La legittimazione al recesso nella società per azioni quotata
08 Maggio 2018
Massima
In tema di recesso nelle società con azioni scambiate nel mercato regolamentato si confrontano due diverse prospettive: una che guarda al recesso come strumento di tutela per il socio non consenziente, in presenza di rilevanti modifiche che riguardano le basi essenziali del contratto sociale, e che, contemporaneamente, presta particolare attenzione agli effetti che il medesimo istituto può determinare per l'organizzazione e, in particolare, per l'attività imprenditoriale; l'altra, invece, che vede nel recesso una valida alternativa (per chi ha investito in società con azioni quotate) alla cessione delle azioni, e che, più in generale, si pone come principale obiettivo quello di tutelare i soggetti che operano nei mercati regolamentati in presenza di modificazioni attinenti al loro investimento. Il caso
Il provvedimento in commento si inserisce nel contesto dell'operazione di salvataggio di Premafin/Fondiaria Sai da parte del Gruppo Unipol, finalizzata all'integrazione tra i due gruppi assicurativi e da implementarsi in un certo numero di fasi l'ultima delle quali era rappresentata dalla fusione per incorporazione di Unipol Assicurazioni, Premafin e Milano Assicurazioni in Fondiaria Sai (ora UnipolSai Assicurazioni). Nello specifico, i fatti di causa vertono attorno all'intervenuto esercizio (illegittimo secondo le attrici) del diritto di recesso da Premafin ex art. 2437, comma 1, lett. a), c.c. da parte di alcuni suoi azionisti di riferimento (riconducibili alla famiglia Ligresti) in conseguenza della deliberazione della menzionata fusione, cui detti azionisti non avevano partecipato pur avendo concorso, indirettamente, ma in modo determinante, all'adozione da parte di Premafin di precedenti atti e delibere volte all'avvio e alla realizzazione dell'operazione di salvataggio e del progetto di integrazione. Premafin ed il suo azionista di maggioranza, UGF, hanno domandato al Tribunale di Bologna di dichiarare la nullità delle dichiarazioni di recesso e l'inesistenza del relativo diritto in capo ai convenuti, adducendo che questi ultimi avevano concorso (ai fini dell'art. 2437 c.c.) alla deliberazione di fusione mediante una pluralità di atti (che per ragioni di spazio non possono essere qui richiamati) posti in essere nel complesso procedimento deliberativo. Il Tribunale di Bologna ha accolto le domande attoree ed ha dichiarato che nel caso di specie i presupposti per l'esercizio del diritto di recesso non ricorrevano atteso che, in ragione delle circostanze acquisite, il consenso dei convenuti alla fusione doveva considerarsi implicito nelle condotte tenute in occasione dell'adozione delle delibere che l'avevano preceduta. La questione
Con l'arresto in commento il Tribunale di Bologna affronta la questione di chi si debba considerare aver “concorso” all'adozione di una delibera assembleare ai fini della legittimazione al recesso da una S.p.A. ex art. 2437 c.c.: è tale esclusivamente il socio che abbia espresso il proprio voto favorevole in assemblea nelle forme tipiche, oppure anche chi, pur assente o astenuto, abbia preventivamente espresso il proprio consenso alla decisione mediante manifestazioni di adesione extra-assembleare o l'espressione di voti favorevoli nel corso di un ampio e complesso procedimento deliberativo svolto nel contesto di un'articolata, ma unitaria, operazione societaria? Si tratta di un argomento speculare al tema della rinunzia al diritto di recesso e che, al pari di quest'ultimo, risulta tra i più trascurati nel panorama degli studi dedicati a questo istituto (come già osservava Galletti, Il recesso nelle società di capitali, Milano, 2000, 234) che, salvo alcune eccezioni (cfr., tra gli altri, Galletti, op. cit, Presti, Questioni in tema di recesso nelle società di capitali, in Giur. Comm., 1982, I, 103 e ss, Frè, Della società per azioni, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna – Roma, 1982, sub art. 2437, 765 e ss., Carmignani, sub art. 2437-bis, in La riforma