Codice Civile art. 1122 - Opere su parti di proprietà o uso individuale (1).Opere su parti di proprietà o uso individuale (1). [I]. Nell'unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell'edificio. [II]. In ogni caso è data preventiva notizia all'amministratore che ne riferisce all'assemblea. (1) Articolo sostituito dall'art. 6, l. 11 dicembre 2012, n. 220. Il testo precedente recitava: «Opere sulle parti dell'edificio di proprietà comune - [I] Ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell'edificio». La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. InquadramentoMentre gli artt. 1102 c.c. (nell'applicazione in proposito fattane dalla giurisprudenza), 1120 c.c. e 1121 c.c. disciplinano le modificazioni delle parti comuni dell'edificio, sia dal versante degli interventi posti in essere dal singolo condomino, sia da quello delle innovazioni deliberate dal condominio nel suo complesso, l'art. 1122 c.c. si sofferma ad individuare i limiti delle opere che il singolo condomino può porre in essere non già sulle parti comuni, bensì su quelle di proprietà od uso esclusivo, per quanto dette opere possano riverberarsi negativamente sulle parti comuni. La disposizione manifestava in passato una curiosa peculiarità, costituita dalla palese erroneità della rubrica, intitolata, in contrasto col contenuto dell'articolo, alle «Opere sulle parti dell'edificio di proprietà comune». A ciò ha anzitutto ovviato l'art. 6 l. 11 dicembre 2012, n. 220, che ha modificato la rubrica in «Opere su parti di proprietà o uso individuale». Ricorrente nella riforma della materia è la sostituzione del precedente riferimento al «piano o porzione di piano» con quello alla «unità immobiliare», sostituzione effettuata in primo luogo nell'art. 1117 c.c., la quale va di pari passo con il venir meno della connotazione verticale del fenomeno condominio negli edifici, connotazione che trovava il suo referente normativo proprio nella formulazione testuale di tale ultima disposizione, con conseguente recepimento a livello normativo della figura di origine giurisprudenziale del condominio orizzontale. Degna di nota è poi l'espressa estensione dell'ambito di applicabilità della norma – per altro suscettibile di essere ricostruita anche in passato nel medesimo senso per via interpretativa – non solo alle proprietà individuali, ma anche alle «parti normalmente destinate all'uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale». In forza di tale precisazione, dunque, il limite posto dalla norma opera anche nei riguardi delle opere eseguite su porzioni non ricomprese in senso stretto nelle singole unità immobiliari, ma su porzioni delle parti altrimenti comuni – ad esempio un solaio di copertura adibito a terrazzo – di proprietà od uso esclusivo. Del tutto nuovo, infine, rispetto alla precedente formulazione della disposizione, è il comma 2, il quale obbliga il condomino a dare preventivamente notizia all'amministratore delle opere che intende compiere. Le opere su parti di proprietà o uso individuale in generaleSe di regola il proprietario solitario può fare della cosa propria ciò che crede, avendo diritto di goderne e disporne in modo pieno ed esclusivo, beninteso entro i limiti e con l'osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico, secondo quanto stabilisce l'art. 832 c.c, già il successivo art. 840 c.c precisa che il proprietario può effettuare qualsiasi opera sulla sua proprietà, ma a condizione «che non rechi danno al vicino». In quest'ottica, la dottrina giudica la norma essenzialmente inutile (Triola 2007, 231), scorgendovi un'applicazione dei principi generali dettate in materia di proprietà. Essa sarebbe da intendere al più come volta ad eliminare il dubbio che sia consentito al condomino operare anche in danno delle cose comuni, in quanto pro parte a lui appartenenti. La ratio del divieto disposto dalla norma emergerebbe insomma dalla natura giuridica del condominio, in virtù della quale il «diritto del singolo nella sua proprietà esclusiva si estende sino al punto d'incontro con il diritto sulla parte esclusiva e su quelle comuni degli altri partecipanti» (Terzago 2009, 221; Salis 1959, 85, il quale sostiene che la giustificazione dell'art. 1122 c.c è da rinvenire nel fatto che entro una stessa cosa, l'edificio, confluiscono più proprietà superficiarie distinte e confinanti tra loro orizzontalmente). Secondo altra opinione, la norma, espressione del principio enunciato dal già citato art. 840, avrebbe decisivo rilievo nella ricostruzione della disciplina condominiale, la quale soffrirebbe della errata interpretazione data dalla giurisprudenza all'art. 1102 c.c. – sulla scia, peraltro, della Relazione al codice civile, in cui si afferma che l'art. 1122 c.c. non disciplina i limiti degli interventi sulle parti comuni «poiché tali limiti sono già stabiliti dall'art. 1102 c.c.» – inteso come volto a delimitare il potere del singolo condomino non semplicemente di godere, secondo quanto stabilisce il dato normativo, bensì di effettuare interventi modificativi sulle parti di proprietà comune. Viceversa, occorrerebbe avere riguardo, in proposito, proprio alla norma in commento, letta, unitamente all'art. 1117 c.c., nel senso che essa precluderebbe al condomino di eseguire opere non «nella» proprietà solitaria, ma «per» la proprietà solitaria, sia se collocate in quest'ultima che nelle parti comuni (Lisi, 227, sulla scia di Costantino, 159). Punto critico della disposizione è poi la sua estensione, dal