Codice Civile art. 194 - Divisione dei beni della comunione (1).

Gustavo Danise

Divisione dei beni della comunione (1).

[I]. La divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo in parti eguali l'attivo e il passivo [210 3; 784 ss. c.p.c.].

[II]. Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all'affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l'usufrutto su una parte dei beni spettanti all'altro coniuge [38 1 att.].

(1) Articolo così sostituito dall'art. 73 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 55 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione e soppresso la suddivisione in paragrafi.

Inquadramento

Gli articoli da 194 a 197 c.c. disciplinano il giudizio di divisione dei beni in comunione legale dopo lo scioglimento della stessa. L'art. 194 enuncia il principio basilare in tema di divisione, disponendo che essa avvenga ripartendo in parti uguali (quindi per metà cadauno) sia l'attivo che il passivo. Il comma 2 prevede la possibilità della costituzione di un usufrutto giudiziale in favore di un coniuge per le esigenze della prole. Come si vedrà, si può ricorrere all'intervento giudiziale ad es. per consentire al coniuge cui siano affidati i figli minori di poter continuare ad occupare l'immobile, in comunione legale, adibito a casa coniugale unitamente alla prole La norma si estende anche alle parti di un'unione civile ex art. 1 comma 13 l. n. 76/2016.

Natura giuridica

La divisione dei beni in comunione legale costituisce solo una fase eventuale, cui i coniugi possono dar vita dopo lo scioglimento della comunione legale; infatti, se ritengono che le rispettive intestazioni di beni rispecchino l'equa corrispondenza ai valori patrimoniali impegnati da ciascuno di essi durante lo svolgimento della vita matrimoniale, ben possono decidere di non procedervi e di lasciare inalterato lo status quo. Si tratta di un'opinione unanime in dottrina, condivisa anche dagli autori che ritengono che, in seguito allo scioglimento, la comunione legale si trasformi in comunione ordinaria (Corsi, 191; Finocchiaro A. e M., 1178; De Paola, 700). Pertanto, dopo lo scioglimento della comunione ciascun coniuge godrà e disporrà, in modo esclusivo, dei beni acquistati separatamente ed a lui esclusivamente intestati, mentre su quelli cointestati si instaurerà la comunione ordinaria, con applicazione della relativa disciplina, fino al momento in cui decideranno di procedere alla divisione. Laddove i coniugi decidano di procedere alla divisione per ripartire più equamente e correttamente i rispettivi apporti forniti alla costruzione del patrimonio in comunione durante il matrimonio, tutti gli acquisti di cui all'art. 177 c.c. saranno oggetto della comunione legale, a prescindere dall'intestazione formale del bene, e dovranno essere ripartiti nel giudizio di divisione secondo il criterio dettato dall'art. 194 comma 1. La divisione della comunione legale presenta natura diversa rispetto alla divisione della comunione ordinaria o ereditaria. Essendo quest'ultima una comunione per quote, la sentenza di divisione possiede natura dichiarativa, per effetto della quale ogni coerede è reputato solo e immediato successore in tutti i beni componenti la sua quota o quella a lui pervenuta dalla successione, mentre alcun diritto può vantare sui beni che costituiscono le quote degli altri coeredi (Guarino, 263). Essendo la comunione legale, viceversa, una comunione senza quote (Corte cost. n. 311/1988), la sentenza che la dispone può determinare il trasferimento in favore di un coniuge del diritto su beni in precedenza acquistati e intestati esclusivamente all'altro coniuge o su beni che, in quanto facenti parte della comunione de residuo, si trovavano, prima dello scioglimento della comunione, nell'esclusiva titolarità e disponibilità dell'altro coniuge; pertanto, tale pronuncia possiede natura costitutiva, perché determina il mutamento nella titolarità dei diritti sui beni facenti parte della massa (Paladini, 665). La dottrina prevalente sostiene che anche la sentenza di divisione della comunione legale presenti natura dichiarativa, come quella ordinaria, perché accerta e dichiara i singoli beni che saranno attribuiti in proprietà esclusiva a ciascun coniuge, nella stessa misura in cui avviene per la comunione ordinaria ed ereditaria che prima della sentenza prevede si fonda sulla contitolarità di diversi soggetti sui beni che costituiscono la massa patrimoniale da dividere (Ceccherini, 68, De Paola, 712; Galasso, 519; Oberto, 2054). Poiché l'art. 194 comma 1 si limita a stabilire il principio della ripartizione in parti eguali dell'attivo e del passivo, senza indicazioni specificazioni sulle modalità ed ai tempi della divisione Vi è unanimità di vedute in dottrina sull'applicazione analogica delle norme sulla comunione ereditaria (Corsi, 199; Santosuosso, 318; Mastropaolo-Pitter, 370; Venditti, 279).

In un obiter dictum contenuto nella Cass. n. 13009/2006 la S.C. di Cassazione attribuisce natura dichiarativa alla sentenza di divisione dei beni in comunione legale (fattispecie relativa alla offerta di versamento di un conguaglio da parte di un coniuge a favore dell'altro, che, secondo la Cassazione, attiene alle operazioni divisionali e non costituisce un capo autonomo della sentenza dichiarativa della divisione, conseguendone che l'importo del conguaglio diventa definitivo soltanto con il passaggio in giudicato della sentenza). E’ stato precisato recentemente che il giudizio di divisione di beni oggetto di comunione tra coniugi in regime di separazione dei beni non deve essere sospeso in attesa del giudicato sulla separazione personale degli stessi, a differenza di quello volto allo scioglimento della comunione legale, viste le differenze di disciplina e di tutela tra la comunione ordinaria e la comunione legale (Cass. n. 17882/2023).

