Compensatio lucri cum damno e infortunio in itinere: le Sezioni Unite mettono un punto fermo sulla detraibilità della rendita INAIL

Enrico Basso
21 Agosto 2018

È necessario scomputare dal danno risarcibile la rendita per inabilità permanente riconosciuta dall'INAIL nel caso di infortunio occorso al lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro?
Massima

Qualora la legge preveda in favore del danneggiato, oltre all'obbligo risarcitorio in capo al danneggiante, anche un distinto indennizzo a carico di un soggetto diverso, quest'ultimo beneficio va cumulato al -e non diffalcato dal- risarcimento a carico del danneggiante, a meno che il vantaggio e il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta del fatto illecito, quali suoi effetti contrapposti. In questa eventualità, nel cui ambito rientra anche la rendita erogata dall'Inail in caso di infortunio in itinere del lavoratore, quanto corrisposto dal terzo andrà diffalcato dal risarcimento, diversamente incorrendosi in una locupletazione del danneggiato. Tuttavia, per potersi procedere alla detrazione è anche necessario che la legge abbia predisposto un meccanismo di surroga o di rivalsa idoneo a evitare che quanto erogato dal terzo si traduca in un vantaggio inaspettato per l'autore dell'illecito; in assenza di un siffatto meccanismo, infatti, il principio di razionalità – equità impone di favorire chi senza colpa ha subìto l'illecito, piuttosto che chi colpevolmente lo ha causato.

Il caso

Tizio, mentre si reca al lavoro alla guida di un motociclo, ha una collisione con l'autocarro di proprietà della ditta Alfa, condotto da Caio e assicurato con Beta Ass.ni. Li cita, quindi, tutti in giudizio per sentirli condannare in solido al risarcimento del danno; il Tribunale, ritenuto il concorso di colpa del danneggiato, condanna i convenuti a risarcire il danno nella misura ritenuta di giustizia.

Questi ultimi, però, appellano la sentenza lamentando l'eccessiva quantificazione del danno, dolendosi del mancato diffalco del valore della rendita che l'INAIL ha preso a corrispondere a Tizio, essendo stato qualificato l'incidente stradale in questione come infortunio in itinere. L'appello viene accolto, ritenendo la corte territoriale che, effettivamente, si debba detrarre da quanto liquidato a favore del danneggiato il valore capitalizzato della rendita INAIL. Vengono rigettate, invece, le eccezioni dell'appellato -fondate sul mancato esercizio, da parte dell'INAIL, del diritto di regresso ex art. 11 d.P.R. n. 1124/1965 e sull'intervenuta prescrizione di tale diritto- stante il difetto d'interesse in capo al danneggiato a far valere la corretta distribuzione dell'onere risarcitorio tra danneggiante e INAIL e, soprattutto, stante il difetto di un interesse giuridicamente tutelabile a ottenere -in ultima analisi- una duplicazione dei risarcimenti.

Tizio ricorre allora in Cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 10, commi 6 e 7 d.P.R. n. 1124/1965; la III sezione, investita della decisione, rimette la questione alle Sezioni Unite.

La questione

È necessario scomputare dal danno risarcibile la rendita per inabilità permanente riconosciuta dall'INAIL nel caso di infortunio occorso al lavoratore durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro?

Le soluzioni giuridiche

La questione giuridica affrontata dalle sezioni unite verte attorno alla c.d. compensatio lucri cum damno, sulla quale pare opportuno fare qualche breve cenno, pur senza alcuna pretesa di completezza.

I) Va premesso che, attualmente, la giurisprudenza ritiene che la responsabilità civile, al di là della preponderante e primaria funzione compensativo-riparatoria, abbia, almeno potenzialmente, una natura polifunzionale che si proietta verso più aree, tra cui assumono particolare rilievo quella preventiva (o deterrente/dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva (cfr. Cass. civ., Sez. Un., sent. 5 luglio 2017, n. 16601).