momento che essa non prende in considerazione l'ipotesi che le opere eseguite dal condomino sulla proprietà solitaria rechino danno non alle parti comuni, ma ad altra proprietà solitaria. Osserva taluno che non v'è differenza tra danno alle cose comuni e danno alle altre proprietà individuali: sicché, se l'art. 1122 c.c. si riferisce esclusivamente al primo caso, è perché il secondo è regolato dai principi comuni che regolano i rapporti tra proprietà, indipendentemente dalla circostanza che esse siano situate all'interno del medesimo edificio (Peretti Griva, 148). Di guisa che, come si vedrà, più avanti, nei rapporti tra le proprietà individuali si pone la questione dell'applicabilità, e dei pertinenti limiti, delle disposizioni dettate per i rapporti di vicinato (per tutti, Branca 1982, 360). I limiti posti dalla norma nella lettura giurisprudenzialeIn generale, è corretto evidenziare in premessa come, mentre l'art. 1102 c.c. riguarda esclusivamente le opere compiute dal condomino sulla cosa comune, l'art. 1122 c.c. disciplina l'ipotesi in cui l'opera sia effettuata dal condomino sulla cosa propria (Cass. VI-II, n. 27164/2017, concernente opere sui balconi aggettanti, costituenti un prolungamento dei due appartamenti appartenenti al condomino che le aveva eseguite). Peraltro la facoltà di eseguire opere sulle parti di proprietà esclusiva incontra, come vedremo, proprio nell'art. 1122 c.c., il limite consistente nel danno alle parti comuni dell'edificio, danno che comprende ogni diminuzione di valore riferito alla funzione della cosa, considerata nella sua unità. In particolare, l'art. 1122, comma 1 c.c., vieta a ciascun condomino, nell'unità immobiliare di sua proprietà, l'esecuzione di opere che rechino danno alle parti condominiali, nel senso che elidano o riducano in modo apprezzabile le utilità conseguibili dalla cosa comune da parte degli altri condomini o determinino pregiudizievoli invadenze dell'ambito dei coesistenti diritti degli altri proprietari spetta al giudice del merito, sulla base di apprezzamento di fatto sindacabile in cassazione soltanto nei limiti di cui all'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., verificare se l'opera realizzata su parte di proprietà individuale, nella specie la chiusura eseguita in corrispondenza dell'appartamento di una condomina, pregiudichi in modo apprezzabile la fruibilità del ballatoio comune da parte degli altri condomini, avendo riguardo alla destinazione funzionale dello stesso ed alle utilità che possano trarne le restanti unità di proprietà esclusiva (Cass. VI-II, n. 30307/2022). Secondo la giurisprudenza, il divieto, sancito dall'art. 1122 c.c., di eseguire, nelle porzioni di proprietà individuale, opere che rechino danno alle parti comuni dell'edificio, comporta una limitazione di fonte legale intrinseca alle singole unità immobiliari, assimilabile ad un'obbligazione propter rem, cui corrisponde, dal lato attivo, una situazione giuridica soggettiva che non ha natura di diritto reale di godimento su cosa altrui; ne consegue che non occorre che la domanda diretta ad ottenere la relativa tutela sia fatta oggetto di trascrizione, agli effetti indicati dall'art. 2653 c.c. (Cass. II, n.3123/2012; in senso contrario si era espressa Cass. II, n. 1693/1960, secondo cui ai fini della trascrizione, va equiparata all'azione di revindica l'azione negatoria, spettante al condomino nei confronti degli altri condomini, in caso di violazione da parte di questo del suo diritto sulla cosa comune; pertanto, va trascritta, a norma dell'art. 2653, n. 1), c.c., la domanda proposta dal condomino, diretta ad ottenere la rimozione delle innovazioni abusivamente eseguite da altro condomino sulla cosa comune; sulla natura delle limitazioni gravanti sulle proprietà individuali, ai sensi della norma in commento, quali obbligazioni propter rem, v. pure Cass. II, n.15763/2004; Cass. II, n.11692/1999, concernente l'obbligo di non sciorinare i panni dalle finestre; Cass. II, n.11717/1997, in cui si precisa che il condomino è responsabile dei danni, senza che possa assumere rilevanza l'affidamento delle stesse ad un appaltatore che le abbia, a sua volta, eseguite in regime di autonomia; Cass. II, n.12152/1993; Cass. II, n.4509/1997, discorre di oneri reali). Si aggiunge altresì che la violazione della menzionata obbligazione, pur se protratta oltre venti anni, non determina l'estinzione del rapporto obbligatorio e dell'impegno a tenere un comportamento conforme a quello imposto dal regolamento, onde è sempre deducibile, stante il carattere permanente della violazione, il diritto degli altri condòmini di esigere l'osservanza di detto comportamento, potendosi prescrivere soltanto il diritto al risarcimento del danno derivante dalla violazione dell'obbligo in questione (Cass. II, n.15763/2004). Può darsi che le opere effettuate dal singolo condomino sulla cosa propria comportino altresì interventi sulle parti comuni. Allorché il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere nella sua proprietà esclusiva facendo uso di beni comuni, indipendentemente dall'applicabilità delle norme sulle distanze nei rapporti tra le singole proprietà di un edificio condominiale, è comunque necessario verificare che il condomino stesso abbia utilizzato le parti comuni dell'immobile nei limiti consentiti dall'art. 1102 c.c. (Cass. II, n. 5196/2017, concernente fattispecie in cui un condomino aveva trasformato il proprio balcone in veranda, altresì debordando dal suo