Codice Civile art. 219 - Prova della proprietà dei beni (1).Prova della proprietà dei beni (1). [I]. Il coniuge può provare con ogni mezzo [950 2] nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene [197]. [II]. I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi. (1) Articolo così sostituito dall'art. 87 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 82 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione. InquadramentoL'art. 219 c.c. è la disposizione di chiusura del regime di separazione dei beni e fornisce il criterio probatorio per risolvere i conflitti tra i coniugi in ordine alla proprietà dei beni personali. La norma prevede al primo comma che ognuno dei due possa dimostrare «con ogni mezzo» (si tratta di un onere semplificato, assolvibile anche mediante presunzioni) la proprietà esclusiva dei beni. Il comma 2, che è un completamento del primo, pone la presunzione che i beni, dei quali alcun coniuge dimostri la proprietà esclusiva, siano in comproprietà di entrambi. La norma trova applicazione anche con riguardo alle parti di un'unione civile in virtù del richiamo operato dall'art. 1 comma 13 l. n. 76/2016. Considerazioni generali.Come si è visto nel commento degli articoli precedenti, il legislatore della riforma del diritto di famiglia, mentre da un lato ha costruito il nuovo regime di separazione dei beni sulla falsariga della disciplina previgente sui beni parafernali (sul rapporto tra la disciplina pregressa dei beni parafernali e le disposizioni in tema di separazione cfr. Oberto, 265 ss.), dall'altro ha introdotto nell'art. 219, che ne è la norma di chiusura (Maiorca, 104), un principio del tutto innovativo non solo rispetto alla disciplina previgente ma che deroga ad alcuni principi in materia di rivendica della proprietà di beni, come si avrà modo di esaminare in seguito (Cattaneo, 441; Sesta-Valignani, 492; Giusti, 1451; Oberto, 284; Cavallaro, 225). La disposizione mira a definire i conflitti petitori tra i coniugi relativi ai beni acquistati che sono nella loro disponibilità materiale durante la convivenza matrimoniale, prevedendo un onere probatorio semplificato, assolvibile «con ogni mezzo». Tale previsione si spiega tenuto conto dell'affectio coniugalische lega i coniugi, per effetto del quale nessuno dei due avverte, al momento dell'acquisto di un bene, la necessità di conservarne il titolo giustificativo, essendo anzi animato dall'intento di mettere il suddetto bene a disposizione anche dell'altro, nell'interesse del nucleo familiare (Maiorca, 104; Cattaneo, 444; Giusti, 1452; Malatino, 909; Perego, 4; Bruscuglia-Gorgoni, 557). Da una prima lettura sembrerebbe che il suddetto onere probatorio semplificato si riferisca esclusivamente ai beni mobili non registrati, perché privi di un sistema di pubblicità, mentre i coniugi possono provare la proprietà di quelli mobili registrati e di quelli immobili esibendo l'atto di acquisto redatto in forma scritta, unitamente alla trascrizione nei relativi registri (Cattaneo, 446; De Paola, 17; Bruscuglia-Gorgoni, 557; Corsi, 63; Giusti, 1452; Zaccaria, 379; Finocchiaro A. e M.1417; Cavallaro, 95; Sesta-Valignani, 493; Saturno, 349; Sesta, 877). Il comma 2 prevede che laddove l'onere probatorio della proprietà esclusiva di uno o più beni non sia assolto, scatta la presunzione di comproprietà dei coniugi, sui beni medesimi, per quote paritarie, in regime di comunione ordinaria. Tale previsione si ispira alla solidarietà familiare che discende dal rapporto coniugale (Gabrielli, 335, rileva che dalla norma dell'art. 219, comma 2, emerge che lo statuto dei beni appartenenti a persone coniugate è, in ogni caso, diverso da quello dei beni che appartengono a persone sia pure conviventi, ma non legate da vincolo coniugale) e soprattutto riecheggia la ratio ed i principi ispiratori della comunione legale tra coniugi. Può sembrare paradossale che una disposizione inserita nella disciplina del regime di separazione dei beni richiami principi di un regime patrimoniale del tutto diverso; ma appare così, perché, infatti, la presunzione di comproprietà indivisa per quote paritarie, dei beni di cui non sia provata la proprietà esclusiva, rispecchia il principio secondo cui l'acquisto di tali beni è stato reso possibile dallo sforzo e dei sacrifici di entrambi i coniugi (Finocchiaro A. e M., 1216). Si tratta di un'opinione suggestiva della dottrina minoritaria (cfr. Gabrielli-Cubeddu, 318, secondo i quali la presunzione del comma 2 di comproprietà indivisa dei beni, in assenza di risultanze obiettive opera della proprietà esclusiva, si spiega alla luce della considerazione che i beni acquistati siano di fatto, il risultato dello sforzo comune) che trova un apparente riscontro normativo nel parallelismo con l'omologa presunzione di comproprietà, in comunione legale, contenuta nell'art. 195 c.c. La dottrina maggioritaria (cfr. par 4) interpreta, invece, la presunzione del comma 2 dell'art. 219 come una