Legge - 19/02/2004 - n. 40 art. 4 - (Accesso alle tecniche).

Marzia Minutillo Turtur
aggiornato da Francesco Bartolini

(Accesso alle tecniche).

Art. 4.

1. Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l'impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico (1).

2. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita sono applicate in base ai seguenti principi:

a) gradualità, al fine di evitare il ricorso ad interventi aventi un grado di invasività tecnico e psicologico più gravoso per i destinatari, ispirandosi al principio della minore invasività;

b) consenso informato, da realizzare ai sensi dell'articolo 6.

3. È vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo (2).

(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 5 giugno 2015, n. 96  (in Gazz. Uff., 10 giugno 2015, n. 23), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non consente il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravita' di cui all'art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternita' e sull'interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche.

(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 10 giugno 2014, n. 162 (in Gazz.Uff., 18 giugno, n. 26), ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del presente comma, nella parte in cui stabilisce per la coppia di cui all'articolo 5, comma 1, della presente legge, il divieto del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, qualora sia stata diagnosticata una patologia che sia causa di sterilita' o infertilita' assolute ed irreversibili.

Inquadramento

La disciplina del capo 2 della l. n. 40/2004 affronta snodi essenziali in tema di accesso alle tecniche di PMA, di legittimazione, espressione del consenso e piena consapevolezza dello stesso. Chiude il capo la previsione e la considerazione del ruolo fondamentale svolto dal medico nell'informazione di coloro che accedono alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, nell'acquisire il consenso della coppia, nel riscontrare i requisiti soggettivi legittimanti, nell'evidenziare la possibilità di accedere alla PMA solo in via gradata residuale rispetto ad altre tecniche di soluzione dei problemi di infertilità. Il tutto nell'ambito del quadro operativo e applicativo che dovrebbe essere articolato e supportato dalle linee guida.

L'accesso alle tecniche e il superamento della limitazione ai casi di sterilità ed infertilità

In ordine all'accesso alle tecniche occorre richiamare quanto già evidenziato al paragrafo 2 del commento del capo 1 della legge in esame. In particolare il fatto che la legislazione in esame individua tra le patologie rilevanti al fine di cura la sterilità e l'infertilità, indicate unitariamente, senza una chiara connotazione tecnica delle due diverse ipotesi, da intendere sostanzialmente come ricorrenza di difficoltà psichiche e fisiche alla procreazione, comprendendo così le più diverse ipotesi di sterilità non solo patologica, ma anche non spiegata (da ricondurre alla difficoltà di concepimento dopo circa un anno di tentativi vani). Tuttavia è da considerare come il concetto di infertilità si riferisca normalmente alla oggettiva difficoltà di giungere ad un concepimento, mentre la sterilità è normalmente riferita alla difficoltà di portare a termine una gravidanza comunque avviata.

Si è tuttavia ipotizzata, proprio in considerazione del carattere asseritamente residuale delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, un'esclusione dalla terapia delle coppie solo parzialmente infertili (Sesta), affermazione questa che risulta tuttavia superata dall'interpretazione estensiva della giurisprudenza di merito e costituzionale in applicazione del principio ex art. 3 Cost.

La finalità della legge deve dunque essere intesa non solo allo scopo di affrontare materialmente il problema con le tecniche di procreazione assistita, ma anche al fine di indagare le ragioni causative della infertilità, per individuare misure preventive e terapeutiche.

La tecnica procreativa assume dunque una portata residuale nelle intenzioni del legislatore , che cerca comunque di sostenere la scelta alternativa, almeno a livello informativo, della adozione o dell'affidamento e, a livello tecnico e scientifico, la possibilità di rimediare altrimenti alle cause di infertilità con diverse modalità terapeutiche (Salanitro, 1 s., Dogliotti-Figone, 1 s.). Procreazione medicalmente assistita considerata dunque come metodo terapeutico, nelle intenzioni del legislatore, a portata e carattere del tutto residuale. Tale impostazione è stata tuttavia oggetto di profonda rivisitazione a seguito delle numerose pronunzie di merito che hanno consentito l'accesso alle terapie in questione alle coppie non fertili ed affette da malattie geneticamente trasmissibili. Rendendo di fatto tale disciplina una via più ampia per la soluzione di gravi problemi procreativi a prescindere dalla effettiva ricorrenza di sterilità ed infertilità intese restrittivamente, come originariamente previsto.

 È stata progressiva e costante la ricorrenza di ordinanze di rimessione alla Corte cost. al fine di valutare la conformità al nostro ordinamento della normativa in questione o al fine dell'avanzamento per via interpretativa delle forme di tutela per coppie portatrici sane di malattie genetiche (Trib. Milano, ord. 4 marzo 2015; Trib. Bologna, ord. 14 agosto 2014; Trib. Bologna, ord. 16 gennaio 2015; T.A.R. Veneto 8 maggio 2015; Cons. St., ord. 9 aprile 2015; Trib. Roma, ordinanza gennaio e febbraio 2014; Trib. Salerno, ordinanza gennaio e luglio 2010; Trib. Cagliari, ordinanza novembre 2012, tutte in biodiritto.org).

Il requisito della sterilità e infertilità come limite all'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, così come la finalità esplicita di individuare un metodo terapeutico a carattere assolutamente residuale, sono stati nel tempo superati dalle interpretazioni evolutive della giurisprudenza di merito e dall'intervento risolutivo della sentenza Corte cost. n. 96/2015. La Corte cost. ha dichiarato «l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, l. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lett. b), l. 22 maggio 1978, n. 194 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza), accertate da apposite strutture pubbliche».

La decisione deriva da due distinti procedimenti cautelari incardinati dinnanzi al Tribunale di Roma nell'ambito dei quali dei coniugi chiedevano di accedere alla procreazione medicalmente assistita al fine di evitare la trasmissione della grave malattia genetica della quale risultavano portatori. Veniva richiamato il contrasto con gli art. 2,3,32 e 117 Cost. in relazione all'art. 8 e 14 CEDU.

In particolare è stata evidenziata – nell'impossibilità di disapplicare la normativa interna per contrasto con la normativa comunitaria e di giungere effettivamente ad un'interpretazione costituzionalmente orientata, a causa dell'univoco e insuperabile tenore letterale della disposizione che limita l'accesso alla tecnica PMA ai soli casi di sterilità e infertilità – la contrarietà alle previsioni della l. n. 40/2004 agli art. 3 e 32 Cost.

