). Scioglimento e divisione della comunione legaleAi sensi dell'art. 191 c.c., in base al quale costituiscono cause di scioglimento: - lo scioglimento o annullamento dell'unione civile; - la dichiarazione di assenza o di morte presunta di una delle parti; - la separazione giudiziale dei beni (che può essere pronunziata in caso d'interdizione o d'inabilitazione di uno dei partner o di cattiva amministrazione della comunione o nelle altre ipotesi contemplate dall'art. 193 c.c.); - il mutamento convenzionale del regime patrimoniale mediante convenzione patrimoniale; - il fallimento di uno dei partner. All'esito dello scioglimento della comunione legale, ciascun partner può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti dagli artt. 192 e 194 c.c. Il principio generale è quello secondo cui la divisione si effettua ripartendo in parti uguali l'attivo ed il passivo (art. 194 c.c.). Ai sensi dell' art. 192 c.c., ciascuna parte dell'unione civile è tenuta a rimborsare alla comunione le somme prelevate dal patrimonio comune per fini diversi dall'adempimento delle obbligazioni previste dall'art. 186 c.c. e anche il valore dei beni di cui all'art. 189 c.c., a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione, dimostri che l'atto stesso sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia. Inoltre, è previsto dal medesimo articolo che ciascun partner possa richiedere la restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune. I rimborsi e le restituzioni si effettuano al momento dello scioglimento della comunione, ma, su istanza di parte, il giudice può autorizzarli in un momento anteriore se l'interesse della famiglia lo esige o lo consente (art. 192, comma 4 c.c.). Allo scioglimento della comunione legale, ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.c., devono essere restituiti solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l'acquisto di immobili che concorrono a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l'art. 194 c.c., secondo il quale all'atto dello scioglimento l'attivo ed il passivo deono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi. Quando si scioglie la comunione gli uniti civilmente hanno diritto di prelevare i beni mobili che appartenevano ad essi prima della comunione e quelli che sono pervenuti durante la comunione per successione o donazione. In mancanza di prova contraria, si presume che i beni mobili facciano parte della comunione (art. 195 c.c.). In ipotesi di controversia, la parte interessata deve fornire la prova che il bene apparteneva ad essa da epoca anteriore alla costituzione della comunione o che gli sia pervenuta per successione o donazione. Ai sensi dell'art. 196 c.c. se la parte non riesce a fornire la prova di cui sopra, ma non si trovi il bene, essa ha il diritto di prelevare dalla comunione un bene di valore corrispondente, salvo che la mancanza sia dovuta a consumazione per uso o perimento o per altra causa non imputabile all'altro partner . La divisione dei beni oggetto della comunione, conseguente allo scioglimento di essa, con effetto ex nunc, per annullamento o per scioglimento dell'unione, si effettua in parti uguali, ai sensi dell'art. 194 c.c., senza possibilità di prova di un divesro apporto economico dei coniugi all'acquisto di un determinato bene, non essendo applicabile il regime della comunione ordinaria, nella quale l'ugualianza delle quote dei partecipanti è oggetto di una presunzione semplice, superabile mediante prova contraria. Una volta intervenuto lo scioglimento dell'unione civile va escluso che continui a sussistere, a vantaggio dei terzi, una generale presunzione di comunione relativa ai beni che sono nella disponibilità esclusiva di uno di essi che non sia in grado di dimostrare con atto di data certa la proprietà individuale. Occorre, infatti, distinguere la presunzione di comproprietà posta dall'art. 195 c.c. che riflette i rapporti tra i partner, dalla presunzione posta dall'art. 197 c.c. che riguarda l'interesse dei terzi a non vedersi pregiudicata la possibilità di avvalersi degli effetti della presunzione medesima dall'avvenuto scioglimento della comunione rimesso alla esclusiva volontà degli uniti civilmente e attuato ocn il prelevamento effettuato da ciascuno di essi. Ai sensi dell' art. 197 c.c., infatti, il prelevamento del bene o del valore corrispondente non può pregiudicare i terzi, qualora la proprietà non risulti da atto avente data certa. Secondo la giurisprudenza, poiché l'art. 195 c.c prevede, con riguardo al prelevamento dei beni mobili nell'ambito della divisione dei beni della comunione, che, in mancanza di prova contraria, si presume che i beni mobili facciano parte della comunione, esso non prevede una prova qualificata, sicchè è sufficiente, per rovesciare la presunzione, una prova libera, e quindi anche una prova testimoniale o indiziaria (Cass. n. 7437/1994). Come per l'istituto matrimoniale, la causa principale per lo scioglimento della comunione è la separazione giudiziale dei beni, che può essere richiesta da ciascuna delle parti dell'unione civile al verificarsi di una delle circostanze previste dell'art. 193 c.c., ovverosia: - interdizione o inabilitazione di uno dei