Legge - 19/02/2004 - n. 40 art. 1 - (Finalita).(Finalita). Art. 1. 1. Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito (1). 2. Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è consentito qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità (2). (1) La Corte Costituzionale, con sentenza 5 giugno 2015, n. 96 (in Gazz. Uff., 10 giugno 2015, n. 23), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non consente il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravita' di cui all'art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche. (2) La Corte Costituzionale, con sentenza 5 giugno 2015, n. 96 (in Gazz. Uff., 10 giugno 2015, n. 23), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non consente il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravita' di cui all'art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche. InquadramentoDopo un lungo confronto di opinioni, basato su impostazioni culturali e giuridiche diverse, con la legge in questione si avvia un processo complessivamente volto a supportare un nuovo fenomeno procreativo, conseguente al progresso scientifico nelle tecniche di fecondazione. Ciò al fine di rendere piena la realizzazione dell'esperienza genitoriale per coloro che, per la loro situazione di sterilità, infertilità, ed ora anche presenza di gravi patologie trasmissibili, non possono giungere ad un naturale e sicuro processo procreativo (Oppo, 99 s., Gazzoni, 168 s., Mastropietro, 1379 s.). Molte opinioni si sono opposte, più o meno esplicitamente, alla possibilità di una tale disciplina temendo pratiche eugenetiche e scelte sulla destinazione degli embrioni non condivisibili secondo gli ordinari canoni di disciplina del rapporto familiare e di filiazione. La scelta del legislatore italiano, in parte divisiva, contestata e distante da molti ordinamenti stranieri, è stata quella di giungere ad una disciplina particolarmente invasiva e limitativa dei diritti dei singoli nell'accesso ad un progetto di genitorialità supportato dalla ricerca scientifica e dalla tecnica medica (Campiglio 531 s.), che ha trovato una serie di progressivi correttivi nelle diverse pronunzie della Corte cost. che hanno nel tempo rideterminato i contenuti della legge in commento. Alcuni autori hanno inoltre sottolineato come la complessiva impostazione della normativa ha rafforzato i limiti alla ricerca scientifica prediligendo la tutela dell'embrione, superando nella sua portata le indicazioni recepite nella Convenzione di Oviedo 4 aprile 1997, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001, n. 145 (Salanitro, 1 s.). Secondo la giurisprudenza, l'impianto fortemente restrittivo della disciplina sulla procreazione medicalmente assistita ha determinato una sostanziale compressione di diritti fondamentali della persona, della donna nell'accesso alle cure e quanto alla sua salute, oltre che un'evidente violazione del principio di uguaglianza sotto diversi profili, tanto che è stata progressiva e costante la ricorrenza di ordinanze di rimessione alla Corte cost. al fine di valutare la conformità al nostro ordinamento della normativa in questione o al fine dell'avanzamento per via interpretativa delle forme di tutela per coppie portatrici sane di malattie genetiche (Trib. Milano, ord. 4 marzo 2015; Trib. Bologna, ord. 14 agosto 2014; Trib. Bologna, ord. 16 gennaio 2015; T.A.R. Veneto 8 maggio 2015; Cons. St., ord. 9 aprile 2015). Sterilità, infertilità e la finalità della legge n. 40/2004 e il ricordo alla PMA come extra ratio di curaLa legislazione individua tra le patologie rilevanti al fine di cura la sterilità e l'infertilità, indicate unitariamente, senza una chiara connotazione tecnica delle due diverse ipotesi, da intendere sostanzialmente come ricorrenza di difficoltà psichiche e fisiche alla procreazione, comprendendo così le più diverse ipotesi di sterilità non solo patologica, ma anche non spiegata (da ricondurre alla difficoltà di concepimento dopo circa un anno di tentativi vani). Tuttavia è da considerare come il concetto di infertilità si riferisca normalmente alla oggettiva difficoltà di giungere ad un concepimento, mentre la sterilità è normalmente riferita alla difficoltà di portare a