Responsabilità degli Istituti di credito, in concorso con gli amministratori di società di persone, per concessione abusiva di credito

Pietro Longhini
27 Agosto 2018

Può una banca rispondere in concorso con gli amministratori per avere questi ultimi chiesto (ed ottenuto) finanziamenti che hanno consentito di ritardare l'emersione dell'insolvenza e conseguentemente il fallimento della società?
Massima

È responsabile in via extracontrattuale “da contratto” la banca che, in concorso con gli amministratori di società di persone che hanno agito con mala gestio (quest'ultima accertata solo in via incidentale), abbia concesso del credito all'impresa già in stato di insolvenza e solo di poi fallita, integrando un danno per la società e determinando quindi l'insorgere dell'obbligazione risarcitoria in via solidale. Sussiste la legittimazione attiva della curatela per l'esercizio dell'azione anche contro le banche tesa alla reintegrazione del patrimonio della società.

Il caso

La curatela di un fallimento di una s.a.s. cita in giudizio due Istituti di credito al fine di sentirli condannare in via solidale fra loro e con gli ex-amministratori (soci illimitatamente responsabili) al risarcimento dei danni arrecati alla società fallita consistenti nella maggiorazione del passivo e nella diminuzione dell'attivo che si sono verificati a partire dalla data dell'asserita insolvenza (alla quale non è conseguita la richiesta di fallimento per avere gli amministratori fatto ricorso - secondo l'attore abusivamente - al credito). Il titolo di responsabilità che la curatela attribuisce alle banche è il concorso rispetto alla responsabilità degli amministratori o in alternativa quello di responsabilità diretta delle banche per violazione degli obblighi legali e contrattuali sulle stesse gravanti. La società infatti dal 1998 al 2008 ha sempre registrato importanti perdite ma gli amministratori anziché domandare il fallimento hanno richiesto l'abusivo sostegno bancario – per come accertato - da cui sono derivati la protrazione dell'attività di impresa ed il ritardo nel fallimento (dichiarato solo nel 2008) con conseguente decremento dell'attivo ed incremento del passivo. Nella seconda metà del 2008 la società cessava la propria attività ed il 25 settembre 2009 veniva dichiarata fallita dal tribunale di Prato con conseguente fallimento ex art. 147 l. fall. anche dei soci illimitatamente responsabili; la tesi della curatela è che qualora il sistema bancario avesse correttamente interpretato la situazione economica e patrimoniale della società e non vi fosse stato l'abusivo ricorso al credito da parte degli amministratori l'insolvenza si sarebbe manifestata non oltre l'anno 2000, essendo le perdite di fatto già integrate e consolidate a quella data, cosicché il fallimento sarebbe stato dichiarato con ogni probabilità entro la data del 31 gennaio del 2000; siccome a quella data il deficit fallimentare sarebbe stato pari a circa euro 1.400.000 anziché 11 milioni per come accertato alla data di fallimento, il danno derivante dall'indebita protrazione dell'attività d'impresa sarebbe pari a circa euro 9.600.000, equivalente alla differenza fra i due deficit e cioè l'aggravamento del deficit patrimoniale nel periodo di abusiva concessione di credito.

La questione

Può una banca rispondere in concorso con gli amministratori per avere questi ultimi chiesto (ed ottenuto) finanziamenti che hanno consentito di ritardare l'emersione dell'insolvenza e conseguentemente il fallimento della società?

Quali sono i criteri da adottare per verificare se è o meno sussistente il nesso di causalità fra la condotta omissiva/commissiva della banca ed il danno lamentato?

Spetta al curatore dell'intervenuto fallimento nei casi di cui sopra la legittimazione attiva per esercitare l'azione contro le banche?

Le soluzioni giuridiche

a) Accertamento della responsabilità degli amministratori. La sentenza del tribunale di Prato innanzitutto accerta incidentalmente - e quale presupposto necessario - la responsabilità degli amministratori per violazione degli obblighi legali e contrattuali che prevedono da un lato di non aggravare il dissesto e di non proseguire nell'attività d'impresa facendo riscorso al credito quando vi è uno stato d'insolvenza, dall'altro di proporre tempestivamente istanza di fallimento.