soluzione equitativa in caso di irrisolvibile accertamento della proprietà esclusiva di alcuni beni (ex multisGabrielli-Cubeddu, 319) e ne sottolinea le profonde differenze strutturali e teleologiche dall'art. 195 c.c.; rifiutando quindi ogni accostamento ai principi ispiratori della comunione legale. L'onere della prova della proprietà esclusiva.La previsione del primo comma secondo cui i coniugi possono provare la proprietà esclusiva di un bene con ogni mezzo è stata oggetto di riflessioni e conclusioni contrastanti in dottrina. Parte della dottrina ne sottolinea la superfluità, perché già nel giudizio di rivendicazione ex art. 948 c.c. l'attore può avvalersi di ogni mezzo di prova per dimostrare la titolarità del bene rivendicato; pertanto, pur in assenza della previsione in commento deve ritenersi che ciascun coniuge avrebbe potuto comunque dimostrare con ogni mezzo la proprietà esclusiva dei beni che sono rimasti nella reciproca o esclusiva disponibilità materiale durante il matrimonio, secondo le regole che governano l'ordinario giudizio di rivendica, nell'applicazione ed interpretazione che comunemente ne è stata offerta (Maiorca, 104; Tatarano-Capobianco, 560 e Perego, 4 che rileva come la norma generalizzi tra i coniugi la libertà probatoria). Altra parte della dottrina sostiene invece che la norma in commento contenga una vera e propria deroga agli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c., che limitano il ricorso alla prova testimoniale per i contratti, nonché all'art. 2729, comma 2, c.c., che vieta il ricorso a presunzioni semplici laddove sia esclusa la prova per testi (Cattaneo, 442; Cavallaro, 76; Bruscuglia-Gorgoni, 557; Galasso, 613; Oberto, 286 ss.; Zaccaria, 375). Si tratta di un'opzione ermeneutica non condivisibile. La problematica si presenta quando il coniuge deve provare per testi, non possedendone il documento, il contratto di acquisto del bene da un terzo o dall'altro coniuge. In merito alla prima ipotesi, premettendo che il limite alla prova testimoniale sancito dagli artt. 2721 ss. c.c. opera solo nel giudizio tra i presunti contraenti, per cui una parte non può provare a mezzo testimoni di aver stipulato il contratto con l'altro, si osserva che detto limite non sussiste nei giudizi insorti, invece, tra uno dei contraenti ed un terzo, come nel caso di specie, laddove il giudizio di rivendicazione di proprietà del bene si instaura tra il coniuge acquirente e l'altro coniuge, conseguendone che il primo potrà dimostrare anche a mezzo testimoni di aver acquistato il bene rivendicato da un terzo (rilievo anche di Sesta, 888, e Vascellari, 420). Per quanto concerne l'ipotesi dell'acquisto di un bene dall'altro coniuge (che è la fattispecie in cui l'art. 219 prevederebbe la deroga alla limitazione dell'uso del mezzo testimoniale, secondo i fautori della tesi in commento), la norma non contempla in realtà alcuna deroga al divieto di ammissione della prova testimoniale stabilito negli artt. 2721 ss. c.c., se si rammenta che lo stesso legislatore codicistico nell'art. 2724 n. 2 c.c. stabilisce espressamente che l'inammissibilità della prova testi per dimostrare l'esistenza di un contratto non opera «quando il contraente è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta»; e verrebbe da chiedersi in quale controversia la suddetta eccezione debba trovare applicazione più che nei giudizi tra i coniugi. In considerazione dell'affectio maritalis che lega i coniugi, che prescinde dalla scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni, appare naturale che la richiesta formulata dal coniuge acquirente all'altro di stipulare una scrittura privata o di rilasciargli una quietanza di avvenuto pagamento per l'acquisto di un suo bene personale, possa mettere a repentaglio l'armonia familiare e minare il rapporto fiduciario che costituisce uno, se non il più importante corollario dell'affectio maritalis. Quindi, nei giudizi ove viene in contestazione l'esistenza di un contratto tra due coniugi, entrambi possono chiedere al giudice di avvalersi del mezzo testimoniale confidando nell'accoglimento dell'istanza istruttoria in forza del disposto dell'art. 2724 n. 2 c.c. L'inapplicabilità del divieto di utilizzazione della prova testi reca con sé l'ammissibilità della prova testi anche per le quietanze di pagamento e di rimessione del debito (art. 2726 c.c.) e del ricorso alle presunzioni semplici (art. 2729 comma 2 c.c.), la cui ammissibilità in giudizio è subordinata all'ammissibilità della prova testi. Ne consegue che la generalità dell'utilizzo dei mezzi di prova nei giudizi tra i coniugi aventi ad oggetto la rivendicazione della proprietà esclusiva dei beni si ricava già dai principi generali codicistici in materia di mezzi di prova, con riferimento ai quali l'art. 219 comma 1 non apporta alcuna innovazione o deroga; semmai la norma intende confermare e generalizzare tale principio nell'ambito di siffatti giudizi per eliminare ogni incertezza