Legge - 19/02/2004 - n. 40 art. 5 - (Requisiti soggettivi).

Marzia Minutillo Turtur
aggiornato da Francesco Bartolini

(Requisiti soggettivi).

Art. 5.

1. Fermo restando quanto stabilito dall'articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi.

Inquadramento

Secondo l'impostazione originaria della legge ricorre un pieno diritto alla famiglia per chi sarà procreato in modo assistito, con due genitori, di sesso diverso e in età potenzialmente fertile e in vita al momento della fecondazione. La previsione di cui all'art. 5 inoltre richiede che i futuri genitori siano coniugati o almeno conviventi e in vita al momento dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita. Il legislatore riteneva dunque necessario riscontrare con canoni formali la ricorrenza di un progetto di vita comune per accedere al rimedio terapeutico della PMA e la presenza di una serie di presupposti di fatto per accedere alla terapia e successivamente alla fecondazione, sebbene tuttavia sia rimasto di soluzione incerta il problema se il medico debba accertare la sussistenza di questi presupposti solo al momento del consenso o anche prima dell'applicazione della tecnica assistita (Salanitro, 1 s.). Ma se questi requisiti debbono effettivamente sussistere sino al momento della fecondazione molte sono le riflessioni, recepite anche dalla giurisprudenza, sul se l'embrione possa essere impiantato a causa del venir meno di alcuno dei predetti presupposti amministrativi per l'accesso alla terapia assistita. Alcuni autori hanno ritenuto senza alcun dubbio che l'impianto sia possibile nel momento in cui uno dei due componenti della coppia sia morto o abbia divorziato o non sia più convivente (Salanitro, in senso contrario Checchini, richiamando alcune pronunce del Trib. di Bologna che hanno ritenuto necessario il requisito della doppia genitorialità, principio che tuttavia sembra scontrarsi con la tutela dell'embrione e il suo diritto ad una vita futura come richiamato nei paragrafi precedenti), con applicazione conseguente della disciplina in materia di filiazione.

La necessità di un'effettiva ricorrenza di doppia genitorialità trova riscontro anche nella ritenuta sussistenza di sostanziale divieto di possibilità di fecondazione post mortem (Casini-Casini-Di Pietro, 1 s.), sicché il trattamento non potrà essere portato avanti o concluso nel caso in cui al momento della morte non si sia ancora giunti alla formazione di embrione. Ciò tuttavia determina a contrario la possibilità d'impianto di embrione, e dunque in caso di fecondazione già avvenuta, nel caso di decesso sopraggiunto alla fecondazione predetta, anche se chiaramente da ciò possano derivare delicati problemi di riconoscimento di status, come nel caso in cui l'impianto avvenga a distanza di molto tempo dal decesso del padre (Oppo, 99 s., Salanitro, 1 s.). In tal senso alcuni autori hanno affermato che il decesso di uno dei componenti della coppia fa venir meno uno dei presupposti previsti per l'accesso alla PMA qualsiasi sia lo stato del procedimento (Dogliotti); secondo tale prospettiva viene quindi a mancare la volontà espressa consapevolmente da due soggetti in ogni fase del procedimento procreativo. Ovviamente nessuna possibilità di accesso alle tecniche di PMA appare possibile nel caso di decesso della donna, considerato che nel nostro ordinamento è vietata la gestazione per altri, unica possibilità di rendere effettivo il percorso esistenziale di un eventuale embrione pronto per essere impiantato. L'embrione tuttavia dovrà essere crioconservato secondo l'impostazione fortemente garantista della legge, sino al suo naturale deperimento. Un'eventuale violazione del divieto di surrogazione di maternità comporterebbe un coinvolgimento nella disciplina e sanzione penale di tutti i soggetti coinvolti (Martini, 1 s.). Tuttavia occorre considerare come tutto il tema della fecondazione post mortem, e dunque in assenza di uno dei requisiti soggettivi legittimanti previsti dall'art. 5, si presta a diverse letture giuridiche in relazione al momento in cui interviene il decesso, ed in particolare a seconda che il decesso avvenga, secondo quanto previsto dalla legge, al momento dell'accesso alle tecniche, oppure al momento dell'applicazione delle stesse.