partner; - cattiva amministrazione della comunione; - quando il disordine degli affari di uno dei partner o la condotta da questi tenuta nell'amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell'altro o della comunione o della famiglia; - quando uno dei partner non contribuisce ai bisogni della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze o capacità di lavoro. La separazione può essere chiesta da una dei parti o dal suo legale rappresentante. La relativa sentenza retroagisce al giorno in cui è stata proposta la domanda ed ha l'effetto di instaurare il regime di separazione dei beni. La comunione convenzionaleAlle unioni civili si applica la sezione IV del capo VI del titolo VI libro I, in tema di comunione convenzionale. La citata sezione, dopo le abrogazioni operate dalla legge di riforma del 1975, si compone ora di soli due articoli: 210 e 211 c.c. L'art. 210 c.c. prevede la possibilità, ora anche per le parti dell'unioni civile, di modificare il regime della comunione legale dei beni, mediante convenzione stipulata secondo le formalità richieste dall'art. 162 c.c. La norma prevede, però, alcuni limiti nella possibilità di scelta di regimi patrimoniali convenzionali: 1) Deve essere rispettata la disposizione di cui all'art. 161 c.c., che vieta alle parti di pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano regolati in tutto o in parte da leggi alle quali non sono sottoposti: essi sono pertanto tenuti ad enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare i loro rapporti. 2) Non possono essere ricompresi nella comunione convenzionale i beni di uso strettamente personale di ciascuna parte, i beni che servono all'esercizio della professione, i beni destinati alla conduzione di un'azienda facente parte della comunione ed i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno o la pensione attinente alla perdita delle capacità lavorativa. 3) Non è possibile derogare alle norme della comunione legale relative all'amministrazione e all'uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale. Al fine di evitare che la comunione convenzionale pregiudichi i creditori di una delle parti, i beni della comunione rispondono delle obbligazioni contratte da una delle parti prima della costituzione dell'unione civile, limitatamente al valore dei beni di proprietà della parte stessa prima dell'unione civile e che per convenzione sono entrati e far parte della comunione. La separazione dei beniIl legislatore non ha regolamentato l'ipotesi in cui le parti omettano di scegliere il regime patrimoniale applicabile, limitandosi ad indicare che «in mancanza di diversa convenzione patrimoniale» vige il regime della comunione dei beni (art. 1, comma 13) e che il regime patrimoniale deve essere indicato nel documento attestante la costituzione dell'unione civile (art. 1, comma 9). Nel regime transitorio della novella, era previsto dal d.P.C.M. n. 144/2016 (c.d. decreto ponte) che le parti, al momento della dichiarazione resa dinanzi all'ufficiale dello stato civile, potessero rendere anche la dichiarazione di scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni (art. 3, comma 4). La disposizione del decreto ponte è stata sostituita dall'art. 70-octies, comma 3 d.P.R. n. 396/2000, introdotto dal d.lgs n. 5/2017, il quale statuisce che le parti, durante la costituzione dell'unione civile, possono dichiarare di scegliere il regime della separazione dei beni nei loro rapporti patrimoniali. La dichiarazione relativa alla separazione dei beni deve essere inserita nell'atto di costituzione dell'unione civile (art. 70-quaterdecies d.P.R. n. 396/2000). Il legislatore non ha previsto un termine di decadenza per la scelta del regime patrimoniale, conseguentemente gli uniti civilmente possono optare per la separazione dei beni, può ipotizzarsi che le parti hanno la facoltà di farlo anche successivamente alla costituzione dell'unione civile, mediante un'apposita convenzione patrimoniale, che deve rispettare le formalità dell'atto pubblico. L'annotazione del regime patrimoniale a margine dell'atto costitutivo dell'unione civile la rende opponibile a terzi, ai sensi dell'art. 162, comma 3 c.c. Le convenzioni patrimonialiLe parti dell'unione civile possono optare per un regime patrimoniale differente dalla comunione legale mediante la stipula di convenzioni patrimoniali. Ai sensi dell'art. 1, comma 13 legge n. 76/2016, in materia di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula di esse, si applicano gli artt. 162,163,164 e 166 c.c. in tema di convenzioni matrimoniali. Le convenzioni patrimoniale sono soggette a specifiche forme di pubblicità, che ne condizionano l'opponibilità ai terzi, quindi devono essere annotate nei registri dello stato civile a margine dell'atto di costituzione dell'unione.Il concetto di convenzione patrimoniale può essere ricavato da quella di convenzione matrimoniale che secondo la definizione più accreditata, si considera convenzione matrimoniale ogni accordo tra due o più parti, diretto a regolare più o meno compiutamente, la situazione patrimoniale di un determinato matrimonio (Busnelli, 513). Un altro indirizzo ha qualificato convenzione matrimoniale solo gli accordi, aventi