La valutazione d'incostituzionalità ha dunque enucleato l'irragionevolezza dell'indiscriminato divieto, ex art. 3 Cost., per le coppie affette da malattie genetiche di accedere alle tecniche di PMA, con la conseguente possibilità di accedere a diagnosi pre-impianto, con ciò dando corpo e sostanza a quelle interpretazioni che, in assenza di un divieto esplicito, avevano sempre ritenuto ammissibile una tale diagnosi.

Richiamando il noto caso Costa - Pavan/Italia, viene identificata l'irragionevolezza in relazione alla antinomia normativa conseguente alle previsioni della l. 22 maggio 1978 n. 194, che rendono possibile l'interruzione di gravidanza per evitare la procreazione di un figlio affetto da patologie ereditariamente trasmissibili, mentre con le tecniche di PMA e la diagnosi pre-impianto sarebbe possibile far giungere alla donna, con rispetto del diritto alla salute della stessa ex art. 32 Cost., un'informazione sulla salute del concepito – embrione per evitare una scelta successiva assai più compromettente, appunto, del proprio diritto alla salute (cosa che si era verificata per i coniugi ricorrenti che avevano in precedenza dovuto ricorrere ad una procedura di interruzione della gravidanza per la malattia genetica trasmessa al concepito).

Il bilanciamento necessario degli interessi coinvolti richiede dunque un pieno rispetto del diritto alla salute della donna , consentendo alle coppie affette da malattie genetiche trasmissibili di ricorrere alla PMA allo scopo unico di individuare gli embrioni ai quali non risulti trasmessa la malattia genetica del genitore con rischio di anomalie o malformazioni del feto, con esplicito richiamo al criterio di gravità di cui all'art. 6 l. n. 40/2004.

Nel rendere tale decisione la Corte evidenzia l'opportunità di un intervento del legislatore al fine dell'auspicabile individuazione delle patologie che possano giustificare l'accesso alle coppie fertili alle tecniche di PMA, con le conseguenti procedure di accertamento in strutture debitamente autorizzate e sottoposte a controllo.

Lo stesso profilo di rilevanza e irragionevolezza risulta sostenuto da diverse ordinanze di merito (Trib. Milano, ord. 4 marzo 2015).

Occorre infine ricordare per completezza anche ulteriori provvedimenti di merito che hanno a loro volta accolto le istanze di coppie sane e non infertili, ma portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, con ciò contribuendo alla riflessione in ordine al necessario allargamento della tutela e del progresso scientifico in materia procreativa anche a casi che non coinvolgono la sterilità in senso tecnico (Trib. di Salerno luglio 2010, Trib. di Cagliari novembre 2012, in materia di accesso alla PMA e diagnosi pre-impianto).

Una situazione nella quale la sterilità è in re ipsa è costituita dall'identità di sesso nella coppia. In proposito Cass. I, ord. n. 22179/2022, ha affermato che In caso di concepimento all'estero mediante l'impiego di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, voluto da coppia omoaffettiva femminile, la domanda volta ad ottenere la formazione di un atto di nascita recante quale genitore del bambino, nato in Italia, anche il c.d. genitore intenzionale, non può trovare accoglimento, poiché il legislatore ha inteso limitare l'accesso a tali tecniche alle situazioni di infertilità patologica, fra le quali non rientra quella della coppia dello stesso genere. L'alternativa, dunque, è precisa: la procreazione è evento naturale per le coppie di sesso diverso ed è naturalmente impossibile per le coppie dello stesso sesso. Le coppie che potrebbero avere figli in modo naturale possono ricorrere alla procreazione assistita, e pertanto artificiale, soltanto per superare condizioni ostative all'avere figli riconosciute dalla legge.

Gradualità e consenso informato, conseguenze giuridiche della PMA ed espressione del consenso

La stessa formulazione letterale dell’art. 4 evidenzia come la natura terapeutica della PMA in quanto tale imponga la applicazione di un criterio di gradualità, con possibile accesso a diverse tecniche in relazione alla situazione accertata e oggetto di valutazione medica (fecondazione in vitro o meno a seconda della gravità e del grado di sterilità infertilità).

Alle tecniche tuttavia è possibile accedere solo a seguito dell’espressione, ai sensi dell’art. 6, di consenso informato. Anche questa previsione ha sollecitato molteplici riflessioni in ordine alla sua portata, nel senso che si è discusso ampiamente circa la riferibilità della disposizione al destinatario del trattamento o in alternativa sulla sua natura di previsione a tutela del nascituro per responsabilizzare coloro che accedono alla terapia.

In sostanza per alcuni autori si deve rinvenire nelle disposizioni in esame una volontà del legislatore di evitare pratiche di selezione embrionarie e finalità eugenetiche della procreazione medicalmente assistita, piuttosto che disciplinarne realmente requisiti di accesso ed espressione del consenso (Moretti, 262 s. e Salanitro, 1 s.).

Profili problematici conseguenti a tale previsione erano da riferire alla disciplina dei casi in cui uno dei due genitori fosse portatore di malattia geneticamente trasmissibile e risultano di fatto superati dalla sentenza della Corte cost. n. 95/2005 (sul punto vedi supra). Il principio richiamato di gradualità e residualità della cura pur presentandosi come cardine della disciplina in esame non risulta tuttavia in alcun modo sanzionato in caso di sua violazione, non rappresentando il principio un divieto, quanto piuttosto una modalità di disciplina delle possibilità di accesso alla procreazione medicalmente assistita. Tuttavia elemento fondamentale per l’accesso alle tecniche di PMA è rappresentato dal consenso informato, esplicitamente disciplinato dall’art. 6 del capo 2 della disciplina in esame. La disciplina è particolarmente analitica e se si vuole pervasiva, nel senso che il consenso è un elemento ricorrente e di fatto ripetuto in ogni fase della terapia sia al momento dell’accesso, che dal momento della sua applicazione. Tale disciplina rientra nel canone generale del necessario consenso nella realizzazione di trattamenti sanitari, recepito anche ai sensi della Convenzione di Oviedo.

Il medico dovrà dunque per ogni fase realizzare attività informativa sulla tecnica applicata, sulle conseguenze fisiche, sanitarie e psicologiche derivanti da tale applicazione e sulle probabilità di successo della terapia. Come già detto, la ritenuta residualità di tale terapia comporta anche l’informazione relativa alle possibilità di accedere al sistema dell’adozione e dell’affidamento.