perimetro originario; v. pure Cass. II, n. 10563/2001; Cass. II, n. 4844/1988; Cass. II, n. 682/1984). La nozione di «opere»La nozione di «opere» cui si riferisce il comma 1 dell'art. 1122 c.c. è in astratto suscettibile di interpretazioni più o meno ampie: l'espressione «opere» può cioè intendersi o meno in senso ampio ed estensivo, come comprensiva anche della modificazione della destinazione d'uso dell'unità immobiliare oggetto di proprietà solitaria. Prevale in giurisprudenza l'interpretazione letterale del dato normativo, riferito all'esecuzione di modificazioni di consistenza materiale della cosa. In mancanza di norme limitative della destinazione e dell'uso delle porzioni immobiliari di proprietà esclusiva di un edificio condominiale, derivanti dal regolamento che sia stato approvato da tutti i condomini, la norma dell'art. 1122 c.c. non vieta cioè di mutare la semplice destinazione della proprietà esclusiva ad un uso piuttosto che ad un altro, purché non siano compiute opere che possano danneggiare lo parti comuni dell'edificio o che rechino altrimenti pregiudizio alla proprietà comune (Cass. II, n.22428/2011, che ha ritenuto che l'uso dell'area scoperta antistante il fabbricato, destinata a parcheggio, dovesse avvenire in modo da lasciare agli attori lo spazio per le manovre di ingresso e regresso in relazione ai loro magazzini, non assumendo rilievo in contrario il mutamento di destinazione a garage operato dagli stessi attori (analogamente Cass. II, n.8883/2005; Cass. II, n.5612/2001; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Nola 8 aprile2008). Limiti alla destinazione d'uso delle proprietà solitaria possono essere altresì contenute nel regolamento condominiale di natura contrattuale. Si è tuttavia chiarito che i divieti ed i limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro ed esplicito, non suscettibile di dar luogo ad incertezze; pertanto, l'individuazione della regola dettata dal regolamento condominiale di origine contrattuale, nella parte in cui impone detti limiti e divieti, va svolta rifuggendo da interpretazioni di carattere estensivo, sia per quanto concerne l'ambito delle limitazioni imposte alla proprietà individuale, sia per quanto attiene ai beni alle stesse soggetti (Cass. II, n. 21307/2016, che ha riformato la decisione impugnata che, dalla presenza di una clausola del regolamento di condominio espressamente limitativa della destinazione d'uso dei soli locali cantinati e terranei a specifiche attività non abitative, aveva tratto l'esistenza di un vincolo implicito di destinazione, a carattere esclusivamente abitativo, per gli appartamenti sovrastanti, uno dei quali era stato invece adibito a ristorante-pizzeria, mediante scala di collegamento interna ad un vano ubicato al piano terra). Il regolamento condominiale di origine contrattuale può dunque imporre divieti e limiti di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in esclusiva proprietà sia mediante elencazione di attività vietate, sia con riferimento ai pregiudizi che si intende evitare. In quest'ultimo caso, peraltro, per evitare ogni equivoco in una materia atta a incidere sulla proprietà dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono, come si diceva, risultare da espressioni chiare, avuto riguardo, più che alla clausola in sé, alle attività e ai correlati pregiudizi che la previsione regolamentare intende impedire, così consentendo di apprezzare se la compromissione delle facoltà inerenti allo statuto proprietario corrisponda ad un interesse meritevole di tutela (Cass. VI-II, n. 19229/2014). La nozione di dannoSul concetto di danno, la Suprema Corte ha ribadito in più occasioni che l'art. 1122 c.c. vieta al condomino di eseguire, nel piano o nella porzione di piano di sua proprietà, quelle opere che elidano o riducano in modo apprezzabile le utilità conseguibili dalla cosa comune (Cass. II, n.12491/2007; Cass. II, n.1947/1989, che ha deciso la fattispecie del sopralzo dei parapetti del terrazzo di copertura dell'edificio, che, secondo il giudice di merito, aveva compromesso sul piano estetico il rispetto dell'aspetto architettonico del fabbricato). Anche di recente è stato dunque ribadito che, in tema di condominio, la facoltà di eseguire opere sulle parti di proprietà esclusiva incontrano nell'art. 1122 c.c. il limite consistente nel danno alle parti comuni dell'edificio. Tale danno comprende ogni diminuzione di valore riferito alla funzione della cosa, considerata nella sua unità (Cass. VI, n. 27164/2017). Già prima dell'ultima novella si era peraltro affermata una nozione ampia di danno arrecato alle parti comuni per effetto di opere eseguite sulle proprietà solitarie, danno da intendersi non solo in senso materiale, incidente fisicamente sulla cosa comune, ma anche in senso funzionale. Movendo dal rilievo che l'art. 1122 c.c., nel vietare le innovazioni pregiudizievoli alle parti comuni dell'edificio, faceva riferimento – anche nella sua precedente formulazione – non soltanto al danno materiale, inteso come modificazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, ma a tutte le opere che elidessero o riducessero in modo apprezzabile le utilità da essa ritraibili, anche se di ordine edonistico od estetico, si erano ritenute vietate tutte quelle modifiche che comportassero un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato, con la precisazione che il decoro è correlato non solo all'estetica – che è data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano il fabbricato imprimendogli una determinata armonia complessiva ma anche all'aspetto di singoli elementi o di singole parti dell'edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano suscettibili per sé di considerazione autonoma (Cass. II, n.1076/2005; Cass. II, n.18214/2004; Cass. II, n.5899/2004). Poiché a norma dell'art. 1122 c.c. il limite alla facoltà di ogni condominio di eseguire opere sul proprio piano o porzione di piano di sua proprietà, oggi unità immobiliare, si identifica in ogni danno consistente nella diminuzione di valore della cosa comune riferito alla funzione della cosa, considerata nella sua unità, costituisce danno per le cose comuni anche il pericolo attuale e non meramente ipotetico connesso con il rischioso funzionamento o con la realizzazione imperfetta di un impianto autonomo di riscaldamento (Cass. II, n.870/1995). CasisticaIn giurisprudenza è stato in generale ritenuto consentito costruire manufatti che, esclusi problemi di staticità, non siano visibili dall'esterno o lo siano in modo inapprezzabile e per ciò siano irrilevanti ai fini dell'estetica (Trib. Roma 3 novembre 1990). È stata ricondotta alla previsione dell'art. 1122 c.c. la divisione orizzontale di un appartamento, tale da comportare la totale utilizzazione del preesistente margine di sicurezza statica dell'edificio condominiale, pur non pregiudicando la funzione portante dei muri comuni e così la stabilità dell'edificio, in quanto le opere eseguite dal singolo condomino finiscono col precludere sostanzialmente agli altri condòmini sia l'utilizzazione dei muri comuni secondo il loro diritto, che la facoltà di sopraelevazione consentita dall'art. 1127 c.c. (Cass. II, n.2673/1980). Più di recente si è invece detto che il condomino può, in linea di principio, dividere il suo appartamento in più unità ove da ciò non derivi concreto pregiudizio agli altri condomini, salva eventuale revisione delle tabelle millesimali; non osta che il regolamento contrattuale del condominio preveda un certo numero di unità immobiliari, qualora esso non ne vieti la suddivisione (Cass. II, n. 13184/2016). Ha osservato la Suprema Corte che l'art. 1122 c.c., nel testo ratione temporis applicabile, disciplina l'ipotesi in cui il condomino realizzi opere e innovazioni nella proprietà esclusiva: consente l'esercizio dei poteri dominicali semprechè non arrechi pregiudizio alle parti comuni (e comunque nel rispetto dell'altrui proprietà esclusiva del vicino). Il condomino ha il diritto di godere e disporre dell'appartamento, apportandosi modifiche o trasformazioni che ne possano migliorare la utilizzazione, con il limite di non ledere i diritti degli altri condomini. In sostanza, al fine di verificare la legittimità dell'intervento edilizio compiuto nell'appartamento, occorre accertare se tale realizzazione abbia determinato o sia comunque in concreto, seppure potenzialmente, in grado di arrecare pregiudizio all'utilizzazione e al godimento della cose comuni che ai sensi dell'art. 1102 c.c. spetta ai comproprietari. Orbene, in base agli accertamenti posti a fondamento della ritenuta illegittimità della suddivisione dell'appartamento della convenuta, i giudici avevano fatto riferimento a eventuali, ipotetiche e più intense utilizzazioni della cosa comune che, in caso di vendita di una delle unità immobiliari così realizzate, l'inserimento di un nuovo nucleo familiare nell'edificio condominiale avrebbe comportato senza peraltro verificare in concreto (e dare conto della) effettiva incidenza che l'aumentato numero di condomini avrebbe determinato sull'uso delle cose comuni: al riguardo sarebbe stata necessaria una indagine che avesse tenuto necessariamente conto della ubicazione, della struttura e dalle dimensioni dell'edificio condominiale con la descrizione in particolare delle parti comuni, in modo da accertare la potenziale compromissione dei diritti degli altri condomini per effetto del concorrente uso di un ulteriore nucleo familiare; il che non poteva desumersi dalla menzione nel regolamento condominiale contrattuale della (mera) esistenza di sole 14 unità, senza che fosse e stato in alcun modo accertata alcuna prescrizione vincolante o, meglio, alcun divieto di suddivisione degli appartamenti. Per quel che concerne l'(eventuale incidenza) sulla costituzione dell'assemblea e la formazione delle maggioranze che potrebbe derivare in futuro dall'inserimento di un ulteriore condomino, se da un lato la partecipazione al condominio in base alla complessiva somma dei millesimi sarebbe comunque inalterata, l'art. 69 disp. att. c.c., n. 2), nel testo anteriore alla modifica di cui alla l. n. 220/2012, consentiva la revisione delle tabelle millesimali per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, quando era notevolmente alterato il valore proporzionale dei piani; il testo, attualmente vigente introdotto dalla l. n. 220/2012, prevede che, quando per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superficie o di incremento dalle unità immobiliare, è alterato per più di un quinto il valore proporzionale della unità immobiliare, è possibile la revisione delle tabelle millesimali nel caso in cui la somma dei valori dei due appartamenti superi di un quinto il valore originario dell'appartamento. Ora, indipendentemente dalla non applicabilità della normativa vigente al momento dei fatti di causa, si imponeva anche una interpretazione evolutiva della disciplina, tale da consentire di ritenere la legittimità delle opere di