applicativa ed interpretativa ed eliminare la discrezionalità del giudicante nello stabilire se risulta integrata o meno l'eccezione di cui all'art. 2724 n. 2 c.c. (magari un giudice potrebbe ritenere insussistente il presupposto dell'impossibilità morale di un coniuge di procurarsi la prova scritta del contratto di acquisto di un bene dall'altro coniuge, ritenendo conseguentemente inammissibile la prova testimoniale a tale scopo richiesta dal coniuge attore) e, per l'effetto, per liberalizzare lo strumento delle presunzioni ex art 2729 comma 2 c.c. La disposizione, come anticipato nel primo paragrafo, non si applica alla proprietà dei beni immobili, sia se il coniuge rivendicante li abbia acquistati dall'altro coniuge sia se gli abbia acquistati da un terzo, perché tali contratti richiedono espressamente la forma scritta ad substantiam ai sensi dell'art. 1350 c.c. e quindi la prova del loro acquisto deve essere fornita esibendo il relativo atto unitamente all'allegazione della trascrizione presso il registro immobiliare. Quindi, l'ipotesi dell'impossibilità morale di procurarsi il documento riguarda esclusivamente i contratti di acquisto di beni mobili diversi da quelli per i quali sia richiesta la forma solenne. Potrebbe, però, accadere che ove si tratti di rivendicare la proprietà esclusiva di beni immobili, uno dei coniugi non possegga più l'atto notarile di acquisto perché lo ha smarrito. In tal caso soccorre nuovamente la necessità di avvalersi della prova testimoniale, che il coniuge attore potrà richiedere al giudice rappresentando di aver perduto senza sua colpa il documento ai sensi dell'art. 2724 n. 3 c.c. (Oberto, 292; Zaccaria, 376; Sesta, 887). La prova testi può essere ammessa anche per la prova dell'acquisto a titolo originario di un immobile per usucapione (in tal senso Finocchiaro A. e M. 1217; De Paola, 17 e ss.) o per accessione (Maiorca, 109 e Galletta, 460. Contra Cavallaro, 96-97, secondo cui tanto le regole dell'accessione quanto quelle sull'usucapione ordinaria e abbreviata escludono l'operatività dell'art. 219). Come anticipato nel paragrafo precedente, il comma 1 è destinato a trovare applicazione solo nei rapporti (e quindi nei giudizi) tra coniugi o al limite tra un coniuge e gli eredi dell'altro o tra gli eredi di entrambi, i quali, in qualità di successori a titolo universale, subentrano nella stessa posizione del loro dante causa (Cattaneo, 444; Zaccaria, 376; Bruscuglia-Gorgoni, 557; Perego, 4). La dottrina esclude l'applicazione della norma nei giudizi di rivendica di un bene instauratisi tra uno dei coniugi ed un terzo, ostandovi a ciò sia il dato letterale evidente ed univoco del primo comma sia la ratio della norma (Sesta, 884, e Oberto, 293 pervengono al medesimo risultato interpretativo anche dall'esame dei lavori preparatori alla legge n. 151/1975 di riforma del diritto di famiglia, il cui art. 62, nella formulazione originaria ne estendeva il disposto anche alle controversie coi terzi. Allo scopo di evitare che i terzi venissero pregiudicati, il riferimento ai terzi venne soppresso, a seguito di un emendamento governativo, dal contenuto finale della norma che diventerà l'attuale art. 219 comma 1. Da questa considera è suscitata la conclusione che la inestendibilità del principio alle controversie coi terzi costituisce una scelta legislativa precisa e meditata). Pertanto, se un coniuge, che vorrà dimostrare la sua proprietà esclusiva di un bene pignorato da un creditore dell'altro coniuge, non potrà giovarsi del regime probatorio semplificato di cui all'art. 219 c.p.c., ma, nel proporre opposizione di terzo all'esecuzione, ex art. 619 ss. c.p.c., sarà assoggettato al limiti della prova testimoniale sanciti nell'art. 621 c.p.c. (Cattaneo, 445; Maiorca, 112 ss.; Santosuosso, 363; Corsi, 64 ss.; Tatarano-Capobianco, 566). È consolidato in giurisprudenza di legittimità l'orientamento, sostenuto dalla dottrina maggioritaria, secondo cui l'art. 219 comma 1, riconoscendo al coniuge di poter provare con ogni mezzo, nei confronti dell'altro, la proprietà esclusiva di un bene, ed aggiungendo che quelli di cui nessuno di essi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa, per pari quota, di entrambi, riguarda essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel secondo comma, alla regola generale sull'onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna eccezione configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari per cui, quando un immobile è intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d'acquisto, l'altro coniuge, che alleghi l'interposizione reale, non può provarla con giuramento, né con testimoni, giacché l'obbligo dell'interposto di ritrasmettere all'interponente i diritti acquistati deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto, salvo che nell'ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche, dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto (Cass. civ. n. 18554/2013 