termine una gravidanza comunque avviata. Si è tuttavia ipotizzata, proprio in considerazione del carattere asseritamente residuale delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, un'esclusione dalla terapia delle coppie solo parzialmente infertili (Sesta), affermazione questa che risulta tuttavia superata dall'interpretazione estensiva della giurisprudenza di merito e costituzionale in applicazione del principio ex art. 3 Cost. La finalità della legge deve dunque essere intesa non solo allo scopo di affrontare materialmente il problema con le tecniche di procreazione assistita, ma anche al fine di indagare le ragioni causative dell'infertilità, per individuare misure preventive e terapeutiche. La tecnica procreativa assume dunque una portata residuale nelle intenzioni del legislatore, che cerca comunque di sostenere la scelta alternativa, almeno a livello informativo, della adozione o dell'affidamento e, a livello tecnico e scientifico, la possibilità di rimediare altrimenti alle cause di infertilità con diverse modalità terapeutiche (Salanitro, 1, Dogliotti-Figone, 1). Procreazione medicalmente assistita considerata dunque effettivamente ai sensi dell'art. 2 come metodo terapeutico, nelle intenzioni del legislatore, a portata e carattere del tutto residuale. Il requisito della sterilità e infertilità come limite all'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, così come la finalità esplicita di individuare un metodo terapeutico a carattere assolutamente residuale, sono stati nel tempo superati dalle interpretazioni evolutive della giurisprudenza di merito e dall'intervento risolutivo della Corte cost. n. 96/2015. La Corte cost. ha dichiarato «l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, l. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lett. b), l. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche». La decisione deriva da due distinti procedimenti cautelari incardinati dinnanzi al Tribunale di Roma nell'ambito dei quali dei coniugi chiedevano di accedere alla procreazione medicalmente assistita al fine di evitare la trasmissione della grave malattia genetica della quale risultavano portatori. Veniva richiamato il contrasto con gli artt. 2,3,32 e 117 Cost. in relazione all'art. 8 e 14 CEDU. In particolare è stata evidenziata, nell'impossibilità di disapplicare la normativa interna per contrasto con la normativa comunitaria e di giungere effettivamente ad un'interpretazione costituzionalmente orientata, a causa dell'univoco e insuperabile tenore letterale della disposizione che limita l'accesso alla tecnica PMA ai soli casi di sterilità e infertilità, la contrarietà delle previsioni della l. n. 40/2004 agli art. 3 e 32 Cost. La valutazione d'incostituzionalità ha dunque enucleato l'irragionevolezza dell'indiscriminato divieto, ex art. 3 Cost., per le coppie affette da malattie genetiche di accedere alle tecniche di PMA, con la conseguente possibilità di accedere a diagnosi pre-impianto, con ciò dando corpo e sostanza a quelle interpretazioni che, in assenza di un divieto esplicito, avevano sempre ritenuto ammissibile una tale diagnosi. Richiamando il noto caso Costa-Pavan/Italia, viene identificata l'irragionevolezza in relazione alla antinomia normativa conseguente alle previsioni della l. 22 maggio 1978 n. 194, che rendono possibile l'interruzione di gravidanza per evitare la procreazione di un figlio affetto da patologie ereditariamente trasmissibili, mentre con le tecniche di PMA e la diagnosi pre-impianto sarebbe possibile far giungere alla donna, con rispetto del diritto alla salute della stessa ex art. 32 Cost., un'informazione sulla salute del concepito-embrione per evitare una scelta successiva assai più compromettente, appunto, del proprio diritto alla salute (cosa che si era verificata per i coniugi ricorrenti che avevano in precedenza dovuto ricorrere ad una procedura di interruzione della gravidanza per la malattia genetica trasmessa al concepito). Il bilanciamento necessario degli interessi coinvolti richiede dunque un pieno rispetto del diritto alla salute della donna, consentendo alle coppie affette da malattie genetiche trasmissibili di ricorrere alla PMA allo scopo unico di individuare