b) Accertamento della condotta delle banche fonte di responsabilità extracontrattuale. Il tribunale passa poi ad analizzare e qualificare la condotta delle banche sotto tre diversi profili attinenti alla diligenza sia generica che specifica: innanzitutto il tribunale ritiene che le banche ai fini della concessione, del mantenimento e/o dell'ampliamento dei fidi in base alla regola della diligenza del bonus argentarius devono acquisire i dati di bilancio del soggetto affidato o da affidare nonché tutte le altre informazioni utili valutando anche se tali documenti rivestano la forma idonea a svolgere la necessaria funzione informativa (regola generica di diligenza e di prudenza). Inoltre le banche fino al 31 dicembre 2006 erano tenute a svolgere la loro funzione di erogazione del credito valutando anche il cosiddetto “rischio del credito” in base alle indicazioni contenute nelle Istruzioni di Vigilanza della Banca d'Italia emanate con la circolare numero 229 del 21 aprile 1999; successivamente con l'entrata in vigore in data 1 gennaio 2007 dell'accordo di Basilea II, la valutazione del merito creditizio imposta alle banche è divenuta ancora più stringente in quanto fondata sull'attribuzione del cosiddetto “rating” al cliente (diligenza specifica).

Alla luce di queste considerazioni e del comportamento che si sarebbe dovuto attendere delle banche il tribunale ritiene che gli Istituti in questione avrebbero dovuto accorgersi che - sebbene fossero state anche prestate garanzie reali da parte dei soci e di altre società del gruppo (tutte peraltro con utilizzo massimo della capienza) – vi era una situazione di sostanziale insolvenza. A ciò si aggiunga che in base alle Istruzioni di Vigilanza di Banca d'Italia quando devono essere valutate le cosiddette “sofferenze” le banche devono individuare l'intera esposizione per cassa, prescindendo completamente dell'esistenza di eventuali garanzie reali o personali poste a presidio dei crediti; ciò significa che sulla valutazione da parte del banchiere diligente delle sofferenze creditizie non devono incidere le garanzie che anche se presenti (come nel caso analizzato) non possono far ritenere non sofferente una posizione debitoria che ne ha in pieno le caratteristiche. Per questo motivo il tribunale conclude che le banche in considerazione avrebbero potuto e dovuto dapprima cogliere e analizzare tutti gli indici evidenziati nella consulenza tecnica d'ufficio e quindi accorgersi dello stato di insolvenza sostanziale in cui versava la società non più meritevole di credito; nel contravvenire a queste regole di diligenza sia generiche che specifiche esse hanno concorso con condotte gravemente colpose sia commissive che omissive nel ricorso abusivo al credito degli amministratori della fallita così dando luogo a una fattispecie molto interessante di “responsabilità extracontrattuale da contratto”. Con questa espressione il tribunale ha inteso qualificare la responsabilità derivante dalla violazione del precetto generale del “neminem laedere” tipico della responsabilità extracontrattuale che tuttavia trova il suo fondamento fattuale nell'interferenza del terzo responsabile (in questo caso le banche) nell'altrui rapporto contrattuale, vale a dire nel contratto stipulato fra diversi soggetti al quale esse sono estranee. Il diritto di credito viene in questo caso pregiudicato (determinando un danno ingiusto) da una lesione riferibile non alla controparte contrattuale ma ad un terzo estraneo il cui comportamento si è estrinsecato in una partecipazione al programma di continuazione dell'impresa insolvente e quindi in una forma di ingerenza nella gestione dell'altrui impresa suscettibile di giustificare l'imputazione ad un terzo - sia pure a titolo di concorso - di una responsabilità derivante dalla violazione dei doveri propri degli amministratori. Interessante osservare come il tribunale ritenga del tutto superflua la prova che le banche fossero effettivamente consapevoli dello scopo perseguito dagli amministratori (evitare il fallimento occultando la reale situazione della società) non essendo richiesta una partecipazione dolosa da parte delle convenute all'illecito dell'organo gestorio (trattasi infatti di concorso a titolo di responsabilità extracontrattuale per il quale è sufficiente che la condotta degli stessi sia stata connotata da colpa). Così come - ritiene sempre il tribunale - non è nemmeno necessario accettare il grado della colpa di ciascuno dei concorrenti perché la responsabilità degli amministratori e quella degli Istituti di credito dà luogo a solidarietà ex art. 2055 c.c.