che conferma analogo principio enunciato in Cass. n. 6589/1998; n. 11327/1997; Cass. n. 1482/1995; Cass. n. 2540/1990 tutte conformi all'enunciazione delle S.U. in sentenza Cass. S.U.,n. 2494/1982. In giurisprudenza di merito la necessità della prova scritta per provare la proprietà di diritti immobiliari è stata sostenuta da: Trib. Roma, 1 febbraio 2008; Trib. Catania, 11 luglio 1986; Trib. Milano, 19 settembre 1983). Enunciando il principio di diritto in parola, la S.C. di Cassazione ha preso posizione su un problema discusso e molto ricorrente nella casistica giurisprudenziale: ossia l'ammissibilità della prova testimoniale per accertare la simulazione del trasferimento di proprietà di un immobile da un coniuge all'altro. Nel caso della simulazione reale, che si configura quando un coniuge, che risulta unico acquirente ed intestatario formale del bene, lo acquisti con denaro in tutto o in parte proveniente dall'altro coniuge, verso cui assume l'obbligo (c.d. pactum fiduciae) di ritrasferirgli la proprietà in un secondo momento, il patto fiduciario deve recare la stessa forma — scritta ad substantiam — del negozio cui accede, per cui, se difetta di tale prova, essendo stato convenuto solo oralmente dai coniugi, l'acquirente interposto non potrà vantare né provare la proprietà reale dell'immobile ai sensi dell'art. 219, ferma l'ovvia possibilità di agire nei confronti dell'altro coniuge, acquirente interponente, per il risarcimento dei danni patiti dall'inadempimento dell'obbligo di ritrasferimento del bene. L'orientamento della giurisprudenza citata si estende anche all'ipotesi di interposizione fittizia di persona, che ricorre quando un coniuge funge da prestanome, risultando intestatario formale del bene che in realtà è stato acquistato dall'altro. Per entrambe le ipotesi, la prova della simulazione deve essere offerta esclusivamente mediante l'allegazione in giudizio dell'atto dissimulato inter partes, in disparte l'ammissibilità della prova orale se ricorre una delle eccezioni di cui all'art. 2724 c.c. A conclusione diversa potrebbe pervenirsi in caso di simulazione assoluta, che ricorre quando un coniuge già proprietario esclusivo di uno o più beni immobili, li intesti all'altro per ragioni fiscali o per sottrarli alle aggressioni esecutive dei suoi creditori. Sul punto, è consolidato in giurisprudenza di legittimità l'orientamento che ammette la prova testimoniale senza limiti, sul presupposto che l'accordo simulatorio, in caso di simulazione assoluta, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all'art. 2722 c.c., non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam o ad probationem, menzionati dall'articolo 2725 c.c., avendo natura ricognitiva dell'inesistenza del contratto apparentemente stipulato (recentemente Cass. n. 7093/2017, conforme alle sentenze Cass. n. 4071/2008, Cass. n. 10240/2007; Cass. n. 8210/2006). Altra fattispecie concreta che si verifica spesso nella pratica ed è stata esaminata dalla giurisprudenza di legittimità riguarda la prova della proprietà del denaro che risulta depositato su un conto corrente cointestato ai coniugi con firma disgiunta, anche quando questi ultimi hanno optato per il regime di separazione dei beni. Con sentenza Cass. n. 18777/2015, ultima di una serie di precedenti conformi, la Cassazione ha ribadito che la cointestazione di un conto corrente tra coniugi attribuisce agli stessi, ex art. 1854 c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto, sia nei confronti dei terzi che nei rapporti interni, e fa presumere la contitolarità dell'oggetto del contratto ai sensi dell'art. 1298 comma 2 c.c.; tale presunzione dà luogo ad una inversione dell'onere probatorio che può essere superata attraverso presunzioni semplici — purché gravi, precise e concordanti — dalla parte che deduca una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla cointestazione stessa. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva desunto la prova dell'esclusiva provenienza del denaro dall'attività professionale di uno dei coniugi, dalla circostanza che l'altro coniuge, legalmente separato, fosse titolare di un conto corrente personale utilizzato per l'accredito dello stipendio ed il pagamento delle utenze. Il principio di diritto è conforme a Cass. n. 28839/2008, Cass. n. 1149/2004; Cass. n. 1087/2000 e Cass.S.U. n. 9961/1996; ed è stato esteso dalla S.C. anche al deposito bancario di titoli in Cass. n. 16671/2012). Ne consegue che la generalizzazione dei mezzi di prova, ivi comprese le presunzioni, assicurata dall'art 219 comma 1 trova terreno fertile con riferimento alla fattispecie analizzata; sarà sufficiente per il marito, ad es., provare, mediante allegazione di busta paga, di essere l'unico percettore di redditi in famiglia, essendo la moglie casalinga; in tal modo fornirà la prova per presunzione semplice che la liquidità sussistente sul conto corrente cointestato sia riconducibile a versamenti compiuti solo