La fase dell'accesso si connota per i tre diversi momenti informativi e per il decorso del termine di sette giorni come già detto, mentre la fase dell'applicazione si connota per un primo momento rappresentato dall'applicazione delle tecniche di stimolazione ormonale alla donna per ottenere gli ovociti, seguito dal prelievo dei gameti maschili e infine per il momento della creazione dell'embrione da trasferire in utero. Alcuni autori hanno considerato dirimente al fine della possibilità di realizzare la fecondazione post mortem la distinzione tra questi due momenti, ritenendola appunto ammissibile nel caso in cui sopraggiunga durante la fase di applicazione delle tecniche di PMA (in caso di violazione del divieto di fecondazione post mortem è previsto un insieme di sanzioni amministrative a carico del personale medico x art. 12 comma 8). Di fatto si è ritenuto possibile un avvio del trasferimento in utero dell'embrione quando il decesso sia avvenuto a seguito della completa applicazione delle tecniche ed un esempio potrebbe essere rappresentato dal caso in cui l'embrione venga crioconservato essendo l'immediato trasferimento incompatibile con la salute della donna. In alcuni casi inoltre si è proceduto all'impianto dell'embrione evidenziando come tale soluzione sia da ritenere conforme con il diritto alla vita del nascituro e con la tutela dell'embrione, anche in correlazione al disposto dell'art. 6, comma 3, che prevede l'irrevocabilità del consenso una volta avvenuta la fecondazione dell'ovulo, con divieto di soppressione dell'embrione nel caso in cui non possa essere immediatamente impiantato (Moretti, 262 s.). Riemerge dunque in relazione ad un caso del genere tutta la problematica sopra citata, che tende ad attribuire individualità, soggettività e, secondo alcune interpretazioni, anche capacità giuridica all'embrione. Caso al limite è poi rappresentato dalla morte di entrambi i soggetti che hanno effettuato l'accesso e l'applicazione delle tecniche di PMA, in questo caso l'embrione potrebbe salvarsi solo nel caso di adozione da parte di terzi per la nascita, caso che non si è mai verificato e che rappresenterebbe una violazione della disposizione che non rende possibile alcuna forma di surrogazione di maternità.

Come già accennato, la mancanza di uno dei due genitori per sopravvenuto decesso nel corso del procedimento di PMA crea una serie di problematiche attinenti allo status giuridico del figlio nato dalla successiva allocazione in utero dell'embrione secondo le previsioni dell'art. 8. La norma in questione non prevede alcunché in relazione al caso di accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, necessariamente eterologa, da parte di coppie omosessuali, casi che tuttavia si sono verificati e che hanno portato ad interpretazioni di dottrina e giurisprudenza evolutive in tema di genitorialità, responsabilità dei genitori sociali e inserimento del minore in una famiglia a doppia genitorialità innovativa rispetto al regime classico della filiazione.

Anche il concetto di coppia in età potenzialmente fertile ha subito una sostanziale erosione in considerazione delle capacità espansive delle tecniche di PMA, sicché è apparso quanto meno limitante, violativo del principio di uguaglianza, e sostanzialmente ingiusto, porre dei limiti rigidi di accesso alla terapia in questione, come ha dimostrato anche l'interpretazione evolutiva della giurisprudenza amministrativa rispetto ad atteggiamenti ostruzionistici e rigidi delle diverse Regioni nel disciplinare l'accesso a tali metodi terapeutici tramite il servizio sanitario nazionale. Ne è conseguita la piena centralità della valutazione del medico nel consentire l'accesso alla PMA anche di coppie in età più avanzata rispetto ad alcuni parametri inizialmente adottati dalle diverse amministrazioni regionali.