Mentre questo genere di informazione e formazione del consenso si caratterizza sostanzialmente per una libertà delle forme, è invece prevista la necessità di chiarezza e sottoscrizione nell’espressione del consenso quanto agli effetti giuridici della procreazione medicalmente assistita in materia di filiazione. Si è discusso sulla portata della norma e sui suoi destinatari, ovvero su chi debba essere l’autore della sottoscrizione (il medico o la coppia), ma in concreto tutti i soggetti coinvolti risultano destinatari delle formalità previste dalla legge (Casini-Casini-Di Pietro, 1, Salanitro). La particolare rilevanza del principio del consenso informato impone che tra l’espressione dello stesso e l’applicazione delle tecniche procreative decorra un tempo minimo di riflessione, dal legislatore individuato nel termine di sette giorni. Tale volontà potrà essere revocata sino al momento di fecondazione dell’ovulo, ma non oltre. Il medico svolge sempre un ruolo di collegamento imprescindibile nel processo procreativo assistito e, ai sensi dell’art. 6, comma 4, può evitare di procedere all’impianto, sebbene la fecondazione sia avvenuta, solo ed esclusivamente per motivi medici sanitari, ad esempio evidenziando il pericolo immediato per la salute della donna.

Sebbene la disciplina riferisca sul punto un divieto di revoca del consenso a seguito della fecondazione dell’ovocita, è apparso chiaro alla maggioranza degli autori come tale previsione non possa portare in alcun modo ad una sorta di trattamento sanitario obbligatorio nel caso in cui la donna rifiuti il trasferimento in utero a seguito dell’applicazione delle tecniche di PMA, in deroga al principio della libera revocabilità del consenso previsto sempre dalla Convenzione di Oviedo (Santosuosso, Modugno). L’art. 6 è stato quindi interpretato non in un ambito restrittivo, limitato al consenso alla terapia, quanto in un’ottica più ampia volta a sollecitare il principio di responsabilità per coloro che accedono alla PMA, in coppia, anche quando il rischio sanitario potrebbe essere riferito ad uno solo di essi, ovvero la donna, al momento della possibile o meno allocazione in utero dell’embrione ed in relazione alla assunzione del ruolo genitoriale in caso di esito positivo della tecnica di procreazione assistita.

Anche in questo caso dunque emergerebbe, seppure indirettamente e in via interpretativa, una rilevante volontà del legislatore di proteggere pienamente il concepito (Salanitro, 1 s., Gazzoni, 1 s.) mediante l’assunzione di piena responsabilità genitoriale, ricollegandosi tale disciplina anche alla previsione dell’art. 8 della l. n. 40/2004.

La rilevanza del consenso, quale modalità di tutela per giungere effettivamente ad una consapevole assunzione della responsabilità genitoriale, oltre che ad una allocazione in utero compatibile con la salute della donna, porta a considerare la eventuale incidenza su tali dichiarazioni di eventuali vizi del consenso espresso. Ovviamente la rilevanza del vizio potrà avere portata diversa a seconda del contesto al quale il vizio possa essere riferito (rapporto di filiazione o accesso alle tecniche). In tale ambito il medico svolge un ruolo fondamentale, quasi di garante della completezza e comprensione del consenso, tanto che ove non abbia fornito informazioni complete ed adeguate e non abbia verificato la piena comprensione della portata delle informazioni, è prevista a carico dello stesso una sanzione amministrativa ex art. 12, comma 4, della l. n. 40/2004. Per evitare limiti agli effetti della procreazione medicalmente assistita in materia di filiazione il medico dovrà far sottoscrivere esplicitamente e congiuntamente alla coppia le relative informazioni e controfirmare la relativa dichiarazione, con ciò tutelandosi la particolare rilevanza di tale dichiarazione, sicché solo un mancato accertamento in ordine alla ricorrenza di piena capacità di intendere e di volere, o la ricorrenza di violenza o interdizione giudiziale, potrebbero giustificare la possibilità di far valere un vizio del consenso, ipotesi che tuttavia in concreto si deve ritenere alquanto remota. Soprattutto nel momento in cui si mettano in correlazione la disciplina del consenso con quella dei requisiti soggettivi di cui si dirà e con gli obblighi di controllo, informativi e accertativi del medico. I requisiti per un’identificazione di pieno e valido consenso nell’accesso alle tecniche di PMA risultano in parte formalizzati nel d.m. 28 dicembre 2016 n. 265, contenente appunto le linee guida per il consenso informato in materia.

La disciplina relativa alla prestazione di un valido consenso rappresenta in concreto il presupposto per la considerazione di una serie di profili problematici conseguenti e incidenti sull’attribuzione della genitorialità (art. 6 e 8 della legge in esame). Infatti la considerazione di un consenso validamente espresso ai sensi dell’art. 6, non più revocabile come già detto, incide sulla regola della genitorialità riferita alla maternità, paternità conseguente, con attribuzione dello status di figlio al nato dall’applicazione delle tecniche di PMA (anche nel caso, come si dirà in seguito, analizzando i requisiti soggettivi, di morte del futuro padre prima della nascita, con attribuzione al minore dello status di figlio nato nel matrimonio o di figlio riconosciuto).

Da ricordare per comprendere quanto sia remoto il dibattito sulla rilevanza del consenso in materia di procreazione medicalmente assistita è la sentenza del Trib. Cremona 17 febbraio 1994 in materia di disconoscimento di paternità in caso di inseminazione artificiale di tipo eterologo. In tal senso occorre considerare come prima dell’entrata in vigore della l. n. 40/2004 la fecondazione eterologa fosse applicata ordinariamente come tecnica procreativa, con rimessione della relativa disciplina a regole mediche e deontologiche. Secondo la sentenza citata è da ritenersi irrilevante il consenso del marito all’inseminazione eterologa praticata alla moglie ai fini dell’accoglimento dell’azione di disconoscimento del figlio successivamente nato, che il padre stesso proponga. Nel caso concreto infatti la madre si era opposta all’azione di disconoscimento evidenziando che il padre aveva esplicitamente prestato consenso alla fecondazione eterologa. La motivazione affronta in particolare l’incidenza del consenso espresso sull’azione di disconoscimento ed afferma come tale consenso sia da ritenere contrario al dovere di fedeltà riferito al momento generativo del figlio, nonché contrario, in caso di impotentia generandi alla previsione di cui all’art. 235 comma 1, n. 2, c.c. rilevando come (all’epoca, neanche in via interpretativa) si potesse giungere alla considerazione di un rapporto di filiazione svincolato dalla ricorrenza di un rapporto di tipo biologico con diretta derivazione genetica. Sicché secondo l’interpretazione giurisprudenziale dell’epoca era da escludersi che potesse insorgere un rapporto di filiazione sull’esclusiva base del consenso, s eppure espressamente riportato.