suddivisione dell'appartamento, nel rispetto evidentemente dei diritti degli altri condomini. È stato osservato in dottrina (Celeste, Frazionamento di un appartamento in due unità abitative, in condominioelocazione.it) che talvolta, può capitare che il proprietario di un appartamento lo ritenga troppo grande per le sue esigenze, per varie ragioni, ad esempio, perché era stato (fortunosamente) ereditato da un parente a fronte della titolarità di un'altra unità immobiliare, o perché i figli che vi abitavano si erano (naturalmente) nel frattempo trasferiti, o perché l'originario nucleo familiare si era (purtroppo) ridimensionato a causa di successivi decessi. Lo stesso proprietario, quindi, potrebbe ritenere opportuno, qualora lo stato dei luoghi lo consenta, dividere il suddetto appartamento in due o più unità abitative, dotate ovviamente di servizi autonomi, come tali, maggiormente appetibili in caso di future vendite o, attualmente, a fini locativi (si pensi alle città universitarie). Tale mutamento non avrebbe rilevanti conseguenze a livello dei quorum costitutivi e deliberativi di cui all'art. 1136 c.c., in quanto il medesimo proprietario sarebbe pur sempre titolare, sotto il profilo soggettivo, di una «testa» mentre, sul versante oggettivo, il suo «peso» all'interno dell'assemblea risulterebbe correlato alla sommatoria delle carature millesimali dei nuovi appartamenti di sua proprietà. Problemi potrebbero sorgere, invece, dalla contestazione (o dall'invidia) degli altri partecipanti che vedrebbero aumentare o moltiplicarsi le persone che abitano lo stabile rispetto a quelle originarie, con potenziali pregiudizi alla tranquillità e serenità dell'edificio, nonché maggiore utilizzo e usura degli spazi e degli impianti comuni. Alle motivazioni sopra riportate, il massimo consesso decidente aggiunge che non potrebbe desumersi tale compromissione dalla menzione nel regolamento condominiale contrattuale della (mera) esistenza di sole quattordici unità, senza che sia stato in alcun modo accertata alcuna «prescrizione vincolante» o, meglio, alcun divieto di suddivisione degli appartamenti. Per quel che concerne, infine, l'eventuale incidenza sulla costituzione dell'assemblea e la formazione delle maggioranze che potrebbe derivare in futuro dall'inserimento di un ulteriore condomino, si osserva giustamente che, se, da un lato, la partecipazione al condominio in base alla complessiva somma dei millesimi sarebbe comunque inalterata, dall'altro, l'art. 69, n. 2), disp. att.c.c. – nel testo anteriore alla modifica dì cui alla l. n. 220 del 2012 – consentiva la revisione delle tabelle millesimali per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, quando era «notevolmente alterato» il valore proporzionale dei piani. L'attuale testo – entrato in vigore il 18 giugno 2013 – prevede che, quando per le mutate condizioni di una parte dell'edificio, in conseguenza di sopraelevazione, di incremento di superficie o di incremento delle unità immobiliare, risulta «alterato per più di un quinto il valore proporzionale dell'unità immobiliare», sia possibile la revisione delle tabelle millesimali (nel caso di specie, difficilmente la somma dei valori dei due appartamenti superava di un quinto il valore originario dell'appartamento). Indipendentemente dalla non applicabilità della normativa vigente al momento dei fatti di causa, si impone – ad avviso dei giudici di legittimità – anche una «interpretazione evolutiva» della disciplina, che consente di ritenere la legittimità delle opere di suddivisione dell'appartamento, nel rispetto evidentemente dei diritti degli altri condomini. In quest'ordine di concetti, che vanno sempre «calati» nella fattispecie in concreto sottoposta all'esame, si é, ad esempio, considerata vietata dall'art. 1102 c.c. la divisione orizzontale di un appartamento, che comportava la totale utilizzazione del preesistente margine di sicurezza statica dell'edificio condominiale, pur non pregiudicando la funzione portante dei muri comuni e così la stabilità dell'edificio, in quanto le opere eseguite dal singolo condomino finivano con il precludere sostanzialmente agli altri condomini sia l'utilizzazione dei muri comuni secondo il loro diritto che la facoltà di sopraelevazione consentita dall'art 1127 c.c. (Cass. n. 2673/1980). Di contro, è stato, altresì, affermato (Cass. n. 2493/1967) che il condomino, che aveva diviso il proprio appartamento inserendo, a metà altezza di esso una soletta, in modo da formarne due parti, collegate da una scala interna all'appartamento medesimo, senza peraltro alterare le parti comuni dell'immobile e senza apportare alcuna modifica interna o esterna alle parti stesse, neppure nella parte architettonica, non violava l'art. 1102 c.c., perché non alterava la destinazione della cosa comune e non impediva agli altri condomini di farne parimenti uso secondo il loro diritto (nella specie, si era acclarato che, nella divisione in senso orizzontale dell'appartamento, erano state rispettate tutte le prescrizioni della sovraintendenza ai monumenti e non era stata apportata alcuna modifica ai finestroni ed alla facciata del fabbricato condominiale). È da ritenere parimenti vietata l'opera del condomino che, allo scopo di trasformare una finestra del suo piano rialzato in vani di accesso dalla pubblica strada, per la necessità di superare il dislivello stradale, sia costretto, modificando lo stato dei luoghi che consentivano aria e luce al sottostante seminterrato di proprietà di