Una considerazione più ampia invece dei soggetti interessati dal metodo terapeutico in questione emerge dalla riferibilità anche a coppie conviventi, contrariamente a quanto stabilito in tema d'adozione, con riconoscimento di un modello familiare diverso e autonomo rispetto alla società familiare-naturale fondata sul matrimonio, che ha trovato poi un oggettivo riscontro nell'attuale disciplina delle unioni civili e delle convivenze, l. 20 maggio 2016 n. 76. Nel caso in esame si deve ritenere che la volontà del legislatore, nel richiedere la sussistenza del requisito della convivenza sia da riferire al riscontro della piena ricorrenza di un'assunzione di responsabilità genitoriale e di un progetto di vita comune (Salanitro, 1 s.).

Un caso particolare che ha interessato la giurisprudenza riguarda la domanda di accesso presentata da chi si trova soggetto ad una pena restrittiva della libertà per condanna definitiva. In proposito è stato affermato che, in relazione alla richiesta del condannato di essere ammesso al programma di procreazione medicalmente assistita, il magistrato di sorveglianza è tenuto a pronunciarsi, valutando la tutelabilità concreta della pretesa avanzata, secondo un criterio di proporzione tra esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e interesse della singola persona (Cass. pen. I, n. 7791/2008: fattispecie nella quale il magistrato di sorveglianza aveva dichiarato non luogo a provvedere in ordine al reclamo proposto da un condannato in regime di 41 bis O.P. avverso il diniego del D.A.P. di consentirgli l'accesso al programma di procreazione assistita, ancorché risultasse medicalmente accertata una patologia giustificativa del trattamento invocato). Per Cass. pen. I, sent. n. 11259/2009, il magistrato di sorveglianza, richiesto dal detenuto dell'ammissione alle tecniche di fecondazione assistita, deve riferirsi, nella valutazione della patologia dedotta come causa di sterilità o infertilità, alle linee guida contenute nel D.M. 11 aprile 2008, che integrano le previsioni generali della legge n. 40 del 2004.

Una dibattuta questione ha avuto ad oggetto la possibilità di ammettere la procreazione medicalmente assistita con riferimento a coppie dello stesso sesso. Una siffatta modalità incontra due ostacoli normativi. L'uno è costituito dal divieto di procreazione eterologa e per questo aspetto si veda retro, sub art. 4. L'altro impedimento è stabilito dall'art. 5 per il quale la coppia di maggiorenni richiedenti la procreazione deve essere composta da soggetti di sesso diverso.

La questione è stata portata all'esame della Corte costituzionale. Con sentenza 221 del 2019 la Corte ha dichiarato   non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 31, secondo comma, e 32, primo comma, Cost., nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, agli artt. 2, par. 1, 17,23 e 26 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, e agli artt. 5, 6, 22, par. 1, 23, par. 1, e 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità - degli artt. 5, limitatamente alle parole «di sesso diverso», e 12, comma 2, limitatamente alle parole «dello stesso sesso o», «anche in combinato disposto con i commi 9 e 10», nonché degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004. La Corte ha affermato che le norme censurate, che non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie formate da due persone del medesimo sesso (nella specie: femminile), non violano la tutela costituzionale della salute, che non può essere estesa alle componenti di una coppia omosessuale affette da patologie riproduttive, atteso che le suddette patologie, pur rappresentando un dato significativo nell'ambito della coppia eterosessuale - in quanto ne fanno venir meno la normale fertilità - rappresentano una variabile irrilevante nell'ambito della coppia omosessuale, la quale sarebbe infertile in ogni caso. Quanto all'asserita violazione del diritto a costituire una famiglia, la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e, d'altra parte, la libertà e volontarietà dell'atto che consente di diventare genitori non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti, e ciò particolarmente quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA. Nella vicenda in oggetto, peraltro, la scelta espressa dalle disposizioni censurate si rivelava non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce, pur rimanendo quest'ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all'evolversi dell'apprezzamento sociale della fenomenologia considerata. Il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all'estero non può inoltre costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità alla Costituzione; diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia. Neppure, la Corte ha affermato, è violato l'art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l'aspirazione a diventare genitore.  L'esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale - come rilevato anche dalla Corte EDU, in correlazione con le disposizioni convenzionali evocate - posto che l'infertilità "fisiologica" della coppia omosessuale (femminile) non è affatto omologabile all'infertilità (di tipo assoluto e irreversibile) della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive, così come non lo è l'infertilità "fisiologica" della donna sola e della coppia eterosessuale in età avanzata, trattandosi di fenomeni chiaramente e ontologicamente distinti. Inoltre è esclusa la violazione dell'art. 31, secondo comma, Cost., il quale riguarda la maternità e non l'aspirazione a diventare genitore. Le disposizioni censurate nemmeno producono un'ingiustificata disparità di trattamento in base alle capacità economiche: in assenza di altri vulnera costituzionali, il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all'estero - in Stati ove le pratiche di PMA sono consentite alle coppie omosessuali - non può costituire una valida ragione per ritenere sussistente un'ingiustificata disparità di trattamento. Né infine è ravvisabile la violazione del diritto alla salute, in quanto la sua tutela costituzionale non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale, sull'assunto che l'impossibilità di formare una famiglia con figli assieme al partner possa incidere negativamente sulla salute psicofisica della coppia. E comunque il compito di bilanciare i diversi interessi costituzionalmente protetti è affidato in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale, salvo il successivo sindacato sulle soluzioni adottate da parte della Corte costituzionale, onde verificare che esse non decampino dall'alveo della ragionevolezza.

