Diffamazione a mezzo stampa: è reato riferirsi a qualcuno chiamandolo imputato al posto di indagato

Ilenia Alagna
07 Settembre 2018

Riferirsi a qualcuno con il termine di imputato al posto di indagato, nell'ambito di un articolo giornalistico, integra il reato di diffamazione a mezzo stampa.
Massima

Integra il reato di diffamazione a mezzo stampa, per l'insussistenza dell'esimente del diritto di cronaca giudiziaria, l'attribuzione ad un soggetto nell'ambito di un articolo giornalistico della falsa denominazione di imputato, anziché di indagato, in quanto il giornalista riferisca di un'avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell'avviso di conclusioni delle indagini preliminari di cui all'art. 415-bis c.p.p., non potendo tali atti reputarsi equivalenti, dal momento che quest'ultimo, a differenza del primo, non comporta esercizio dell'azione penale ed ha lo scopo di consentire all'indagato l'esercizio del diritto di difesa con la possibilità di un approfondimento delle stesse indagini.

Il caso

In un articolo del gruppo editoriale L'Espresso S.p.a. l'allora direttore ed un suo inviato, nel riportare la vicenda di un soggetto coinvolto in un'inchiesta giudiziaria, affermarono che quest'ultimo era stato rinviato a giudizio e che dunque si trattava di imputato in un giudizio, sebbene allo stesso fosse stato solamente notificato l'avviso di conclusione delle indagini preliminari. La circostanza di utilizzare la denominazione di imputato, anziché di indagato, ha comportato a danno dei due giornalisti una querela da parte dell'interessato, una volta letto l'articolo in questione. La Corte d'appello di Roma accolta l'impugnazione avverso la decisione del Tribunale della medesima città, ha condannato in solido il Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., nella persona del suo Direttore e del suo inviato del tempo, al risarcimento del danno in favore dell'ex ambasciatore italiano in Albania. Avverso tale provvedimento i due soccombenti proposero Ricorso dinanzi la Suprema Corte di Cassazione.

La questione

La questione in esame è la seguente: dire “imputato” al posto di “indagato” in un articolo giornalistico integra il reato di diffamazione a mezzo stampa? Ed inoltre sussiste l'esimente del diritto di cronaca giudiziaria?

Le soluzioni giuridiche

La prima Sezione civile della Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, 18 maggio 2018 n. 12370) ha stabilito che costituisce diffamazione a mezzo stampa presentare falsamente al pubblico, in un articolo giornalistico, una persona come imputata, anziché come indagata.

Con tale provvedimento la Corte ha definitivamente condannato l'ex direttore del quotidiano La Repubblica (di proprietà del gruppo editoriale L'Espresso S.p.A.) e l'inviato dello stesso a risarcire complessivamente 43 mila euro all'ex ambasciatore d'Italia in Albania poiché erroneamente presentato ai lettori in un'inchiesta della Procura della Repubblica di Frosinone.

Per i Giudici sussiste una sostanziale differenza tra i due termini utilizzati dai giornalisti, poiché la parola “indagato” indica chi è solo oggetto di indagini o ha ricevuto l'avviso di conclusione delle indagini preliminari; la parola “imputato”, invece, si riferisce a colui nei cui confronti è stata esercitata l'azione penale e quindi il rinvio a giudizio.

I due giornalisti, nei motivi di ricorso presentati alla Corte, hanno sostenuto, da un lato, che la differenza terminologica è minima posto che, in entrambi i casi, secondo la Costituzione italiana esiste la «presunzione di innocenza fino alla sentenza di condanna» e che la posizione di indagato e quella di imputato, sebbene processualmente differente, dal punto di vista sostanziale è simile. Dall'altro lato hanno sostenuto che si è trattato di un semplice errore di battitura, dovuto a distrazione e ad ignoranza in materia legale.

Per la Corte di Cassazione la fattispecie analizzata integra il reato di diffamazione a mezzo stampa poiché scredita, agli occhi del pubblico, l'onore del soggetto passivo del reato. L'avviso di conclusione delle indagini preliminari non anticipa il contenuto della decisione del giudice, ma dà semplicemente la notizia che dette indagini si sono concluse, che si può prendere visione del fascicolo e che si possono produrre memorie, oltre alla facoltà di chiedere l'interrogatorio. Il rinvio a giudizio formale avverrà, in presenza di certi requisiti, in una fase successiva del procedimento.