natura programmatica, contenenti il complesso di regole destinate ad operare al verificarsi di eventuali futuri acquisti patrimoniali e ripartizione di tali acquisti, da distinguersi da atti di disposizione di beni compiuti in occasione del matrimonio e dagli accordi determinativi di obblighi legali (Russo, 192). Pertanto, le convenzioni matrimoniali non atterrebbero al profilo contributivo del regime patrimoniale della famiglia, ma piuttosto al profilo distributivo della ricchezza e, quindi, non regolerebbero le modalità e la misura in cui le parti contribuiscono al ménage, ma la spartizione della proprietà dei beni che verranno accumulati durante il matrimonio. Non tutti gli accordi aventi natura economico-patrimoniale stipulati tra i coniugi sono convenzioni matrimoniali, ma solo gli accordi diretti ad adottare o modificare il regime patrimoniale della famiglia. Se si ritiene assimilabile la convenzione patrimoniali degli uniti civilmente alle convenzioni matrimoniali, esse possono essere analogamente individuate per: a) escludere il regime della comunione, in favore del regime di separazione; b) modificare, entro certi limiti, il regime della comunione legale, restringendolo solo ad alcuni beni o allargandolo a beni che ne sarebbero esclusi, c) optare per regimi atipici non previsti dalla legge; d) costituire il fondo patrimoniale. Seguendo la giurisprudenza di legittimità in tema di matrimonio non possono essere considerati convenzioni patrimoniali gli accordi diretti a regolamentare gli aspetti economici dello scioglimento dell'unione civile (Cass. n. 8109/2000); l'atto con il quale una parte riconosce che il bene immobile, di cui è esclusivo intestatario, è stato pagato per la metà dall'altro partner, al quale si obbliga a trasferire la quota di spettanza a semplice richiesta (Cass. n. 3005/2009) o l'atto con il quale le parti, a seguito dello scioglimento della comunione legale, procedono all'attribuzione ad uno di essi delle titolarità esclusiva di uno o più cespiti. Le convenzioni patrimoniali possono essere stipulate in ogni tempo, ferme restando le disposizioni di cui all'art. 194 c.c. (art. 162, comma 3 c.c.) e devono avere la forma dell'atto pubblico sotto pena di nullità (art. 162, comma 1 c.c.). Il dispositivo dell'art. 162 c.c. non precisa se l'atto pubblico debba necessariamente essere notarile, ma ciò si desume dal quarto comma del medesimo articolo, laddove impone ai fini dell'opponibilità l'indicazione del notaio rogante. All'estero, tale funzione viene espletata dal console, ai sensi dell'art. 19 d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200. La legge notarile (art. 48), come novellata nel 2005, richiede per la costituzione delle convenzioni matrimoniali la presenza di due testimoni. Tale norma dovrebbe essere applicata anche alle convenzioni patrimoniali tra le parti dell'unione civile, in virtù della clausola di garanzia di cui all'art. 1, comma 20 legge n. 76. L'inosservanza della forma prescritta, determina la nullità della convenzione (art. 162 c.c.), cui consegue l'immediata instaurazione del regime legale della comunione dei beni. La regola che individua nella forma dell'atto pubblico l'unica che può avere la convenzione patrimoniale trova, ovviamente, unica eccezione nella scelta del regime di separazione che può essere fatta al momento della costituzione dell'unione, con mera dichiarazione resa all'ufficiale dello stato civile (art. 162, comma 2 c.c.). Sotto l'aspetto della pubblicità e opponibilità, le convenzioni patrimoniali — così come quelle matrimoniali — devono essere annotate nell'atto di costituzione dell'unione civile (art. 69, comma 1-bis d.P.R. n. 396/2000 modificato dal d.lgs. n. 5/2017). Ai sensi dell'art. 162, comma 4 c.c., le convenzioni patrimoniali non sono opponibili ai terzi quando a margine dell'atto di costituzione dell'unione non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante, le generalità dei contraenti ovvero la scelta di separazione contestuale alla costituzione. Le convenzioni non annotate, pur essendo valide ed efficaci, non sono opponibili a terzi. Se le convenzioni patrimoniali riguardano la costituzione di un fondo patrimoniale su beni immobili o l'esclusione di beni immobili dalla comunione, devono essere trascritte nei registri immobiliari ai sensi dell'art. 2647 c.c., richiamato dall'art. 1, comma 19 della novella. La costituzione del fondo patrimoniale di cui all'art. 167 c.c. è soggetta alle disposizioni dell'art. 162 c.c. circa le convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma della norma che ne condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di costituzione dell'unione, mentre la trascrizione per vincolo degli immobili, ai sensi dell'art. 2647 c.c. resta degradata a mera pubblicità notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti. Ai sensi dell'art. 2647 c.c. sono, altresì, soggetti all'onere trascrizione, quando hanno per oggetto beni immobili, gli atti di scioglimento della comunione, gli atti di acquisto di beni personali a norma delle lettere c), d), e) ed f) dell'art. 179 c.c., a carico, rispettivamente, dei partner dell'unione civile titolari del fondo patrimoniale o della parte