da lui e che quindi quel denaro è esclusivamente di sua proprietà (questa soluzione, che poi si riferisce al caso specifico più ricorrente nella pratica, è stata adottata della Cass. n. 1149/2004 citata e, in giurisprudenza di merito, dalla sentenza Trib. Verona 8 aprile 1994). La presunzione di comproprietà dei beni di cui alcun coniuge abbia dimostrato la proprietà esclusivaIl comma 2 dell'art. 219, ponendo la presunzione di comproprietà dei beni di cui alcuno dei coniugi sia riuscito a provare la proprietà esclusiva, rappresenta una norma che può definirsi eccezionale, innovativa, che pone una deroga rilevante al criterio di riparto dell'onere della prova nei giudizi di rivendicazione (Sesta, 897; Galasso, 616; Oberto, 300 che nota come l'introduzione della presunzione abbia messo fine a quanto avveniva nel sistema anteriore alla riforma del '75, laddove in caso di morte di uno dei coniugi, gli eredi che avessero proposto l'hereditatis petitio avevano l'onere di dimostrare la proprietà esclusiva dei beni del de cuius proprio dante causa, con evidente situazione di privilegio del coniuge superstite che, in mancanza di tale prova, sarebbe stato considerato proprietario esclusivo del bene; ovvero, in caso di separazione di fatto, si privilegiava il coniuge che non si era allontanato dalla residenza familiare). La deroga è evidente: in un ordinario giudizio di rivendica di beni intentato dal sedicente proprietario nei confronti del possessore o detentore, laddove l'attore non riesca a fornire la prova della proprietà del bene, la domanda di rivendica viene rigettata ed il bene rimane acquisto nella sfera giuridica del convenuto; per effetto dell'art. 219 comma 2 invece questo effetto non si verifica nei giudizi di rivendica insorti tra i coniugi; se un coniuge non riesce a dimostrare la proprietà esclusiva di un bene, quest'ultimo rimarrà comunque anche in sua comproprietà per la quota di metà. La norma quindi ripartisce in misura paritaria su entrambi i coniugi il rischio relativo al mancato raggiungimento della prova della proprietà esclusiva dei beni mobili, e, se da un lato costituisce una deroga ai principi probatori che governano i giudizi di rivendicazione, dall'altro costituisce una conferma, un'espressione, una proiezione applicativa, in ambito probatorio, del principio di parità giuridica tra coniugi che ha ispirato la novella del 1975 (Gabrielli-Cubeddu, 317, nonché Oberto, 300 e Galletta, 162 che motiva sulla inesistenza di una valida ragione per favorire uno dei contendenti sul piano della distribuzione dell'onere della prova). La disposizione in commento, che si applica anche nell'ipotesi in cui un coniuge invochi non l'intera proprietà esclusiva di un bene, ma la comproprietà con l'altro per una quota superiore alla metà (Perego, 4; Sesta, 895; Oberto, 302; Zaccaria, 379) è stata oggetto di contrasti in dottrina sulla natura giuridica e sull'ambito di operatività. Il primo quesito posto in dottrina è se la norma prevede una presunzione legale relativa di comproprietà del bene controverso (come sostenuto dalla dottrina maggioritaria: Cattaneo, 447; Corsi, 65; Finocchiaro A. e M., 1219; Zaccaria, 378; Sesta, 896; Galasso, 616; Oberto, 298, Gabrielli, 395) ovvero una vera e propria attribuzione del diritto di proprietà, per metà, in capo ad uno dei coniugi (Maiorca, 110 ss.; Tatarano-Capobianco, 563; Bruscuglia-Gorgoni, 560 ss.). La prima soluzione è preferibile; non è possibile concepire il comma 2 dell'art. 219 come un atipico modo di acquisto della proprietà, peraltro parziale, a titolo originario, per la obiettiva impossibilità di stabilirne i presupposti costitutivi, in quanto la comproprietà si verifica solo per effetto della mancata offerta in giudizio della prova della proprietà esclusiva del bene da parte di uno dei contendenti (Maiorca, 110 ss.; Tatarano-Capobianco, 563; Bruscuglia-Gorgoni, 560 ss.); la comproprietà costituisce l'effetto legale, che deve essere accertato dal giudice naturalmente, della presunzione che il bene sia di entrambi, visto che nessuno dei due riesce a provare che sia esclusivamente suo. Quanto alla natura giuridica, non vi è dubbio che la comproprietà indicata dalla norma consiste in un regime di comunione ordinaria incidentale; non colgono nel segno le posizioni minoritarie isolate secondo il quale si tratterebbe di una comunione legale e non ordinaria (Maiorca, 114) — perché dal mancato assolvimento dell'onere della prova di proprietà di uno o più bene non può derivare la costituzione di un regime patrimoniale che i coniugi hanno escluso sin dall'inizio e sostituito con un altro che si ispira ad un principio completamente diverso — e che si tratterebbe di una sorta di tertium genus che condivide i caratteri tanto della comunione legale che di quella ordinaria (Mazzocca, 89) — perché non consentirebbe di individuare la disciplina giuridica applicabile al caso concreto —. Ci si è interrogati altresì sull'ambito di applicazione