Codice Civile art. 177 - Oggetto della comunione (1).

Gustavo Danise

Oggetto della comunione (1).

[I]. Costituiscono oggetto della comunione:

a) gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali [179];

b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione [191];

c) i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;

d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio [181, 191 2].

[II]. Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 56 l. 19 maggio 1975, n. 151. L'art. 55 della stessa legge, ha modificato l'intitolazione di questa Sezione e soppresso la suddivisione in paragrafi.

Inquadramento

Il regime patrimoniale dei coniugi è il complesso delle regole giuridiche, di fonte legale o negoziale, preordinate alle disciplina dei diritti, poteri ed obblighi dei coniugi in ordine all'acquisto e alla gestione dei beni durante il matrimonio. La Legge di riforma del diritto di famiglia, l. n. 151/1975, ha inciso fortemente sul regime patrimoniale dei coniugi, prevedendo, nella nuova versione dell'art 159 c.c., la comunione legale quale regime patrimoniale legale, salva la differente volontà dei coniugi da palesarsi nelle forme di cui all'art 162 c.c.; infatti, il regime di comunione legale non possiede carattere obbligatorio ed imperativo, ma dispositivo e sussidiario, nel senso che trova applicazione in assenza di una diversa determinazione pattizia, che deve assumere la forma della convenzione matrimoniale, da annotarsi sull'atto di matrimonio. Le norme codicistiche sulla comunione legale si applicano anche alle unioni civili se non disposto diversamente dai costituenti con convenzione matrimoniale come sancito dall'art. 1 comma 13 l. n. 76/2016; per cui la trattazione si estende anche alle unioni civili. Il regime patrimoniale nelle convivenze di fatto è invece regolato dai conviventi con un contratto di convivenza ex art. 1 comma 50 ss. della medesima legge.

Si è osservato che il legislatore, nel prevedere la comunione come regime patrimoniale legale, ha voluto indicare un modello ritenuto in astratto più rispondente al principio di solidarietà ed uguaglianza nel matrimonio (Bianca, 1989, I, 2 ss.; Nuzzo, 35 ss.; Alagna, 4 ss.) Il principio base della comunione legale, secondo cui ciascun coniuge partecipa agli acquisti e agli incrementi patrimoniali dell'altro successivi al matrimonio, riposa sulla considerazione che entrambi abbiano contribuito, seppure eventualmente in modo indiretto, al raggiungimento del risultato (Schlesinger, 73; Bianca, 1982, 588; Bonilini, 134 ss.).

La comunione legale differisce da quella ordinaria, come ha avuto modo di evidenziare la Corte Costituzionale in sentenza n. 311/1988 ove precisa che mentre la comunione ordinaria è una comunione per quote, nella comunione legale, i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione nel loro complesso. La Corte di Cassazione si è adeguata a tale dictum, ex multis in Cass. n. 4890/2006, ove ha precisato che la comunione legale dei beni è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. In tal senso si è espressa recentemente anche la giurisprudenza di merito (Trib.Busto Arsizio III ,14 gennaio 2021 “La comunione legale fra i coniugi, costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dall'art. 1100 c.c. e ss, alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che forma oggetto”). In considerazione della natura della comunione legale, quale comunione senza quote, può procedersi all'espropriazione, per crediti personali di uno dei coniugi, di un bene in comunione nella sua interezza e non per la metà, fermo restando il diritto del coniuge non debitore all'ottenimento di metà della somma lorda ottenuta dalla vendita del bene esecutato o di metà del valore dello stesso in caso di assegnazione (Cass. , ord.  n. 506/2021; C.t.r. Basilicata Potenza 4 febbraio 2021). In materia di espropriazione immobiliare di beni in comunione si è espressa la Cassazione sottolineando che la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l'espropriazione, per crediti personali di uno solo di essi, di uno o più beni in comunione abbia ad oggetto la res nella sua interezza e non per la metà o per una quota; ne consegue che, in ipotesi di divisione, è esclusa l'applicabilità sia della disciplina sull'espropriazione dei beni indivisi (artt. 599 ss. c.p.c.) sia di quella contro il terzo non debitore. (Cass., ord.n. 2047/2019. In senso conforme in giurisprudenza di merito Trib.Tivoli, 20 novembre 2020 secondo cui il pignoramento immobiliare di un bene immobile in comunione legale tra coniugi deve riguardare l'intero immobile, senza indicazione di quote, anche quando siano esecutati ambedue i coniugi, a pena di improcedibilità dell'esecuzione forzata e Trib. Viterbo, 10 ottobre 2019 che ha espresso il medesimo principio). La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi permane sino al momento del suo scioglimento, di cui all'art. 191 c.c., allorquando i beni cadono in comunione ordinaria e ciascun coniuge, che abbia conservato il potere di disporre della propria quota, può liberamente e separatamente alienarla, essendo venuta meno l'esigenza di tutela del coniuge a non entrare in rapporto di comunione con estranei (Cass. n. 8803/2017). Il regime di comunione legale non rappresenta un regime patrimoniale universale, nel senso che non vi rientrano tutti i beni dei coniugi, ma solo alcuni, prevedendo il legislatore codicistico anche beni che rimangono nel patrimonio personale di ciascun coniuge (c.d. beni personali dei coniugi). Fatta questa premessa generale, l'art. 177 c.c. descrive i beni che ricadono in comunione legale.