titolare del bene escluso o che cessa di far parte della comunione.Le trascrizioni devono essere eseguite anche relativamente ai beni immobili che successivamente entrano a far parte del patrimonio familiare o risultano esclusi dalla comunione.Si noti che la legge n. 76/2016 non ha rinviato all'art. 2685 c.c., concernente la trascrizione delle medesime convenzioni quando hanno ad oggetto i beni mobili iscritti nei pubblici registri. La giurisprudenza di legittimità ritiene che la trascrizione ha l'unica funzione di pubblicità notizia e non di condizione di opponibilità (Cass.S.U., n. 21658/2009). Si è già detto che anche successivamente le parti dell'unione possono in ogni momento modificare le convenzioni patrimoniali (art. 163 c.c.). La modifica delle convenzione può riguardare anche un ampliamento dell'oggetto della comunione legale. Nell'ipotesi in cui le parti abbiano simulato una convenzione patrimoniale, da cui terzi abbiano subìto un pregiudizio, questi ultimi possono dare prova dalla simulazione (art. 164 c.c.). L'ammissione dei terzi alla prova della simulazione costituisce una novità introdotta dalla legge di riforma del 1975, in conseguenza della dichiarazione di illegittimità, da parte della Corte Costituzionale (sentenza n. 188/1970), del primo comma dell'art. 164 c.c., nella parte in cui, appunto, non ammetteva i terzi a provare la simulazione delle convenzioni matrimoniali. Si ritiene comunque, unanimemente, che a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 164 c.c. (sentenza Corte cost. n. 143/1967) la simulazione delle convenzioni matrimoniali è disciplinata, quanto all'impugnazione e alla prova da parte dei terzi, dalle norme dettate per la simulazione in generale. Il comma 2 dell'art. 164 c.c. prevede che le controdichiarazioni scritte, che costituiscono la prova principe dell'accordo simulatorio, possono aver effetto nei confronti di coloro tra i quali sono intervenute, solo se fatte con la presenza ed il simultaneo consenso di tutte le parti della convenzione patrimoniale. Quanto alla forma delle controdichiarazioni, si ritiene sufficiente la scrittura privata, considerato tra l'altro che la segretezza della controdichiarazione è inconciliabile con l'atto pubblico (tra gli altri, Busnelli, 512). L'art. 164 c.c. disciplina l'aspetto probatorio inter partes nell'eventualità in cui la convenzione patrimoniale venga a coinvolgere soggetti ulteriori rispetto ai partner dell'unione civile, come può accadere, ad esempio, nella costituzione di fondo patrimoniale con attribuzione di cespiti provenienti da terzi. In tal caso, è previsto che la controdichiarazione scritta abbia valore tra le parti solo se fatta alla presenza ed il simultaneo consenso di tutte le persone che sono state parti della convenzione patrimoniale. Al pari di quanto previsto per i coniugi dall'art. 160 c.c., anche le parti unite civilmente non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell'unione civile (art. 1, comma 13 legge n. 76/2016). La dottrina tende a ritenere che il divieto concerna solo i diritti ed i doveri di natura patrimoniale, e non anche quelli personali, in considerazione della natura contrattuale delle convenzioni patrimoniali (Oberto, 442). Di conseguenza, il divieto di deroga riguarderebbe in particolare i doveri di contribuzione delle parti e di mantenimento dei figli comuni. Sul punto si registrano comunque anche voci contrarie (Bocchini, 442; Ieva, 33). L'art. 160 c.c. è stato tradizionalmente utilizzato dalla giurisprudenza e dalla dottrina anche nella fase patologica del rapporto coniugale, al fine di sostenere il carattere inderogabile del diritto al mantenimento del coniuge separato e all'assegno divorzile dell'ex coniuge. Tuttavia vi è anche chi, all'opposto, ritiene che l'art. 160 c.c. concerna unicamente la fase fisiologica del rapporto di coniugio (ora anche di unione civile), sulla base di un'interpretazione storica e sistematica della norma (Oberto, 442). Secondo alcuni autori, il divieto di cui all'art. 160 c.c. comporterebbe anche l'inderogabilità della presunzione di comunione legale sancita dell'art. 219, comma 2 c.c., articolo richiamato anche dalla legge sulle unioni civili (Finocchiaro, 723). Alle unioni civili non è applicabile l'art. 165 c.c., che fa riferimento alla capacità del minore ammesso al matrimonio a prestare valido consenso per tutte le relative convenzioni patrimoniali. Tale esclusione è diretta conseguenza dell'inapplicabilità alle unioni civili dell'istituto dell'emancipazione, per cui i minorenni non possono mai contrarre un'unione civile. Il fondo patrimonialeAnche le parti dell'unione civile possono costituire un fondo patrimoniale e ad esse si applicano tutte le disposizioni contenute nella sezione II capo VI titolo VI libro I del codice civile (artt. 167 a 171 c.c.), cui rinvia il comma 13 art. 1 legge n. 76/2016 . Naturalmente il fondo patrimoniale non è un regime ma coesiste, laddove posto in essere, con regimi legali e convenzionali. La natura giuridica del fondo patrimoniale corrisponde a quella di un patrimonio separato con vincolo di destinazione.Il fondo patrimoniale consiste in un vincolo di destinazione di determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri o titolo di credito, alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, che determina un regime di parziale aggredibilità (art. 170 c.c.) e di parziale inalienabilità (art. 169 c.c.) dei beni medesimi. Esso non costituisce un tertium genus alternativo alla comunione e alla separazione dei beni. Infatti, le parti possono scegliere di far rientrare nel fondo tutti o solo determinati beni e, inoltre, non possono rientrare nel fondo i beni mobili, per i quali quindi le parti dovranno comunque scegliere un regime patrimoniale .Trattandosi di convenzione matrimoniale, è richiesta la forma dell'atto pubblico alla presenza di due testimobi, a meno che non sorga da un testamento.Come per il matrimonio, il fondo può essere istituito da una sola parte dell'unione civile, da entrambe o da un terzo. La forma richiesta è l'atto pubblico .Se nell'atto costitutivo non sia diversamente disposto, la proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi gli uniti civilmente ed i frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale sono impiegati per i bisogni della famiglia.Nel caso in cui sia un terzo a costituire il fondo, è necessaria l'accettazione delle parti dell'unione civile. Il fondo patrimoniale è soggetto alle disposizioni concernenti le convenzioni matrimoniali (art. 162 c.c.) e, pertanto, è opponibile ai terzi solo se il relativo atto costitutivo è annotato a margine dell'atto di costituzione dell'unione civile, restando irrilevante la trascrizione del vincolo per gli immobili ai sensi dell'art. 2647 c.c., che costituisce mera pubblicità-notizia (Cass.S.U., n. 21658/2009) . La costituzione del fondo patrimoniale determina soltanto un vincolo di destinazione sui beni confluiti nel fondo, affinchè, con i loro frutti, sia assicurato il soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ma non incide sulla titolarità dei beni stessi, né implica l'insorgere di una posizione di diritto soggettivo in favore dei singoli componenti del nucleo familiare, neppure con riguardo ai vincoli di disponibilità (Cass. n. 19376/2017).La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambe le parti, salvo che sia diversamente stabilito nell'atto di costituzione (art. 168 c.c.). I frutti dei beni costituenti il fondo patrimoniale sono impiegati per i bisogni della famiglia (Cass. n. 3738/2015). Se le parti non hanno stabilito diversamente al momento della costituzione del fondo, i beni rientranti nel fondo non possono essere alienati, ipotecati, dati in pegno o comunque vincolati, se non con il consenso di entrambe le parti. Alle unioni civili, a seguito delle recenti aperture della giurisprudenza di legittimità in materia di filiazione, nel caso in cui le parti dell'unione civile abbiano figli in comune e questi siano minorenni, è altresì richiesta l'autorizzazione del giudice, che la concede per necessità o utilità evidente (art. 169 c.c.). I beni oggetti del fondo e i loro frutti non possono essere oggetto di esecuzione per debiti che il creditore sapeva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia (art. 170 c.c.) (Cass. n. 23163/2014). L'onere della prova dei presupposti di applicabilità dell'art. 170 c.c. grava su chi intenda avvalersi del regime di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale. Il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l'esecuzione sui beni del fondo va ricercato non nella natura dell'obbligazione, ma nella relazione tra fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicchè, ad esempio, anche un debito di natura tributaria sorto per l'esercizio dell'attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità. Come per il matrimonio, a seguito dello scioglimento dell'unione civile (art. 171, comma 1 c.c.) cessa anche il fondo patrimoniale. Non può ritenersi applicabile l'art. 171, comma 2, c.c., il quale disciplina l'ipotesi in cui se vi sono figli comuni, deve ritenersi che ai sensi dell'art. 171, comma 2 c.c. il fondo duri fino al compimento della maggiore età di quest'ultimo, tenuto conto che la prole comune non è contemplata nell'unione civile. Comunque in ragione delle recenti aperture della giurisprudenza di legittimità, non si esclude a priori l'applicabilità della disposizione. L'atto costitutivo del fondo è considerato un atto di liberalità e, pertanto, esso è soggetto ad azione revocatoria in caso di fallimento. All'unione civile si applicano espressamente alcune disposizioni in materia di pubblicità immobiliare che il legislatore si è curato di richiamate in modo preciso, quali gli artt. 2647,2653, comma 1, n. 4, e 2659 c.c. Siffatti tre rinvii ad altrettante disposizioni del codice civile, contenuti nel comma 19 dell'art. 1, danno luogo all'importazione direta nell'ambito delle unioni civili, di alcuni istituti in materia di diritto di famiglia e di pubblicità immobiliare. Attribuzioni patrimoniali tra le parti dell'unione civileLa legge n. 76/2016 non prevede una disciplina delle attribuzioni patrimoniali effettuate da un partner in favore all'altro durante l'unione civile. Considerata, però, la sostanziale equiparazione dei rapporti patrimoniali tra le parti unite civilmente e quelli esistenti tra coniugi, sembra