della norma, che una parte della dottrina interpreta in modo restrittivo ritenendo che la presunzione di comproprietà operi solo per i beni che sono stati composseduti dai coniugi durante il matrimonio (ad es. beni mobili in casa familiare) o per quelli acquistati ed asserviti alle esigenze ed ai bisogni della famiglia; mentre non opererebbe con riguardo ai beni che sono stati utilizzati prevalentemente da un coniuge, a quelli asserviti alla sua professione o mestiere o hobby ed a quelli acquistati per uno scopo estraneo ai bisogni familiari (Cavallaro, 90 secondo cui l'art. 219, comma 2, che traduce in termini di effettività la regola di cui all'art. 143, comma 3, c.c). La dottrina maggioritaria ritiene, correttamente, che la presunzione in parola operi per tutti i beni indistintamente sia perché in tal senso depone il dato normativo, sia perché tale interpretazione è conforme alla ratio della disposizione (Cattaneo, 447; Giusti, 1452; e Bruscuglia-Gorgoni, 563 secondo i quali «l'introduzione praeter legem di una regola di proprietà indivisa nel regime di separazione lascia perplessi per il timore che possa rendere contestabili anche le intestazioni a favore di uno solo dei coniugi, asserendo una pretesa funzionalità del bene al soddisfacimento dei bisogni della famiglia. In nome della logica contributiva, in realtà, si finirebbe con l'alterare il principio della proprietà esclusiva, che del regime convenzionale costituisce il connotato qualificante, il risultato è il capovolgimento del rapporto tra regola — proprietà solitaria — ed eccezione — proprietà congiunta –, e la vanificazione della scelta del regime di separazione, in quanto, di fatto, verrebbe sostituito a quest'ultimo una comunione in qualche misura temperata»). Tuttavia, appare indubbio che, sebbene anche i beni posseduti principalmente da un coniuge o quelli riferibili a lui perché utilizzati, ad es., nell'esercizio della sua professione o di un hobby, possono ricadere in comproprietà indivisa per effetto della presunzione posta dalla norma in commento, d'altra parte, è proprio con riferimento a queste categorie di beni che il coniuge interessato è agevolato dalla semplificazione probatoria di cui al comma 1 dell'art. 219 c.c. potendo avvalersi della presunzione semplice per dimostrarne la proprietà esclusiva (Cattaneo, 448; Zaccaria, 378; Sesta-Valignani, 507). Naturalmente, il possesso, inteso quale utilizzo esclusivo o quasi esclusivo di un bene mobile da parte di un coniuge, può integrare una presunzione semplice valevole – già di per sé o affiancata da una prova testimoniale – a provare la proprietà esclusiva solo se detto stato di fatto si è verificato sin dall'acquisto del bene ed è rimasto inalterato durante la convivenza matrimoniale, poiché se un bene è stato utilizzato indistintamente da entrambi i coniugi durante la convivenza e in via esclusiva da uno soltanto di essi da un certo momento in poi (ad es. dal coniuge cui è stato assegnato il godimento della casa familiare e dei beni mobili ivi compresi nell'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. resa nell'ambito di un giudizio di separazione), allora tale utilizzo esclusivo non integra alcuna presunzione semplice, né rileva ai fini del superamento della presunzione di comproprietà indivisa del suddetto bene, per vincere la quale il coniuge attuale possessore dovrà presentare in giudizio elementi probatori di ben altro spessore. Occorre ancora analizzare il rapporto tra il capoverso dell'art. 219 e l'art. 195 c.c. che ne rappresenta la trasposizione speculare nell'ambito della comunione legale. Le due disposizioni sembrano esprimere lo stesso principio seppure nel contesto di due regimi patrimoniali differenti, prevedendo entrambi la presunzione di comproprietà indivisa dei beni di cui alcuno dei due sia riuscito a fornire la prova della proprietà esclusiva. Molti autori hanno individuato, tuttavia, diversi elementi di differenziazione tra le due norme che possono anche sovrapporsi (Maiorca, 111; Zaccaria, 379; contra Cavallaro, 94 ss.; Oberto, 318 ss.). Innanzitutto, l'art. 195 c.c., si riferisce espressamente ai soli beni mobili, mentre la presunzione di cui al comma 2, dell'art. 219, sebbene abbia il suo campo di applicazione privilegiato con riferimento ai beni mobili, è astrattamente idonea ad operare anche con riferimento ai beni immobili (Cattaneo, 446; Tatarano-Capobianco, 562). In secondo luogo, la presunzione di appartenenza alla comunione legale ex art. 195 c.c., in mancanza di prova contraria sulla proprietà, mira a garantire la persistenza sui suddetti beni del regime patrimoniale prescelto dai coniugi, mentre la presunzione di comproprietà indivisa prevista dall'art. 219 c.c., nell'ambito della separazione dei beni, comporta un effetto patrimoniale diametralmente opposto al regime prescelto dai coniugi, al fine di dirimere equamente il conflitto sull'appartenenza insorto tra i coniugi quando nessuno dei due sia