Se l'idea del carattere monofunzionale della responsabilità civile, che attribuisce all'istituto la sola funzione di "restaurare la sfera patrimoniale" del soggetto leso, sembra dunque essere stata abbandonata, occorre evidenziare che un eventuale connotato sanzionatorio è ammissibile nei soli casi in cui vi sia una esplicita previsione normativa in tal senso (si pensi, a titolo esemplificativo, alla conversione del contratto di mutuo da oneroso a gratuito nel caso in cui le parti abbiamo previsto l'obbligo di corrispondere interessi usurari: art. 1815 c.c.).

II) Nelle situazioni ordinarie, quindi, la finalità generale e prioritaria della responsabilità civile resta compensativa: lo scopo è di reintegrare la sfera giuridica del danneggiato ponendolo, in attuazione del cd. principio di indifferenza, nella stessa situazione in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito: né migliore, né peggiore.

Per consentire questo effetto nei casi in cui la condotta illecita genera contestualmente effetti pregiudizievoli ed effetti vantaggiosi, è stato elaborato da tempo il concetto di compensatio lucri cum damno, in virtù del quale l'obbligazione risarcitoria, nell'ammontare determinato secondo i criteri ordinari, deve considerarsi estinta o ridotta se nel patrimonio del soggetto danneggiato l'inadempimento o il fatto illecito hanno provocato, accanto al danno, anche un lucro (in dottrina, v. BIANCA, Diritto civile, V, Milano, 1994, 150).

L'applicazione di tale istituto nei rapporti obbligatori bilaterali, in cui compaiono una sola parte responsabile e una sola parte danneggiata, non è stata mai revocata in dubbio né dalla dottrina, né dalla giurisprudenza: una volta accertato che la causa giustificativa del vantaggio sia rappresentata dalla commissione dell'illecito, è la regola della causalità giuridica ad imporre, nella fase di valutazione delle conseguenze economiche negative dirette ed immediate dell'illecito, di considerare anche il lucro eventualmente acquisito al patrimonio del danneggiato, onde evitare che il danneggiante sia costretto a corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare il patrimonio leso.

A ben vedere, quindi, la compensatio lucri cum damno non si atteggia come principio giuridico, quanto piuttosto come regola operativa per dare applicazione concreta alla teoria differenziale, al fine di riportare il patrimonio della vittima nella condizione in cui si trovava prima del sinistro.

III) Dubbi sono sorti, invece, in relazione ai rapporti obbligatori che si caratterizzano per la presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e di due (o più) soggetti obbligati sulla base di titoli differenti; rapporti nei quali, accanto all'obbligo di risarcire il danno derivante da titolo illecito (artt. 2043 o 1218 c.c.), esiste anche l'obbligo di corrispondere una indennità o somma di denaro ad altro titolo, come accade in presenza di talune forme di assicurazione privata contro i danni o di assicurazione sociale, quale, ad esempio, quella che appresta ai lavoratori una tutela contro gli infortuni e le malattie professionali.

In questi casi, l'orientamento tradizionale, formatosi dalla metà del Novecento, ammetteva l'operatività della compensatio solo quando il danno e l'incremento patrimoniale derivassero in modo immediato e diretto dal fatto illecito; così, ad esempio, si escludeva la compensazione nel caso degli eredi che, in seguito al decesso del loro congiunto, avessero iniziato a percepire una pensione di reversibilità, questa trovando la propria giustificazione causale in un titolo diverso dall'atto illecito che aveva determinato il loro diritto al risarcimento (v. Cass. civ., 29 luglio 1955, n. 2442; Cass. civ., 14 marzo 1996, n. 2117; Cass. civ., 15 aprile 1998, n. 3807; Cass. civ., 17 luglio 1999, n. 7612; Cass. civ., 11 febbraio 2009, n. 3357; Cass. civ., 10 marzo 2014, n. 5504).

L'orientamento contrario, ch'è rimasto a lungo minoritario, è stato portato alla ribalta dalle c.d. “sentenze Rossetti” (dal nome del consigliere relatore che le ha stese: v. Cass. civ., sez. III, 11 giugno 2014 n. 13233 e Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537), con le quali la terza sezione civile si è deliberatamente scostata dalla linea interpretativa tradizionale, evidenziando che, in materia di assicurazione contro i danni, «se fosse consentito il cumulo verrebbe violato il principio di integralità del risarcimento, in virtù del quale il danneggiato non può, dopo il risarcimento, trovarsi in una condizione patrimoniale più favorevole rispetto a quella in cui si trovava prima di restare vittima del fatto illecito” e che “la diversità formale dei titoli posti a fondamento della pretesa risarcitoria non può mai servire a superare il principio indennitario, come già ritenuto da tempo dalla dottrina».