In sostanza nella decisione richiamata si è affermata con decisione la purezza del concetto di stato giuridico, la sua forza, e il suo superare senza alcun dubbio il principio di affidamento e di auto responsabilità in realtà conseguente alla espressione di consenso alla fecondazione eterologa.

Da tale impostazione si sono progressivamente allontanate le successive interpretazioni giurisprudenziali, che hanno sempre più centrato le loro decisioni sulla rilevanza del concetto di responsabilità sociale e sul preminente interesse del minore. In questo senso infatti la Corte di cassazione, con successiva pronunzia ed in applicazione dei principi espressi dalla Corte cost. n. 347/1998, ha evidenziato, sempre in epoca precedente all’entrata in vigore della disciplina in commento, che in tema di fecondazione assistita eterologa il marito che ha validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla fecondazione assistita della moglie non ha azione per il disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale terapia (Cass. n. 2315/1999). Ecco che con questa pronuncia si assume per la prima volta in modo esplicito la particolare portata e rilevanza il consenso espresso alla procreazione medicalmente esistita, con conseguente prevalenza della dichiarazione rispetto alla diretta discendenza genetica del nato. La sentenza si caratterizza per particolare modernità interpretativa e, richiamando la Corte cost. n. 347/1998 afferma, come al caso di inseminazione eterologa non possa essere applicato il disposto dell’art. 235 c.c. (in relazione alla eventuale relazione sessuale della moglie con un terzo) proprio per la diversità delle situazioni che portano alla nascita del figlio e alla ricorrenza di una scelta comune e pienamente informata in caso di fecondazione eterologa in applicazione di pratiche consentite dall’evoluzione della scienza. La fecondazione eterologa non può dunque in alcun modo essere paragonata all’adulterio e il relativo consenso non appare in alcun modo revocabile ed incidente sullo stato del figlio nato per applicazione di PMA. La decisione convergente e consapevole dei coniugi non può dunque portare a ritenere consentita una revoca del consenso, anche in applicazione del canone di lealtà nei rapporti intersoggettivi. In conclusione si afferma come l’azione di disconoscimento non possa competere solo perché vi sia una verità difforme dalla presunzione legale, dovendo per forza essere ricorrente l’insieme delle condizioni legittimanti di cui all’art. 235 c.c. al fine della rimozione di status, evidentemente non ricorrenti nel caso di consenso anticipatamente prestato alla fecondazione eterologa. Il bene verità in tema di disconoscimento di paternità viene ritenuto dotato di priorità non assoluta, ma relativa, dovendo cedere davanti al bene presunzione, a seguito di una scelta esplicita e consapevole espressa in senso opposto con l’accesso volontario alla procreazione assistita. Il favor veritatis e il suo sacrificio a fronte di esplicite e consapevoli scelte del padre trova d’altra parte fondamento nel nostro ordinamento già in tema di adozione legittimante, con conseguente irrevocabilità del consenso consapevolmente espresso. Tuttavia la Corte di cassazione sembra aver mutato atteggiamento interpretativo in ordine alla revocabilità del consenso pienamente espresso a seguito dell’entrata in vigore delle l. n. 40/2004 (ma prima della affermazione dell’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa), affermando che in tema di disconoscimento di paternità, la disciplina contenuta nell’art. 235 c.c. è applicabile anche a filiazioni scaturite da fecondazione artificiale, tenuto conto che il quadro normativo, a seguito dell’introduzione della l. 19 febbraio 2004, n. 40, per come formulata e interpretabile alla luce del principio del «favor veritatis», si è arricchito di una nuova ipotesi di disconoscimento, che si aggiunge a quelle previste dalla citata disposizione codicistica; pertanto, stante l’identità della «ratio» e per evidenti ragioni sistematiche, è applicabile anche il termine di decadenza previsto dal successivo art. 244 c.c., che decorre dal momento in cui sia acquisita la certezza del ricorso a tale metodo di procreazione (Cass. n. 11644/2012). In ordine alla revoca del consenso si veda sub art. 6.

Nonostante il principio richiamato sembri essere applicabile in generale, occorre considerare come tuttavia nel caso in esame non fosse stata raggiunta alcuna prova dell’effettiva prestazione del consenso alla PMA eterologa, con conseguente legittimazione al disconoscimento di paternità. Un caso dunque del tutto diverso da quelli esaminati in precedenza, infatti in concreto non era risultato prestato un consenso informato, consapevole e chiaro sulla tecnica procreativa, era stato effettivamente provato il ricorso a tale terapia. Afferma la Corte come il favor veritatis nel caso in esame non si pone in relazione di diretto contrasto con il favor minoris, considerato che la verità biologica della procreazione costituirebbe una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore. Tale impostazione tuttavia non appare coerente con il prevalente interesse dell’ordinamento, nel caso in cui ricorra un valido e consapevole consenso, a garantire al minore per ciò procreato la valida presenza della doppia figura genitoriale, che di fatto appare recessivo a fronte del richiamato diritto all’identità personale. Ed in tal senso la stessa sentenza non può fare a meno di richiamare il disposto dell’art. 4, comma 3, nel momento in cui era ancora in vigore il divieto di fecondazione eterologa, con espressa previsione da parte del legislatore di un divieto dell’azione di disconoscimento di paternità. Ecco che dunque una lettura ragionata della sentenza evidenzia come il principio ivi affermato debba essere limitato al solo caso di mancanza di qualsiasi elemento di prova non solo circa l’effettiva previa presenza e formalizzazione di consenso informato alla fecondazione eterologa, ma anche di effettivo accesso alla PMA da parte della madre. Prevale dunque in casi del genere il favor legittimationis che determina un vero e proprio limite esterno al favor veritatis tenendo in considerazione, in presenza di un consenso validamente prestato, il divieto di venire contra factum proprium.