c) Accertamento del nesso di causalità. Per quanto concerne la sussistenza del nesso di causalità, il tribunale lo valuta sia sotto il profilo della causalità dell'omissione (di tipo ipotetico) riferita alla mancata revoca degli affidamenti, che sotto il profilo della condotta commissiva (concessione di nuovi affidamenti). In entrambe le declinazioni il nesso causale viene valutato secondo il criterio probatorio del “più probabile che non”, preferendo fra le diverse spiegazioni astrattamente prospettabili, quella più probabile, secondo quanto effettivamente accaduto (sul versante della condotta commissiva) e secondo quanto sarebbe ipoteticamente potuto accadere nella causalità omissiva. Alla stregua di questi parametri, il tribunale, facendo proprie le deduzioni della consulenza d'ufficio, ha ritenuto da un lato come probabile che la revoca dei fidi da parte delle banche convenute avrebbe provocato allarme negli altri soggetti finanziatori i quali avrebbero pertanto fatto altrettanto revocando a loro volta i fidi, innescando così un meccanismo (cessazione pagamenti, azioni monitorie, etc.) che avrebbe portato al fallimento probabilmente nel giro di circa un anno. Dall'altro che sarebbe stato altamente improbabile che a fronte di un comportamento virtuoso delle banche convenute (con conseguente revoca dei fidi) gli altri soggetti finanziatori avrebbero accettato di finanziare per importi rilevanti tali da ugualmente consentire una prosecuzione dell'attività.

d) Legittimazione attiva del curatore. Il tribunale afferma che vi è legittimazione del curatore in quanto il danno rilevante è direttamente riferibile al patrimonio dell'impresa finanziata e l'azione non diventa strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore. Il tribunale afferma inoltre che il curatore può agire contro le banche senza dover prima agire contro l'organo gestorio; e ciò sia in termini generali sia nel caso di specie, la cui particolarità consisteva nel fatto che in questo caso non avrebbe potuto agire contro gli ex-amministratori perché essendo essi (anche) soci illimitatamente responsabili erano falliti unitamente alla s.a.s. e conseguentemente avevano perso la legittimazione processuale.

Osservazioni

Dalla sentenza si desume che i presupposti perché sia ravvisabile l'illecito della banca sono:

  • che la società finanziata fosse in situazione di crisi irreversibile;
  • che gli amministratori decidano ugualmente di ricorrere al credito anziché alle procedure appositamente previste;
  • che la banca, nonostante fosse edotta dello stato di insolvenza (ovvero ignorandolo colposamente) abbia concesso o mantenuto il finanziamento.

Interessante notare come la sentenza accerti incidentalmente la responsabilità degli ex amministratori attingendo sia alle disposizioni in materia di società di persone (artt. 2318, 2293, 2260 c.c.) sia in materia di mandato (art. 1710 c.c.) sia a quelle norme della legge fallimentare che puniscono i reati dell'imprenditore dichiarato fallito (artt. 217 e 218 l. fall.). L'amministratore di società che continua ad esercitare l'impresa facendo indebito ricorso al credito contravviene a tutte queste regole legali e contrattuali ponendo in essere una condotta gravemente colposa. Questo accertamento è indispensabile per verificare una responsabilità concorrente della banca perché senza responsabilità degli amministratori non vi può essere responsabilità della banca. L'erogazione di credito è infatti un atto neutro, non potendo di per se determinare né un danno né un vantaggio per la società; l'analisi deve essere condotta necessariamente considerando lo scopo per il quale l'amministratore chiede nuova finanza (e la banca lo concede). Sotto questo profilo è significativo notare come non siano state ritenute valide le eccezioni delle banche secondo le quali non vi sarebbe nell'ordinamento una norma che vieti ad una banca di concedere credito ad imprese in crisi, così come la scelta di mantenimento di un fido sarebbe insindacabile in quanto “coperta” dalla cosiddetta “business judgment rule” che impedisce di configurare come illecite le scelte e gli atti posti in essere dall'imprenditore nell'esercizio della sua impresa.

Dal punto di vista della legittimazione della curatela, interessante osservare come il tribunale, nel verificarne la sussistenza, ritenga che anche logicamente vi sia piena legittimazione del curatore perché egli agisce sostituendosi non agli autori concorsuali dell'illecito (ovvero gli ex-amministratori) ma alla società che nei confronti di quegli amministratori avrebbe potuto a suo tempo agire. Per cui il terzo che ha posto in essere una condotta in concorso con gli amministratori causativa di danno risponde nei confronti della società in bonis e dopo il fallimento nei confronti del curatore in rappresentanza della massa.

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