I beni oggetto della comunione

Il principio di fondo della comunione legale tra coniugi è che diventano immediatamente comuni i beni acquistati, anche singolarmente da ciascuno dei coniugi, dopo il matrimonio; restano al contrario personali i beni di cui ciascun coniuge era già proprietario prima del matrimonio. L'acquisto di un bene da parte di un coniuge durante il matrimonio determina quindi la contitolarità del bene stesso da parte di entrambi gli sposi. Il rapporto fra i coniugi e la proprietà del bene comune si configura come proprietà solidale, nel senso che ciascuno dei coniugi si considera titolare di diritti ed obblighi per intero e non solo nei limiti di una quota. Gli acquisti compiuti da un coniuge producono automaticamente i loro effetti anche nella sfera giuridica dell'altro (FERRANDO,104; GABRIELLI - CUBEDDU, 17).

Gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio

La lett. a) dell'articolo in commento utilizza genericamente il sostantivo «acquisti», non chiarendo se si limiti agli acquisti di diritti reali, che certamente vi sono ricompresi, oppure si estenda anche gli acquisti di diritti di credito. Secondo una parte della dottrina il credito non può essere oggetto di comunione, in quanto si tratta di un diritto relativo e personale in suscettibile di essere trasferito ex lege a favore della comunione legale (Schlesinger, 375; Santosuosso, 165; Finocchiaro, 873; Corsi, 84; Russo, 251). Altri autori diversamente evidenziano che non sussistono motivi sistematici ostativi all'inclusione dei diritti di credito nella comunione legale, e sottolineano che tale esclusione mal si concilierebbe con i principi ispiratori dell'istituto, tenuto conto che l'acquisto di un credito sovente determina un incremento patrimoniale (Bianca, 95; Di Martino 61 ss.; De Paola, 353; Majello, 3; Galasso, 209.; Gionfrida  Daino, 509). Un terzo orientamento estende la nozione di «acquisti» ad ogni diritto la cui acquisizione si risolva in un investimento (Busnelli,; Paladini, 11).

La Corte di Cassazione era orientata originariamente a seguire la prima delle tre soluzioni prospettate, escludendo che i diritti di credito potessero cadere in comunione (Cass. n. 12554/2000, Cass n. 1363/1999, Cass n. 987/1995, Cass. n. 6493/1994, Cass n. 9513/1991). Con particolare riferimento al “denaro”, la S.C. ha chiarito, in sentenza Cass. n. 1197/2006, che il denaro depositato su un conto corrente intestato ad un coniuge in regime di comunione legale non entra a far parte di tale comunione. Un importante revirement sul punto è stato offerto dai Giudici di Legittimità nella sentenza Cass. n. 2007/21098 nella cui massima si precisa che l'art. 177 c.c., comma 1, lett. a), nel prevedere che costituiscono oggetto della comunione "gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali", ricomprende nel proprio disposto gli atti acquisitivi di ogni genere di "bene", inteso quale oggetto di ogni tipo di diritti, non contenendo la norma alcuna specificazione delimitativa. Infatti la comunione legale fra i coniugi, come regolata dell'art. 177 c.c., e ss., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato alla tutela della proprietà individuale, come la comunione ordinaria regolata dall'art. 1100 ss. c.c., ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che forma oggetto, con la conseguenza che i crediti, così come i diritti a struttura complessa come i diritti azionari, in quanto "beni" ai sensi degli artt. 810,812 e 813 c.c., sono suscettibili di entrare nella comunione. In tale importante pronuncia la Cassazione ha statuito che i titoli obbligazionari acquistati da un coniuge con i proventi della propria attività personale ricadono in comunione legale. Successivamente la Corte di Cassazione sembra essere ritornata sui suoi passi; infatti, nella pronuncia Cass. n. 1548/2008 ha precisato che la comunione legale fra i coniugi, di cui all'art. 177 cod. civ., riguarda gli acquisti, cioè gli atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della "res" o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all'acquisizione di una "res", non sono suscettibili di cadere in comunione (Cass. n. 11504/2016). In applicazione di tale principio, la Cassazione ha escluso che dal contratto preliminare di compravendita immobiliare con effetti anticipati, da cui scaturiscono effetti obbligatori e non reali, scaturisca una situazione di compossesso dell'immobile promesso in vendita in capo al coniuge dell'acquirente ed ha escluso che il coniuge del promissario acquirente possa promuovere autonomamente nei confronti del promissario venditore inadempiente un'actio ex art. 2932 c.c. (Cass. n. 4823/2006). Tuttavia per l'acquisto di un immobile che ricada in comunione legale non è necessaria la sottoscrizione di entrambi i promittenti venditori, ma è sufficiente il consenso del coniuge non stipulante, traducendosi la mancanza di detto consenso in un vizio di annullabilità, da far valere, ai sensi dell'art. 184 c.c., nel rispetto del principio generale della buona fede e dell'affidamento, entro il termine di un anno, decorrente dalla conoscenza dell'atto o dalla trascrizione (Cass. , ord.n. 20439/2019).  In modo più icastico, la Corte di legittimità ha escluso dalla comunione legale ex art. 177 lett a) c.c. il credito per l'indennizzo, dovuto ai sensi dell'art. 936 c.c., dal proprietario del suolo per opere fatte dal terzo con materiali propri, precisando che la comunione degli acquisti provenienti da attività separata non comprende tutti indistintamente i diritti di credito, in quanto, tenuto conto che l'atto deve avere ad oggetto l'acquisizione di un "bene" ai sensi degli articoli 810,812 e 813 c.c., restano esclusi i meri diritti di credito che non abbiano una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio (Cass. n. 799/2009). Importantissima in chiave riassuntiva e riepilogativa dei principi espressi nelle pronunce sopra richiamate è la sentenza Cass. n. 9845/2012 ove gli ermellini, dopo aver ricordato che restano esclusi dalla comunione legale, ai sensi dell'art. 177 c.c., comma 1, lett. a), solo i meri diritti di credito che non abbiano una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio, come quelli derivanti da un contratto preliminare di compravendita (Cass. n. 1548/2008), dalla partecipazione ad una cooperativa edilizia a contributo erariale (Cass. n. 12382/2005; Cass. n. 16305/2011) o da un deposito bancario (Cass. n. 1197/2006), e che vi sono invece ricompresi, oltre ai titoli obbligazionari, i titoli di partecipazione azionaria e le quote di fondi d'investimento, che hanno una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio (Cass. n. 7437/1994; Cass. n. 9355/1997; Cass. n. 5172/1999; Cass. n. 799/2009; Cass. n. 10386/2009; Cass. n. 4393/2011), ravvisano nel fondo comune d'investimento un patrimonio separato, in cui la separazione garantisce adeguatamente la posizione dei partecipanti, i quali sono i proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo, lasciando però la titolarità formale di tali beni in capo alla società di gestione che lo ha istituito (in tal senso, Cass. n. 16605/2010), restando così evidenziata la componente patrimoniale insita nella quota di partecipazione al fondo. In tale pronuncia la Corte di Cassazione ha aderito alla corrente di pensiero che fa ricadere immediatamente in comunione i titoli di credito di massa, per la loro natura di strumenti di investimento. Seguendo questo tracciato ermeneutico, ricadono in comunione anche i titoli di partecipazione ad una società cooperativa acquistati, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi ed allo stesso intestati (Cass. n. 19689/2014). In passato, la medesima autorità ha precisato che vanno ricomprese nella comunione legale anche le azioni di società possedute da un solo coniuge, in quanto costituiscono incrementi patrimoniali (Cass. n. 7437/1994).Infine sempre in linea con la posizione in commento si è chiarito che anche il mutuo congiuntamente stipulato da due coniugi in comunione legale dei beni, rientra nella comunione medesima e quindi il diritto alla restituzione compete non già ai singoli coniugi personalmente, ma alla comunione, con la conseguenza che il pagamento integrale della somma mutuata, da parte del debitore, nei confronti di uno solo dei coniugi ha effetto estintivo per l'intero, per la prevalenza delle regole della comunione legale sul principio della parziarietà delle obbligazioni solidali dal lato attivo. (Cass. n. 23819/2022 che nell’ enunciare tale principio, ha ritenuto che la erogazione di un mutuo configuri un acquisto ex art. 177, comma 1, lett. a, c.c., se non si specifica che il denaro concesso a mutuo sia personale).