altro condomino, a creare, nel vano architettonico che insiste sul muro perimetrale e nel solaio del sottostante cantinato seminterrato, una scala con tre gradini, che, pur formati verticalmente da telaio tagliafiamma ed orizzontalmente da riparo di vetrocemento, tuttavia implichino una minore ventilazione del cantinato seminterrato, anche se da tale opera derivi una maggiore luminosità (Trib. Napoli 11 gennaio 1967). Il condomino ha al contrario la facoltà di recintare, anche con una struttura a box, lo spazio, di proprietà esclusiva, destinato a parcheggio di un autoveicolo, ancorché sito nel locale adibito ad autorimessa comune del condominio, purché a ciò non osti l'atto di acquisto o il regolamento condominiale, avente efficacia contrattuale, e non ne derivi un danno alle parti comuni dell'edificio, ovvero una limitazione al godimento delle parti comuni dell'autorimessa (Cass. II, n.26426/2014). La Suprema Corte ha condiviso la pronuncia adottate dal giudice di merito nel punto in cui aveva ritenuto legittima la tramezzatura del posto auto nell'autorimessa comune che è stato così trasformato in box, essendo stato fatto utile riferimento alla facoltà concessa al proprietario, a norma dell'art. 841 c.c., di recintare (chiudere) il proprio fondo «in qualunque tempo». Il giudice di legittimità ha rammentato di avere già precisato che il condominio che abbia acquistato in proprietà esclusiva lo spazio destinato al parcheggio di un autoveicolo, ancorchè sito nel locale adibito ad autorimessa comune del condominio, ha facoltà a norma dell'art. 841 c.c., di recintarlo anche con la struttura di un cosiddetto box, sempre che non gliene facciano divieto l'atto di acquisto o il regolamento condominiale avente efficacia contrattuale e non derivi un danno alle parti comuni dell'edificio ovvero una limitazione al godimento delle parti comuni dell'autorimessa. Ha evidenziato la Suprema Corte che la Corte d'Appello aveva escluso che nella fattispecie vi fossero i suddetti elementi ostativi, esaminando nel dettaglio le varie problematiche che al riguardo erano state sollevate in riferimento ad all'inglobamento di alcune cose di proprietà del condominio (chiusino d'ispezione della rete fognante, 2 saracinesche dell'acqua potabile e tubature passanti; un interruttore temporizzato e un punto luce del garage). Al riguardo la soluzione proposta dal giudice distrettuale è stata ritenuta adeguata e giuridicamente corretta («il diritto degli appellanti di recingere il fondo ex artt. 948 e 1122 c.c., sia da contemperare con il concorrente diritto di servitù degli altri condomini ed il concreto esercizio della stessa ai fini della manutenzione degli impianti»), nè è stata oggetto di una specifica contestazione in riferimento al principio di diritto richiamato nella sentenza. Secondo la Suprema Corte, inoltre, il giudice di merito aveva adeguatamente valutato la questione della non applicabilità del regolamento condominiale, con riferimento all'epoca di entrata in vigore. Nello stesso senso in precedenza si era pronunciata Cass. n. 5933/1991. Si è sottolineato in dottrina (Tozzi, 904), a commento di quest'ultima decisione, che il ragionamento svolto dalla Suprema Corte trovava fondamento nella circostanza che il posto macchina fosse di proprietà esclusiva di un condomino, giacché, nel caso in cui l'area destinata a parcheggio non fosse stata di proprietà esclusiva ma di proprietà comune, di cui il condomino fosse stato titolare pro-quota, allora il singolo condomino non avrebbe potuto disporne autonomamente ma solo con il consenso di tutti gli altri condomini. Infatti, a norma dell'art. 1102 c.c., la facoltà del singolo comproprietario di servirsi della cosa comune è subordinata al duplice limite di non alterare la destinazione della cosa (limite qualitativo) e di non impedire agli altri comproprietari di farne parimenti uso secondo il loro diritto (limite quantitativo); quando, quindi, queste due condizioni non vengano osservate, e cioè se ne alteri la destinazione o se ne limiti il pari uso degli altri partecipanti (anche se ciò non accada in concreto ma vi sia solo un'astratta ed ipotetica possibilità, è vietato fare uso della cosa comune). Pertanto, non c'è dubbio che se l'area di parcheggio fosse stata di proprietà comune, il fatto stesso di recintarla avrebbe comportato certamente la violazione dei diritti degli altri comproprietari di farne parimenti uso, in tal modo violando il disposto dell'art. 1102 c.c. Quando, infatti, un condomino renda impossibile o menomi l'esercizio dell'uguale diritto degli altri partecipanti mediante frapposizione di qualche ostacolo o addirittura attraendo nell'orbita della sua esclusiva disponibilità, in tutto o in parte, la cosa che, per sua natura o per disciplina legale o negoziale, è destinata ad essere oggetto di utilizzazione o sfruttamento comuni, ciascun condomino è abilitato a chiedere la rimozione della nuova opera che altera il rapporto di equilibrio della comunione e spezza l'armonica coesistenza dei diritti di intensità paritaria. Né si potrebbe invocare la violazione dell'art. 1122 c.c. che proibisce a ciascun condomino di compiere, nel piano o porzione di piano di proprietà esclusiva, opere che possano danneggiare le parti comuni dell'edificio, essendo tenuto al rispetto anche della qualità delle stesse (sono, invece, consentite tutte quelle opere che non recano danno alle parti comuni); il concetto di danno non va limitato esclusivamente al danno materiale, inteso