potersi affermare che sono applicabili, in materia, gli stessi principi ispiratori applicati al rapporto di coniugio. Di conseguenza, il principio generale è quello secondo cui ciò è stato corrisposto da una parte dell'unione civile all'altra (es. donazione di beni e/o di denaro) durante il rapporto, si considera effettuato in adempimento dei doveri di contribuzione e di assistenza materiale previsti dalla legge n. 76/2016 e non è, pertanto, con i dovuti temperamenti relativi al caso specifico, restituibile. L'impossibilità di restituire quanto ricevuto dal partner durante il rapporto dell'unione civile è un principio largamente condiviso dalla giurisprudenza di legittimità in tema di convivenze di fatto (Cass. n. 18749/2004; Cass. n. 1277/2014). L'attribuzione patrimoniale in favore dell'altro partner costituisce l'adempimento dei doveri di assistenza morale e materiale, a condizione che sia rispettato il principio di proporzionalità rispetto al normale ménage familiare. Anche in tema di unioni di fatto, la giurisprudenza ha espresso il principio secondo il quale le liberalità in denaro costituiscono espressione del principio di solidarietà. In particolare si è detto che: «Le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell'ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell'art. 2 Cost., sono caratterizzate dai doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell'altro, che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale. Ne consegue che le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente “more uxorio” effettuate nel corso del rapporto, nella specie versamenti in denaro sul conto corrente del convivente, configurano un adempimento di una obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, senza che assumano rilievo le eventuali rinunce operate dal convivente, quale quella di trasferirsi all'estero recedendo dal rapporto di lavoro, ancorché suggerite o richieste dall'altro convivente, che abbiano determinato una situazione di precarietà sul piano economico, dal momento che tali dazioni non hanno valenza indennitaria ma sono espressione della solidarietà tra due persone unite da un legame stabile e duraturo» (Cass. n. 1277/2014). Se gli esborsi sono apprezzabilmente superiori alle condizioni economiche di chi li pone in essere, oppure sproporzionati rispetto al tenore familiare complessivo, si può richiedere la restituzione delle somme versate, a meno che venga provato che si trattasse di una donazione indiretta. La S.C. ha affermato che: «l'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell'adempimento di una obbligazione naturale. È, pertanto, possibile configurare l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un “convivente more uxorio” nei confronti dell'altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esultanti da mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza, il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto, e travalicanti i limiti di proporzionalità ed adeguatezza» (Cass. n. 11330/2009). ì Nel vigore del regime di comunione legale dei beni, le somme di denaro appartenenti al patrimonio personale di uno dei due partner ed utilizzate per sostenere spese e investimenti relativi al patrimonio comune, non rientrano negli oneri di reciproca assistenza, solidarietà e contribuzione alle spese familiari e, pertanto, lo scioglimento della comunione legale autorizza, ai sensi dell'art. 192, comma 3 c.c., ciascuno dei due partner a richiederne la restituzione. Quest'ultima può anche essere autorizzata dal giudice in un momento anteriore allo scioglimento della comunione, se l'interesse della famiglia lo esige o lo consente. La Cassazione ha, però, precisato che la disposizione di cui all'art. 192, comma 3 c.c. attiene esclusivamente al procedimento di divisione del patrimonio comune e deve essere interpretata in modo restrittivo, per cui la restituzione concerne solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l'acquisto di immobile che concorre a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l'art. 194, comma 1 c.c., secondo il quale all'atto dello scioglimento l'attivo ed il passivo devono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi (Cass. n. 19454/2012). In tema di somme depositate su un conto corrente cointestato tra la parti dell'unione civile, vige il principio generale secondo cui il denaro accreditato si presume di pertinenza al 50% di ciascun cointestatario. Ciò vale sia nel caso di regime di comunione che di separazione dei beni. Di conseguenza, se uno dei partner preleva dal conto corrente più del 50% delle somme ivi depositate e non le utilizzate per soddisfare bisogni della famiglia, l'altro ha diritto di richiedere la restituzione della quota eccedente il 50%. Quella della contitolarità è una presunzione juris tantum e, come tale, suscettibile di essere superata da risultanze di segno contrario, con qualsiasi mezzo, anche di carattere presuntivo, perché gravi, precise e concordanti (Cass. n. 19115/2012). La Corte di Cassazione ha ritenuto idonee a tal fine la documentazione comprovante che il conto corrente è stato alimentato esclusivamente con provvista proveniente da un solo dei