Facebook: diffamazione aggravata se il post offensivo lede la reputazione altrui, e i rischi si estendono anche a chi commenta

Ilenia Alagna
21 Giugno 2018

Pubblicare un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata? E come viene disciplinata la circostanza in cui gli amici virtuali del Social network commentano il post offensivo?
Massima

Pubblicare un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, poiché l'utilizzo del Social network consente di pubblicizzare e diffondere l'espressione denigratoria tra un gruppo di persone apprezzabile per composizione numerica. Tale fattispecie di reato scatta anche nei confronti di chi si limita a pubblicare un commento offensivo al post diffamatorio, poiché in tal modo si determina una maggior diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati.

Il caso

Un soggetto fu chiamato a comparire in un procedimento penale in qualità di teste dinanzi ad un Tribunale abruzzese. Per ben due volte l'udienza nella quale il teste era chiamato a comparire veniva differita poiché il giudice del dibattimento era al contempo stato designato dal Presidente del Tribunale a svolgere funzioni di Presidente dell'Ufficio Centrale Elettorale.

All'udienza successiva, il teste decideva di non presentarsi, non adducendo alcuna giustificazione nonostante avesse regolarmente ricevuto la notifica dell'intimazione a comparire e conseguentemente il giudice lo condannava al versamento della somma di 250 euro in favore della cassa delle ammende disponendone l'accompagnamento coattivo per l'udienza successiva. Resa finalmente la sua testimonianza, l'uomo non adduceva alcuna giustificazione in merito alla sua precedente assenza, sicché il giudice confermava la sanzione pecuniaria. Conclusa la vicenda, il teste pubblicava sulla bacheca del proprio profilo Facebook un suo personale commento facendo un resoconto di quanto accaduto con termini ingiuriosi contenenti insulti nei confronti del giudice e di tutta la categoria dei magistrati, ricevendo più di cento "Mi piace" da parte degli "amici del social network" come segno di apprezzamento, nonché diversi commenti, specie da parte di altre due persone, offensivi e lesivi della reputazione della persona del giudice.

Di qui il processo a carico dei tre per il reato di diffamazione aggravata.

La questione

Pubblicare un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata? E come viene disciplinata la circostanza in cui gli amici virtuali del social network commentano il post offensivo?

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale di Campobasso, con la sentenza n. 396 del 2 ottobre 2017, ha stabilito che la pubblicazione di un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, in quanto l'utilizzo del Social network consente di diffondere e rendere pubblica l'espressione denigratoria tra un gruppo di persone indeterminato. La Sentenza de qua ha richiamato l'orientamento della Corte di Cassazione del 2004 in tema di diffamazione mediante lo strumento del social network secondo la quale “la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica”.

Il Tribunale abruzzese ha ritenuto responsabili per diffamazione aggravata sia l'autore del post che due dei suoi amici virtuali, colpevoli di aver commentato in maniera offensiva un post altrui poiché in tal modo si determina una maggior diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati.

La condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione del post originario ad un numero elevato di soggetti, sia perché tale piattaforma racchiude un numero apprezzabile di persone, sia perché l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità mediante le quali gruppi di soggetti raccontano le proprie esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per lo strumento utilizzato, si estende ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Il Tribunale di Campobasso, una volta accertata la riferibilità soggettiva dei profili Facebook agli imputati, ha dichiarato la loro responsabilità penale per il reato di cui all'art. 595 c.p., aggravato dall'aver commesso il fatto tramite Internet e, solo per il teste, per aver offeso anche il corpo giudiziario, come previsto rispettivamente dai commi 3 e 4 della predetta norma penale.

Il giudice della sentenza qui analizzata sottolinea come in giurisprudenza si ritiene che "la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone", sicché è configurabile il reato di diffamazione qualora lo stesso commento sia offensivo o lesivo della reputazione di taluno. La diffamazione è il reato che scatta quando un soggettocomunicando con più persone, offende la reputazione di un altrui soggetto determinato o determinabile agevolmente.

Nel caso di specie, come ha affermato il Tribunale abruzzese, è certa la riferibilità delle espressioni denigratorie al giudice del processo nel quale l'autore del post era chiamato a testimoniare.