La divisione consensuale

I coniugi possono evitare di instaurare un giudizio e procedere alla divisione equa dei beni in comunione legale con un apposito contratto, che potrebbe avere effetti traslativi nel senso di assegnare in proprietà ad un coniuge un bene immobile o mobile registrato che risulta intestato esclusivamente all'altro, che l'aveva acquistato personalmente durante il matrimonio. Il contratto di divisione deve rivestire la forma prevista per i beni che ne sono oggetto (così, se con esso si dividono tra i coniugi determinati beni immobili o mobili registrati, il contratto deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità ex art. 1350 c.c.) e deve essere trascritto nei relativi registri affinché il mutamento della titolarità del diritto di proprietà sul bene diventi opponibile ai terzi (Amagliani-Saccà, 219; Bocchini, 329 ss.) Da decenni vi è incertezza in dottrina e giurisprudenza sulla possibilità di inserire i patti di divisione dei beni comuni nell'accordo di separazione consensuale o di divorzio congiunto. All'orientamento positivo, invalso inizialmente anche in giurisprudenza di legittimità (cfr. sottoparagrafo successivo dedicato alla giurisprudenza), e basato sulla idoneità del verbale di udienza sottoscritto dal cancellerie, quale pubblico ufficiale, ad essere oggetto di trascrizione nei registri immobiliari, si contrappone quello più recente, che nega tale ammissibilità, sulla scorta della considerazione che il Tribunale non possiede i poteri di certificazione e di controllo di esattezza dei dati catastali degli immobili riportati nell'accordo di divisione, che costituisce il presupposto ineludibile per la trascrizione nei registri per evidenti ragioni di certezza nei traffici giuridici. Nell'ambito di questa impostazione, si è affermata una corrente di pensiero che ammette l'assunzione dell'obbligo da parte di uno dei coniugi di trasferire con atto pubblico separato uno o più immobili o mobili registrati all'ex consorte per regolare la divisione dei beni in comunione legale. In tal caso, non è necessario procedere ad un esaustivo controllo e certificazione dei dati catastali, che sarà effettuato dal notaio presso cui il coniuge obbligato si recherà per adempiere all'impegno assunto nell'accordo di separazione o divorzio congiunto (le varie posizioni sono riportate in Oberto, 155 ss.; Vaglio, 685 ss). Tutti e tre gli orientamenti riportati sono stati oggetto di larga e diffusa applicazione giurisprudenziale, come si avrà modo di approfondire. Ne è conseguita, pertanto, una situazione di profonda incertezza applicativa, in quanto in alcuni Tribunali era invalsa la prassi di ammettere negozi traslativi nell'ambito degli accordi di separazione o divorzio congiunto mentre in altri si era affermata la prassi opposta. Al fine di perseguire l'obiettivo della certezza del diritto e dell'uniformità di trattamento sul territorio nazionale su questa delicata e diffusa questione, il legislatore ha deciso di intervenire direttamente, offrendo una indicazione precisa in grado di orientare il futuro lavoro degli interpreti. Con l'art. 19 comma 4 l. n. 122/2010 di conversione del d.l. n. 78/2010, si dispone la modifica dell'art. 29 l. 27 febbraio 1985, n. 52, aggiungendovi il comma 1-bis che dispone: «Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all'identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un'attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari». Tale disposizione demanda quindi in modo espresso al «notaio» e non ad altri operatori, il compito della individuazione e della verifica catastale, nella fase di stesura degli atti traslativi, così concentrando, nell'alveo naturale del rogito notarile, il controllo statale a presidio degli interessi pubblici coinvolti. Ne consegue che il controllo del notaio non può essere sostituito da quello del giudice, ostandovi l'evidente diversità di ruolo e funzioni, né è praticabile la via dell'applicazione analogica o estensiva della funzione descritta dalla norma al giudice, quale altro pubblico ufficiale, in considerazione dell'inesistenza di una lacuna ordinamentale da colmare, avendo il legislatore offerto una indicazione inequivocabile di affidamento delle funzioni di certificazione e verifica dei dati catastali alla figura professionale che maggiormente appare adatta a svolgerle. Alla luce di tale innovazione normativa, a parere dello scrivente le clausole contenenti trasferimenti immobiliari non possono essere inseriti negli accordi di separazione e divorzio, potendo ammettersi solo clausole in cui un coniuge assume l'obbligo di recarsi dal notaio per stipulare l'atto di trasferimento a favore dell'altro coniuge dei beni immobili o mobili registrati specificamente indicati nell'accordo di separazione o nel ricorso congiunto per la cessazione degli effetti civili o per lo scioglimento del matrimonio civile. L'atto pubblico che il coniuge stipula per l'adempimento di tale obbligo configura un «pagamento traslativo», quale atto unilaterale avente ad oggetto l'adempimento dell'obbligo di trasferire ad un terzo la proprietà o altro diritto reale, che è una figura oramai riconosciuta dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis cfr. Luminoso).

Preliminarmente si segnalano le sentenze della Cass. n. 9846/1996 e Cass. n. 14791/2000 ove si precisa che mentre le convenzioni patrimoniali stipulate in corso di matrimonio necessitano della forma prevista dall'art. 162 c.c., il negozio di divisione consensuale dei beni in comunione legale, diversamente, poiché viene stipulato quando la comunione legale è sciolta, non deve rivestire la forma prevista da tale articolo, ma è soggetta alla disciplina giuridica generale di obbligazioni e contratti, per cui se il predetto negozio ha ad oggetto beni immobili, necessita di forma scritta ad substantiam ex art. 1350 c.c. e deve essere trascritto nei registri immobiliari ai fini della opponibilità a terzi; può essere stipulato oralmente se riguarda esclusivamente beni mobili non registrati (è il caso degli arredi contenuti nella casa coniugale). Il giudizio di divisione deve riguardare l'intero compendio dei beni oggetto in comunione se non vi è stato accordo dei coniugi per la limitazione dei beni da dividere (in tal senso Cass. n. 16622/2023 secondo cui “In tema di divisione, quando tra i condividenti non vi sia stato accordo per limitare le operazioni divisionali ad una parte soltanto del compendio comune, il giudizio di divisione deve ritenersi istaurato per giungere al completo scioglimento della comunione, previa esatta individuazione di tutto ciò che ne forma oggetto. A fronte della maturazione del fatto costitutivo del diritto del coniuge allo scioglimento della comunione familiare, deve procedersi alla divisione dell'intero compendio, qualora le parti non abbiano espresso la concorde e specifica volontà di limitare la divisione solo ad una parte dei relativi cespiti, anche se i beni da dividere siano solo genericamente indicati, in quanto la loro specifica individuazione appartiene alla fase attuativa della divisione”). Inoltre, sulla dibattuta questione dell'ammissibilità dell'inclusione di clausole traslative di diritti immobiliari negli accordi di separazione e divorzio, la S.C. di Cassazione ne ha ammesso la validità, motivando che il suddetto accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale d'udienza (redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato), assume forma di atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell'art. 2699 c.c., e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo l'omologazione che lo rende efficace, titolo per la trascrizione a norma dell'art. 2657 c.c.). Siffatto orientamento della Cassazione è stato sconfessato dalla giurisprudenza di merito prevalente, che ha escluso la validità delle clausole traslative di diritti immobiliari, contenute negli accordi di separazione sottoscritti in udienza presidenziale o negli accordi di divorzio congiunto sottoscritti a verbale d'udienza innanzi al Tribunale collegiale, perché consentirebbero trasferimenti della proprietà di immobili senza il previo controllo tecnico sulla normativa urbanistica, energetica e catastale che di certo non può essere svolto dall'A.G. in udienza (in tal senso Trib. Firenze, 7 febbraio 1992; Trib. Mantova, 30 luglio 2007; Trib. Pisa, 29 aprile 2009; Trib. Prato, 22 aprile 2009). In tali pronunce si ammette al limite solo l'inserimento di una clausola negli accordi di separazione e divorzio in cui un coniuge si obbliga ad eseguire con un successivo atto pubblico il trasferimento in favore dell'altro. Quest'ultimo orientamento si è diffuso largamente nelle Corti di merito dopo l'introduzione del comma 1-bis nell'art. 29 della l. 27 febbraio 1985, n. 52, ad opera dell'art. 19 comma 4 l. n. 122/2010 di conv. del d.l. n. 78/2010, che demanda in modo espresso al «notaio» e non ad altri operatori, il compito della individuazione e della verifica catastale, nella fase di stesura degli atti traslativi così concentrando, nell'alveo naturale del rogito notarile, il controllo indiretto statale a presidio degli interessi pubblici coinvolti, conseguendone, si legge ad es. nel decreto del Trib. Milano del 21 maggio 2013 che il controllo notarile non è suscettibile di essere sostituito con quello del giudice, ostandovi l'evidente diversità di ruolo e funzioni (in senso analogo Trib. Bologna, decreto 1 gennaio 2013). 