 Il sostantivo “acquisti” ha suscitato un altro problema interpretativo; ci si è chiesti esso ricomprenda, unitamente ai diritti acquisiti a titolo derivativo, anche a quelli acquisiti a titolo originario. Secondo parte della dottrina, la formulazione “acquisti compiuti” implicherebbe necessariamente ed esclusivamente il compimento di un'attività negoziale, per cui ricadrebbero nel campo di applicazione della lett. a) solo gli acquisti a titolo derivativo (Caravaglio, 257). La dottrina maggioritaria tuttavia opta per la tesi estensiva, evidenziando che l'art. 177, lett. a), c.c. è una norma generale il cui ambito di applicazione non trova alcuna limitazione connessa al titolo dell'acquisto; applicandosi, quindi anche agli acquisti a titolo originario, che non presuppongono il compimento di alcun atto negoziale (Schlesinger, 98; Bonilini, 137 ss.; Sesta, 155; Gabrielli, 50). In questa prospettiva, sarebbe suscettibile di cadere in comunione il bene acquistato durante il matrimonio per usucapione (Cian, 252 ss.). In ipotesi di costruzione di un edificio sul terreno di proprietà esclusiva di uno solo dei coniugi, vi è chi sostiene che il bene acquistato per accessione non cade in comunione immediata (Schlesinger, 99; Gabrielli, 343; Selvaggi, 4 ss.); in senso difforme altri autori sostengono che gli acquisti per accessione rientrino nell'oggetto della comunione (Di Martino, 11 ss.; Quadri, 558 ss.; Santosuosso, 83 ss.; Regine, 775 ss.).