riuscito a dimostrare la proprietà esclusiva sui beni contesi (Sesta, 902-903, Galletta, 462, Galasso, 616 e in particolare Giusti, 1452, che rileva come esse, pur essendo parallele, funzionano ciascuna nella logica del proprio regime e con un significato totalmente differente, per cui mentre l'art. 195 c.c. rappresenta una conseguenza naturale del regime di comunione, l'art. 219, per contro, viene a facilitare la separazione del patrimonio, offrendo una soluzione al problema tutte le volte che non risulti la titolarità esclusiva in favore dell'uno o dell'altro coniuge. In altri termini la presunzione di comproprietà non costituisce, nella separazione dei beni, un elemento caratterizzante il regime matrimoniale, come nella comunione, ma semmai, un adeguamento del funzionamento del sistema alle contingenze naturali della convivenza matrimoniale). Infine, la presunzione di cui all'art. 195 c.c. può essere superata dimostrando che il bene controverso rientra nel novero di quelli elencati dall'art. 179 c.c., ovvero che sia stato acquistato dal coniuge titolare prima dell'instaurarsi della comunione legale o dopo lo scioglimento della medesima; nel caso dell'art. 219, invece, la presunzione si applica a tutte le categorie di beni ed acquisti e può essere superata mediante il ricorso ad ogni mezzo di prova atto a dimostrarne la proprietà esclusiva (Zaccaria, 379, Maiorca, 111, che rileva che l'art. 219, comma 2, c.c. si applica anche con riguardo ai beni acquistati dai coniugi in regime di comunione, ma rientranti nei beni personali, dal momento che anche questi beni sono tecnicamente in regime di separazione; contra Cavallaro, 95, che esclude un'applicazione anche residuale dell'art. 219 c.c., al di fuori del regime di separazione, ritenendo che quando si riesca a dimostrare che l'acquisto del bene sia avvenuto anteriormente all'instaurarsi del regime di comunione legale ma permangano dubbi sull'acquirente, la norma chiamata a risolvere il conflitto è sempre l'art. 195 c.c.). C'è infine un ultimo aspetto da analizzare, ossia l'operatività della norma nei giudizi tra un coniuge ed un terzo che vanti diritti sui beni mobili di cui alcuno dei coniugi ha provato la proprietà esclusiva o un creditore particolare che intende soddisfare il suo credito esperendo la procedura esecutiva su uno dei beni che dovrebbero ricadere in comproprietà indivisa, in assenza di prova diversa. Si tratta di un problema già analizzato, negativamente, con riguardo al primo comma. In particolare, un primo conflitto ipotizzabile attiene alla proprietà del bene mobile ceduto da un coniuge ad un terzo di cui l'altro coniuge invochi la proprietà esclusiva, potendola dimostrare in giudizio, o in subordine almeno la comproprietà indivisa ai sensi dell'art. 219 comma 2. Deve ritenersi che l'acquisto del terzo è fatto salvo, se questi ha conseguito il possesso materiale del bene, ha agito in buona fede ed in virtù di titolo idoneo al trasferimento, per effetto del meccanismo di risoluzione dei conflitti stabilito dall'art. 1153 c.c. L'altro coniuge non avrà quindi alcuna possibilità di invalidare l'alienazione del bene mobile al terzo, ma potrà agire nei confronti dell'altro coniuge per conseguire l'intero prezzo, o la metà, ricevuto dal terzo acquirente dall'alienazione del bene, ove riesca nel primo caso a dimostrare la proprietà esclusiva del bene ovvero, nel secondo, se nessuno dei due dovesse riuscire ad offrire in giudizio tale prova (Vascellari, 424; Cavallaro, 111; Sesta, 904; Oberto, 309). Laddove il meccanismo risolutivo dell'art. 1153 c.c. non operi per mancanza di uno dei presupposti costitutivi, occorre distinguere l'ipotesi in cui il terzo acquisisca il possesso del bene da quella in cui il bene rimanga in possesso del coniuge dell'alienante. Nel primo caso il coniuge dell'alienante dovrà offrire la prova della proprietà esclusiva del bene ceduto in un giudizio intentato ai sensi dell'art. 948 c.c. nei confronti del terzo acquirente (privo di titolo o che ha agito in buona fede; diversamente opererebbe il disposto dell'art. 1153 c.c.); se non vi riesce, la sua domanda dovrà essere respinta non potendo invocare nei confronti del terzo la presunzione di comproprietà indivisa del bene, perché la norma mira esclusivamente a risolvere con regola equitativa i conflitti petitori tra i coniugi e perché il terzo acquirente sarebbe sottoposto ad una irragionevole disparità di trattamento rispetto ad altri giudizi rivendicatori promossi da un soggetto non coniugato all'alienante. In altre parole, se l'acquirente di un bene mobile viene citato in giudizio ex art. 948 c.c. per la rivendica del bene da chi assume esserne proprietario, risulterà vincitore, se l'attore non dovesse riuscire a fornire la prova della proprietà esclusiva del bene in giudizio; diversamente se lo stesso soggetto viene convenuto in un giudizio avente analogo oggetto ma dal coniuge dell'alienante, laddove si ritenesse operante la