come modificazione della conformazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, ma estesa anche al danno conseguente alle opere che elidono o riducono apprezzabilmente le utilità ritraibili dalla cosa comune, anche se di ordine edonistico o estetico. Nel caso di specie è stato ritenuto che non ricorressero una violazione dell'art. 1122 c.c. nel senso suesposto, né a fortiori dell'art. 1102 c.c., dovendosi invece fare applicazione dell'art. 841 c.c., in tema di proprietà fondiaria, in base al quale il proprietario ha la facoltà di chiudere il fondo, esercitabile in qualunque tempo (non soggetta cioè a prescrizione estintiva), e con qualunque mezzo, purché non impedisca l'esercizio di altri eventuali diritti di passaggio o di transito. Questa facoltà riconosciuta al proprietario ex art. 841 c.c. non viene meno neppure negli spazi di proprietà esclusiva facenti parte dell'autorimessa condominiale, salvo che al suo esercizio osti uno specifico divieto negoziale ovvero una situazione oggettiva. D'altro canto, dinanzi al mutamento di destinazione di un locale in edificio condominiale, che il proprietario esclusivo del locale medesimo realizzi mediante opere meramente interne in violazione di vincolo imposto dal regolamento di condominio (trasformazione di soffitta in vano abitabile), deve escludersi che gli altri condòmini possano conseguire l'eliminazione di dette opere interne, spettando ad essi solo il diritto di ottenere l'inibizione del diverso uso, come pregiudizievole al titolare del sottostante appartamento in dipendenza dei maggiori rumori (Cass. II, n.17/1985). Il condomino, come si è visto, può parimenti dividere il suo appartamento in più unità ove da ciò non derivi concreto pregiudizio agli altri condomini (Cass. II, n.13184/2016). Non integra un uso indebito l'installazione da parte di un condomino di un'insegna in un vano finestra del suo appartamento (Trib. Roma 1 marzo 1986). Allo stesso modo la collocazione delle inferriate alle finestre di un'unità immobiliare sita in un condominio è legittima in quanto si inserisca nella facciata dell'edificio senza cagionare mutamento delle linee architettoniche ed estetiche che provochi un pregiudizio economicamente valutabile, o in quanto, pur arrecando tale pregiudizio, si accompagni ad una utilità che compensi l'alterazione architettonica; in particolare all'installazione delle inferriate fa riscontro l'interesse dei condòmini a tutelare la sicurezza dei propri beni e delle persone (App. Milano 14 aprile 1989). Al contrario, la chiusura con finestre a vetri con telaio metallico realizzata su balconi di proprietà esclusiva dei singoli condòmini è illegittima, allorché, limitando la circolazione dell'aria all'interno delle scale e dei pianerottoli e determinando conseguenti ristagni di odori, può creare situazioni di pericolo o danni alle parti comuni dell'edificio (Trib. Milano 26 giugno 1989). Sono parimenti illegittime le modificazioni apportate da uno dei condòmini agli infissi delle finestre del proprio appartamento in assenza della preventiva autorizzazione dell'assemblea condominiale prevista dal regolamento di condominio, in quanto pregiudizievoli al decoro architettonico della facciata dell'edificio (Cass. II, n.3927/1988). È viceversa consentito al singolo condomino collocare vasi di gerani su dei sottovasi ed all'interno di fioriere saldamente ancorate alla ringhiera dei balconi, purché non sorgano problemi di stillicidio (Trib. Bologna 1 marzo 1993). Le modifiche apportate dal condomino al vano terraneo in sua proprietà esclusiva, sotto forma di consolidamento o rafforzamento del piano di calpestio con massicciata più profonda, e perfino con creazione di siffatto vano, sono, ai sensi dell'art. 1102 c.c., pienamente legittime, salvo che, determinando un abbassamento del livello di pavimentazione (per l'utilizzazione della maggior cubatura conseguente), diano luogo ad invasione del suolo comune (Cass. II, n.2206/1984). È vietato installare una tettoia di m. 4,50 per 0,60 a protezione di un poggiolo sito nella facciata al primo piano (Trib. Milano 31 ottobre 1991). È ammissibile la destinazione data ad un seminterrato di un edificio condominiale, legittimamente destinabile, per norma regolamentare, ad uso commerciale, a centro culturale e di pratica religiosa in quanto le attività culturali e religiose, anche se diverse da quelle dominanti nel nostro paese, attengono alle manifestazioni più elevate dello spirito e non sono tacciabili di ledere il decoro o di perturbare la tranquillità dell'edificio (App. Milano 23 luglio 1991). La trasformazione di un appartamento in negozio, fatta da un condomino, non altera di per sé la destinazione delle cose comuni ed è legittima a meno che non si attui con opere che compromettano il decoro architettonico, anche modesto, dell'edificio diminuendone il valore (Cass. II, n. 1472/1965). È lesivo del diritto di ogni condomino l'uso di un'unità immobiliare destinata a foresteria che, per le sue concrete modalità, risulti incompatibile con le esigenze di tranquillità e riposo che costituiscono parte integrante del diritto su un immobile destinato a civile abitazione (Trib. Milano 3 aprile 1989). Un'attività di tipo poliambulatoriale, che per il suo concreto modo di svolgimento determina un continuo afflusso di pubblico e la sosta ripetuta di persone nell'atrio del condominio e sulle scale a questo esterne, è incompatibile con l'utilità generale dei condòmini e con il godimento della proprietà