 In giurisprudenza, la Corte di Cassazione ha sposato la tesi estensiva, evidenziando che gli acquisti di beni immobili per usucapione effettuati da uno solo dei coniugi, durante il matrimonio, in vigenza del regime patrimoniale della comunione legale, entrano a far parte della comunione stessa, non distinguendo l'art. 177, comma 1, lett. a) del c.c. tra gli acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo. Fatta questa premessa, la S.C. precisando che il momento determinate l'acquisto del diritto "ad usucapionem" da parte dell'altro coniuge, attesa la natura meramente dichiarativa della domanda giudiziale, s'identifica con la maturazione del termine legale d'ininterrotto possesso richiesto dalla legge (Cass. n. 20296/2008; principio confermato successivamente in Cass. n. 17033/2016). L'onere della prova che un bene immobile acquisito da uno dei coniugi sia entrato a far parte della comunione legale spetta all'altro coniuge (Cass., ord., n. 7072/2021). Una volta chiarito questo principio, la S.C. ha affrontato il problema processuale del litisconsorzio di entrambi i coniugi in comunione legale nell'ambito di un giudizio volto a rivendicare l'acquisto di un immobile a titolo originario per usucapione. La posizione originaria della Cassazione era volta ad escludere la necessità del litisconsorzio, evidenziando che se uno dei coniugi, deducendo una situazione di compossesso con l'altro, propone in via autonoma domanda di usucapione di un bene immobile, il giudicato favorevole produce direttamente effetti nella sfera giuridico - patrimoniale dell'altro coniuge rimasto estraneo al giudizio, facendo sì che egli acquisti la comproprietà di detto immobile (Cass. n. 1434/2000 e Cass. n. 2983/1991). Successivamente la S.C. di legittimità ha mutato orientamento, affermando che sussiste il litisconsorzio necessario del coniuge in regime di comunione legale dei beni nel caso in cui venga contestato da un terzo l'acquisto per usucapione di una porzione immobiliare da parte dell'altro coniuge (Cass. n. 19984/2008, il principio verrà confermato successivamente in Cass. n. 14522/2012 e Cass. n. 6622/2016 ed Cass. 8468/2016 anche con riferimento agli acquisti a titolo derivativo). Sul tema del litisconsorzio necessario in un'azione di revocatoria ordinaria ex art 2901 c.c. esperita da un terzo creditore di uno dei coniugi su beni caduti in comunione, la Suprema Corte non lo ammette precisando che l'eventuale accoglimento di tale azione non determinerebbe alcun effetto restitutorio, né traslativo, destinato a modificare la sfera giuridica del coniuge non debitore, ma comporterebbe esclusivamente l'inefficacia relativa dell'atto in riferimento alla sola posizione del coniuge debitore e nei confronti, unicamente, del creditore che ha promosso il processo, senza caducare, ad ogni altro effetto, l'atto di disposizione (Cass., ord. n. 18707/2021, confermativa di Cass. , ord.n. 24950/2020). Anche i  fondi agricoli riscattati ai sensi della l. n. 379/1967 rientrano nella comunione legale dei beni per effetto dell'art. 177 c.c. (Trib. Rovigo, 5 maggio 2021). Per quanto concerne l'altro aspetto affrontato del rapporto tra la disciplina della comunione legale ex art. 177 lett. a) c.c. e l'accessione (art. 934 c.c.), la Cassazione ha costantemente sostenuto la prevalenza delle norme sull'accessione con la conseguenza che l'immobile costruito dopo il matrimonio sul terreno personale rimane di proprietà esclusiva del coniuge proprietario del terreno, mentre all'altro coniuge compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione (Cass. n. 20508/2010, Cass. n. 2354/2005, Cass. n. 2680/2000; principio confermato in Cass. ord. n. 28258/2019).Gli Ermellini, Sez. V civile, in Ord. n. 30594/2023 hanno evidenziato che in tema di imposta di registro e dei relativi benefici per l'acquisto della prima casa, ai fini della fruizione degli stessi, il requisito della residenza nel Comune in cui è ubicato l'immobile va riferito alla famiglia, così che, nel caso di acquisto in comunione legale tra coniugi, quel che rileva è che l'immobile acquistato sia destinato a residenza familiare, mentre non assume rilievo in contrario la circostanza che uno dei coniugi non abbia la residenza anagrafica in tale Comune, e ciò in ogni ipotesi in cui il bene sia divenuto oggetto della comunione ai sensi dell'art. 177 c.c. A maggior ragione il requisito in discorso non deve essere realizzato dal coniuge del contribuente che abbia operato un acquisto a titolo personale. La Suprema Corte ha sottolineato che entrano a far parte della comunione legale tra coniugi, soltanto gli acquisti compiuti dai coniugi anche separatamente ma provenienti da terzi, mentre non ricadono in comunione gli atti di disposizione intercorsi tra i coniugi stessi (Cass. n. 11188/2021); non vi rientrano altresì  i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali, per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali all'acquisizione di una "res", non sono suscettibili di cadere in comunione (Cass. n. 22458/2019; Tribunale Velletri 17 gennaio 2020).

 L'ultimo caso spinoso da affrontare con riferimento alla lett. a) dell'art. 177 c.c. attiene all'acquisto di partecipazioni in società. La dottrina prevalente include nella comunione legale l'acquisto di partecipazioni a società nelle quali la responsabilità del socio è limitata ai conferimenti; diversamente, non vi rientrerebbero le partecipazione a società con responsabilità personale illimitata, che ricadrebbero nell'ambito di applicazione dell'art. 178 c.c., con la conseguenza che la partecipazione sociale rileverebbe solo nella comunione de residuo (Schlesinger, 547; Marchetti, 159 ss.; Bonilini, 137 ss.). Una differente impostazione dottrinale rinviene la distinzione sulla riferibilità e strumentalità della partecipazione sociale all'esercizio di una attività imprenditoriale. In questo caso la partecipazione rientrerebbe nella comunione de residuo prevista dall'art. 178, indipendentemente dal tipo di società (Paladini, 25; Balestra, 83; Di Martino, 133 ss.; Tanzi, 320 ss.; Capecchi, 375). 