Di qui, la necessaria conclusione che la percezione, da parte del danneggiato, dell'indennizzo corrisposto dall'assicuratore debba elidere in misura corrispondente il credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, a meno di non voler trasformare il contratto di assicurazione in una scommessa «nella quale, puntando una certa somma (il premio), lo scommettitore può ottenere una remunerazione complessiva assai superiore al danno subito».

IV) La sentenza oggi in commento si colloca nel quadro che, pur con le inevitabili lacune, s'è appena cercato di tracciare.

Il tema è quello dell'infortunio in itinere, nel quale si ravvisa uno di quei rapporti obbligatori con un solo soggetto autore della condotta responsabile e di due soggetti (anzi, tre) obbligati sulla base di titoli differenti: il danneggiante stesso, per fatto illecito; il suo assicuratore in virtù del contratto assicurativo e l'INAIL, in virtù di quanto stabilito dall'art. 66 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124.

Sulla questione del cumulo in questo contesto specifico, al vecchio orientamento che escludeva l'operatività della compensatio a causa della diversità del titolo giustificativo della rendita rispetto a quello del risarcimento (v. Cass. civ., n. 21897/2009) si contrapponeva un indirizzo diametralmente opposto secondo cui dal danno risarcibile andrebbero diffalcate le somme liquidate dall'INAIL in favore del danneggiato; facendo attenzione al fatto, però, che le sentenze menzionate dalle sezioni unite come sostenitrici di questo secondo approccio ermeneutico (cioè Cass. civ., n. 3806/1998; Cass. civ., n. 15022/2005 e Cass. civ., n. 25733/2014) ponevano a base della detraibilità non già il principio della compensatio lucri cum damno -dichiarato, anzi, inapplicabile per le note ragioni di cui s'è detto- bensì l'istituto della surroga, il cui esercizio da parte dell'assicuratore comporta la perdita della titolarità del credito del danneggiato nei confronti del responsabile (beninteso, nella parte in cui è stato soddisfatto dall'assicuratore) e il conseguente acquisto dello stesso da parte dell'assicuratore.

V) Nella fattispecie concreta, però, la questione di diritto sollevata dal ricorrente verteva specificamente sul problema della compensatio lucri cum damno e la terza sezione civile, investita del ricorso, con ordinanza interlocutoria n. 15535 del 22 giugno 2017 ne ha chiesto l'assegnazione alle sezioni unite affinché queste, nel prender posizione sulla detraibilità della rendita per inabilità permanente riconosciuta dall'INAIL, si pronunciassero su di un quesito di portata assai più ampia: cioè se la compensatio «possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie»; «se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito» percependo emolumenti versatigli non solo da assicuratori sociali bensì anche «da assicuratori privati... ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante».

Le sezioni unite, ricondotto l'istituto della compensatio lucri cum damno alla regola generale posta dall'art. 1123 c.c., hanno ribadito, innanzitutto, che il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l'illecito: perciò, «come l'ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento».

Tuttavia, hanno anche evidenziato come, in presenza di una duplicità di posizioni pretensive di un soggetto verso due soggetti diversi tenuti, ciascuno, in base ad un differente titolo, valga, in linea generale, la soluzione del cumulo del vantaggio conseguente all'illecito, non quella del diffalco.

La compensatio, quindi, è operante solo quando il pregiudizio e l'incremento discendano entrambi, con rapporto immediato e diretto, dallo stesso fatto e non anche quando il beneficio derivi da un titolo diverso e indipendente dal fatto che si atteggia, quindi, non già come causa ma come semplice condizione perché il diverso titolo spieghi la sua efficacia.

Fin qui, la sentenza in commento sembra non discostarsi molto dall'orientamento tradizionale; ma in realtà non è così.