In base a quest'orientamento quando il Presidente del Tribunale o il Collegio si trovava di fronte a clausole di tal tenore, contenute nelle bozze di accordo di separazione consensuale o del ricorso per divorzio congiunto, presentate per la sottoscrizione in udienza di comparizione, doveva rilevarne l'inammissibilità ed invitare i coniugi presenti in aula a sostituirle con l'assunzione dell'obbligo di un coniuge di stipulare con successivo atto pubblico notarile, entro un determinato termine, il trasferimento dei diritti immobiliari ivi specificamente indicati, giustificato dal fatto che le parti non possono anteporre l'interesse individuale a conseguire un risparmio di spesa, all'interesse pubblico della corretta identificazione dei beni immobili, ai fini della futura circolazione, che è la ratio che ha ispirato la novella del 2010. L'orientamento opposto, pure diffusosi nelle Corti di merito, salvaguardava la legittimità  trascrivibilità degli accordi tra coniugi contenenti trasferimenti immobiliari in quanti destinati ad essere trasfusi in un atto redatto da pubblico ufficiale (ossia il verbale di udienza sottoscritto dal cancelliere), venendo così rispettato il dettato normativo. Tale contrapposizione in giurisprudenza è stata risolta dalle S. U. della Corte di Cassazione con sentenza Cass. S.U. n. 21761/2021, ove è stato affermato il principio di diritto secondo cui sono ammissibili e valide le pattuizioni, inserite nel verbale di separazione consensuale o nelle conclusioni congiunte di divorzio, dirette ad attuare con effetto reale, e non meramente obbligatorio, il trasferimento del diritto di proprietà o di altri diritti reali su beni immobili, tra coniugi, a favore dell'uno o dell'altro, ovvero a favore dei figli; esse soddisfano, in quanto inserite nel verbale di udienza, sia il requisito della forma scritta, sia dell'atto pubblico idoneo ad essere trascritto, posto che il predetto verbale è redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è attestato; a tale possibilità non osta il disposto dell'art. 19, comma 14, d.l. n. 78/2010, in quanto l'obbligo di attestazione della c.d. conformità catastale non è sanzionato da nullità testuale e riguarda in ogni caso i soli trasferimenti conclusi con atto notarile, mentre esso non si applica alla scrittura privata autenticata, e nemmeno a tutte le altre ipotesi di trasferimento immobiliare attuate con l'intervento dell'autorità giudiziaria. Peraltro, neppure la citata norma esclude che a tale verifica possano provvedere gli ausiliari del giudice. Nonostante tale intervento nomofilattico delle SS.UU. Peraltro in linea con quest'orientamento si pone un'ulteriore pronuncia che precisa ulteriormente che i trasferimenti di immobili, stabiliti nell'accordo di separazione o divorzio, rientra nel novero degli atti suscettibili di revocatoria fallimentare ai sensi degli artt. 67 e 69 l. fall., non trovando tale azione ostacolo nell'avvenuta omologazione dell'accordo stesso, cui resta estranea la funzione di tutela dei terzi creditori e che, comunque, lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione che (Cass., ord.n. 14049/2021). Si può pertanto validare la tesi delle SS.UU secondo cui i trasferimenti immobiliari convenuti in un accordo di separazione o divorzio sono validi ed efficaci e trascrivibili perché contenuti in un atto (verbale di udienza) omologati da un pubblico Ufficiale (cancelliere e giudice che firmano il verbale). Tuttavia la problematica de qua è ancora quanto mai attuale a seguito della introduzione delle procedure stragiudiziali di separazione e divorzio ad opera del d.l. 132/2014. Ci si è chiesti se fosse possibile che le parti regolassero trasferimenti di beni in comunione legale inserendo il negozio divisorio negli accordi di separazione e divorzio definiti nelle forme della negoziazione assistita. Il problema si pone perché, sebbene la legge prevede un controllo preventivo di regolarità da parte dell'A.G. (nelle specifico il P.M. ai sensi dell'art. 6, d.l. 132/2014), non si celebra alcuna udienza. Nella versione vigente della normativa citata ci si è posti il problema della trascrivibilità ex se ai sensi dell'art. 2653 c.c. dell'accordo di separazione o divorzio sottoscritto in sede di negoziazione assistita, appunto perché, rispetto al procedimento contenzioso, difetta la stesura di un verbale da parte di un pubblico ufficiale (cancelliere). Una indicazione in tal senso proviene dall'art. 5, comma 3, del medesimo decreto che dispone “Se con l'accordo le parti concludono uno dei contratti o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione, per procedere alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo verbale di accordo deve essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”. Appariva evidente che il contenuto di questa norma dovesse essere coordinato con il comma 1-bis della l. n.  52/1985 introdotto dall'art. 19 comma 4, l. n. 122/2010 di conv. del d.l. n. 78/2010 che autorizza solo il notaio, quale pubblico ufficiale, a stipulare gli atti traslativi. Stando a tale lettura coordinata, ove anche le parti decidevano di definire il procedimento di separazione o divorzio con la citata procedura stragiudiziale, regolando nell'accordo di separazione e divorzio anche la divisione dei beni immobili in comunione, dovevano comunque rivolgersi al notaio per la stipula dell'atto. L'accordo sottoscritto in sede di negoziazione assistita con autenticazione dei rispettivi avvocati non appariva sufficiente a tal fine. Una pronuncia del Tribunale di Pordenone (decr. 17 marzo 2017) si è occupato della questione descritta. Due coniugi avevano definito ex art. 6 d.l. n. 132/2014 l'accordo di separazione consensuale inserendo anche la clausola che prevede il trasferimento in proprietà esclusiva di uno di loro di un immobile di cui erano comproprietari. L'accordo aveva superato il vaglio del PM che rilasciava il nulla osta. Le parti presentavano quindi l'accordo di separazione al conservatore dei registri immobiliari per la trascrizione del negozio traslativo, ma questi rifiutava in difetto dell'apposizione delle sottoscrizioni in un processo verbale di accordo autenticato “da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato” ai sensi del citato art. 5, comma 3, d.l. n. 132/2014. I coniugi proponevano ricorso innanzi al Tribunale di Pordenone che accoglieva la domanda ordinando al Conservatore di eseguire la trascrizione del negozio traslativo del diritto di proprietà dell'immobile motivando che “l'accordo concluso all'esito del procedimento di negoziazione assistita in materia di famiglia deve essere sottoposto al Procuratore della Repubblica per la concessione dell'autorizzazione o per il rilascio del nullaosta … l'accordo de quo, ai sensi dell'art. 6, comma 3 produce gli effetti e tiene luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono … i procedimenti di separazione giudiziale…; Poiché i provvedimenti giudiziali … non richiedono autenticazioni delle sottoscrizioni da parte di ulteriori  … pubblici ufficiali a ciò autorizzati … ai fini della trascrizione delle cessioni immobiliari in essi eventualmente contenute, risulta evidente che neppure gli accordi di negoziazione dovranno essere soggetti a tale adempimento, pena la vanificazione della predetta espressa equiparazione ai provvedimenti giudiziali ed il conseguente irriducibile contrasto con i canoni costituzionali di coerenza e ragionevolezza …”. Altri giudici di merito hanno aderito a quest'orientamento che ammette la trascrivibilità dei trasferimenti immobiliari contenuti in accordi stragiudiziali di separazione o divorzio (Trib. Roma 17 marzo 2017 e 2 luglio 2018). Tuttavia tra le ragioni dedotte nel provvedimento commentato (che peraltro è stato riformato dalla Corte d'Appello di Trieste con ordinanza del 6 giugno 2017), assume importanza centrale la non applicabilità del comma 5 dell'art. 3 che prescrive, come visto, l'autenticazione di un pubblico ufficiale a ciò autorizzato. Si ritiene di prendere le distanze da tale orientamento, che presenta diversi rilievi critici. Bastano due argomentazioni per confutare l'orientamento giurisprudenziale di merito in commento: la norma dell'art. 5, comma 3, esprime un principio generale applicabile a tutte le negoziazioni assistite, che si aggiunge quindi alle altre prescrizioni speciali contenute nell'art. 6 per le negoziazioni assistite relative alla definizione dei procedimenti di separazione e divorzio. In secondo luogo, sebbene l'accordo di separazione o divorzio contenente attribuzioni patrimoniali è vagliato da una A.G. (Pubblico Ministero), che rilascia un nulla osta di regolarità dell'accordo, va ricordato nuovamente che l'unico pubblico ufficiale autorizzato a stipulare negozi traslativi è solo il notaio, per espressa previsione del legislatore contenuta nell'art. 29, comma 1-bis, l. n.  52/1985 che pure è da considerarsi imperativa ed esprimente un principio generale in quanto sottesa a realizzare interessi pubblici (verifica del rispetto della normativa edilizia, urbanistica energetica e fiscale; e verifica soprattutto dei dati catastali degli immobili ai fini della loro esatta identificazione nel momento della trascrizione nei registri immobiliari ai fini della futura circolazione). Questa finalità non può essere bypassata dal ricorso ad una procedura stragiudiziale, per cui lo scrivente ritiene che la norma generale dell'art. 5, comma 3, d.l. n. 132/2014 deve essere coordinata con quella altrettanto generale dell'art. 29, comma 1-bis, l. n. 52/1985 conseguendone che l'accordo di negoziazione assistita sottoscritto in presenza degli avvocati delle parti che certificano l'identità e la sottoscrizione delle parti deve essere poi, dopo il nulla osta del P.M., portato ad un notaio, che debba procedere a stipulare l'atto di alienazione o costituzione di diritti reali immobiliari, ai fini della trascrizione nei registri immobiliari.