Di recente il tema della portata del consenso informato in caso di crisi della coppia a seguito della fecondazione dell’ovulo e della creazione dell’embrione è stato affrontato in data 11 ottobre 2020 in sede di art. 700 c.p.c. dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. La coppia aveva espresso la propria volontà di accedere ad una tecnica di procreazione medicalmente assistita e, a seguito della fecondazione degli ovuli, si era proceduto alla crioconservazione degli embrioni, per causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna; tuttavia in seguito il marito ha proposto domanda di separazione. Nonostante l’avvio del procedimento di separazione la moglie ha richiesto alla struttura di procedere comunque all’impianto degli embrioni; anche nell’istanza cautelare si evidenziava come l’avvio della separazione coniugale non potesse comunque deporre quale revoca della volontà dell’uomo di accedere alla procreazione medicalmente assistita, ammettendosi tale revoca, alla stregua dell’ultima parte del terzo comma dell’art. 6 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, soltanto fino al momento della fecondazione dell’ovulo. Nella propria difesa il marito, atteso l’avvio della separazione, rilevava l’intervenuta revoca del consenso. Molti i temi che si sono posti conseguentemente alla valutazione del Tribunale che ha comunque disposto che la struttura procedesse, ex art. 700 c.p.c., al l’impianto degli embrioni. È stata infatti ritenuta l’irrevocabilità del consenso alla procreazione assistita doveva ai sensi dell’art. art. 6, terzo comma, della l. n. 40/2004, considerata l’intervenuta fecondazione dell’ovulo, dalla quale discendono normativamente un’autonoma e irreversibile determinazione alla genitorialità, ma soprattutto, tema da sempre ritenuto di rilevante portata etica, l’insorgenza della rilevanza costituzionale dell’embrione. L’ordinanza è stata poi pienamente confermata in sede di reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. Ritenendo ammissibile l’utilizzo dei provvedimenti d’urgenza anche quando finalizzato alla condanna ad un facere infungibile con effetti materiali, si è quindi affermato che la separazione della coppia dei soggetti, che abbia manifestato la propria volontà di accedere alle tecniche di procreazione assistita, non elide i presupposti soggettivi di ammissione e non assume rilievo per i diritti acquisiti dal figlio, così che il venir meno della comunione di vita tra i genitori, che avevano in precedenza ed esplicitamente espresso il consenso, non può prevalere sull’aspettativa di vita dell’embrione, da riferire senza alcuna incertezza al momento della fecondazione. È stata quindi esclusa la ricorrenza di contrasto tra le previsioni di cui al primo e al terzo comma dell’art. 6, atteso che, avendo i coniugi espresso per iscritto il loro consenso, con conseguente irrevocabilità dello stesso a seguito della fecondazione dell’ovulo, il medico della struttura doveva necessariamente procedere alla procreazione medicalmente assistita. L’ordinanza del Tribunale nel disporre d’urgenza un facere infungibile ha dunque seguito alcuni approdi interpretativi, spesso esplicitati in ambito costituzionale, secondo i quali: - l’embrione ha una propria autonoma dignità, contendo in sé il principio della vita, ed esprime dunque un valore di rilievo costituzionale ai sensi dell’art. 2 Cost.; - la tutela preposta alla protezione dell’embrione non può essere considerata recessiva e subire un affievolimento per il caso che si tratti di embrioni affetti da malformazioni genetiche, come emerge dall’impossibilità ai sensi dell’art. 14 che incrimina la soppressione di embrioni ammalati e non impiantabili (in tal senso si veda sub art. 14); - occorre sempre una considerazione completa e soggetta a bilanciamento tra la posizione della salute della donna e il fine della tutela della procreazione (Corte cost. n. 151 del 2009 e Corte cost. n. 96 del 2015). In sostanza tale complesso sistema di tutele anche a garanzia dell’embrione e del proprio naturale sviluppo non può esser emesso in discussione dall’avvio di un procedimento di separazione una volta che sia stato espresso consapevolmente, secondo le garanzie e modalità previste dalla legge, il consenso alla procreazione, con assunzione del conseguente ruolo di genitore rispetto all’embrione ormai esistente, sostanzialmente giungendosi ad una distinzione netta tra progetto familiare (che può anche venir meno nel corso della procedura per l’impianto dell’embrione) e progetto procreativo. Secondo il Tribunale, dunque, il consenso espresso dall’uomo al fine di procreare, comporta l’irrevocabile assunzione di una veste genitoriale «legale», una volta che l’embrione si sia formato e abbia assunto la qualità di entità che ha in sé il principio della vita, riconducibile all’art. 2 Cost., con conseguente irreversibilità degli effetti degli atti che incidono sullo status della persona.

Il divieto di PMA eterologa e l'evoluzione applicativa a seguito delle sentenze Corte cost. nn. 162/2014 e 95/2015

Come già evidenziato la Corte cost. è intervenuta diverse volte sull'impianto della l. n. 40/2004, sancendo anche in relazione al divieto di fecondazione eterologa l'illegittimità della relativa previsione in presenza di malattie genetiche accertate in portatori sani e trasmissibili. Per valutare il percorso che complessivamente ha portato a tali decisione, occorre considerare l'impianto originario della legge e le valutazioni relative al divieto di fecondazione eterologa che sin dall'inizio sono state articolate da numerosi autori. Infatti si era sottolineato come proprio il divieto di fecondazione eterologa non rendeva possibile la cura dei casi più gravi e conclamati di sterilità ed infertilità, collegati alla mancata produzione di gameti idonei da parte di uno dei componenti della coppia, o ancora (con il divieto della gestazione per altri) alla difficoltà di affrontare il caso di infertilità tecnica, ovvero l'impossibilità della donna a seguito di attecchimento dell'embrione di portare a termine la gravidanza (Marella, 9 s., Salanitro, 1 s., Modugno, 1 s.). L'ostracismo di parte della dottrina alla fecondazione eterologa trova la sua ratio giuridica e tecnica nell'affermazione della natura meramente terapeutica della PMA, poiché si ritiene terapeutico esclusivamente l'intervento che effettivamente porta ad una riattivazione delle funzioni direttamente in favore del soggetto che accede alle tecniche.

Tuttavia molti altri autori hanno negato la natura terapeutica di questo intervento, e richiamando il diritto costituzionalmente garantito alla creazione di un proprio nucleo familiare, hanno posto il problema della c.d. genitorialità sociale, pur essendosi in presenza di una discendenza genetica e biologica almeno da parte di uno dei due coniugi o conviventi. Tali riflessioni hanno trovato molti riscontri nell'ambito degli ordinamenti europei dove la fecondazione eterologa è nella maggior parte dei casi ammessa senza difficoltà. Questo ostracismo nei confronti della PMA eterologa, poi confluito nell'espresso divieto della l. n. 40/2004, ha comportato un consistente fenomeno di c.d. turismo procreativo ed ha portato il legislatore, pienamente consapevole della diversa disciplina negli altri stati europei, a disciplinarne le conseguenze in tema di filiazione (Gentilomo-Piga-Nigrotti, 1 s.).

La dottrina favorevole al divieto di fecondazione eterologa sosteneva il proprio ragionamento richiamando il rischio eugenetico, le problematiche familiari conseguenti alla mancanza di legame biologico tra figlio e uno dei genitori, l'assenza di tutela per il nato in ordine alla possibilità di conoscere il proprio genitore donatore per un eventuale accesso a cure mediche. Pur non seguendo tale impostazioni alcuni autori avevano sostenuto una non completa irragionevolezza della disciplina di divieto ed avevano sostenuto la possibilità di ammettere la fecondazione eterologa quale extrema ratio per casi di particolare rilevanza.