Nonostante la chiarezza degli argomenti utilizzati dalla Corte, la questione di legittimità costituzionale è stata riproposta. In proposito si vedano le ordinanze del Tribunale di Lucca 25 giugno 2024, n. 148 e del Tribunale di Firenze 4 settembre 2024 n. 193.

Procreazione medicalmente assistita post mortem

L'art. 5 l. n. 40/2004 indica quale requisito soggettivo per l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita che i soggetti interessati ad utilizzarla siano viventi. A sua volta l'art. 12, secondo comma, stessa legge considera fatto illecito sanzionato amministrativamente il comportamento di chi a qualsiasi titolo, in violazione dell'art. 5, applica tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi. Emerge pertanto chiaro il divieto legislativo di tecniche procreatorie quando uno dei due componenti la coppia è deceduto al momento in cui si pratica la procreazione assistita. La realtà è più forte delle previsioni normative e, del resto, nel caso particolare le disposizioni richiamate non precisano fino a quale preciso momento l'uno e l'altro dei partner devono rimanere in vita. I problemi che la dottrina e la giurisprudenza hanno posto in evidenza, studiato e cercato di risolvere hanno riguardato la morte dell'uomo, all'interno della coppia. La morte della donna non sembra presentare analoghe questioni da sciogliere.

Anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 40/2004 già era sorto il dibattito e si era data occasione a pronunce giurisprudenziali. Si era ad esempio osservato che il contratto di opera professionale intercorso tra i coniugi ed un centro di riproduzione medicalmente assistita, avente ad oggetto la formazione in vitro di embrioni ed il loro successivo impianto, conserva validità anche dopo la morte del marito; per ricavarne la sussistenza del diritto della moglie a richiedere l'impianto post mortem, anche in considerazione del diritto alla vita del nascituro e del diritto all'integrità psicofisica della madre, situazioni soggettive considerate superiori al diritto del minore a nascere in un contesto familiare caratterizzato da doppia genitorialità (Trib. Palermo 8 gennaio 1999). Il diritto della vedova di ottenere il trasferimento in utero degli embrioni crioconservati è stato successivamente riconosciuto con riferimento alla conservazione risalente ad  epoca antecedente all'entrata in vigore della l. n. 40/2004 (Trib. Bologna 16 gennaio 2015). In questo caso i coniugi, all'epoca entrambi viventi, avevano sottoscritto una dichiarazione di interesse al futuro impianto degli embrioni, che è stata ritenuta dal Tribunale una manifestazione di volontà idonea ad escludere lo stato di abbandono degli embrioni conseguenti al ciclo di terapia applicata alla coppia, nonostante il decesso successivo del marito. Il Tribunale ha affermato che nel caso concreto, trattandosi di processo di fecondazione avvenuto in epoca precedente all'entrata in vigore della l. n. 40/2004, ex art. 7, la donna ha (sempre) il diritto di ottenere il trasferimento in utero in caso di embrioni crioconservati e non abbandonati, con rimessione della decisione esclusivamente alla donna. Le vere e proprie questioni sono sorte dopo che la l. n. 40/2004 ha definito i presupposti, le condizioni e le tecniche di accesso ad una metodica tecnica che da allora ha assunto notevole rilievo etico, sociale e sanitario.