Tale vexata quaestio è destinata a trovare una definitiva risoluzione in via normativa. Infatti l'art 1 della legge delega 26 novembre 2021, n. 206, contenente la “Delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata” prevede all'art. 1, comma 4, lett u), la delega al Governo ad “apportare modifiche all'articolo 6 del decreto-legge12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge l10 novembre 2014, n. 162: prevedendo espressamente che, fermo il principio di cui al comma 3 del medesimo articolo 6, gli accordi raggiunti a seguito di negoziazione assistita possano contenere anche patti di trasferimenti immobiliari con effetti obbligatori; disponendo che nella convenzione di negoziazione assistita il giudizio di congruità previsto dall'articolo 5, ottavo comma , della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sia effettuato dai difensori con la certificazione dell'accordo delle parti; adeguando le disposizioni vigenti quanto alle modalità di trasmissione dell'accordo; prevedendo che gli accordi muniti di nulla osta o di autorizzazione siano conservati, in originale, in apposito archivio tenuto presso i Consigli dell'ordine degli avvocati di cui all'articolo 11 del citato decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, che rilasciano copia autentica dell'accordo alle parti, ai difensori che  hanno sottoscritto l'accordo e ai terzi interessati al contenuto patrimoniale dell'accordo stesso”. Pertanto il legislatore delegante prevede espressamente che nell'emanando decreto legislativo si modifichi l'art. 6 del d.l. n. 132/2014 convertito in l. n. 162/2014 consentendo ai coniugi, che decidano di stipulare un accordo di separazione o divorzio tramite la procedura di negoziazione assistita, di regolare anche le proprie vicende patrimoniali mediante trasferimenti immobiliari. Tuttavia si prevede che tali patti sui trasferimenti immobiliari producono effetti solo obbligatori, non reali. Pertanto tali patti non saranno suscettibili di trasferire la proprietà immobiliare ma soltanto di prevedere un obbligo a tal fine a carico del coniuge conferente. Stando al testo della legge delega, ed in attesa del decreto legislativo attuativo, gli accordi sui trasferimenti immobiliari raggiunti in sede di separazione o divorzio secondo la procedura di negoziazione assistita paiono assumere la consistenza di veri e propri contratti preliminari di alienazione di proprietà immobiliare, contenenti l'obbligo a carico del coniuge promittente di stipulare successivamente l'atto di trasferimento dinanzi ad un notaio. Il legislatore delegante sembra pertanto aver risolto la querelle su cui ci si è soffermati diffusamente in questo paragrafo negando all'accordo di separazione o divorzio “stragiudiziale” la idoneità a costituire valido titolo giuridico per i trasferimenti immobiliari, dovendo questi pur sempre essere effettuati da un notaio