Per quanto concerne la posizione dei due imputati che si sono "limitati" a commentare il post del teste, il giudice ricorda che "la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione nella considerazione dei consociati". Per il giudice nulla cambia sul piano dell'offesa al bene giuridico tutelato se l'espressione diffamatoria sia contenuta nel post principale o nei commenti ad esso sottostante: la nitidezza, la volgarità e la disinvoltura delle frasi utilizzate da tutti gli imputati nell'esprimere le proprie considerazioni nei confronti del giudice e della sua categoria professionale, nonché la pubblicazione delle stesse frasi sul social network, con ampia portata diffusiva, sono elementi che confermano la volontà degli stessi imputati di "denigrare agli occhi dell'intera platea virtuale di utenti Facebook la reputazione del magistrato.

Nella sentenza in esame si legge che la libertà di pensiero, seppur garantita dall'art. 21 Cost., trova dei limiti nel rispetto altrui e nella tutela dell'ordine pubblico e del buon costume, nonché nel diritto di ogni cittadino all'integrità dell'onore, del decoro, della reputazione. La libertà di pensiero, in sostanza, trova un limite nella legge penale, essendo la diffamazione un atto illecito e non una manifestazione della libertà di pensiero.

Il giudice ha condannato i tre soggetti dopo aver accertato sia che i profili fossero effettivamente associabili agli autori dei commenti sia che le espressioni denigratorie fossero riferite al giudice del processo nel quale l'autore del post era chiamato a testimoniare. L'ipotesi di reato in questione presuppone un'offesa a una persona determinata e individuabile. Per la condanna non è sufficiente attribuire rilievo alla provenienza del post da un profilo Facebook intestato ad un utente qualsiasi bensì accertare l'indirizzo IP dell'autore di un post. Secondo la Corte di Cassazione, se manca l'accertamento dell'indirizzo Ip (codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico al momento della connessione ad una determinata postazione del servizio telefonico, consentendo di individuare la linea di provenienza di un soggetto) non può scattare la condanna per diffamazione sul web. Inoltre l'autore del post aveva fatto riferimento alla vicenda giudiziaria ed esplicitato il nome ed il cognome della persona offesa. Nel caso di specie, il Tribunale ha riconosciuto nei confronti di tutti gli imputati l'aggravante prevista dal comma 3 dell'art. 595 c.p. (oltre che quella di cui al comma 4) posto che la diffamazione tramite Internet costituisce un'ipotesi di diffamazione aggravata in quanto commessa con ulteriore mezzo di pubblicità (rispetto alla stampa). La rilevanza penale della condotta dei due “amici” non poteva escludersi dalla circostanza che questi si erano “limitati” ad aggiungere al post da altri pubblicato un mero commento successivo poi subito rimosso; il reato, infatti, era già stato consumato. La diffamazione rientra, difatti, nel novero dei “reati di evento” e si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa. Inoltre, come stabilito in una recente pronuncia della Corte di Cassazione”, n. 25420/2017, il post si considera diffamatorio anche quando non indica esplicitamente il nome della vittima ma è sufficiente che questa sia facilmente riconoscibile e individuabile dalla collettività. Tuttavia è fondamentale che la persona offesa sia precisa nelle accuse così come la frase offensiva e l'autore nonché gli estremi del profilo dal quale è avvenuta la pubblicazione.

Osservazioni

Ciascuno di noi, mediante l'uso dei Social Network, racconta la propria esperienza manifestando la propria opinione o il proprio giudizio sugli argomenti più disparati, delicati e, talvolta, offensivi. Mettere un like o commentare un post su Facebook rappresentano gesti banali che gli utenti di compiono anche più volte al giorno, con un semplice click. È necessario però sottolineare che la facilità dello strumento utilizzato non sempre corrisponde alla totale libertà delle azioni ad esso connesse. Ciò è avvalorato dai diversi orientamenti della Giurisprudenza secondo cui tali gesti potrebbero costare caro: un commento denigratorio pubblicato su Facebook, data l'idoneità del mezzo utilizzato, ha la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di soggetti in tutto il mondo.

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