 La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che l'acquisto di azioni di una s.p.a. rientra in comunione immediata ai sensi dell'art. 177, lett. a) c.c. in base alla considerazione che l'aspetto patrimoniale dell'azione è prevalente rispetto ai diritti e agli obblighi connessi allo status di socio (Cass. n. 21098/2007). Per quanto concerne le quote di s.r.l., la Cassazione, nelle pronunce risalenti, le ha a volte escluso (Cass. n. 875/1996) ed altre incluso (Cass. n. 9355/1997) nella comunione legale; attualmente non sussistono più dubbi sull'inclusione delle quote della s.r.l., acquistate durante il matrimonio, nella comunione legale alla luce del criterio direttivo ermeneutico tracciato dalla Cassazione nella importante sentenza Cass. n. 9845/2012 ut supra già commentata, a cui si è uniformata anche la giurisprudenza di merito (ex multis Corte d'Appello Firenze Sez. spec. in materia di imprese Sent., 20 luglio 2023 secondo cui la partecipazione sociale in una società di capitali costituisce un bene giuridicamente distinto ed autonomo dal patrimonio sociale, per cui, nel caso di comunione legale, non è ravvisabile l'esigenza di tenere separato questo bene dal patrimonio comune per consentire al singolo coniuge di esercitare l'attività economica che tale patrimonio è destinato a finanziare. La quota sociale, quindi, al pari di ogni altro bene acquistato in costanza di matrimonio, cade immediatamente in comunione legale e, al momento dello scioglimento della stessa, cade in comunione ordinaria. Conseguentemente, per effetto dello scioglimento della comunione, quella che era una comunione senza quote inizia ad essere una comunione paritaria sul bene, con diritto per il coniuge di richiedere la liquidazione del valore della propria metà. . Per quanto riguarda la partecipazione ad una società di persone, la Cassazione in sentenza Cass. n. 6876/2013ha affermato che essa non cade in comunione immediata ma in comunione de residuo ex art. 178 c.c.; mentre con riferimento alle società cooperative, ha precisato che la partecipazione acquistata durante il matrimonio cade in comunione se il socio è estraneo all'attività che costituisce l'oggetto della cooperativa (Cass. n. 19689/2014). Interessante è poi il caso della divisione di beni in comunione in relazione alle partecipazioni societarie. Si è evidenziato che il principio della natura dichiarativa della divisione, secondo il quale ciascuno dei condividenti consegue solo ciò che è già suo, senza che intervenga alcuna alienazione, realizzandosi solo una trasformazione dell'oggetto del diritto, si applica, ai sensi degli artt. 1116 e 2283 c.c.., anche alla divisione di beni conseguenti alla liquidazione dell'attivo patrimoniale residuo di una società di persone. Pertanto, se un coniuge ha fatto parte di una società in nome collettivo che si è trasformata in società semplice e poi ha cessato di esistere, con conseguente divisione tra i soci dei beni sociali, la natura retroattiva della divisione fa sì che, al fine di stabilire se tali beni facciano parte o meno della comunione legale tra coniugi, occorre fare riferimento al momento di acquisto del bene da parte della società e non a quello della divisione (Cass. II, n. 17061/2011).

  Infine si segnala Cass. ord. n. 17207/2021 in cui la Cassazione chiarisce che L'opponibilità ai terzi della comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151), è condizionata soltanto alla annotazione a margine dell'atto di matrimonio, prevista dallo art. 162 c.c., per le convenzioni matrimoniali, senza che sia richiesta la trascrizione della relativa convenzione a norma dell'art. 2647 c.c., atteso che la l. n. 151 del 1975, art. 227 non ha previsto l'ultrattività delle precedenti norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni familiari. Ai sensi degli artt. 162 e 163 c.c. affinchè la pubblicità relativa alla stipula e alle modifiche delle convenzioni matrimoniali renda le stesse opponibili ai terzi è necessaria e sufficiente l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio iscritto nel registro depositato presso gli uffici del Comune di celebrazione, poichè è presso questi uffici che i terzi interessati hanno l'onere di recarsi per avere conoscenza di come siano stati regolati i rapporti patrimoniali tra i coniugi e non anche presso altri uffici.

La comunione de residuo

Come visto, i beni di cui alla lett. a) entrano immediatamente a far parte della comunione legale nel momento del loro acquisto. Per questo motivo, con riferimento a detti beni si parla di comunione immediata. Diversamente i frutti e proventi descritti nelle lett. b) e c), oggetto di questo paragrafo, ricadono in comunione legale nel momento dello scioglimento della stessa, se e nella misura in cui non risultano consumati. Con riferimento a detti beni, sono state coniate le definizioni di comunione differita o de residuo, che comprende anche la fattispecie descritta dall'art. 178 c.c. che sarà esaminato a parte. La lett. b) dell'art. 177 c.c. include nella comunione differita i frutti dei beni propri di ogni coniuge, ad esempio i canoni di locazione corrisposti dal conduttore di un immobile di proprietà di uno solo dei coniugi; la lett. c) vi include i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi.