In realtà in un'ottica socialmente più ampia e completa si è evidenziato come il divieto in questione trovi forse più concretamente una propria ragione nella volontà di evitare l'accesso alla fecondazione assistita a donne sole e coppie omosessuali. La previsione di un divieto a carattere generale, evitando qualsiasi riferimento alle coppie omosessuali, ha reso possibile il superamento delle inevitabili critiche per violazione del principio di non discriminazione che sarebbero conseguite ad un'esplicitazione della finalità del divieto.

Tuttavia l'acceso dibattito è risultato del tutto superato dalla pronunzia della Corte cost. n. 162/2014, nell'ambito della quale, pur non richiamandosi espressamente gli art. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, si accede ad una lettura dell'autodeterminazione quale principio assoluto e fonte di nuovi diritti dei singoli e della coppia al fine di ottenere tutela e supporto nel loro progetto familiare (Rodomonte, 1 s.).

La possibilità di realizzare tecniche di PMA di tipo eterologo anche in Italia consegue alla sentenza della Corte cost. n. 162/2014 in esito alle questioni di illegittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Milano, di Firenze e di Catania in relazione all'art. 3,2,31 e 32,29 e 117 Cost., 8 e 14 CEDU in relazione all'art. 4 comma 3, 9 comma 1 e 3 limitatamente alle parole «in violazione del divieto di cui all'art. 4 comma 3, 12 comma 1 della l. n. 40 del 2004». Con particolare riferimento alla violazione dell'art. 3 Cost. le diverse ordinanze di rimessione hanno segnalato che il divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo di fatto realizza una disparità di trattamento tra coppie parimenti affette da sterilità ed infertilità, precludendo la scelta del metodo terapeutico più idoneo alla soluzione del loro problema, con conseguente compressione del diritto delle singole coppie di giungere ad una piena realizzazione della propria vita familiare e preclusione per le coppie normalmente affette da patologie di sterilità decisamente più gravi di accedere alla tecnica e terapia maggiormente adeguata al loro caso.

Nel rimettere la questione alla Corte cost. le ordinanze di merito (e segnatamente quella milanese) hanno richiamato il caso SH ed altri contro Austria ed i principi espressi sul punto dalla Grand Chambre. La Corte ha ritenuto fondate le questioni incentrate su temi eticamente sensibili e particolarmente rilevanti, dove la ricerca di un punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze rappresenta certamente una prerogativa primaria del legislatore, che tuttavia può essere indagata e verificata nel caso in cui emerga un «irragionevole bilanciamento» tra gli interessi in gioco e dei valori ai quali la disciplina si ispira e che disciplina in relazione ai singoli. In tal senso è stato evidenziato come la scelta di giungere al divieto assoluto di fecondazione eterologa non possa essere considerato elemento e principio consolidato dell'ordinamento, essendo stata tale tecnica da sempre applicata in Italia prima dell'entrata in vigore della l. n. 40/2004. In presenza dunque di un principio costituzionalmente garantito come quello della libertà di autodeterminarsi ex artt. 2,3,31 Cost. occorre valutare, secondo la Corte, se eventuali limitazioni di tale libertà, con particolare riferimento all'imposizione di un divieto assoluto al suo esercizio, devono essere giustificate dall'impossibilità di tutelare altrimenti interessi di pari rango e portata. Dunque la sentenza rileva come in presenza di sterilità od infertilità la scelta di giungere alla formazione di un nucleo familiare non possa essere compressa o resa eccessivamente gravosa, e in mancanza di lesione di altri e preminenti valori costituzionali, deve essere realizzata e raggiunta anche mediante la scelta di ricorrere a tecniche di PMA eterologa. La Corte articola quindi una valutazione complessiva delle limitazioni imposte in relazione con il concetto di patologia e della sua incidenza sul diritto alla salute, evidenziando come in tale campo occorra comunque e sempre riferirsi alle valutazioni della scienza medica. Afferma dunque la Corte che la ricorrenza di tale divieto si appalesa irragionevole nel caso in cui sia stata accertata l'esistenza di una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità assolute, e dunque l'accesso alla fecondazione eterologa deve essere consentito quando non vi siano altri rimedi terapeutici per rimuovere le cause di sterilità o infertilità e sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse mediante accertamento documentale del medico, che certificherà tale situazione nel rispetto del principio di gradualità e consenso informato che caratterizza la legge. Ovviamente la nascita di procreato con fecondazione eterologa poneva problemi di status e legittimazione e sul punto la Corte ha evidenziato che anche con l'attuale impianto normativo e con le modifiche sopravvenute sul codice civile non si possano ritenere ricorrenti lacune nella relativa disciplina. Oggettivamente la disciplina per come interpretata dalla Corte va sul punto ad integrarsi con il divieto di disconoscimento da parte del coniuge consenziente alla PMA eterologa.

In applicazione di tali principi il giudice di merito (Trib. Bologna 14 agosto 2014) ha accolto il ricorso di una coppia che chiedeva di accedere alla PMA eterologa, ormai ritenendo tale tecnica direttamente consentita dalla l. n. 40/2004, mediante la donazione di ovociti. La decisione evidenzia ancora una volta come la fecondazione eterologa rappresenti una species di quella omologa, una tecnica appartenente allo stesso genere, in assenza di qualsiasi vuoto normativo a seguito della sentenza Corte cost. n. 162/2014 purché tale intervento venga realizzato secondo i presupposti enucleati presso le strutture autorizzate. La sentenza in questione si presenta assai rilevante perché sottolinea in modo reciso la assenza di qualsivoglia vuoto normativo in ordine all'accesso alla tecnica di PMA eterologa, direttamente azionabile dai cittadini nel rispetto dei presupposti soggettivi ed oggettivi. Si afferma dunque il pieno diritto di eseguire PMA eterologa nel rispetto ed in applicazione dei valori costituzionali di cui agli artt. 32 e 13 Cost.