Il giornalista che anticipa quella che sarà la decisione del giudice sta quindi ledendo l'altrui reputazione. Invero, il potere-dovere di raccontare e diffondere a mezzo stampa notizie e commenti, quale essenziale estrinsecazione del diritto di libertà di informazione e di pensiero, incontra limiti in altri diritti fondamentali della persona, quali l'onore e la reputazione, anch'essi costituzionalmente tutelati dagli artt. 2 e 3 Cost., dovendo altresì richiamarsi, in materia di cronaca giudiziaria, la presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27 Cost.

La libertà di pensiero, seppur garantita dall'art. 21 Cost., trova dei limiti nel rispetto altrui, nella tutela dell'ordine pubblico e del buon costume, nonché nel diritto di ogni cittadino all'integrità dell'onore, del decoro, della reputazione. La libertà di pensiero, in sostanza, trova un limite nella legge penale, essendo la diffamazione un atto illecito e non una manifestazione della libertà di pensiero.

Nel provvedimento qui analizzato la Corte ha ritenuto che alla stregua del principio secondo cui, pur dovendosi riconoscere l'interesse pubblico alla divulgazione degli atti e dei provvedimenti di un procedimento penale a carico di un personaggio notoper l'interesse pubblico sotteso, vanno sempre rispettati i canoni della verità e della continenza, il Tribunale ha errato, laddove ha affermato che le notizie diffuse fossero «sostanzialmente conformi al vero»: ciò perché, invece, sussiste una radicale differenza tra la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari e la richiesta di rinvio a giudizio, solo quest'ultima essendo nota al pubblico dei non specialisti ed avendo essa un chiaro e maggior effetto diffamatorio. Per la Corte, inoltre, non si tratta di falsa notizia marginale o di mera imprecisione, essendo, anzi, l'articolo incentrato sulla persona dell'ambasciatore, ed avendo il cronista giudiziario confuso i due atti oppure omesso i dovuti controlli presso la fonte ufficiale. Violato il canone della verità oggettiva, o almeno putativa, resta irrilevante il profilo della continenza. In definitiva, la corte, sulla base dell'esame dell'articolo giornalistico, ha affermato che il dato in esso contenuto integra notizia non vera e per un profilo non marginale, che esclude l'esimente del diritto di cronaca giudiziaria.

Può accadere che la pretesa del singolo al libero sviluppo della propria persona (ex art. 2 Cost.) confligga con la libertà di manifestazione del pensiero di un altro soggetto (ex art. 21 Cost. e art. 10 CEDU). Considerando che anche quest'ultimo diritto riceve una tutela di rango costituzionale, è necessario un giudizio di bilanciamento tra i due interessi contrapposti. A tal fine rileva la considerazione dell'incremento della potenzialità lesiva delle aggressioni alla reputazione qualora queste siano veicolate attraverso i mezzi di comunicazione di massa, stampa, radiotelevisione, Internet nell'esercizio dei diritti di cronaca, critica e satira. Difatti se l'offesa è arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità la pena è aggravata poiché il soggetto attivo del reato si avvale di uno strumento in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone.

In tale contesto, i diritti suindicati costituiscono le estrinsecazioni essenziali della libertà di manifestazione del pensiero e la giurisprudenza ne facoltizza l'esercizio mediante l'individuazione di criteri determinati. Tali principi cardine vengono individuati in una non risalente pronuncia della Corte di Cassazione”, (Cass. civ., sez. III, sent. 8 maggio 2012 n. 6902) in merito all'esercizio del diritto di cronaca da parte del giornalista, che costituisce un punto di riferimento per tutti i casi di conflitto con il diritto alla reputazione, all'identità, alla riservatezza e con il buon costume. In tale pronuncia si considera il diritto di cronaca quale scriminante a patto che vengano integrati i requisiti della verità dei fatti, dell'interesse sociale della notizia e della continenza formale nell'esposizione. Il requisito della verità dei fatti viene soddisfatto soltanto al compimento di un serio lavoro di ricerca, non ritenendosi integrato nelle ipotesi di verità putativa. In base al profilo della verità di una notizia, la Corte riprende alcuni indirizzi già consolidati nel tempo i quali prevedono che nell'esercizio del diritto di cronaca giornalistica il presupposto della verità di una notizia mutuata da un provvedimento giudiziario, che dev'essere restrittivamente inteso, sussiste solo allorché essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti di sorta. Non è, dunque, sufficiente la mera verosimiglianza, in quanto il sacrificio della presunzione di non colpevolezza richiede che non si esorbiti da ciò che è strettamente necessario ai fini informativi. Ne consegue che eventuali inesattezze, pur secondarie o marginali, possono considerarsi irrilevanti, ai fini della lesione dell'altrui reputazione, solo qualora si riferiscano a particolari di scarso rilievo e privi di qualsiasi valore informativo e, pertanto, siano del tutto inidonee a determinarne o aggravarne la valenza diffamatoria. A tal proposito, il giornalista non potrà mai limitarsi ad attingere, per quanto attendibile, da una sola fonte ma dovrà sempre dotarsi di un certo numero di riscontri oggettivi positivi al fine di non incorrere in errore.