cointestatari, l'assenza di versamenti da parte dell'altro cointestatario, la sottrazione da parte di quest'ultimo di ingenti somme ed il loro versamento su altri conti di sua esclusiva pertinenza (Cass. n. 19115/2002, cit.). Nella stessa pronuncia si è escluso che potesse qualificarsi come donazione indiretta l'ingente versamento effettuato all'apertura del conto da uno dei coniugi, in assenza della prova dell'animus donandi. Una situazione che si verifica di frequente nei rapporti familiari è quello dell'utilizzo di denaro personale per eseguire migliorie o ampliamenti dell'immobile di proprietà esclusiva dell'altro coniuge/partner. In simile ipotesi, la prevalente giurisprudenza in ambito matrimoniale ritiene che il coniuge che ha effettuato gli esborsi, se compossessore dell'immobile insieme al partner beneficiario, ha diritto ai rimborsi ed alle indennità contemplate dall''art. 1150 c.c., nella misura prevista dalla legge a seconda che fosse in buona o mala fede (Cass. n. 13259/2009). In altre parole, ritenendo che le spese per le migliorie costituiscono una forma di contribuzione alle esigenze della famiglia, non se ne ammette la restituzione, ma si riconosce in capo alla parte che le ha effettuate il diritto all'indennizzo ex art. 1150 c.c., nel caso in cui la spesa è andata ad aumentare il valore patrimoniale dell'immobile. L'art. 1150 c.c. è applicabile quando la parte che abbia elargito somme di denaro fosse compossessore dell'immobile altrimenti può essere invocato il rimedio dell'ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. e la parte beneficiaria è tenuta ad indennizzare l'altra del vantaggio economico conseguito dall'esborso. È stato ritenuto conforme a legge ed ai principi generali che il coniuge, ricevuta, in costanza di convivenza, dall'altro coniuge, in mutuo una somma di denaro si obblighi a restituirla, mediante scrittura privata, nell'ipotesi in cui le parti procedano in futuro a rituale separazione personale (Cass. n. 19304/2013). La Suprema Corte ha sul punto precisato che l'obbligo della restituzione non viola né gli artt. 1813, 1816, 1817 c.c. in tema di mutuo, né, tanto meno, gli artt. 143 e 160 c.c.; è altresì da escludere che l'obbligo ex lege di restituzione del coniuge mutuatario abbia in qualche modo leso il suo diritto a procedere del tutto liberamente alla separazione, diritto personalissimo che non tollera alcuna limitazione, e che, nella fattispecie de qua appare integralmente tutelato, dato anche il precedente esplicito, consapevole impegno di restituzione del marito; è, ancora, da escludere che il rapporto di mutuo abbia negativamente influito sui diritti e sui doveri coniugali e sulla loro intangibilità, e che il coniuge mutuante abbia, a suo tempo, concesso la somma per uno scopo anche da parte sua contrario al buon costume. La S.C. ha da tempo evidenziato che «L'attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo è, ai sensi dell'art. 2697 c.c., primo comma, tenuto a provare gli elementi costitutivi della domanda, e quindi, non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l'obbligo della vantata restituzione; atteso che l'esistenza di un contratto di mutuo, non può essere desunta dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo avvenire per svariate ragioni, non vale di per sé a fondare una richiesta di restituzione), essendo l'attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa» (Cass. n. 9864/2014). Non serve ad invertire l'onere della prova, «la circostanza che il convenuto ammetta di aver ricevuto una somma di denaro dall'attore, ma neghi che ciò sia avvenuto a titolo di mutuo», quindi rimane a carico dell'attore dimostrare «che la consegna del denaro è avvenuta in base ad un titolo (mutuo) che ne imponga la restituzione». La Suprema Corte ha confermato la liceità dell'accordo prematrimoniale in cui si prevedeva che in caso di fallimento dell'unione matrimoniale l'un coniuge avrebbe ceduto all'altro un immobile di sua proprietà, quale indennizzo delle spese sostenute dal secondo per la ristrutturazione di altro immobile di proprietà del primo da adibirsi a casa coniugale, ritenendo il fallimento del vincolo matrimoniale non la causa genetica dell'accordo ma un mero evento condizionale dello stesso (Cass. n. 23713/2012). Ciò in ragione del fatto che l'accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso dalle parti ai margini di un giudizio di separazione o divorzio, ha natura negoziale e produce effetti, dovendosi dare rilievo all'autonomia negoziale dei partner, i quali possono prevendere al verificarsi dell'evento relativo alla crisi le modalità di scioglimento del rapporto. Gli enunciati principi, naturalmente, sono applicabili alle unioni civili, stante l’identità di ‘ratio’ degli istituti che regolamentano il legame. Aspetti fiscaliAnche sotto il profilo fiscale, l'unione civile è equiparata al matrimonio. La legge n. 76/2016 non contiene un espresso rinvio alle norme in materia fiscale, ma l'estensione di queste ultime al nuovo istituto è garantita dalla clausola di garanzia di cui all'art. 1, comma 20, in base alla quale tutte le disposizioni contenute nelle leggi speciali che si riferiscono a coniuge/i e a matrimonio si applicano