gli embrioni ai quali non risulti trasmessa la malattia genetica del genitore con rischio di anomalie o malformazioni del feto, con esplicito richiamo al criterio di gravità di cui all'art. 6 l. n. 40/2004. Nel rendere tale decisione la Corte ha evidenziato l'opportunità di un intervento del legislatore al fine della auspicabile individuazione delle patologie che possano giustificare l'accesso alle coppie fertili alle tecniche di PMA, con le conseguenti procedure di accertamento in strutture debitamente autorizzate e sottoposte a controllo. La stessa Corte, con sentenza n. 161/2023, ha ribadito che la PMA mira a favorire la vita e vuole assistere la procreazione e la nuova nascita, non la sola fecondazione. Ma, ha avvertito, nel nostro ordinamento la ricerca, nel rispetto della dignità umana, di un ragionevole punto di equilibrio, eventualmente anche diverso da quello attuale, fra le diverse esigenze in gioco in questioni che toccano temi eticamente sensibili, non può che spettare primariamente alla valutazione del legislatore, alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità locale, ferma restando la sindacabilità da parte della Corte costituzionale delle scelte operate, al fine di verificare che con esse sia stato realizzato un bilanciamento non irragionevole. Una chiara visione dei problemi suscitati dalla legge 40/2004 risulta dalla motivazione della sentenza n. 221 del 2019 della Corte costituzionale. Essa ha affermato: “La possibilità, dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall'intervento del medico, pone il tema di fondo se sia configurabile - e in quali limiti - un "diritto a procreare" (o "alla genitorialità", che dir si voglia), comprensivo non solo dell'an e del quando, ma anche del quomodo, e dunque declinabile anche come diritto a procreare con metodi diversi da quello naturale, e se il desiderio di avere un figlio tramite l'uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque sia, o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate: e ciò particolarmente in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato. Le soluzioni adottate, in proposito, dalla legge n. 40 del 2004, sono di segno restrittivo, riflettendo due idee di base. La prima attiene alla funzione delle tecniche considerate, che la legge configura in apicibus, come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la procreazione medicalmente assistita (PMA) possa rappresentare una modalità di realizzazione del "desiderio di genitorialità" alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati. La seconda direttrice attiene alla struttura del nucleo familiare scaturente dalle tecniche in questione, prevedendosi una serie di limitazioni di ordine soggettivo all'accesso alla PMA, alla cui radice si colloca il trasparente intento di garantire che il suddetto nucleo riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA), alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico. Vi è una differenza essenziale tra l'adozione e la procreazione medicalmente assistita (PMA). L'adozione presuppone l'esistenza in vita dell'adottando: essa non serve per dare un figlio a una coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo….. La PMA, di contro, serve a dare un figlio non ancora venuto ad esistenza a una coppia (o a un singolo), realizzandone le aspirazioni genitoriali. Il bambino, quindi, deve ancora nascere: non è, perciò, irragionevole - come si è detto - che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che, secondo la sua valutazione e alla luce degli apprezzamenti correnti nella comunità sociale, appaiono, in astratto, come le migliori condizioni "di partenza". Il concepito, l'embrione e i suoi profili di tutelaDalla dizione dell'art. 1 emerge forte e chiara la volontà del legislatore di centrare la disciplina in materia di PMA sul concetto di concepito e sull'estesa tutela e garanzia della posizione dell'embrione. Il tutto con una terminologia oggettivamente generica, atecnica e non scientifica, con i consistenti e rilevanti problemi interpretativi che ne sono conseguiti. Molti autori si sono infatti interrogati sulla portata effettiva da un punto di vista normativo della definizione utilizzata al fine di