Il nocciolo del problema è stabilire quando possa affermarsi che il beneficio da porre in compensazione discenda direttamente -e non solo occasionalmente- dal fatto dannoso.

La questione è meno semplice di quanto sembri: la terza sezione, nell'articolata ordinanza di rimessione, aveva giustamente osservato come raramente le poste attive e passive possano trovare titolo entrambe nel fatto illecito e come paia incoerente con la moderna nozione di causalità giuridica (intesa come regolarità causale fondata sul criterio della condicio sine qua non) interpretare l'art. 1223 c.c. in modo asimmetrico ritenendo, in fin fine, che il rapporto fra illecito ed evento possa anche non essere diretto ed immediato quando si tratta di accertare il danno, ma debba per forza esserlo quando si tratta di accertare il vantaggio per ventura originato dal medesimo fatto illecito.

Le sezioni unite, tuttavia, non hanno seguito lo spunto offerto dalla terza sezione, rilevando come affidare il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo all'asettico utilizzo del principio di regolarità causale finisca per ridurre la quantificazione del danno ad una mera operazione contabile e porti a trascurare la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell'attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato.

La soluzione offerta dalla consulta, in armonia con i principi desumibili dal diritto comunitario, è invece quella di spostare l'indagine dalla possibilità di ricondurre il vantaggio nella serie causale dell'illecito alla verifica che le prestazioni erogate dal terzo, che costituiscono il vantaggio, siano erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato: ove lo siano, andranno diffacalcate e ove non lo siano (come accade, ad esempio, per l'assicurazione sulla vita) andranno cumulate.

Tuttavia, proseguono le sezioni unite, ciò non è sufficiente.

Perché la compensatio possa operare, è necessaria anche una previa verifica se l'ordinamento abbia previsto un meccanismo di surroga o di rivalsa, capace di valorizzare l'indifferenza del risarcimento e, nello stesso tempo, di evitare che quanto erogato dal terzo al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l'autore dell'illecito.

Diversamente opinando, si finirebbe per ammettere che il responsabile dell'illecito, attraverso la compensazione, possa vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto una provvidenza indennitaria grazie all'intervento del terzo, premiando, in spregio del principio di razionalità-equità, chi si è comportato in modo negligente; talché sarà preferibile, in assenza di meccanismi normativi di riequilibrio come quello surrogatorio, favorire consentendo il cumulo chi senza colpa ha subito l'illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato.

VI) Tornando al caso della rendita per inabilità permanente erogata dall'INAIL, si è osservato che da un lato il vantaggio viene erogato proprio in funzione di copertura del pregiudizio occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro e, dall'altro lato, che il sistema normativo prevede un meccanismo di riequilibrio idoneo a garantire che il terzo responsabile dell'infortunio sulle vie del lavoro sia collateralmente obbligato a restituire all'INAIL (in base agli artt. 11 d.P.R. 1124/1965, 1916 c.c. e 142 d. lgs. n. 209/2005) l'importo corrispondente al valore della rendita per inabilità permanente costituita in favore del lavoratore assicurato: talché sussistono tutti i presupposti perché, alla luce dei principi sopra evidenziati, operi la compensatio lucri cum damno.

Osservazioni

La sentenza in commento, oltre a risolvere il contrasto giurisprudenziale sopra descritto, ha il pregio di fornire agli operatori giuridici un criterio generale e obiettivo per stabilire l'applicabilità, nelle varie fattispecie concrete, della regola operativa della compensatio lucri cum damno.

Ritengo che tale criterio possa consentire, tanto agli avvocati quanto ai giudici, di decidere con maggior semplicità se chiedere/concedere la compensatio: mi sembra infatti assai più agevole motivare la riconducibilità del vantaggio erogato dal terzo al ristoro del medesimo pregiudizio cui è destinato il risarcimento ordinario, piuttosto che stabilire se lo stesso costituisca o meno una condicio sine qua non dell'evento dannoso, in una logica di regolarità causale.

Cass. sez. III 15/4/1998 n. 3806; Cass. Sez.

III 15/7/2005 n. 15022; Cass. Sez. III 5/12/2014 n. 25733, Consiglio di Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2018

(CC 13 dicembre 2017), n. 1

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