 Secondo la dottrina la ratio della comunione de residuo riposa sulla necessità di offrire un giusto equilibrio tra il principio solidaristico che dovrebbe informare la vita coniugale (art. 29 Cost.), da un lato, e la tutela della proprietà privata e della remunerazione del lavoro, dall'altro (artt. 35,41,42 Cost.) (Cavallaro 114 ss.; Benanti, 1063 ss). I frutti e proventi dell'attività anche separata di ciascun coniuge ricadono in comunione legale solo al momento dello scioglimento di quest'ultima; in costanza di comunione, detti beni sono «propri» di esclusiva titolarità del coniuge percettore (Oberto, 148). Detti beni propri non vanno confusi coi beni personali di cui all'art. 179 c.c. essendo sottoposti ad un diverso regime giuridico; difatti essi non possono essere oggetto di surrogazione ai sensi della lett. f) dell'art. 179 c.c. (opinione sostenuta da Corsi, 92; A. e M. Finocchiaro, 1012, nota 49 bis; De Paola 456; Auletta 109; Russo 81 s.). Alcuni autori, muovendo dalla formulazione letterale dell'art. 177 c.c., sostengono che sui frutti e proventi non consumati si determinerebbe, al momento dello scioglimento della comunione, una situazione di contitolarità giuridica (Parente, 2333 ss.; Auletta, p. 112 ss.); secondo altri, sorgerebbe in capo a ciascun coniuge, al momento dello scioglimento della comunione legale, un diritto di credito alla percezione della metà dei frutti e proventi dell'attività separata dell'altro sussistenti e non consumati, al netto dei rispettivi debiti personali (RIMINI, 68 ss.). Sebbene la prima tesi sia più aderente al dato letterale, si lascia preferire la seconda ai fini dell'applicazione pratica dell'istituto (cfr. par. 1 del commento all'art. 178 c.c.). Oggetto della comunione de residuo possono essere solo beni mobili, denaro o diritti di credito (Schlesinger, 119; contra Oberto, 892 che ritiene che ivi debbano essere ricompresi anche i beni immobili ricevuti come provento di un'attività separata di un coniuge). La comunione differita comprende i redditi rimasti liquidi (Cian - Villani, 349; Russo, 77) e quindi principalmente il denaro sussistente nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento della comunione, nonché il saldo attivo su corrente bancario (Schlesinger, 117; Russo,; Cian - Villani, 346; Spitali, 173 ss.) Per quanto concerne i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi, vi rientrano sicuramente stipendi e salari da lavoro dipendente, ma anche i redditi da lavoro autonomo di artigiani, imprenditori, professionisti. Può dunque definirsi «provento» qualsiasi utilità o entrata che derivi dall'attività di lavoro svolta dal coniuge in qualunque forma, subordinata o autonoma, professionale od occasionale, compresi i diritti ed i redditi correlati all'esercizio del diritto patrimoniale d'autore, o di altre opere dell'ingegno (Oberto, cit); per quanto concerne, invece, il trattamento di fine rapporto, si ritiene che detta componente retributiva debba essere stata effettivamente percepita dal coniuge avente diritto, con la conseguenza che ricadrà in comunione de residuo la quota di esso non consumata al momento dello scioglimento della comunione (Gigliotti, 723; De Paola 463); nulla è pertanto dovuto a tale titolo all'altro coniuge in caso di corresponsione dell'indennità in epoca precedente all'instaurazione, ovvero successiva alla cessazione del regime legale. Sulla questione, tuttavia, altri autori sostengono la riconducibilità alla comunione de residuo dei crediti già maturati, pro parte, in costanza del rapporto di lavoro, sebbene non ancora esigibili (Gigliotti, 722). Si tratta di un assunto non condivisibile; il termine proventi non ancora consumati pare riecheggiare crediti non solo esigibili, ma anche effettivamente percepiti ed in parte consumati (Oberto, 1050 ss.). La dottrina prevalente ritiene che il coniuge che ha prodotto il reddito, o che è proprietario del bene che ha prodotto i frutti, abbia la possibilità di utilizzare liberamente i frutti e i proventi e quindi di consumarli, senza che l'altro coniuge abbia alcuna possibilità di impedire che il consumo avvenga per finalità personali, estranee al mantenimento della famiglia (A. e M. Finocchiaro, 932; Russo, 397; Cian - Villani, 394 ss.; Dogliotti, 385; Auletta, 312; Macrì, 81 ss.). In senso contrario, altra parte della dottrina sostiene che la libertà di disporre da parte di ciascun coniuge dei frutti e dei proventi da lui percepiti durante il matrimonio trovi un limite nel principio generale di buona fede, per cui il consumo fraudolento dei frutti e dei proventi obbliga a risarcire all'altro coniuge i danni conseguenti (Busnelli, 36 ss.; Santosuosso, 96; Gionfrida Daino, 511; Giusti, 34 ss.). Tale opinione non è condivisibile, a parere dello scrivente, per una serie di ragioni: in primo luogo, si è evidenziato che la comunione de residuo rappresenta la sintesi tra le istanze solidaristiche della famiglia, da un lato, e la tutela dell'attività di impresa e della remunerazione individuale dall'altro; accogliendo la tesi in discussione, si valorizzerebbe il primo aspetto a scapito del secondo. Inoltre, si è sottolineato che i frutti e proventi percepiti da un solo coniuge dalla sua attività separata sono “propri” fino al momento della scioglimento della comunione legale; ne consegue che il coniuge, che ne è titolare esclusivo, non è soggetto ad alcuna obbligazione a favore dell'altro e pertanto non soggiace ai doveri di buona fede e correttezza sanciti dall'art. 1175 c.c. a carico del debitore. Passando adesso all'onere della prova sulla sussistenza di frutti e proventi che ricadono in comunione de residuo, la dottrina prevalente ritiene che tale onere incomba su colui che ne afferma l'esistenza, agendo in giudizio per conseguirne la metà (Russo, 79; Santosuosso, 179 ss.; Troiano, 370; Cavallaro, 130). In senso contrario, un altro autore sostiene che ricadono nella comunione de residuo tutti i proventi di cui il titolare non riesca a dare la prova che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione (Schlesinger, 382).