 Le situazioni che possono verificarsi in concreto e riferibili al cennato divieto sono tre: 1) procreazione mediante prelievo del seme da cadavere; 2) inseminazione con seme prelevato in vita e conservato sin dopo il decesso; 3) impianto eseguito sulla donna con embrione formatosi quando entrambi i componenti della coppia erano in vita. Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere le fattispecie 1) e 2) rientranti nel divieto della legge e quindi illecite. In tal senso si sono espressi il Tribunale di Bologna 31/5/2012, Foro it., I, 2012, 3349; il Tribunale di Roma 19/11/2018, Foro.it., I, 2019, 692; Il Tribunale di Roma 8/5/2019, Foro.it., I, 2019, 1952.

Quanto alla situazione sub 3) si è largamente evidenziata la prevalenza da assegnare alle ragioni dell'embrione rispetto alla mera opportunità di evitare al nascituro il pregiudizio di essere senza un padre. Le stesse linee guida in tema di PMA riconoscono il diritto della donna ad ottenere il trasferimento degli embrioni crioconservati senza che tale diritto riceva limiti dopo la morta dell'uomo. Inoltre l'art. 6 l. n. 40/2004 sancisce l'irrevocabilità del consenso dopo la fecondazione dell'ovulo e da questa disposizione deve desumersi l'irrilevanza di ogni evento che si verifichi successivamente. Per di più, il trascorrere del tempo lascerebbe spazio al deterioramento degli embrioni mentre diminuiscono, con l'avanzare dell'età, le possibilità della donna di diventare madre. Conformemente si sono espressi il Tribunale di Bologna 16/1/2015, Fam. e dir., 2015, 488; il Tribunale di Messina 28/9/2017, Foro it., I, 2019, 1430; il Tribunale di Bologna 25/8/2018, Foro it. Ivi; Il Tribunale di Lecce 24/6/2019, Fam. e dir. 2020, 949.

L'ammettere la procreazione medicalmente assistita, dopo la morte dell'uomo,  con l'impianto eseguito sulla donna di un  embrione formatosi quando l'uomo era in vita non risolve ogni quesito ma determina il sorgere di interrogativi ulteriori. Tra essi il principale ha ad oggetto lo status filiationis da riconoscere a colui che nasce dalla detta procreazione post mortem dell'uomo nella coppia. Si concorda in letteratura nell'affermare che non può andare in pregiudizio del nato il fatto che la procreazione possa essere stata una pratica illecita; la preminenza va sempre assegnata all'interesse del figlio che nasce, nella considerazione, altresì, di una presumibile volontà a favore di un suo status di figlio da parte del genitore. Nel dubbio tra il ritenere l'irrilevanza di una effettiva manifestazione di volontà che debba esistere nel deceduto di riconoscere il nascituro e il richiedere sempre che sia stata espressa una precisa intenzione in tal senso, si reputa generalmente di preferire un accertamento da svolgere caso per caso. Ma se tanto può assumersi come punto di partenza, si tratta poi di determinare quale sia la normativa a cui far capo per reperire le regole di attribuzione al nato di un determinato status filiationis.