tutela (Salanitro, Modugno, Oppo). Il concetto sembra avere portata ampia nella sua atecnicità, da riferire dunque ad una serie di valori ritenuti rilevanti (salute, dignità e vita) non solo all'embrione in vitro ancora non impiantato, ma ad ogni forma di vita prenatale. La dottrina ha evidenziato come la tutela del concepito è già emersa come valore costituzionale in epoca precedente all'entrata in vigore della l. n. 40/2004, ma tuttavia si deve considerare come tale valore, pur rilevante costituzionalmente, non ha portata assoluta e deve rientrare in un giudizio di bilanciamento complessivo con gli altri valori costituzionali, come già evidenziato dalla Corte cost. n. 27/1975, sicché si è ritenuto prevalente il diritto alla salute della donna madre già persona, rispetto al diritto alla salute di una vita prenatale o embrionale (Salanitro 1 s.). Teorie più radicali , in senso analogo all'evidente impostazione ideologica della formulazione originale della l. n. 40/2004, hanno cercato di estendere i concetti civilistici di persona giuridica a forme di vita prenatale, con arretramento del concetto di capacità giuridica sino a ritenerlo compatibile e direttamente applicabile al momento del concepimento (Giacobbe1 s.), con prevalenza del diritto alla vita rispetto ad ogni altro valore costituzionale. Tuttavia le progressive interpretazioni costituzionali della l. n. 40/2004, e la natura di normativa ordinaria della stessa, hanno chiarito come tale impostazione culturale e tale finalità perseguita dal legislatore non possa prevalere su diritti costituzionalmente garantiti di persone già esistenti. Il concepito, secondo la previsione normativa, è dunque soggetto di diritto, ma tale soggettività presenta comunque carattere recessivo rispetto ad altri valori costituzionalmente garantiti di persone già in vita, e specialmente della donna in relazione alla sua salute, come emerge dalla salvezza della previsione e disciplina in materia di interruzione della gravidanza. La creazione di una posizione di particolare rilevanza per il concepito e per l'embrione pone poi consistenti problemi interpretativi in relazione alla eventuale capacità successoria dello stesso, elementi di valutazione questi tutti correlati alla complessa evoluzione interpretativa in ordine al diritto del concepito ad ottenere il risarcimento del danno per lesioni subite in fase prenatale (Salanitro, 1 ss.). In tal senso si è sostenuta la capacità successoria ex lege dell'embrione ancora non impiantato al momento del decesso de cuius, con applicabilità all'embrione della disciplina dell'amministrazione dei beni e sulla divisione prevista per i nascituri concepiti, nonostante il caso dell'embrione sia del tutto diverso, non essendo affatto certo, anche in considerazione della disciplina della l. n. 40/2004, che si realizzi effettivamente l'evento nascita, essendo teoricamente richiesta la presenza in vita di entrambi i genitori (Salanitro 1 s.). Deve dunque essere riscontrato un esteso concetto di soggettività all'embrione, che tuttavia trova evidenti limiti nella ricorrenza di diritti se così si può dire esterni e conseguenti alla nascita rispetto all'embrione, con previsione di prevalenza del principio di indisponibilità del corpo umano rispetto ad una anche più ampia tutela dell'embrione e del suo diritto a progredire nel suo percorso esistenziale (Martini, 1 s.). La Corte costituzionale, con sent. n. 161/2023, ha affermato che l'embrione ha in sé il principio della vita; generato a motivo della speranza che, una volta trasferito nell'utero, dia luogo a una gravidanza e conduca alla nascita - quale che ne sia il più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita - non è riconducibile a mero materiale biologico. La sua dignità è riconducibile al precetto generale dell'art. 2 Costituzione (si vedano Corte cost. 84/2016 e Corte cost. n. 229/2015). La tutela dell'embrione non è assoluta ma limitata, tra l'altro, dalla necessità di individuare un giusto bilanciamento con la tutela delle esigenze di procreazione e con quella del diritto alla salute della donna. Non esiste, infatti, equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute psicofisica di ciò che