Da ricordare anche la recente pronunzia di merito (Trib. Trento 16 febbraio 2017) che ha accolto il ricorso di una coppia infertile con necessità di ricorso alla PMA di tipo eterologo, ordinando all'Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari locale di erogare tali prestazioni terapeutiche «alle medesime condizioni economico amministrative» previste per quelle di tipo omologo. Nel caso concreto l'accesso alla fecondazione di tipo eterologo è stato ritenuto espressione della generale libertà ad autodeterminarsi» e attiene al diritto alla salute ex art. 32 Cost. «comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica» (Corte cost. n. 162/2014). L'interesse delle parti alla terapia in questione viene definito come pretensivo, in relazione al diritto, costituzionalmente garantito, alla salute, sicché anche nel caso di risorse finanziarie limitate, tale circostanza non può determinare il superamento e l'effettività di un diritto complesso come quello della salute nel suo nucleo irriducibile» (Cons. St. n. 3297/2016). La sentenza, in applicazione dei principi di cui alla sentenza Corte cost. n. 162/2014 evidenzia la oggettiva disparità di trattamento conseguente al non consentire un libero accesso a pari condizioni alla PMA eterologa richiamando il principio di uguaglianza sostanziale. In sostanza tale decisione si è nella soluzione allineata alle conclusioni del Consiglio di Stato, che aveva affermato che la mancata inclusione della PMA eterologa tra i livelli essenziali di assistenza non rappresenta un motivo perché tale tecnica sia esclusa dalle spese a carico del servizio sanitario nazionale. Si affrontano dunque anche i profili concreti conseguenti all'affermazione di principio della Corte cost. che ha di fatto elevato al rango di diritto costituzionale il diritto alla genitorialità, che deve dunque essere riconosciuto a tutte le coppie sterili, anche affette da malattie genetiche o particolari patologie, considerato che il progresso scientifico lo consente. Da ciò consegue, come già accennato l'evidente prevalenza attribuita all'interesse del minore in materia di status con priorità a livello valoriale della stabilità del rapporto di filiazione rispetto al diritto di venire eventualmente a conoscenza di una puntuale verità di tipo genetico sulla sua origine.

La c.d. eterologa per errore, il caso Pertini

Occorre accennare ad un caso che è stato definito una forma di eterologa, in epoca precedente alla sentenza della Corte cost., «per errore». È Il noto caso avvenuto presso l'Ospedale Pertini di Roma nel 2013, dove in occasione di un ordinario trattamento, sostenuto dal Servizio Sanitario Nazionale, di fecondazione omologa, a causa di un errore umano, che portava allo scambio di provette, gli embrioni riferibili geneticamente ad una coppia venivano impiantati ed attecchivano nell'utero di altra donna, che con il marito aveva parimenti avuto accesso presso tale Ospedale a tecniche di PMA.

La gravidanza è stata portata a termine e si sono posti al momento della nascita una serie di rilevanti problemi interpretativi circa la riferibilità dello status di figlio riferibile ai gemelli nati dalla tecnica di fecondazione assistita. Si è infatti ampiamente discusso se i figli si dovessero riferire ai titolari dei gameti oggetto della tecnica assistita e dunque a coloro che hanno trasmesso il relativo patrimonio genetico o alla madre che effettivamente e formalmente, secondo la disciplina italiana, avendo partorito è l'unica effettiva titolare dello status di genitore sui due gemelli. In realtà nel caso in esame non tanto di eterologa per errore si tratta, quanto piuttosto della chiara, ed in seguito accertata, ricorrenza di un errore umano nel rispetto delle linee guida procedimentali nell'esercizio delle attività di fecondazione assistita. Né in realtà sembra potersi effettivamente parlare di fecondazione eterologa in relazione ad un caso in cui in realtà non si è in presenza di due donatori, ma bensì di due consapevoli e coscienti potenziali genitori genetici e biologici anche in relazione allo specifico consenso dagli stessi espresso. Sicché sembra di dover considerare la ricorrenza nel caso in esame non tanto di una fecondazione eterologa, quanto di una gestazione per altri, seppure non consapevole sino al momento della comunicazione dell'intervenuto scambio di embrioni, in seguito invece pienamente consapevole.

Diverse sono stati i tentativi di ottenere tutela da parte dei genitori genetici dei due gemelli, tuttavia le diverse istanze sollecitate al fine di ottenere il pieno riconoscimento della loro oggettiva genitorialità, anche sperando in rinvio alla Corte cost., non hanno trovato accoglimento. Certo è che la considerazione di questo caso, la problematicità del divieto imposto in ordine alla maternità surrogata, l'evoluzione conseguente alla ammissibilità di fecondazione eterologa sia in Italia che all'estero, impongono una riflessione sulle nuove forme di famiglia e genitorialità, che anche in relazione alla omogenitorialità stanno progressivamente emergendo e trovando tutela sia presso i giudici di merito che in pronunce della Corte di cassazione (Velletti, 1 s., Gattuso, 1 s.).

Con ricorso ex art. 700 c.p.c. i genitori genetici dei due embrioni impiantati per errore nell'utero di altra donna chiesero al Tribunale di Roma di ordinare all'Ufficiale dello stato civile di non trascrivere l'atto di nascita e di consegnare i minori ai richiedenti o in subordine di realizzare un effettivo collegamento tra minori e genitori genetici anche a mezzo di incontri e supporto allo scopo di idonee strutture. Su tali istanze il Tribunale (Trib. Roma 8 agosto 2014) in applicazione dell'art. 269, comma 3, c.c. ha ritenuto madre in modo esclusivo e non contestabile solo colei che ha partorito il figlio, ritenendo la portata generale della disposizione, in assenza di valide modifiche sia in relazione alla riforma del 1975, che con la riforma del 2012, e considerando padre, applicando la presunzione ex art. 231 c.c., il coniuge della partoriente. Nell'ambito della motivazione si sostiene la forza sostanzialmente risolutiva del legame che si crea tra madre e figli già nella vita uterina rispetto al legame genetico. Tuttavia la decisione sembra non affrontare, né tenere in approfondita considerazione il diritto più volte tutelato dalla Corte cost. proprio in materia di fecondazione assistita degli istanti ad una valida realizzazione del proprio progetto familiare e genitoriale. Appare evidente la lacuna di disciplina ed ordinamentale per la situazione che veniva prospettata al Tribunale, che forse avrebbe richiesto una valutazione più ampia quanto alla carenza di tutela in relazione a diritti costituzionalmente garantiti, anche solo al fine di valutare la ricorrenza di un ragionevole bilanciamento di interessi in relazione sia alle due coppie di oggettivi genitori che dei minori nati a seguito di tale errore umano.