anche ad ognuna delle parti dell'unione civile. Di conseguenza, le parti dell'unione civile possono usufruire dei medesimi benefici fiscali previsti per i coniugi dal d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (c.d. Testo Unico delle Imposte sui Redditi), tra cui: - la detrazione per i c.d. «carichi di famiglia» per il partner a carico; - la deducibilità degli assegni periodici di mantenimento versati in favore dell'ex partner (art. 10, comma 1, lett c, T.U.I.R.); - l'esenzione degli atti di trasferimento degli immobili in esecuzione degli accordi di scioglimento dell'unione; - l'esenzioni fiscali in tema di successioni; - la detassazione ai fini Irpef dell'abitazione principale (art. 10, comma 3-bis d.P.R. n. 917/1986- T.U.I.R.). (Come rilevato da Forte, 84, «l'agevolazione consistente nella detassazione integrale della «prima casa» spetta anche quando l'immobile costituisce la dimora principale soltanto dei familiari che vi risiedono, ma limitatamente ad una sola unità immobiliare. Pertanto, se ognuna delle parti dell'unione civile è proprietaria di un'abitazione principale, a seguito dell'unione si perderà il diritto a fruire della detassazione ai fini Irpef per uno dei due immobili. In questo caso viene meno una parte del beneficio fiscale rispetto al periodo antecedente all'unione civile in quanto, in precedenza, ciascuno dei due proprietari poteva considerare quale abitazione principale il rispettivo immobile posseduto a titolo di proprietà.»). La parte dell'unione civile, non proprietaria dell'immobile in cui vive, potrà usufruire della detrazione dall'Irpef per gli interventi di recupero edilizio effettuati sull'immobile dell'altra parte, ai sensi dell'art. 16-bis d.P.R. n. 917/1986- T.U.I.R., senza che sia necessario — come invece ancora richiesto per i conviventi di fatto — che vi sia un contratto di comodato che giustifichi la disponibilità dell'immobile (Cfr. Risoluzione n. 64/E Agenzia delle Entrate del 28 luglio 2016). Tenuto conto della sostanziale assimilazione tra l'istituto dell'unione civile e quello matrimoniale possiamo ritenere in tema di imposta di registro e dei relativi benefici per l'acquisto della prima casa, il requisito della residenza va riferito alla famiglia, intesa anche quale unione civile, per cui ove l'immobile acquistato sia adibito a tale destinazione non rileva la diversa residenza di uno dei partner in regime di comunione legale, essendo gli stessi tenuti non ad una comune sede anagrafica, ma alla coabitazione; va, tuttavia, accertata l'effettiva destinazione a residenza principale della famiglia e, cioè, la coabitazione dei coniugi nell'immobile, non essendo sufficiente che uno solo di essi abbia trasferito la sua residenza nel relativo comune di ubicazione (Cass. n. 13335/2016). In tema di IMU, la Corte di legittimità ha affermato che il convivente “more uxorio” al quale a seguito della cessazione del rapporto viene assegnato l’immobile adibito a casa familiare di proprietà dell’altro convivente, è soggetto passivo di imposta ex art. 4, comma 12-quinquies, del d.l. n. 16 del 2012, conv. in l. n. 44 del 2012, che non disciplinando un’ipotesi di agevolazione o di esenzione, può essere interpretato estensivamente includendo nel relativo ambito di applicazione, per “eadem ratio” anche i rapporti di convivenza (Cass. n. 11416/2019). Mentre con riferimento al vincolo matrimoniale, la Corte di Cassazione in fattispecie riguardante l’ICI ha affermato che: “il coniuge al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell’immobile di proprietà (anche in parte) dell’altro coniuge non è soggetto passivo dell’imposta per la quota dell’immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento, come previsto dall’art. 3 del d.lgs. n. 504 del 1992, poiché con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa coniugale in sede di separazione personale o di divorzio, viene riconosciuto al coniuge un diritto personale atipico di godimento e non un diritto reale, sicchè in capo al coniuge non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno dei quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti il presupposto impositivo del tributo (Cass. n. 7395/2019). 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Note critiche sulla disciplina contenuta nei commi 1- 34 dell'art. 1 della l. 20 maggio 2016, n. 76, integrata dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 101 ss.; De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, Padova, 2016; Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in Fam. e dir. n. 10/2016; Fasano-Gassani, La tutela del convivente dopo la legge sulle Unioni Civili, Milano, 2016; Ferrando, La disciplina dell'atto. Gli effetti: diritti e doveri, in Fam. e dir. n. 10/2016; Figone, Matrimonio e unioni civili: differenze ed analogie, in Il Familiarista, Milano, 23 maggio 2016; Finocchiaro, Basta la dichiarazione all'ufficiale dello stato civile, in Unioni civili e convivenze, in Guida dir. n. 06/2016; Forder, Riconoscimento e regime giuridico delle coppie omosessuali in Europa, in Riv. critica dir. priv. 2000; Forte, in Le unioni civili e le convivenze di fatto, L. 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