è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare. Certamente un dato rilevante da sottolineare è che l'ampia problematicità delle questioni sollevate dal richiamo al concetto di concepito e alla evidente volontà di tutela dell'embrione deriva dall'assenza di qualsiasi distinzione nel testo normativo fra le diverse fasi evolutive della vita nascente prenatale, cosa che invece si riscontra in legislazioni straniere come ad esempio quelle del Regno Unito ove si è distinto il concetto di embrione e pre-embrione. Rimane dunque la necessità di valutare se ritenere il concepito direttamente titolare, a prescindere dall'evento nascita, di capacità giuridica (Casini-Casini-Di Pietro, 1 s.). Molti autori si sono espressi in senso contrario ritenendo superfluo il ricorso al concetto di soggettività e capacità giuridica, rilevando come la tutela della vita nascente si caratterizzi per il suo profilo oggettivo, sebbene poi si debba rilevare come effettivamente la l. n. 40/2004 riconosca al concepito una soggettività ed una serie di diritti a prescindere dall'evento nascita, tanto che la disciplina in esame prevede divieti e limiti, con correlate sanzioni allo scopo. Elemento certamente caratterizzante la disciplina in esame è tuttavia per alcuni autori piuttosto che la capacità giuridica la soggettività giuridica, richiamata dal disposto dell'art. 1 comma 1 in commento, con attribuzione del diritto di nascere, del diritto ad una propria identità, salute e dignità (Martini, 1 s., Busnelli, 1 s.). La tutela dell'embrione nelle sue diverse forme risulta come si vedrà articolata in diverse disposizioni, alcune toccate dalla valutazione di compatibilità costituzionale, come in relazione al divieto di crioconservazione dell'embrione, salvo casi di forza maggiore, nonché al divieto di soppressione e di riduzione embrionaria (art. 14, commi 1, 3 e 4) e ad altre disposizioni intese come segno di sfavore verso qualunque forma di sperimentazione e approfondimento scientifico sull'embrione se non a fine di ricerca (divieto di sperimentazione e divieto di selezione per finalità eugenetiche ex art. 13). In questo senso alcuni autori ( Dolcini) hanno individuato l'essenza della l. n. 40/2004 quale legge per la tutela dell'embrione, con la conseguenza che l'interpretazione della parola embrione in un certo senso o in altro determina una rilevante incidenza sull'intero portato della normativa e sulla sua efficacia. Infatti anche nella letteratura scientifica il concetto di embrione ha connotazione e definizioni diverse (ad esempio: attivazione dell'ovocita a seguito di contatto tra gamete femminile e maschile, penetrazione dello spermatozoo nell'ovocita, fusione dei genomi, divisione cellulare, annidamento nell'utero, tutti elementi in diverse impostazioni ritenuti indicativi della presenza di embrione, Dolcini). Questa varietà di contenuti e significati è stata dalla dottrina analizzata anche in relazione alla legislazione straniera, che ha a sua volta confermato la «plurivocità» di tale termine, con particolare attenzione al momento in cui si giunge ad una fusione dei nuclei per poter ritenere effettivamente, e con rilevanza giuridica, la presenza di un embrione. Gli ordinamenti stranieri nelle loro diverse articolazioni hanno tuttavia rifiutato l'equazione tra embrione e prodotto del concepimento (per il quale occorre il reale attecchimento ed annidamento nell'utero della donna), mentre in Italia sia a livello scientifico che giuridico si è adottata una nozione di embrione molto più ampia con riferimento al mero ovocita attivato dal contatto tra gameti. La particolare attenzione del legislatore italiano per la tutela dell'embrione, nell'accezione ampia di cui si è detto, ha trovato secondo la dottrina il suo punto centrale nelle previsioni dell'art. 14, ovvero nell'originario divieto di produrre più di tre embrioni al fine dell'impianto per ciclo di trattamento ed al contemporaneo divieto di crioconservazione degli embrioni, con obbligo di trasferimento contemporaneo nell'utero di tutti e tre gli embrioni prodotti, con evidente contrasto di tali affermazioni normative con i principi costituzionali di uguaglianza e di tutela della salute ex art. 3 e 32 Cost. Una disciplina