La Corte nella sentenza de qua ha affermato che l'esimente, anche putativa, del diritto di cronaca giudiziaria di cui all'art. 51 c.p. richiesto dai due giornalisti in uno dei motivi di ricorso, ricorre solo qualora, nel riportare un evento storicamente vero, siano rappresentate modeste e marginali inesattezze, che riguardino semplici modalità del fatto, senza modificarne la struttura essenziale. In particolare, è stato chiarito che, in materia di diffamazione a mezzo stampa, non sussiste l'esimente del diritto di cronaca nel caso in cui il giornalista abbia affermato, contrariamente al vero, l'avvenuto esercizio dell'azione penale nei confronti di un soggetto soltanto sottoposto a indagini preliminari.

Ulteriore problematica si pone in tema di “mezza verità” al momento della diffusione della notizia. Se infatti costituisce prassi comunemente accettata non imporre al giornalista alcun dovere di completezza in merito all'attività divulgativa, qualora la sua omissione si riveli determinante ai fini della non integrazione della diffamazione o comporti comunque un suo ridimensionamento, il requisito della verità non si considererà sussistente.

Nel provvedimento analizzato, si riferisce al concetto di interesse pubblico della notizia considerando come elemento imprescindibile la riflessione che l'informazione deve muovere nell'opinione pubblica; a prescindere dalla importanza o meno dei temi, la notizia deve suscitare un dibattito all'interno della collettività che può dipendere dalla notorietà dei soggetti coinvolti o dall'importanza delle tematiche trattate.

Ulteriori motivi presentati dai ricorrenti ma ritenuti dalla Corte di Cassazione infondati sono relativi alla determinazione quantitativa del danno. La regola secondo cui il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come nel caso di lesione al diritto alla reputazione, non è in re ipsa. Al contrario deve essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento, assumendosi, a tal fine, come specifici parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell'offesa e la posizione sociale della persona colpita, tenuto conto del suo inserimento in un determinato contesto sociale e professionale. Ed è quanto ha deciso il giudice di appello nel caso specifico, allorché ha evidenziato che la consumazione del reato di diffamazione lascia presumere la particolare sofferenza morale patita, in considerazione dell'ambiente di vita e lavoro della persona offesa, essendo le vicende e la personalità di chi percorre la carriera diplomatica necessariamente di pubblico dominio, ed attesa la dimensione nazionale e la tiratura del giornale, ai fini della liquidazione del danno. Da ciò è conseguita la valutazione necessariamente equitativa del pregiudizio subito, risultando tale criterio imposto dalla natura stessa di tale danno, che non può essere provato nel suo preciso ammontare (art. 1226 c.c.) e nella funzione del risarcimento realizzato mediante la dazione di una somma di denaro, che non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico. Ciò posto, va altresì richiamato il principio secondo cui, in tema di risarcimento del danno causato da diffamazione a mezzo stampa, la liquidazione del danno non patrimoniale presuppone una valutazione necessariamente equitativa, la quale non è censurabile in cassazione, sempre che i criteri seguiti siano enunciati in motivazione e non siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l'esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto.

Osservazioni

Nell'esercizio del diritto di cronaca giornalistica il presupposto della verità di una notizia estrapolata da un provvedimento giudiziario, che deve essere restrittivamente inteso, sussiste solo allorché essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza alterazioni o travisamenti di sorta. Occorre bilanciare il diritto di cronaca con il diritto all'onore e il rispetto della presunzione di non colpevolezza: «il potere-dovere di raccontare e diffondere a mezzo stampa notizie e commenti, quale essenziale estrinsecazione del diritto di libertà e informazione e di pensiero, incontra limiti in altri diritti fondamentali della persona, quali l'onore e la reputazione» anch'essi protetti dalla Costituzione. Per la ricostruzione dei fatti da diffondere, occorre quindi rispettare la verità oggettiva, considerando che non è concesso l'utilizzo di un termine al posto di un altro per un semplice errore di battitura, una svista o una carente preparazione in materia giuridica.

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