La divisione giudiziale

In mancanza di accordo, ciascun coniuge può intentare il giudizio di divisione dei beni in comunione, nelle forme del rito ordinario, entro il termine ordinario decennale di prescrizione. Nel giudizio si applica analogicamente il disposto dell'art. 727 c.c. (Santosuosso 318), per cui si dovrà procedere alla stima dei beni appartenenti al patrimonio coniugale avuto riguardo al loro valore attuale al momento della divisione (Forchielli, 363), indi alla formazione di due lotti distinti, comprensivi ciascuno di una quantità di beni mobili e immobili di eguale natura e qualità ed all'esito da ripartire. Ove alcuni beni non sono divisibili per natura (come gli immobili), si stabilirà con un progetto divisionale, redatto da un CTU nominato dal Giudice, il coniuge a cui ne verrà attribuita la proprietà esclusiva, con l'obbligo a suo carico di versare un conguaglio in denaro all'altra parte, corrispondente al valore della quota ceduta. L'art. 194 comma 1 sancisce il criterio della ripartizione paritaria dell'attivo e del passivo della comunione legale; criterio che la dottrina prevalente considera un principio fondamentale dell'intero istituto della comunione legale dei coniugi e ritiene inderogabile, sulle base delle indicazioni in tal senso offerte dagli artt. 162 comma 3 e 210 comma 3 c.c. che richiamano, appunto, la disposizione in commento, vietandone modifiche convenzionali (Gennari, 416; Schlesinger, 448 ss.; Mastropaolo-Pitter, 369). Si segnala sul punto un orientamento dottrinale minoritario, secondo cui, se si ammette, pacificamente, che i coniugi possono legittimamente rinunciare alla divisione dei beni in comunione, lasciando immutata la titolarità dei diritti sugli immobili di cui risultano intestatari e che hanno acquistato separatamente durante il matrimonio con i proventi delle rispettive attività lavorative, non può negarsi, parimenti, il loro diritto di convenire, in sede di divisione, un criterio di ripartizione dei beni che non rispecchi pienamente la parità di valore delle rispettive quote. Si evidenzia che tale conclusione non contrasterebbe con il principio di inderogabilità della ripartizione paritaria della comunione ex art. 194, in quanto tale principio vieta in costanza di matrimonio la conclusione di patti che attribuiscono ad uno dei coniugi una quota maggiore del patrimonio formato con gli sforzi ed i sacrifici di entrambi, ma non può escludersi che al momento dello scioglimento della comunione, quando la massa da dividere è stata individuata, i principi generali di libera esplicazione dell'autonomia negoziale con riguardo ai diritti patrimoniali debbano nuovamente espandersi, con la conseguenza che uno dei coniugi può decidere di rinunciare ad una parte della quota a lui spettante (ad es preferendo l'attribuzione di un determinato bene, cui è legato da ragioni affettive, lasciandone all'altro uno diverso di maggior valore rinunciando al conguaglio) (Oberto, 2014).