che dunque, nell'articolare una tutela rafforzata dell'embrione, pone seri e concreti ostacoli all'effettiva realizzazione di cicli proficui di terapia volti a realizzare una procreazione medicalmente assistita e comporta un'incisione di tutta evidenza sulla salute della donna, costretta a sottoporsi in ragione di tale tutela rafforzata a ripetuti cicli di stimolazione ormonale ed ovarica, con lesione della propria salute psichica e fisica. Una situazione certamente in contrasto con la volontà di ispirare la disciplina ad un principio di residualità e minore invasività ai sensi dell'art. 4 l. n. 40/2004 Analizzando i principi e le finalità della l. n. 40/2004 innanzi esposti, può essere richiamata la giurisprudenza che si è occupata della portata giuridica del concepito, affermando che il concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque soggetto di diritto, in quanto titolare di molteplici interessi personali, riconosciuti sia dall'ordinamento nazionale, che sovranazionale. Vengono in particolare riconosciuti, come diritti collegati al concepimento, il diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità personale, e non ultimo a nascere sano, diritti tuttavia tutelabili a livello risarcitorio solo ad esito dell'avverarsi della nascita, quale condicio iuris imprescindibile per la loro azionabilità (Cass. n. 10741/2009). Tale decisione, sebbene riconosca l'azionabilità dei diritti risarcitori solo ad esito della nascita, tuttavia afferma un principio che va nella direzione della l. n. 40/2004 ovvero l'attribuzione della qualità di soggetto giuridico a chi è concepito, richiamando la clausola generale della centralità della persona. La decisione si riferisce esplicitamente alla legge qui in commento, così come alla l. n. 194/1978, ed afferma in via interpretativa la necessità di attribuire al concetto di soggettività giuridica una portata più ampia di quella di capacità giuridica delle persone fisiche con inevitabile non coincidenza tra i concetti di soggetto e persona. Certamente da richiamare, per l'ampia ed articolata considerazione delle problematiche di teoria generale del soggetto giuridico, necessariamente interferenti con la tutela del concepito e dell'embrione nella l. n. 40/2004, anche due pronunce della Corte di cassazione che affermano in un primo caso che il soggetto nato dopo la morte del padre naturale, verificatasi per fatto illecito di un terzo durante la gestazione, ha diritto nei confronti del responsabile al risarcimento del danno per la perdita del relativo rapporto e per i pregiudizi di natura non patrimoniale e patrimoniale che gli siano derivati (Cass. n. 9700/2011) e in un secondo caso che in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell'interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l'ordinamento non conosce il «diritto a non nascere se non sano», né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell'illecito omissivo del medico (Cass. S.U., n. 25767/2015). Certamente sono molti i profili delle due pronunce che si avvicinano al tema della procreazione medicalmente assistita in relazione alla diagnosi prenatale e alla ricorrenza o meno di un diritto a nascere sano, con considerazione circa la ricorrenza o meno per chi è successivamente nato di legittimazione al fine di ottenere il risarcimento del danno da mancata adeguata diagnosi prenatale.
La PMA come prestazione inserita nei livelli essenziali di assistenzaDal momento dell'entrata in vigore della disciplina sulla PMA, ma soprattutto a seguito dell'intervento della Corte cost. di cui si dirà in seguito, che ha reso possibile anche nel nostro ordinamento la fecondazione eterologa, l'atteggiamento delle diverse amministrazioni e articolazioni Stato-Regioni si è caratterizzato per un sostanziale ostracismo alla libera determinazione delle coppie sterili ad accedere a tale cura, rendendola spesso molto costosa e dunque non accessibile per chi non versa in positive condizioni di reddito e di fatto poco utile, imponendo rigorosi limiti d'età per l'accesso, limitando dunque proprio quelle coppie più bisognose anche in relazione ai diversi tentativi di gravidanza non andati a buon fine, con ciò spesso incrementando quello che