A seguito del rigetto dello loro istanze i genitori genetici hanno adito in diverse ed ulteriori circostanze il Tribunale di Roma. Il padre genetico dei minori ha proposto azione di disconoscimento di paternità proprio in relazione alla chiara provenienza genetica dei due gemelli, mentre la madre ha agito a sua volta per il disconoscimento di maternità. Durante il giudizio di merito è stata anche articolata domanda volta ad ottenere la possibilità di un contatto e rapporto dei genitori genetici con i minori, con proposizione di questioni di legittimità costituzionale per violazione degli art. 2,3,24,30 e 117 Cost. e art. 8 CEDUquanto all'art. 243-bis c.c. nella parte in cui non prevede il padre genetico tra i legittimati per proporre l'azione di disconoscimento di paternità nel caso di sostituzione di embrioni, nonché quanto all'art. 269, comma 3, per il mancato riconoscimento della possibilità di disconoscimento di maternità in caso di scambio di embrioni in caso di fecondazione medicalmente assistita. Le istanze sono state disattese dal Tribunale (Trib. Roma 22 aprile 2015) escludendo la ricorrenza di un principio di ordine pubblico nazionale e sovranazionale che renda necessaria la sovrapposizione del rapporto di filiazione all'appartenenza o verità genetica. Ma soprattutto la decisione in questione si è incentrata sulla prevalenza dell'interesse dei minori a mantenere i legami genitoriali già instaurati e decorrenti all'epoca da oltre otto mesi, richiamando la decisione, all'epoca non definitiva, della CEDU n. 25358/2012, Paradiso – Campanelli c. Italia, affermando sostanzialmente la contrarietà all'art. 8 CEDU dell'eventuale allontanamento dei due minori nati da PMA dai genitori riconosciuti legalmente.

Anche il reclamo proposto contro tali ordinanze è stato rigettato (Trib. di Roma 25 settembre 2015). Per la prima volta nell'ambito della decisione viene richiamato il disposto di cui all'art. 8 l. n. 40/2004 e lo status di figli legittimi assunto dai nati dall'applicazione di tecniche di PMA nella ricorrenza del pieno ed effettivo consenso della coppia che ha espresso la volontà di accedere alle tecniche predette ai sensi dell'art. 6 della stessa legge. La decisione collega tale previsione con il disposto di cui all'art. 269 c.c. secondo la quale è madre colei che partorisce, realizzando dunque un'evidente frazionamento nel caso in esame tra la riferibilità dello status di figlio rispetto a chi ha espresso il consenso all'applicazione delle tecniche di PMA con prestazione dei propri gameti e il soggetto poi effettivamente ritenuto genitore in base al dato naturalistico del parto, (prescindendo del tutto dal profilo genetico e dal consenso allo scopo prestato).

Per giustificare tale passaggio logico si richiama anche la disciplina all'epoca vigente in materia di PMA eterologa affrontata all'estero ex art. 9 l. n. 40/2004, con impossibilità per la madre partoriente di non essere nominata ex art. 30, comma 1, del regolamento ex d.P.R. 3 novembre 2000 n. 396. Esclude dunque tale decisione in modo reciso che si debba ammettere una moltiplicazione delle figure genitoriali dal lato materno, richiamando le decisioni nelle quali in caso di surrogazione di maternità è stata data prevalenza alla madre partoriente sulla madre genetica, con contrarietà all'ordine pubblico di qualsiasi forma di genitorialità separata e distinta dal profilo biologico.

Si ritiene inoltre l'irrilevanza della questione di legittimità costituzionale proposta giustificando la diversa disciplina e dunque l'esclusione del padre genetico dai soggetti legittimati in considerazione dell'art. 39 Cost. e della conseguente specifica tutela del matrimonio. È quindi sopraggiunta la decisione di merito (Trib. di Roma 10 maggio 2016) che ha evidenziato l'impossibilità di giungere ad una dichiarazione di genitorialità genetica. Afferma il Tribunale la sostanziale irrilevanza dell'azione proposta allo scopo di veder dichiarata la propria genitorialità genetica, sia perché tale dato è oggettivamente ricorrente e noto, sia perché da ritenere del tutto priva di effetti sostanziali nella sua atipicità, in mancanza di qualsiasi previsione nell'ordinamento che consenta di giungere ad una affermazione di genitorialità frazionata distinguendo il profilo genetico da quello biologico. Richiama la decisione l'inapplicabilità al caso in esame delle disposizioni di cui all'art. 243-bis e 269 comma 3 c.c., così come l'art. 8 l. n. 40/2004 sottolineando la particolare rilevanza del momento dell'impianto e attecchimento in utero al fine di ritenere acquisito lo status di figlio legittimo, con affermazione di preminente e decisiva rilevanza del rapporto di gestazione. Sottolinea la rilevanza della previsione ex art. 9 della l. n. 40/2004, che pur prendendo in considerazione un caso di scissione tra genitorialità genetica e biologica afferma la preminenza e risolutività del legame biologico derivante dal parto.

La decisione sul punto non sembra tuttavia tenere in debita considerazione l'assoluta distanza tra il caso dello scambio di embrioni e una ipotesi di concordata gestazione per altri. Infatti occorre considerare come la tendenza del legislatore ad attribuire prevalenza al dato biologico trova il proprio fondamento nell'affermato divieto di maternità surrogata, mentre in questo caso non ricorre una volontà di utilizzare la gestazione per altri, al contrario gli istanti si sono trovati a vivere, loro malgrado e nonostante il consenso alla PMA, una forma di genitorialità anomala. E se è vero che rappresenta un dato materiale acquisito, tuttavia è una situazione che effettivamente non sembra trovare alcuna forma di tutela adeguata nel nostro ordinamento, nonostante una scelta consensuale e programmata dei due genitori genetici di diventare tali tramite il conferimento del proprio patrimonio genetico in sede di applicazione delle tecniche di PMA. La decisione richiama ancora una volta la controversia Paradiso - Campanelli contro Italia. Tuttavia tale richiamo appare superato allo stato sulla base della decisione della Grand Chambre intervenuta in data 24 gennaio 2017, che impone un'inevitabile nuova considerazione della vita familiare per come intesa dalla decisione del Tribunale. Infatti esclusa la ricorrenza di un qualsiasi legame genetico tra il nato e i genitori dichiarati si è ritenuta la fondatezza delle decisioni delle autorità italiane che hanno sottratto il minore dalla convivenza con coloro che non hanno alcun legame di tipo genetico con il minore, avendo agito in violazione delle norme in materia di adozione e di surrogazione di maternità, in assenza quindi, considerato il breve tempo di convivenza trascorso, di un irreparabile pregiudizio per il minore. Ebbene è chiaro che anche nel caso Pertini come già detto più che un'eterologa per errore ricorre una surrogazione di maternità per errore e che la particolarità della situazione e l'assenza di legame genetico tra la madre partoriente e il di lei marito e i minori avrebbero forse richiesto una valutazione più ampia e di carattere superiore.

 

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