delle società a cura di Sandulli-Santoro, II, Torino, 2003, 884 e ss., Grippo, Il recesso del socio, in Trattato Colombo–Portale, 6, Torino, 1993, 173 e ss.), non hanno offerto in proposito particolari soluzioni teoriche frutto di appropriate ricostruzioni, ma, sia ante che post Riforma del 2003, soltanto riportato rapide riflessioni generali. Per inquadrare brevemente i termini della questione è utile richiamare innanzitutto le tesi, piuttosto “formaliste”, fatte proprie dai convenuti nelle proprie difese, secondo cui, in ragione di esigenze di “certezza” organizzativa, le mere dichiarazioni di intenti, comunque formulate, nonché i voti espressi nell'ambito di un procedimento deliberativo complesso, non possono essere indicativi del voto da esprimersi in occasione della specifica delibera potenzialmente giustificante il recesso e, quindi, di ostacolo al recesso stesso nel caso di omessa partecipazione a quell'ultima delibera: l'unica forma di “concorso” che rileva ai fini del recesso è l'espressione dell'adesione al contenuto della delibera nelle forme tipiche del procedimento decisionale (cfr.Carmignani, op. cit., 885, Di Cataldo, Il recesso di socio di società per azioni, in Trattato Abbadessa–Portale, 3, Torino, 2007, 242, Galletti, sub art. 2437, in Il nuovo diritto delle società a cura di Maffei Alberti, II, Padova, 2005, 1496). Infatti, la struttura associativa può “riconoscere”, per valutarne la conformità al proprio codice regolatore, solo fatti estrinsecatisi con le forme da esso previste (cfr. Galletti, Il recesso, cit., 236). Unica “eccezione” alla regola appena richiamata (che eccezione propriamente detta in realtà non è), sarebbe il caso in cui la manifestazione del socio possa essere intesa, in termini inequivoci, come rinunzia preventiva al diritto di recesso: diversamente, sarebbero disincentivate o addirittura impossibili (proprio) operazioni societarie complesse, in cui, ad esempio, il diritto di recesso è oggetto di rinuncia o addirittura di compenso (cfr. Galletti, sub art. 2437, cit., 1497). E a ben vedere, tale “eccezione” sembra in linea con la giusta osservazione secondo cui attraverso il recesso la maggioranza intenzionata a perseguire una determinata decisione è, per così dire, condotta ad un tavolo di contrattazione con la minoranza dissenziente, come peraltro riconosciuto dalla Relazione ministeriale di accompagnamento alla Riforma (cfr. Angelici, La riforma delle società di capitali, Padova, 2003, 91). Muovendosi in questa prospettiva, è evidente, diventa allora determinante l'interpretazione dell'atto di volontà del socio: per negare il recesso dovrà accertarsi che l'autore della dichiarazione non abbia semplicemente voluto esprimere il proprio apprezzamento su di un certo progetto, bensì che fosse sua intenzione rinunziare ad avvalersi del diritto di recedere (Galletti, Il recesso, cit., 238). Adottando un approccio più “sostanzialista”, invece, altri autorevoli Autori hanno rilevato, in sintesi, che l'adesione univoca alla deliberazione manifestata dal socio al di fuori dell'assemblea senza poi intervenirvi impedirebbe al socio stesso di recedere, avendo questi così eliminato il presupposto per il sorgere del diritto di recedere e cioè la sua contrarietà (oggi non-adesione) alla deliberazione (cfr. Presti, op. cit., Frè, op. cit., Grippo, op. cit.). L'assenso anticipato andrebbe anzi apprezzato come una rinunzia preventiva e specifica al diritto di recesso per quella particolare deliberazione, rinunzia che sarebbe lecita essendone noti i contenuti (Presti, op. cit.). Simile conclusione è raggiunta da alcune pronunce di merito, secondo cui non si potrebbe escludere in assoluto la presenza (e la rilevanza) di un consenso preventivo (pur da individuarsi con certezza nella manifestazione di volontà del socio) ad una delibera legittimante il recesso, trattandosi comunque di diritti disponibili (cfr. Trib. Genova, 13 novembre 2013, in Riv. dott. comm., 2014, 2, 360). E per alcuni (Presti, op. cit.), questa ricostruzione sarebbe in armonia con il principio