La inderogabilità del principio di ripartizione paritaria di poste attive e passive della comunione legale è stata affermata dalla Cassazione in due obiter dicta (Cass. n. 10896/2005 e Cass. n. 2354/2005) ed espressamente in sentenza Cass. n. 11467/2003 ove si precisa che la divisione dei beni si effettua in parti eguali, secondo il disposto del successivo art. 194, senza possibilità di prova di un diverso apporto economico dei coniugi all'acquisto del bene in comunione, non essendo applicabile la disciplina della comunione ordinaria, nella quale l'eguaglianza delle quote dei partecipanti è oggetto di una presunzione semplice (art. 1101 c.c.), superabile mediante prova contraria. Ma l'enunciazione della inderogabilità del principio sancito dall'art. 194 comma 1 non implica che l'orientamento espresso dalla dottrina minoritaria, che fa salvi gli accordi di divisione dei beni che non rispecchino integralmente i valori paritari delle quote, non sia valido ed applicabile, dal momento che la regolamentazione pattizia interviene solo in fase esecutiva della divisione. La stessa Cassazione riconosce al «progetto divisionale di un bene immobile predisposto e voluto dalle parti e dichiarato esecutivo con ordinanza dal giudice istruttore, all'esito di un subprocedimento nel corso di un giudizio di separazione, natura di negozio, alla cui validità non osta il fatto che il bene ricada in comunione legale tra i coniugi, essendo rimessi alla discrezionalità e comune volontà di questi gli atti dispositivi sui beni in comunione» (Cass. n. 14791/2000). Dopo quest'affermazione generale, venendo agli aspetti pratici dei giudizi di divisione, la S.C. di Cassazione ha preliminarmente chiarito che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione è il fatto costitutivo del diritto del coniuge allo scioglimento della comunione familiare, anche se i beni da dividere siano solo genericamente indicati (nella specie, mobili presenti nell'appartamento comune), in quanto la loro specifica individuazione appartiene alla fase attuativa della divisione (Cass. n. 3808/2014 conf. a Cass. n. 4351/2003). La seconda parte del principio di diritto rimane valida tuttora per le applicazioni future; mentre per quanto concerne l'individuazione del momento in cui si verifica la condizione per l'instaurazione del giudizio di divisione, ossia lo scioglimento della comunione legale conseguente alla separazione dei beni (che configura non un presupposto processuale, ma una condizione dell'azione come è stato chiarito nella successiva sentenza Cass. n. 4757/2010), occorre ricordare che per effetto della modifica dell'art. 191 comma 2 c.c. ad opera della l. n. 55/2015 lo scioglimento si verifica dalla sottoscrizione a verbale dell'accordo di separazione consensuale, purchè omologato, o dalla pronuncia dell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. che autorizza i coniugi a vivere separati. La sentenza in commento è stata pronunciata nel 2014, prima della suddetta modifica normativa, quando era ancora imperante in giurisprudenza di legittimità la convinzione che lo scioglimento della comunione legale a causa della separazione personale dei coniugi si verificasse al momento del passaggio in giudicato della relativa sentenza (per la disamina dell'evoluzione giurisprudenziale e normativa si quest'argomento cfr. commento all'art. 191 c.c.). Un secondo principio giurisprudenziale da ricordare è stato enunciato dalla Cass. n. 11141/2009, secondo cui nel giudizio di divisione dei beni in comunione la stima deve essere ancorata al valore attuale dei beni al momento della divisione. Si tratta di un principio applicato anche nei giudizi di divisione ereditaria e di scioglimento della comunione ordinaria per cui può considerarsi ius receptum in questa tipologia di giudizi. Venendo adesso alla disamina dei beni che possono essere oggetto del giudizio di divisione, partendo dal denaro, la Cassazione ha sottolineato che il denaro rinvenuto al momento dello scioglimento della comunione, qualora costituisca provento dell'attività separata di ciascuno (o di uno) dei coniugi, è oggetto della comunione in via assoluta, ai sensi dell'art. 177 lett. c), senza che possa ammettersi una prova contraria a norma dell'ultima parte dell'art. 195 c.c, e di conseguenza deve essere ripartito in parti uguali al momento della divisione dei beni, sia che provenga dall'attività di uno solo dei coniugi, sia che provenga dalle singole attività dei due coniugi, ancorché in misura diversa per ciascuno di essi (Cass. n. 2182/1992). In secondo luogo, corre l'obbligo di evidenziare il contrasto insorto in seno alla Corte di Cassazione sulla seguente questione di diritto, che è di importante e fondamentale rilevanza pratica, attesa la potenziale indefinita verificazione nella pratica della fattispecie concreta: se il bene immobile adibito a casa coniugale, di proprietà di entrambi i coniugi, viene assegnato ai sensi dell'art. 337-sexies c.c. (già art. 155-quater c.c.) dal Presidente del Tribunale, nell'ordinanza ex art. 708 c.p.c. o dal Tribunale nella sentenza che pronuncia la separazione giudiziale o la cessazione degli effetti civili del matrimonio o lo scioglimento del matrimonio civile ad un coniuge per coabitarvi con i figli, deve tenersi conto in sede di divisione dei beni in comunione del vantaggio economico conseguito dal coniuge assegnatario dal godimento dell'immobile? In sentenza Cass. n. 17843/2016 (conf. a Cass. n. 11630/2001), la Cassazione afferma che non deve tenersene conto sia perché il diritto di abitazione, che è un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, è previsto nell'esclusivo interesse dei figli e non nell'interesse del coniuge affidatario degli stessi, sia perché, intervenuto lo scioglimento della comunione a seguito di separazione personale o di divorzio, non può più darsi rilievo, per la valutazione dell'immobile, ad un diritto, che, con l'assegnazione della casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge affidatario dei figli, non ha più ragione di esistere; diversamente, si realizzerebbe una indebita locupletazione a favore dell'altro coniuge, che potrebbe, dopo la divisione, alienare il bene a terzi senza alcun vincolo e per il prezzo integrale. In una pronuncia emessa pochi mesi prima, la Cass. n. 8202/2016 la medesima autorità giudiziaria ha sostenuto che l'assegnazione della casa familiare ad uno dei coniugi, cui l'immobile non appartenga in via esclusiva, instaura un vincolo (opponibile anche ai terzi per nove anni, e, in caso di trascrizione, senza limite di tempo) che oggettivamente comporta una decurtazione del valore della proprietà, totalitaria o parziaria, di cui è titolare l'altro coniuge, fino a quando il provvedimento non sia eventualmente modificato, sicché nel giudizio di divisione se ne deve tenere conto indipendentemente dal fatto che il bene venga attribuito in piena proprietà all'uno o all'altro coniuge ovvero venduto a terzi. Il contrasto giurisprudenziale è stato ricomposto dalle S.U. della Cassazione in Sentenza del 9 giugno 2022, n. 18641 ove è stato affermato il seguente principio di diritto: “In tema di scioglimento della comunione legale, in caso di attribuzione, in sede di divisione, dell'immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge che non era assegnatario dello stesso quale casa coniugale, né affidatario della prole, si realizza una situazione comparabile a quella del terzo acquirente dell'intero, sicché, posto che continua a sussistere il diritto di godimento in capo all'altro coniuge, il coniuge non assegnatario diventerà titolare di un diritto di proprietà il cui valore dovrà essere decurtato dalla limitazione delle facoltà di godimento da correlare all'assegnazione dell'immobile al coniuge affidatario della prole, permanendo il relativo vincolo sullo stesso, con i relativi effetti pregiudizievoli derivanti anche dalla sua trascrizione ed opponibilità ai terzi ai sensi dell'art. 2643 c.c. Viceversa, in caso di attribuzione, in sede di divisione, dell'immobile adibito a casa familiare in proprietà esclusiva al coniuge che ne era già assegnatario, comportando la concentrazione, in capo a quest'ultimo, del diritto personale di godimento scaturito dall'assegnazione giudiziale e di quello dominicale sull'intero immobile, che permane privo di vincoli, configura una causa automatica di estinzione del primo, che, pertanto, non potrà avere alcuna incidenza sulla valutazione economica del bene in comunione a fini divisori, o sulla determinazione del conguaglio dovuto al coniuge comproprietario non assegnatario, dovendosi conferire all'immobile un valore economico pieno, corrispondente a quello venale di mercato; né, a tal fine, rileva che nell'immobile stesso continuino a vivere i figli minori, o non ancora autosufficienti, affidati al coniuge divenutone proprietario esclusivo, rientrando tale aspetto nell'ambito dei complessivi e reciproci obblighi di mantenimento della prole, da regolamentare nella sede propria, anche con la eventuale modificazione dell'assegno di mantenimento.

. Passando alle altre poste attive divisibili, il credito verso il coniuge socio di una società di persone, a favore dell'altro coniuge in comunione «de residuo», esigibile al momento dello scioglimento della comunione, è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, consentendosi altrimenti al coniuge socio di procrastinare «sine die» la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale (Cass. n. 6876/2013, conf. a Cass. n. 2569/2009 e Cass. n. 14897/2000). Al momento dello scioglimento della comunione legale, devono essere restituiti solo gli importi impiegati in spese ed investimenti per il patrimonio comune già costituito ex art. 192 c.c., ma non il denaro personale impiegato per l'acquisto di immobile che concorre a formare la comunione, trovando, in tale ipotesi, applicazione l'art. 194, comma 1, c.c., secondo cui il quale all'atto dello scioglimento l'attivo ed il passivo devono essere ripartiti in quote uguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi (Cass. n. 19454/2012; in senso conforme cfr. Cass. n. 10896/2005 e Cass. n. 2354/2005). La determinazione del periodo per il quale spetta il corrispettivo dovuto con riguardo al mancato godimento della quota di pertinenza del bene immobile fruttifero decorre, ai sensi dell'art. 1148 c.c., dalla data di proposizione della domanda di divisione, quale momento d'insorgenza del debito di restituzione pro quota in capo al possessore di buona fede in senso oggettivo e non dal (precedente) momento dello scioglimento della comunione (Cass. n. 9845/2012) nell'operazione di divisione dei beni al momento dello scioglimento della comunione legale, il giudice non deve limitarsi ad una ricognizione dei cespiti immobiliari esistenti al momento dello scioglimento della comunione, conseguente all'instaurazione del regime di separazione, ma deve anche contabilizzare la massa passiva afferente all'attività economica in cui essi erano dedotti, consistentemente gravata- nello stesso periodo- di perdite aziendali, e dunque incidenti sulla nozione economica di bene caduto in divisione; quest'ultimo va inteso alla stregua di valore netto, solo così realizzativo dell'effettivo credito esercitabile sulla comunione de residuo, secondo il criterio giuridico posto dall'art. 194 c.c e violato (App. Cagliari, 25 luglio 2019).  