presunzione di comproprietà indivisa del bene ex art. 219 comma 2, vedrebbe il suo acquisto in parte pregiudicato, dovendo condividere la comproprietà del bene per quote eguali con l'attore, ancorché quest'ultimo non riuscisse a fornire in giudizio la prova della proprietà esclusiva (Cfr. Cattaneo, 449; Vascellari, 424; Zaccaria, 381; Perego, 4; Cavallaro, 113 ss.; BruscugliaGorgoni, 565 ss.; Sesta, 905 ss.; Maiorca, 112-113). Nel caso in cui il bene sia rimasto in possesso del coniuge dell'alienante, sarà il terzo acquirente ad avere interesse a citarlo in giudizio appunto per conseguire una sentenza di accertamento della validità del suo acquisto a titolo derivativo dall'altro coniuge e di condanna del coniuge convenuto alla consegna del bene. In tal caso, secondo l'ordinario criterio di riparto, il terzo attore dovrà provare la validità dell'acquisto dimostrando che il coniuge alienante fosse proprietario esclusivo del bene al momento della vendita; ove non vi riesca, ma neppure il coniuge convenuto riesca a provare la proprietà esclusiva del bene, scatterebbe la presunzione di comproprietà del bene, invocabile dal coniuge non alienante; in tal caso la presunzione si configurerebbe perché il terzo avente causa, quale successore particolare, acquisterebbe la stessa posizione giuridica dell'alienante (Zaccaria, 381; Gabrielli-Cubeddu, 318; Cattaneo, 448). In questo stesso giudizio, il terzo acquirente può chiamare in garanzia per l'evizione (quanto meno parziale) ex art. 1485 c.c. il coniuge alienante al fine di ottenere una pronuncia nei suoi confronti di restituzione di metà del prezzo versatogli, in funzione di riequilibrio dei rapporti, dal momento che la riduzione del diritto di proprietà sul bene nella quota di metà ha reso il versamento dell'intero prezzo privo di causa. La presunzione di comproprietà non può essere opposta al terzo creditore di un coniuge che agisca esecutivamente sui beni apparentemente a lui riferibili. L'altro coniuge può proporre opposizione di terzo all'esecuzione ex art. 619 ss. c.p.c. con tutti i limiti probatori stabiliti negli articoli successivi (si confronti la giurisprudenza richiamata nell'articolo precedente) per paralizzare l'esecuzione coattiva ma solo a patto che riesca a provare documentalmente che il bene aggredito appartiene alla sua proprietà esclusiva; se non vi riesce la sua opposizione dovrà essere respinta non potendo opporre la presunzione di comproprietà indivisa al creditore (Sesta, 908; Cattaneo, 449, Oberto, 303 ss.). Ci si è chiesti infine se la presunzione di comproprietà indivisa sia derogabile pattiziamente mediante accordi che ripartiscano in maniera differente (ad es. 75% e 25%) i beni mobili di cui alcuno dei coniugi sia in grado di provare la piena proprietà oppure che attribuiscano la proprietà esclusiva ad un coniuge di alcune categorie di beni pur in mancanza di prova certa del titolo (ad es. tutti i gioielli presenti in casa sarebbero di proprietà della moglie; i quadri pregiati invece del marito). Parte della dottrina si esprime in termini positivi, ammettendo la liceità di queste convenzioni matrimoniali (Corsi, 62; Gabrielli-Cubeddu, 316; Giusti, 1452 ss.; Oberto, 324 ss.). Altra parte della dottrina, sul rilievo che l'art. 219 comma 2 costituisce la trasposizione del principio di uguaglianza giuridica dei coniugi nell'ambito della separazione dei beni, interpreta la norma come imperativa, concludendo per la nullità di convenzioni che ne alterino l'oggetto o il contenuto a vantaggio dell'uno o dell'altro (Cavallaro, 89). Il secondo comma dell'art. 219 c.c. (che, con riferimento alla ipotesi di separazione di beni tra coniugi, sancisce una presunzione semplice di comproprietà per i beni mobili dei quali nessuno di essi sia in grado di dimostrare la proprietà esclusiva), pur non contenendo una esplicita limitazione dell'efficacia della presunzione di comunione ai soli rapporti interni tra coniugi (a differenza di quanto stabilito al primo comma, contenente un espresso riferimento ai rapporti predetti), va interpretato secondo criteri ermeneutici di tipo logico — unitari non meno che storici (emergendo dai lavori preparatori che l'efficacia della presunzione era stata inizialmente estesa anche ai terzi), e non consente, pertanto, di estendere gli effetti della presunzione in parola anche ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi, con la conseguenza che, in tema di opposizione all'esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti, in linea generale, dall'art. 621 c.p.c. (che esclude, in particolare, l'efficacia probatoria di qualsiasi forma di presunzione). (Cass. n. 6589/1998). Quindi la Suprema Corte ritiene che la presunzione di comproprietà indivisa prevista dal comma 2 si applichi esclusivamente nei rapporti interni tra i coniugi e non in quelli esterni coi terzi creditori. Si tratta dell'unica pronuncia emessa sulla questione. 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