generale in materia di società per il quale la reazione (quale il recesso o l'impugnazione) alle deliberazioni degli organi collegiali spetterebbe soltanto a chi nonvi abbia contribuito con una propria manifestazione di volontà. Assunto che sembra essere una specificazione del più generale divieto operante nel nostro ordinamento di venire contra factum proprium. Premesso questo breve inquadramento e tornando alla sentenza in commento, è opportuno osservare che, non a caso, i convenuti costruivano le proprie difese attorno alla considerazione per cui, stante la presunta scindibilità dell'operazione di salvataggio (attuata mediante aumento di capitale di Premafin) dalla successiva integrazione (da attuarsi mediante la fusione) ed altre circostanze da questi allegate, in alcun modo avrebbe potuto il voto favorevole all'aumento di capitale valere come rinunzia preventiva ad esercitare il diritto di recesso in conseguenza della (autonoma e scindibile) deliberazione di fusione. Il Tribunale, tuttavia, sposava evidentemente una lettura “sostanzialista” dell'intera vicenda, avendo peraltro ben in mente la ratio dell'istituto del recesso (e non solo) che suggerisce, in particolar modo per le società quotate, un'attenta (e restrittiva) valutazione del riconoscimento del diritto di recesso, come si osserverà nel seguito. A risultare, nello specifico, meritevole di apprezzamento del provvedimento in esame è, infatti, la ricostruzione offerta delle diverse prospettive che si confrontano in materia di recesso da società quotate: quella più “tradizionale” (e più “giuridica”) guarda al recesso come strumento di tutela per il socio non consenziente nei confronti di rilevanti modifiche che riguardano le basi essenziali del contratto sociale, pur prestando attenzione agli effetti che il medesimo istituto può determinare per l'organizzazione e l'attività imprenditoriale; quella più “economica”, invece, che ormai sembra trovare più accoglimento a livello legislativo, vede nel recesso una valida alternativa (per il titolare di azioni quotate) alla vendita e, più in generale, si pone come principale obiettivo la tutela dei soggetti che operano nei mercati regolamentati in presenza di modificazioni attinenti al loro investimento (cfr. ex multis Rordorf, Il recesso del socio di società di capitali: prime osservazioni dopo la riforma, in Società, 7, 2003, 924 e, più recentemente, Seminara, Recesso e diritto al disinvestimento nella fusione e nella scissione di società per azioni, in Riv. soc., 5, 2017, 1027). Anche quando si deve valutare chi siano i soggetti legittimati, l'interprete deve quindi chiedersi se il recesso è il contrappeso al riconosciuto operare della regola maggioritaria ovvero (almeno) nelle società quotate uno strumento volto ad agevolare l'uscita dalla società, in presenza di una modifica dei caratteri essenziali dell'investimento. Il Tribunale ha dunque sviluppato il proprio iter argomentativo sulla base di questa ricostruzione, rilevando, forse in maniera un po' affrettata, che qualunque delle due opzioni di fondo si preferisca, nel caso di specie gli atti posti in essere dai convenuti (sembra tanto quelli di natura sociale che extra-sociale) non potessero non implicare anche il loro consenso (e quindi il “concorso”) alla conseguente e necessaria deliberazione di fusione (punto di approdo dell'intero articolato procedimento), con ciò escludendo il ricorrere dei presupposti per il riconoscimento del diritto di recesso (il cui esercizio avrebbe comunque integrato condotta contraria alle clausole generali di buona fede e correttezza). Con riferimento a quest'ultimo profilo, pur nella sinteticità di questa nota, per completezza preme ricordare che i canoni di buona fede e correttezza possono essere considerati soltanto nella valutazione dell'eventuale abusività dell'esercizio di un diritto (come il diritto di recesso), che se abusivo non troverà tutela nell'ordinamento giuridico, non anche per giustificarne il mancato riconoscimento. L'argomento della buona fede, se pur condivisibile nell'ambito delle considerazioni metagiuridiche, non può essere infatti speso nell'argomentare giuridico circa l'esistenza di un diritto. Deve, quindi, tenersi sempre ben distino il piano dell'esistenza di un diritto dal piano delle modalità del suo esercizio (che ne presuppone l'esistenza), piani che a tratti il provvedimento in commento sembra confondere. Osservazioni