Il problema della proposizione della domanda di divisione dei beni in comunione legale

Il giudizio di divisione si propone con rito ordinario entro il termine di prescrizione decennale; quindi con atto di citazione in udienza notificato al convenuto. Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla proponibilità del suddetto giudizio nell'ambito del giudizio di separazione giudiziale o di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del matrimonio civile che costituiscono cause di scioglimento della comunione legale. Parte della dottrina tradizionale si esprime in termini negativi, atteso che la sovrapposizione di domande di carattere patrimoniale con altre di carattere personale determinerebbe un aggravio dell'istruttoria processuale, che contrasterebbe con le finalità di rapida definizione dei procedimenti in materia familiare (De Filippis-Casaburi, 467). Altra motivazione proposta a fondamento del divieto di cumulo delle due domande atteneva all'inammissibilità della proposizione del giudizio di divisione dei beni prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione, che, essendo causa di scioglimento della comunione legale, ne costituiva il fondamento logico — giuridico (Oberto, 615). Tali motivazioni, risalenti alla disciplina normativa ante 2005 ed all'orientamento giurisprudenziale prevalente all'epoca, non sono più attuali. La l. n. 80/2005 di conv. del d.l. n. 35/2005, sul c.d. rito competitivo, ha introdotto alcune modifiche ai giudizi di separazione e divorzio ammettendo l'emanazione, su istanza delle parti, della sentenza parziale sullo status di separazione e divorzio, con prosecuzione del giudizio per la decisione sulle statuizioni accessorie. Per quanto concerne il secondo aspetto evidenziato, per effetto della modifica dell'art. 191 comma 2 c.c. ad opera della l. n. 55/2015 che fissa il diesa quo dello scioglimento della comunione legale nell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. o nella sottoscrizione dell'accordo di separazione consensuale, purché omologato, la condizione per la proposizione dell'azione di divisione si verifica dopo la celebrazione dell'udienza presidenziale e pertanto il giudizio di divisione potrebbe in astratto celebrarsi simultaneamente al giudizio di separazione o di divorzio. Pertanto, alle luci di tali innovazioni normative, la risposta al quesito della cumulabilità delle domande di separazione o divorzio e di divisione giudiziale dei beni in comunione deve rinvenirsi esclusivamente nelle disposizioni processual-civilistiche dedicate al cumulo di domande assoggettate a riti diversi (Punzi, 836 ss.). Soccorre sul punto, in particolare, l'art. 40, comma 3, c.p.c., che viene interpretata nel senso di ammettere il simultaneus processus tra cause sottoposte a riti diversi (come, per quanto qui interessa, i giudizi di separazione e divorzio che si svolgono con rito camerale, mediante proposizione di ricorso, ed il giudizio di divisione che si instaura con rito ordinario, mediante notifica dell'atto di citazione in udienza notificato al coniuge convenuto) soltanto in ipotesi qualificate di connessione, c.d. forte o per subordinazione, e nei rapporti di accessorietà, garanzia, incidentalità, compensazione e riconvenzionale (Merlin, 1021 ss.). Secondo lo scrivente, tale connessione forte non sussiste nel caso di specie, perché le due domande hanno un oggetto del tutto distinto ed autonomo; la connessione forte si rinviene diversamente, ad es., tra le domande attinenti a diritti patrimoniali strettamente legate all'oggetto del giudizio di separazione e divorzio come ad es. l'assegnazione della casa coniugale e la determinazione dell'assegno di mantenimento o divorzile che un coniuge deve versare all'altro. Si segnala che una parte della dottrina moderna, minoritaria ma evolutiva, tende a superare l'orientamento sinora descritto, dominante anche in giurisprudenza (Civinini, 1598). Partendo dal nesso di pregiudizialità tecnica tra la domanda di separazione e quella di divisione dei beni, detta impostazione rinviene tra le due domande una connessione di accessorietà condizionata (art. 31 c.p.c.) che ne consentirebbe il cumulo in un unico processo, non ostando la natura costitutiva dell'azione di separazione e l'efficacia ex nunc della sentenza di separazione, in quanto identica natura ed efficacia hanno, ad esempio, l'azione di risoluzione per inadempimento o per impossibilità sopravvenuta che ben possono essere cumulate a domande risarcitorie e restitutorie (Civinini). Pur apprezzando lo sforzo ricostruttivo, lo scrivente ritiene preferibile la tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria che esclude il cumulo delle azioni per insussistenza della connessione forte richiesta dall'art. 40 comma 3 c.p.c.

Si è già detto nel paragrafo precedente che nella giurisprudenza tradizionale della Corte di Cassazione si era formato un orientamento che vietava il cumulo delle domande di separazione e divisione dei beni in comunione nello stesso giudizio, ostandovi a ciò il rapporto di pregiudizialità dipendenza tra le due domande. In particolare, la Cassazione ha affermato in sentenza Cass. n. 4351/2003 che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione giudiziale, quale momento determinativo dello scioglimento della comunione legale, costituisse il presupposto processuale per la proposizione della domanda di divisione dei beni in comunione. Quest'orientamento così rigido è stato superato dalla medesima autorità giurisdizionale in sentenza Cass. n. 4757/2010, ove il passaggio in giudicato della sentenza di separazione viene configurato non più come presupposto processuale ma come condizione dell'azione di divisione giudiziale dei beni, con la conseguenza che detta condizione deve avverarsi al momento della pronuncia definitoria del giudizio di divisione dei beni. In virtù di tale orientamento, un coniuge poteva pacificamente presentare ricorso per separazione giudiziale ed intentare con rito ordinario il giudizio di divisione; entrambi i giudizi potevano pendere e proseguire simultaneamente, essendo necessario soltanto che quello di separazione si concludesse con sentenza passata in giudicato prima di quello di divisione dei beni, costituendone, appunto, una condizione dell'azione. Per quanto concerne il cumulo, in giurisprudenza di legittimità, ad eccezione di un precedente isolato (Cass. n. 9313/1997), si è consolidato, a partire dall'anno 2000 l'orientamento che esclude che le due domande siano cumulabili in un simultaneus processus; gli Ermellini motivano che la trattazione congiunta di cause soggette a riti differenti può attuarsi, secondo le regole di cui all'art. 40 c.p.c. solo laddove siano connesse ai sensi degli artt. 31,32,34,35 e 36 c.p.c..; tale connessione non si configura tra la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, soggetta al rito della camera di consiglio (il principio si estende naturalmente al giudizio di separazione) e quella di scioglimento dei beni in comunione, soggetta a rito ordinario, trattandosi di domande del tutto autonome e distinte (Cass. n. 266/2000, con cui ha confermato la pronuncia di merito gravata che pure aveva sancito la improponibilità in sede di divorzio della domanda di divisione perché incompatibile col rito camerale; principio confermato in sentenza Cass. n. 6660/2001, Cass. n. 20638/2004;Cass. n. 11828/2009; Cass. n. 2155/2010 e Cass. n. 18870/2014). La prescrizione del diritto di credito volto ad ottenere la metà del valore dei beni rientranti nella comunione "de residuo" non è sospesa durante la separazione personale, poiché non è configurabile alcuna riluttanza a convenire in giudizio il coniuge, essendo oramai conclamata la crisi della coppia e cessata la convivenza, a seguito dell'esperimento delle relative azioni; ne consegue che la prescrizione del menzionato credito comincia a decorrere dal momento in cui si scioglie la comunione legale per effetto della separazione e, dunque, da quando il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero dalla data di sottoscrizione, davanti al medesimo presidente, del processo verbale di separazione consensuale, poi omologato (Cass. n. 32212/2022).