è stato definito il c.d. turismo procreativo. Occorre ricordare che un avanzamento di tutela e garanzia per tale cura è venuto dal giudice amministrativo; in particolare il Cons. St., ord. 9 aprile 2015 (che ha confermato la pronuncia del T.A.R. Lombardia n. 2271/2015) ha chiarito che, per evitare disparità di trattamento e violazioni del principio costituzionale di uguaglianza, anche il costo della PMA eterologa deve gravare sul servizio sanitario nazionale, salvo il pagamento del relativo ticket, rappresentando le due tecniche di cura specie appartenenti al medesimo genus. In sostanza con tale pronunzia si è chiarito che da una diversa soluzione, come quella che era stata inizialmente prospettata dalla Regione Lombardia con attribuzione dell'intero costo della prestazione alla coppia che accede alla PMA eterologa, deriverebbe un pregiudizio grave e irreparabile con perdita della possibilità di accedere alle tecniche di PMA anche quanto ai limiti di età previsti. Sempre in relazione alle condizioni per accedere validamente alla PMA eterologa il T.A.R. Veneto 8 maggio 2015 ha invece dichiarato illegittimo il limite di 43 anni per accedere alla PMA eterologa previsto dalla Giunta regionale del Veneto nell'adeguarsi al documento contenente le linee guida per la PMA, a seguito della conferenza delle Regioni e della Province autonome. Anche in questo caso è stata evidenziata la disparità di trattamento tra le donne che accedono a tecniche di PMA omologhe per le quali è previsto il limite di 50 anni di età e la previsione che era stata introdotta per la PMA eterologa con il limite di 43 anni, chiarendo che la disciplina di cui alla l. n. 40/2004 non fissa allo scopo un limite preciso, ma indica come parametro di riferimento quello dell'età potenzialmente fertile, condizione da riferire in modo univoco e concorde ad entrambe le forme di PMA. Quest'articolata evoluzione della giurisprudenza amministrativa, rispetto ai diversi atteggiamenti tenuti dalla Regioni quanto all'accesso alle diverse tecniche di PMA, ha portato alla progressiva consapevolezza da parte dell'autorità politica della rilevanza costituzionale dei valori coinvolti nella disciplina in questione, con inserimento della PMA sia omologa che eterologa nei LEA, ovvero nei livelli essenziali di assistenza. Nei primi tempi le prestazioni di procreazione medicalmente assistita erano erogate solo in regime di ricovero, Infine, la PMA rientra nei nuovi Livelli essenziali di assistenza, quindi sarà possibile usufruire delle tecniche pagando un ticket presso strutture pubbliche o private convenzionate tenendo conto che possono esservi delle variazioni a livello regionale; mentre, se ci si rivolge ai centri privati il costo è a completo carico del cittadino.Tutte le prestazioni di raccolta, conservazione e distribuzione di cellule riproduttive finalizzate alla procreazione medicalmente assistita eterologa sono a carico del Servizio sanitario nazionale. Il Ministro della salute ha dichiarato in occasione di un convegno che a partire da gennaio 2024 ogni donna in qualunque Regione risieda potrà ricorrere alla procreazione medicalmente assistita dietro il pagamento di un ticket. Infine, per richiamare ancora una volta, la particolare attenzione della giurisprudenza al fine di garantire un reale accesso a tale tipo di cura, attesa la rilevanza dei valori costituzionalmente coinvolti, occorre richiamare la pronunzia della Sezione Lavoro della Corte che ha espressamente dichiarato illegittimo, in quanto discriminatorio, e dunque nullo, il licenziamento adottato dal datore di lavoro a seguito della mera comunicazione da parte della lavoratrice subordinata dell'intenzione di allontanarsi dal lavoro per sottoporsi all'estero a tecniche di procreazione medicalmente assistita (Cass. n. 6575/2016). Considerato il diretto coinvolgimento della donna nell'attività in questione e la riferibilità del licenziamento alla donna proprio perché paziente in tema di PMA, la Corte afferma la natura discriminatoria del licenziamento, discriminazione diretta, fondata sul sesso della lavoratrice, con esplicito richiamo sul punto anche alla Direttiva CE n. 76/207/CE. 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