Il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione a seguito dell'illegittimo trasferimento
24 Settembre 2018
La massima
In tema di trasferimento adottato in violazione dell'art. 2103, c.c., l'inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa in quanto, vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova applicazione il disposto dell'art. 1460, comma 2, c.c., alla stregua del quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede. Il caso
Una lavoratrice agiva in giudizio chiedendo l'accertamento della illegittimità del licenziamento, irrogatole in conseguenza della mancata presentazione in servizio presso la sede lavorativa assegnatale a seguito di un provvedimento di trasferimento.
La lavoratrice contestava immediatamente suddetto provvedimento per insussistenza delle ragioni giustificatrici poste alla base del trasferimento stesso ed essendo stata licenziata dalla società datrice in ragione del rifiuto opposto, ricorreva al Tribunale per vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, quantificato in 48 mensilità della retribuzione lorda contrattuale; nel proprio ricorso, la lavoratrice deduceva altresì di aver svolto mansioni superiori rispetto al proprio inquadramento e chiedeva la condanna della società datrice al pagamento delle differenze retributive.
Il Giudice di prime cure rigettava il ricorso.
La Corte di appello riformava parzialmente la sentenza del primo Giudice e riconosceva la illegittimità del provvedimento di recesso, condannando la società datrice al pagamento di un'indennità risarcitoria, nella misura di 20 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita dalla lavoratrice.
Il Collegio giudicante del gravame, espletata attività istruttoria, non riscontrava alcuna specifica esigenza aziendale cui ricondurre il trasferimento della lavoratrice e, dunque, reputando che il provvedimento fosse stato adottato contra legem, in violazione dell'art. 2103, c.c., considerava giustificato il rifiuto della lavoratrice ad eseguire la prestazione lavorativa nella nuova sede di assegnazione; la Corte quantificava il risarcimento del danno sulla base delle disposizioni ex art. 18, l. n. 300 del 1970, commi 4 e 5, ratione temporis applicabili e rigettava le altre richieste della lavoratrice ricorrente per carenza allegatoria.
La società datrice ricorreva per la cassazione della decisione, la lavoratrice resisteva con tempestivo controricorso. La questione
La questione esaminata dalla Corte di cassazione nella sentenza in commento verte sui limiti posti alla legittimità del rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione in presenza di un inadempimento contrattuale compiuto dal datore di lavoro.
Nella fattispecie la Suprema Corte ha pronunciato sul rifiuto opposto dal lavoratore a prestare la propria attività presso la sede di nuova assegnazione, in ragione di un provvedimento di trasferimento illegittimo ex art. 2103, c.c. Le soluzioni giuridiche
La Corte di cassazione, nell'esaminare la questione di diritto proposta, vista anche la copiosa produzione giurisprudenziale sul punto, fa sorgere il proprio iter argomentativo dalla prioritaria considerazione del rapporto di lavoro subordinato quale appartenente alla categoria dei rapporti a prestazioni corrispettive. In tali rapporti, caratterizzati dalla previsione di obblighi a carico di entrambe le parti, ciascun contraente può non eseguire la propria prestazione qualora l'altra parte non adempia correttamente (inadimplenti non est adimplendum) ex art. 1460, c.c.
Il Giudice, chiamato a decidere sulla esclusione di responsabilità per i mancati reciproci adempimenti, ad avviso della Suprema Corte, dovrà procedere effettuando una valutazione di tipo comparativo, anche in considerazione della "loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e della loro incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse", al fine di stabilire la sussistenza di una relazione sul piano causale e temporale tra l'obbligazione inadempiuta e quella in conseguenza rifiutata.
Considerando, tuttavia, il limite posto dal legislatore alla possibilità del rifiuto dell'adempimento in via di eccezione, individuato nel rispetto dell'esecuzione del contratto secondo buona fede (art. 1375, c.c.), la valutazione del giudice di merito, secondo la Cassazione, dovrà indagare tale aspetto, tenendo in conto le circostanze concrete della singola fattispecie ai sensi dell'art. 1460, comma 2, c.c., operando un bilanciamento tra gli opposti interessi delle due parti.
A titolo esemplificativo la sentenza che qui ci occupa, individua alcune delle concrete circostanze valutabili ai fini della corretta valutazione dell'operato della parte inadempiente in via di eccezione. Tra le altre, specifica il Giudice di legittimità, la concreta incidenza dell'inadempimento del datore di lavoro sulle fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore e, viceversa, l'incidenza del comportamento omissivo del lavoratore sulla realizzazione degli interessi aziendali nel loro complesso.
La Suprema Corte, rimettendo il giudizio di valutazione così delineato ai giudici di merito, conclude smentendo un orientamento giurisprudenziale precedente che riconosceva de plano la legittimità del rifiuto ad eseguire la propria prestazione da parte del lavoratore in presenza di un provvedimento datoriale nullo, nel caso di specie in quanto adottato in violazione dell'art. 2103, c.c., e perciò non produttivo di effetti.
Cassando la pronuncia di merito, la Corte riconduce il provvedimento di trasferimento illegittimo nell'alveo degli inadempimenti parziali, cui, solo una valutazione complessiva in concreto della fattispecie, può far discendere un legittimo rifiuto da parte del lavoratore. Osservazioni
La Suprema Corte, intervenendo in un contesto molto fertile dal punto di vista della produzione giurisprudenziale, ha il merito, con la sentenza in commento, di tentare di ricondurre ad unità i principali orientamenti emersi nelle pronunce precedentemente rese, volendo fornire ai giudici di merito uno strumento idoneo a definire il contenzioso, conseguente alla mancata presentazione in servizio del lavoratore trasferito, nell'ottica di un corretto bilanciamento degli interessi delle parti.