A questo punto, alcune sintetiche considerazioni conclusive paiono opportune. Innanzitutto, per comprendere la questione qui affrontata conviene risalire all'origine della attuale formulazione dell'art. 2437 c.c. che, al fine di risolvere i noti dubbi interpretativi generati dalla precedente, ha eliminato la neutralità del comportamento del socio astenuto attribuendo valore concludente ad un atteggiamento agnostico (ritenuto non adesivo perché non partecipativo) e riconosciuto con una formula ampia il diritto di recesso in capo ai soci “che non hanno concorso” all'adozione di certe delibere con la dichiarata intenzione di ricomprendervi non solo i soci dissenzienti, ma anche gli assenti ed astenuti. Tuttavia, proprio questa ampia formula genera il problema de qua, su cui la Riforma tace: se il socio dissenziente è sempre “non concorrente” (perché il dissenso espresso in assemblea supera l'eventuale consenso preventivo espresso in altre sedi e tuttalpiù ci si potrà porre il problema di valutare l'abusività dell'esercizio del recesso), si può dire lo stesso anche del socio assente o astenuto? Oppure quest'ultimo deve essere ritenuto concorrente quando la delibera è il punto di arrivo di un complesso procedimento cui detto socio ha comunque contribuito? Quale valore, eventualmente, deve essere riconosciuto alla manifestazione di volontà extra-assembleare? Secondo il Tribunale di Bologna il socio assente non è sempre “non concorrente”. Dal provvedimento risulta, infatti, che per poterne escludere il “concorso” deve essere verificata (ed esclusa) la presenza di un consenso preventivo alla delibera legittimante il recesso, consenso che, nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto implicito nelle condotte tenute in occasione di precedenti delibere, in considerazione anche di manifestazioni di volontà di natura extra-assembleare. A parere di chi scrive tale decisione è condivisibile. Anche solo la ricostruzione fattuale operata dai giudici consente di apprezzare la corretta esclusione del ricorrere dei presupposti per il recesso, il cui riconoscimento (o forse, più correttamente, esercizio) sarebbe stato in primo luogo in contrasto con i canoni di buona fede e correttezza nonché con l'altrettanto generale divieto di venire contra factum proprium. La decisione è altrettanto condivisibile avendo riguardo alla funzione del recesso (in particolare come risultante post-Riforma) che come si è detto, in particolare nelle società quotate, suggerisce una interpretazione restrittiva e un atteggiamento cauto per le considerazioni che seguono. Come ha ricordato il Tribunale, il recesso nelle società di capitali è (o forse era) concepito sia come strumento puramente di tutela della minoranza dagli abusi della maggioranza, sia, soprattutto post-Riforma, come strumento chiamato a svolgere la funzione economica di favorire la propensione all'investimento in società assicurando al socio una (agevole?) possibilità di disinvestimento – ponendosi, con specifico riferimento alle società quotate, come un rimedio analogo (quasi concorrenziale) a quello, sempre disponibile, della vendita sul mercato delle azioni – e anche (e prima) la possibilità di incidere sulle scelte più rilevanti della società e di negoziare la sua permanenza nella stessa (cfr. Angelici, op. loc. ult. cit., Galletti, Appunti in tema di recesso da società scissa quotata in borsa, in Banca borsa tit. cred., 2, 1998, 303, Rordorf, op. loc. ult. cit., Chiappetta, Nuova disciplina del recesso di società di capitali: profili interpretativi e applicativi, in Riv. soc., 2005, 488). Fermo restando che ciò non significa che lo strumento rappresenta un'inutile duplicazione della