 Circa la struttura della comunione differita, in giurisprudenza di legittimità si evidenzia che la caratteristica tipica della comunione de residuo consiste nel fatto che l'attivo della massa comune si arricchisce proprio nel momento in cui la comunione legale si scioglie (Cass. n. 6876/2013). Da ultimo in tal senso si è precisato che deve escludersi che rientrino nella comunione "de residuo" i frutti dei beni personali di uno dei coniugi in corso di maturazione, ma non ancora percepiti, al tempo dello scioglimento della comunione legale (Cass. n. 1429/2018). Quanto all'oggetto dei beni che ricadono in comunione ai sensi degli artt. 177, lett. b) e c), la Cassazione chiarisce che da detta comunione vanno esclusi i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione (Cass. n. 5652/2017; Cass. n. 2597/2006 e Cass. n. 13441/2003). Questo principio di diritto corrobora la tesi dottrinale secondo cui ciascun coniuge può consumare il denaro ed i beni propri, prima che ricadano in comunione, liberamente, senza che l'altro coniuge sia abilitato a controllare se l'altro abbia impiegato il proprio denaro per il mantenimento e/o l'interesse della famiglia. Sul punto ancora recentemente Cass. n. 16993/2023 secondo cui ai sensi dell'art. 177 lett. c) c. c., i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi cadono nella comunione differita o de residuo ove non consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione e quindi anche se non ancora percepiti al momento dello scioglimento della comunione e ancora non esigibili, in difetto di previsione in tal senso, purché costituiscano il corrispettivo di prestazioni o del godimento di beni relativi al periodo di vigenza della comunione legale; tra essi sono compresi i crediti che il professionista vanta verso clienti per prestazioni già eseguite e non ancora pagate. In applicazione di tale principio generale, è stato sostenuto che il credito verso il coniuge socio di una società di persone, a favore dell'altro coniuge in comunione "de residuo", è esigibile al momento della separazione personale, che è causa dello scioglimento della comunione, ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento, per evitare che il coniuge socio possa procrastinare la liquidazione della società od annullarne il valore patrimoniale (Cass. n. 6876/2013). Il principio di diritto in commento determina, sul piano giudiziale, l'osservanza dell'ordinario criterio di riparto dell'onere della prova ex art. 2697, comma 1, c.c., per cui spetta al coniuge che agisce in giudizio di dover provare la sussistenza di frutti e proventi dell'attività separata dell'altro coniuge, al momento dello scioglimento della comunione, al fine di conseguirne la metà. Non occorre quindi indagare quanto ed in che modo i frutti e proventi dell'attività separata del coniuge convenuto siano stati impiegati in costanza di comunione; l'onus probandi dovrà incentrarsi esclusivamente sulla quantificazione dei frutti e proventi percepiti e residuati al momento dello scioglimento della comunione. La soluzione accolta dalla Cassazione nelle sentenze indicate si allinea alla dottrina prevalente e supera l'opposto orientamento inizialmente abbracciato dalla Suprema Corte in Cass. n. 14897/2000 ove ha precisato che ricadono in detta comunione non solo i redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. L'orientamento giurisprudenziale riportato si allinea alla tesi dottrinale minoritaria, e contestata dallo scrivente, secondo cui  spetterebbe ad ogni coniuge un diritto di controllo sull'impiego dei frutti e proventi dell'attività separata dell'altro per le esigenze familiari; orientamento che porrebbe un'inversione del riparto di distribuzione dell'onere della prova, onerando il coniuge convenuto in giudizio di provare che i frutti e proventi percepiti e percipiendi durante la comunione legale fossero stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione. In altra pronuncia, la S.C. di Cassazione ha affrontato il rapporto tra la comunione de residuo ex art. 177 c.c. e l'actio di restituzione dei beni dopo lo scioglimento della comunione legale ex art. 192, comma 3, c.c., precisando che quest'ultima disposizione attribuisce a ciascun coniuge il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (ad es., quelle impiegate per la ristrutturazione di bene immobile appartenente alla comunione), e non già alla ripetizione del denaro personale e dei proventi dell'attività separata (che cadono nella comunione "de residuo" solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l'acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale ex art. 177, primo comma lett. a), c.c., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall'art. 194, comma 1 c.c., secondo cui, in sede di divisione, l'attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l'acquisto dei beni caduti in comunione (Cass n. 10896/2005). In tal senso si è espressa recentemente la Cassazione in Cass. n. 3767/2021 secondo cui la c.d. comunione "de residuo", prevista per i proventi dell'attività separata di uno dei coniugi (art. 177 c.c., comma 1, lett. c) si realizza al momento dello scioglimento della comunione, limitatamente a quanto effettivamente sussiste nel patrimonio del singolo coniuge e non a quanto avrebbe potuto ivi rinvenirsi ritenendo ad essa destinati "ex lege" i proventi personali che non siano stati provatamente impiegati per il soddisfacimento dei bisogni familiari, o che siano stati comunque investiti in acquisti già caduti in comunione. Pertanto, deve ritenersi che l'art. 177 c.c., lett. c) esclude dalla comunione legale i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione. La comunione "de residuo", quindi, non fa nascere un vero e proprio diritto di credito in favore della comunione ed a carico del singolo coniuge, ma dà luogo ad una semplice aspettativa di fatto. Si è precisato altresì che la preclusione per il coniuge beneficiario di assegno divorzile in unica soluzione, di cui all'art. 5, comma 8, l. n. 898/1970, di future pretese di carattere economico, non riguarda anche l'azione di accertamento della comunione "de residuo" proposta dall'ex coniuge ai sensi degli artt. 177, lett. b) e c), e 178 c.c., trattandosi di pretesa fondata su presupposti e finalità del tutto diversi, atteso che la detta comunione si costituisce solo su taluni beni dei coniugi e soltanto se ancora esistenti al momento del suo scioglimento (Cass., ord.n. 4492/2021). Ancora gli ermellini hanno specificato che le "misure di assistenza" di cui all'art. 16-ter, comma 1, lett. b), d.l. n. 8 del 1991, conv. con modif. dalla l. n. 82 del 1991, e la "capitalizzazione" prevista in alternativa al costo dell'assistenza ai sensi del comma 1, lett. c), del medesimo articolo, previste a favore dei “testimoni di giustizia” hanno natura indennitaria e non risarcitoria poiché sono erogate discrezionalmente dall'autorità competente e non presuppongono la commissione di un illecito, ma solo la sottoposizione dell'interessato ad un programma di protezione; ne consegue che il relativo credito NON è sottratto alla cd. comunione "de residuo" in base al disposto dell'art. 179, comma 1, lett. e), c.c. (Cass. n. 3313/2020).Il fallimento di uno dei coniugi determina la comunione "de residuo" sui beni destinati "post nuptias" all'esercizio dell'impresa solo rispetto ai beni residui a seguito della chiusura della procedura (Cass. n. 7060/2004 e Cass. n. 2680/2000). Quanto all'oggetto della comunione "de residuo", ai sensi dell'articolo 177 lett b) e c) c.c., la Cassazione precisa che i frutti non consumati dei beni propri ed i proventi dell'attività separata di un coniuge possono consistere esclusivamente in beni mobili o in diritti di credito verso terzi, con esclusione, pertanto, degli immobili (principio espresso in Cass. n. 4273/1996 e confermato in molte altre pronunce successive); nonché negli importi derivanti da titoli, conti correnti e dal libretto di deposito intestati al coniuge, residuati al momento dello scioglimento della comunione (Cass. n. 13760/2015). Circa gli effetti della comunione de residuo, in un obiter dictum espresso nella sentenza Cass. n. 19567/2008 in materia di imposta sulle successioni, la S.C. di Cassazione ha avuto modo di precisare che il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato - in regime di comunione legale dei beni - soltanto ad uno dei coniugi e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale dei beni, ai sensi dell'art. 177, comma 1, lett. c) c.c., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo. Secondo gli ermellini, dunque, lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto.