Si sostiene, da alcuni, che le disposizioni da applicare sono quelle stabilite dal codice civile e che prima delle riforme indicavano la condizione di figlio legittimo e di figlio naturale. E pertanto si dovrebbe distinguere tra coppia coniugata e coppia non coniugata. Nel caso di coppia coniugata: se l'embrione è già stato ottenuto al momento del decesso dell'uomo, il figlio acquisisce lo status di figlio nato nel matrimonio ai sensi dell'art. 232 c.c. o dell'art. 234 c.c. a seconda che la nascita avvenga prima o  dopo il decorso di trecento giorni dalla morte dell'uomo; se la formazione dell'embrione è successiva alla morte dell'uomo, il figlio acquisisce lo status di figlio nato nel matrimonio se la nascita si verifica entro i trecento giorni dal decesso, altrimenti acquisisce lo status di figlio nato fuori del matrimonio (e gli eredi possono esercitare l'azione di riconoscimento ex art. 276 c.c.). Nel caso di coppia non coniugata: se l'embrione si è formato prima della morte dell'uomo, il figlio acquista lo status di figlio nato fuori del matrimonio, in quanto il consenso dato dall'uomo alla procreazione assistita va considerato quale espressione di un riconoscimento del figlio effettuato prima della nascita ma pur sempre dopo il concepimento; se l'embrione si è formato dopo la morte dell'uomo il figlio acquista lo status di figlio della madre e la paternità può essere accertata o dichiarata con l'esercizio dell'azione di cui all'art. 276 c.c. (v. Barone, Procreazione post mortem e status filiationis, Fam. e dir., 2010, 952 ss.; Favilli, Fecondazione post mortem e attribuzione dello status di figlio, Corr. giur., 2020, 748).

L'opinione così sinteticamente ricordata è criticata da una parte autorevole della dottrina che le addebita una inutile artificiosità e l'irrazionale dipendenza dello status dai momenti temporali, con conseguente disparità di trattamento per i figli. Si propone invece di fare riferimento specifico alla l.n. 40/2004 ed ai suoi principi, in parte diversi da quelli del codice civile. L'applicazione dell'art. 8 della legge consente di affermare che al figlio generato con PMA post mortem effettuata dopo il decesso dell'uomo compete lo stato di figlio: nato nel matrimonio se nasce da coppia coniugata; nato fuori dal matrimonio se nasce da coppia non coniugata (Oppo, op. cit., 105; Auletta, op. cit., 334). I sostenitori di questa tesi citano l'art. 6 l. n. 40/2004, per il quale il consenso alla procreazione medicalmente assistita riveste una importanza determinante anche per quanto riguarda la necessaria e conseguente tutela del nascituro e l'assegnazione allo stesso di un preciso status filiationis.

Quesiti ulteriori riguardano i diritti successori del nato dalla procreazione medicalmente assistita post mortem. L'argomento eccede l'oggetto di questa trattazione e dobbiamo limitarci a ricordare che: per la successione testamentaria vige l'art. 462, terzo comma, c.c., per il quale possono ricevere per testamento i figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore, benché non ancora concepiti; per la successione legittima lo stesso art. 462 dispone, al primo comma, che sono capaci di succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo dell'apertura della successione. In questo caso si tratta di stabilire cosa si intende per “concepiti”. Ove si segua la teoria per cui devono essere applicate le norme del codice civile, la risposta è fornita dagli artt. 232 e 234 c.c. Se si aderisce alla teoria avversa, la risposta è più semlice ed è fornita dall'art. 8 l. n. 40/2004.

Cass. I, n. 13000/2019 ha affermato che l'art. 8 della l. n. 40 del 2004, recante lo status giuridico del nato a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all'ipotesi di fecondazione omologa "post mortem" avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo aver prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ai sensi dell'art. 6 della medesima legge e senza che ne risulti la sua successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell'embrione avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all'utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre" (in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che nell'atto di nascita alla figlia minore della ricorrente, nata a seguito di inseminazione medicalmente assistita "post mortem", possa essere attribuito lo status di figlia del marito deceduto).

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