negoziazione sul mercato (e a tal fine basti richiamare la garanzia offerta dalla disciplina della determinazione del valore di liquidazione), è indubbio che la presenza di un mercato liquido, cui il socio può rivolgersi per realizzare il proprio disinvestimento a valori considerati “equi” perché di mercato, giustifica un'interpretazione restrittiva. E questa prospettiva trova la sua conferma nell'impossibilità prevista per le sole quotate di ampliare statutariamente le ipotesi di recesso già previste dalla legge (Angelici, op. cit., 88). Ma non solo. La cautela nell'opera interpretativa è suggerita anche e soprattutto avendo riguardo agli effetti che l'attivazione dello strumento del recesso produce. Questo impone, infatti, alla maggioranza un costo per compensare i singoli che non intendono subire le decisioni cui la medesima maggioranza vuole dare corso. Se da un lato ciò è giustificato da ovvie esigenze di tutela dei soci deboli, dall'altro lato genera il rischio di disincentivare operazioni strategiche funzionali al perseguimento dell'interesse sociale della massimizzazione del valore della società. E ciò è tanto più vero nelle società quotate, in cui la quantificazione preventiva del costo del recesso è difficilmente ottenibile (soprattutto nelle società ad azionariato diffuso) e il relativo ammontare potrà conoscersi soltanto una volta assunta la decisione. Quindi, un'interpretazione estensiva della disciplina della legittimazione e delle ipotesi di recesso, nelle società quotate imporrebbe alla maggioranza costi di entità imprevedibile, risultato che non sembra essere in linea con le esigenze di certezza, efficienza e stabilità delle decisioni perseguite dal legislatore della Riforma (su tali considerazioni v., in particolare, Toffoletto, L'autonomia privata e i suoi limiti nel recesso convenzionale del socio di società di capitali, in Riv. dir. comm., 2004, I, 379 e ss.). Unico rammarico è che il Tribunale non abbia colto l'occasione per approfondire gli interrogativi menzionati in apertura e offrire una serie precisa di indici rilevanti da seguire per ricostruzioni future della fattispecie anche in contesti diversi. È evidente, infatti, come nel caso di specie le circostanze fattuali di riferimento abbiano agevolato il riscontro dell'elemento del “concorso” in capo agli azionisti di riferimento di Premafin. Tuttavia, in particolare, non è chiaro se e quale specifica rilevanza abbia attribuito il Tribunale alle manifestazioni di volontà extra-assembleari intervenute nei vari e diversi momenti dell'operazione (come pare essere, nel caso di specie, l'aver consentito in varie sedi e a vario titolo alla sottoscrizione ed esecuzione di un accordo, la cui attuazione sarebbe stata incompatibile con l'esercizio del diritto di recesso) ovvero abbia considerato soltanto il contegno tenuto in occasione delle precedenti delibere. Ancora, non è chiaro (e meriterebbe ulteriore approfondimento) se la medesima conclusione possa essere raggiunta anche nel caso in cui il socio (che abbia in qualche modo “concorso” preventivamente alla delibera) non sia assente, ma si sia soltanto astenuto: può a tal proposito l'astensione parificarsi all'assenza oppure l'atteggiamento agnostico ha un intrinseco valore concludente tale da superare (al pari dell'espressione del dissenso) l'eventuale consenso preventivo alla delibera espresso in altre sedi? Conclusioni
Per concludere, tornando all'interpretazione del termine “concorso”, se lo strumento del recesso è uno “strumento di contrattazione” a disposizione della parte debole, deve allora essere preferita un'interpretazione della formula de qua che non si limiti a considerare l'assente o l'astenuto sempre “non concorrente”, ma che vada oltre l'assunto per cui l'atteggiamento non partecipativo è sempre non adesivo e dia rilevanza proprio al momento della “contrattazione” (che generalmente avviene in sede extra-assembleare), consentendo così di contenere (o quantomeno di prevedere) i costi del recesso ed evitare che lo strumento si presti a facili abusi. |