Le aziende gestite da entrambi i coniugi

L'ultima fattispecie di beni che ricadono in comunione è quella che concerne l'azienda gestita da entrambi i coniugi. Se l'impresa è costituita dopo il matrimonio ed è gestita da entrambi i coniugi, rientra in comunione immediata ex art. 177, comma 1, lett. d); se è costituita da un solo coniuge prima del matrimonio ma è gestita successivamente da entrambi, ricadono in comunione solo gli utili e gli incrementi di essa successivi al matrimonio ai sensi dell'art. 177, comma 2 c.c.

 La norma parla genericamente di azienda senza richiedere uno specifico vincolo societario che dovrebbe legare i coniugi e che potrebbe anche non sussistere. Per descrivere l'istituto si è coniata la definizione impresa coniugale per distinguerla dall'impresa familiare e da ogni fenomeno societario. Proprio su quest'ultimo punto, in dottrina si è evidenziato che la comunione legale dell'azienda coniugale non ricorre nel caso in cui i coniugi siano entrambi soci di una società di persone o di capitali (Schlesinger, 385); diversamente si configura nel caso in cui i coniugi abbiano dato vita ad una società di fatto (Schlesinger, 130; Barbiera, 504; Capecchi, 380); in senso parzialmente difforme, altra parte della dottrina sottolinea che la fattispecie in esame sia una figura anomala nel contesto ordinamentale, che viene regolata esclusivamente sulla base della norme sulla comunione legale dei coniugi, in particolare art. 180 sull'amministrazione ed art. 186 sulla responsabilità (il pioniere di tale impostazione è stato Oppo, nello scritto Il regime patrimoniale della famiglia, in La riforma del diritto di famiglia. Atti del II convegno di Venezia, 1972, 71 ss. e successivamente nell'opera Diritto di famiglia e Diritto dell'impresa, in Riv. Dir. Civ., 1977, I, p. 365 ss. Hanno successivamente aderito a tale corrente Costi, 49 ss.; Sacca' - Mollura, 65 ss.; Marasa', 619).

Va aggiunto che la comunione immediata comprende l'azienda nel suo complesso e non i singoli beni organizzati in vista dell'esercizio dell'impresa (Schlesinger, p. 127).

Non sono riscontrabili molte pronunce dedicate alla tipologia di comunione in commento; tra le poche, merita di essere segnalata la sentenza App. Milano del 10 maggio 2006 (in Fam., pers. e succ. 2008, n. 4 363 ss.), un vero e proprio caposaldo della materia, perché descrive minuziosamente i trattati caratteristici dell'impresa coniugale e del suo oggetto. Innanzitutto nella pronuncia si precisa che l'impresa coniugale si distingue dall'impresa familiare per la gestione comune della medesima da parte di entrambi coniugi; in secondo luogo si evidenzia che la gestione comune è il tratto peculiare della figura a prescindere dalle modalità e della titolarità dei beni mobili ed immobili concessi per il funzionamento dell'azienda; ed infine che l'impresa coniugale non configura né una società di fatto, né un'impresa familiare, ma un fenomeno societario anomale che trova la sua disciplina nell'ambito delle norme della comunione legale tra coniugi. Più di recente la Cassazione ha evidenziato che tra coniugi in regime di comunione legale può essere costituita una società di persone, con un patrimonio costituito dai beni conferiti dagli stessi, essendo anche le società personali dotate di soggettività giuridica, sicché, in caso di recesso di un socio, sorgendo a carico della società l'obbligo della liquidazione della sua quota, la domanda del coniuge receduto di accertamento della comproprietà dei beni sociali può essere interpretata dal giudice come tesa alla liquidazione della sua quota sociale. (Cass., ord.. n. 8222/2020, che nella specie ha ritenuto che potesse riqualificarsi come istanza di liquidazione della quota sociale, la domanda della moglie nei confronti del marito tesa all'accertamento della comproprietà dei beni appartenenti ad una società in nome collettivo, di cui i coniugi in regime di comunione dei beni erano unici soci). Tale ultimo principio è stato confermato dalle S. U. Cass. n. 15889/2022 secondo cui nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all'altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell'azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.

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