L'usufrutto giudiziale a favore di un coniuge

Il comma 2 art. 194 c.c. attribuisce al giudice il potere di costituire in favore di uno dei coniugi, in relazione alle necessità della prole e all'affidamento di essa, l'usufrutto su una parte dei beni spettanti all'altro coniuge. Parte della dottrina nota che il riferimento all'affidamento della prole induce a restringere l'ambito applicativo della norma alle sole cause di scioglimento della comunione legale che presuppongono la crisi del vincolo coniugale, quindi separazione, divorzio ed annullamento del matrimonio (Corsi, 199; Gabrielli, 181; De Montis, 998; Mastropaolo-Pitter, 375). Tale opinione non è corretta ed è sconfessata da altra parte della dottrina, secondo cui, correttamente, la norma è applicabile anche ove lo scioglimento della comunione dipende dalle altre cause dettate nell'art. 191 c.c. (Barbiera, 526; Santosuosso, 321; De Paola, 714); infatti le «esigenze della prole», che ne costituiscono il presupposto applicativo accanto all'affidamento della prole, possono sussistere anche in caso di interdizione o inabilitazione o dichiarazione di fallimento di uno dei coniugi. Ciò chiarito, nel caso in cui lo scioglimento della comunione legale derivi dalla separazione o dal divorzio, l'istituto della costituzione dell'usufrutto legale sui beni della comunione (di fatto l'immobile adibito a casa coniugale) può sovrapporsi ad uno dei rimedi tipici previsti nei giudizi di separazione e divorzio, ossia l'assegnazione della casa familiare. Entrambi gli strumenti posti a tutela dell'interesse della prole sono trascrivibili; quindi sono da considerarsi de tutto fungibili. Poiché il giudizio di separazione fa sorgere il presupposto per l'instaurazione di quello di divisione dei beni, la tutela abitativa della prole sarà di fatto soddisfatta proritariamente per effetto dell'ordinanza presidenziale di assegnazione della casa familiare al coniuge presso cui sono collocati preferenzialmente i figli; ove successivamente venga instaurato il giudizio di divisione, non vi sarebbe l'interesse del genitore collocatario a richiedere l'usufrutto della casa coniugale ex art. 194 comma 2 avendone già conseguito il godimento unitamente ai figli per effetto del suddetto provvedimento presidenziale. La disposizione non è destinata a trovare più applicazione in queste ipotesi; può trovarla solo quando il giudizio di divisione dei beni è incardinato a seguito dello scioglimento della comunione legale per una causa diversa dalla separazione, divorzio o annullamento del matrimonio; ma, d'altra parte, va rilevato che l'usufrutto legale ex art. 194 comma 2 può essere costituito anche su altri beni immobili diversi dalla casa coniugale al fine di consentire alla prole di percepirne i frutti (ad es. immobile concesso in locazione a terzi). Si può ipotizzare che uno dei coniugi non versi il mantenimento per i figli minori o maggiorenni, ma non autosufficienti; quindi il genitore che se ne occupa, fermi tutti gli altri rimedi esperibili avverso l'inadempimento dell'altro genitore alle prescrizioni dell'ordinanza presidenziale, potrebbe in sede di divisione dei beni in comunione chiedere al giudice di costituire in suo favore l'usufrutto su uno degli immobili della comunione che produce redditi (ad es. canoni di locazione) per supplire così alla mancata contribuzione dell'altro genitore alle spese per il sostentamento della prole. Si è rilevato che nella fattispecie ipotizzata, la funzionalizzazione dei frutti ricavati dai beni al soddisfacimento dei bisogni della prole distingue l'usufrutto giudiziale dall'usufrutto ordinario e lo avvicina, contestualmente, all'istituto dell'usufrutto legale ex art. 324 c.c. (Bigliazzi Geri, 52). Ove dovessero venire meno le esigenze della prole che hanno favorito l'emanazione del provvedimento, il giudice, su istanza dell'altro coniuge, può revocare la costituzione dell'usufrutto (De Montis, 1000; Mastropaolo-Pitter, 376).

La norma ha avuto scarsa applicazione. In giurisprudenza di merito si è evidenziato che l'usufrutto giudiziale è funzionale a che i figli ricevano il minor danno possibile dalla disgregazione del nucleo familiare (Trib. min. Roma, decr. 25 giugno 1984; Trib. min. Catania, decr. 29 giugno 1992). Nella giurisprudenza della Cassazione si rinviene un solo precedente anche se interessante perché individua la ratio dell'istituto. Si allude alla sentenza Cass. n. 3350/1994 ove gli Ermellini enunciano il principio secondo cui l'art. 194 comma 2 è norma eccezionale (con conseguente inapplicabilità fuori del caso espressamente considerato), che si aggiunge ad un compiuto sistema di tutela approntato per i figli in presenza di crisi del vincolo matrimoniale fra i genitori, ed è destinata ad assicurare protezione esclusivamente alla prole minore, non nel contesto dell'adempimento dell'obbligo di mantenimento, ma per soddisfazione di esigenze, anche soltanto morali, che caratterizzano la posizione del soggetto protetto rispetto al bene considerato e che sarebbero compromesse dalla divisione dei beni della comunione legale. Il detto provvedimento giudiziale costitutivo dell'usufrutto ha, pertanto, efficacia limitata nel tempo, non potendo essa eccedere la data di compimento della maggiore età dei figli per la cui tutela siffatto vincolo reale è stato costituito.

Bibliografia

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