Partendo dalla considerazione, seppur pacifica, del rapporto di lavoro subordinato come rapporto a prestazioni corrispettive, la Cassazione, seguendo un iter logico e ripercorrendo gli approdi più rilevanti cui la stessa è giunta nel corso del suo operato, ha unito alla interpretazione letterale del dato normativo la applicazione concreta di quest'ultimo nel procedimento di valutazione della legittimità del rifiuto della prestazione lavorativa in presenza di inadempimento datoriale, non esimendosi peraltro dal fornire indicazioni “operative” concrete ai giudici di merito.
La Corte, infatti, limitando l'effetto della nullità del provvedimento datoriale di trasferimento ad un inadempimento solo parziale e sgomberando il campo da una precedente configurazione dello stesso quale atto del tutto privo di validità ed efficacia, ha stabilito il principio secondo cui, nelle proprie pronunce, il giudice di merito, dovrà considerare il rifiuto del lavoratore ad eseguire la propria obbligazione – alla luce dell'eccezione di inadempimento – come legittimo, soltanto dopo aver operato l'accertamento in concreto della conformità di tale comportamento a buona fede.
Tale accertamento, stabilisce la Cassazione, deve necessariamente prendere in considerazione le circostanze concrete che connotano la fattispecie, tra le quali – indica il Giudice di legittimità – l'entità dell'inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, la concreta incidenza dell'inadempimento datoriale sulle fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, la puntuale e formale esplicitazione delle ragioni tecnico-produttivo-organizzativo del trasferimento, l'incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale e sulla realizzazione degli interessi aziendali.
In altri termini, la Corte, operando una qualificazione presuntiva (definendolo parzialmente nullo) del comportamento inadempiente del datore di lavoro, in ragione della sua contrarietà alla normativa, ha previsto la non automatica legittimità del rifiuto dell'esecuzione della prestazione da parte del lavoratore, il quale deve, invece, agire sempre in correttezza e buona fede.
La decisione in commento rappresenta una specificazione di notevole portata nel quadro degli orientamenti giurisprudenziali, giacché i precedenti non avevano censurato in modo univoco la mancata ottemperanza del lavoratore sulla base della sua contrarietà a buona fede, ma avevano dato rilievo alla inefficacia del provvedimento nullo (ex multis Cass. 24 luglio 2017, n. 18178).
La portata chiarificatrice della pronuncia di cui si tratta si coglie maggiormente ad ipotizzare l'applicazione del principio di diritto, ivi espresso, a tutto quel filone di contenzioso lavoristico inerente la ricostituzione del rapporto di lavoro, in seguito a provvedimento giudiziale, dopo diverso tempo dalla fine del rapporto originario.
Basti pensare a quei casi concreti in cui il datore di lavoro ha dovuto reimmettere in servizio il lavoratore dopo due, tre o più anni (tutti trascorsi in contenzioso) per ordine del giudice, trovandosi nella oggettiva impossibilità di ripristinare il rapporto nella sede assegnata al momento della cessazione del rapporto.
Considerando l'arco di tempo trascorso, non è arduo ipotizzare, infatti, un'intervenuta mutazione del contesto aziendale, tale da non rendere possibile la ricollocazione del lavoratore nelle stessa posizione in precedenza ricoperta.
Il paradosso cui si è giunti in passato è stato proprio quello che a seguito di ricostituzione del rapporto, in sede diversa alla precedente, i lavoratori hanno contestato il provvedimento di “trasferimento” ed invocando l'eccezione di inadempimento non si sono presentati in servizio, costringendo l'amministrazione della giustizia ad occuparsi nuovamente del rapporto.
La Cassazione oggi in commento, invece, da maggior rilievo alla valutazione del comportamento del lavoratore alla luce del disposto dell'art. 1460, comma 2, c.c., inducendo il Giudice del merito a considerare il rifiuto ad eseguire la prestazione come legittimo solo in presenza di una buona fede “qualificata”, ovverosia valutando il comportamento del lavoratore con una rigorosa e concreta analisi, anche di tipo comparativo dei contrapposti inadempimenti.
Tale pronuncia si muove nella più ampia cornice del contemperamento di opposti interessi tra le parti del rapporto di lavoro, che a partire dalle riforme del 2012, ha visto riconsiderare i rapporti inter partes alla luce di un bilanciamento di interessi che non trova più il lavoratore sic et simpliciter nella posizione di contraente debole da tutelare nei confronti del datore di lavoro, ed anzi, valorizza le istanze di quest'ultimo in ragione dell'interesse datoriale, inteso come garanzia del regolare e prevedibile andamento dell'impresa.
Più precisamente, la giurisprudenza mette dei grossi freni alla possibilità di disattendere – in autotutela – le direttive del datore di lavoro, in ragione dell'incidenza che un simile comportamento avrebbe nei confronti dell'organizzazione complessiva dell'impresa e, ancor di più, in considerazione della inevitabile compressione degli interessi aziendali che potrebbe derivarne.
Il lavoratore, tuttavia, non resta sguarnito dalla possibilità di tutela, ma viene ancor di più responsabilizzato, cercando di marginalizzare il dato formale della contrarietà a norma di legge, valorizzando all'inverso il dato concreto sussistente nella dinamica del rapporto di lavoro, senza tralasciare l'ovvia considerazione che un trasferimento - partendo dal caso concreto da cui è scaturita la pronuncia analizzata - adottato contra legem non potrà che essere dichiarato nullo. Minimi riferimenti bibliografici
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