esclusiva in forme tali da non recare disturbo agli altri condòmini e deve essere, pertanto, inibita (Trib. Milano 30 gennaio 1989). In mancanza di norme limitatrici della destinazione e dell'uso delle porzioni immobiliari di proprietà esclusiva di un edificio condominiale, ed al di fuori delle limitazioni poste all'attività innovativa dagli artt. 1102 e 1122 c.c., deve escludersi che l'utilizzazione dell'alloggio di proprietà esclusiva a locazione per uso di camere ammobiliate possa di per sé costituire fatto illecito, avverso il quale sia dato agli altri condòmini facoltà di insorgere e chiedere la eliminazione di opere meramente interne funzionali dell'utilizzazione stessa, salvo che ne derivino pregiudizievoli invadenze nell'ambito dei coesistenti diritti altrui (App. Bologna 14 novembre 1989). È ancora da accogliere, secondo un indirizzo, la domanda di alcuni condòmini diretta ad ottenere la sospensione, ai sensi dell'art. 1171 c.c., dei lavori di installazione di una stazione radio base per telefoni cellulari iniziati, senza l'autorizzazione del condominio, su porzione di lastrico solare di proprietà esclusiva di un altro condomino, considerato il deprezzamento dell'edificio conseguente all'attuale situazione di incertezza scientifica circa gli effetti a lungo termine sulla salute delle onde elettromagnetiche irradiate da impianti del genere, nonché la invasività e il non organico inserimento dell'opera nel contesto architettonico dell'edificio condominiale (Pret. Bologna 12 aprile 1999). In senso opposto è stato detto che l'installazione di un ripetitore per telefonia cellulare su di un lastrico solare situato in un edificio condominiale non costituisce violazione dell'art. 1122 c.c., in quanto: a) non sussiste alcun riscontro scientifico della pericolosità di tale impianto per la salute dei condomini; b) la concessionaria del servizio di telefonia presenti all'autorità competente un progetto che attesti come l'impianto suddetto non arrechi danni alla statica dell'edificio (Trib. Piacenza 13 febbraio 1998). Il condomino che abbia in uso esclusivo il lastrico di copertura dell'edificio e che sia proprietario dell'appartamento sottostante ad esso può, ove siano rispettati i limiti ex art. 1102 c.c., collegare l'uno e l'altro mediante il taglio delle travi e la realizzazione di un'apertura nel solaio, con sovrastante bussola, non potendosi ritenere, salvo inibire qualsiasi intervento sulla cosa comune, che l'esecuzione di tali opere, necessarie alla realizzazione del collegamento, di per sé violi detti limiti e dovendosi, invece, verificare se da esse derivi un'alterazione della cosa comune che ne impedisca l'uso, come ad esempio, una diminuzione della funzione di copertura o della sicurezza statica del solaio (Cass. II, n. 6253/2017). La Suprema Corte ha giudicato fondato il ricorso perché la corte locale, nel ritenere l'intervenuta violazione dell'art. 1102 c.c., aveva affermato che «non può dubitarsi che si sia realizzata l'alterazione della cosa comune, dal momento che è pacifico che (...) sia intervenuto sulle travi portanti del tetto tagliandole». La Corte d'Appello non aveva considerato che di per sé il taglio delle travi del solaio, ove non ulteriormente valutato anche con riguardo alla statica e comunque agli altri limiti dettati dall'art. 1102 c.c., non può determinare l'alterazione della cosa comune che ne impedisce l'uso ai sensi della norma civilistica in questione. La Suprema Corte ha posto a fondamento della indicata soluzione propri precedenti responsi secondo cui: a) il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene; b) il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purchè risulti – da un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo riguardo alla motivazione – che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso. Ha ritenuto inoltre la Suprema Corte doversi tener conto della peculiarità del caso in esame, nel quale era pacifico che l'apertura in questione era stata realizzata per mettere in collegamento l'appartamento di proprietà del condomino interessato con il sovrastante lastrico solare in suo uso esclusivo. La corte locale in tale situazione avrebbe dovuto con un'adeguata motivazione individuare la specifica violazione dei limiti di cui alla norma citata, non potendosi appunto ritenere che il solo necessario taglio delle travi ne integrasse la violazione, dovendosi altrimenti ritenere inibito qualsiasi intervento sulla cosa comune. La Corte locale avrebbe dovuto quindi specificamente valutare, adeguatamente motivando, la violazione degli altri limiti indicati, anche con la realizzazione della bussola a copertura della nuova apertura. Nel commentare la pronuncia, la dottrina (Celeste, È consentito collegare il lastrico in uso esclusivo al sottostante appartamento?, in Condominioelocazione.it) ha osservato come si trattasse di stabilire, in concreto, se il condomino, realizzando un accesso dal lastrico solare ad uso esclusivo all'appartamento sottostante, avesse, per un verso, impedito l'uso della parte comune da parte degli altri condomini (che poteva essere anche solo potenziale), e, per altro verso, avesse causato un mutamento dei luoghi che impediva, anche e soltanto sul piano delle possibilità o modalità di esercizio, la accessibilità e ispezionabilità del manufatto, senza contare che, con il taglio della struttura e con la disponibilità di un accesso diretto, si poteva verificare, di fatto, anche una possibilità di usucapione. La soluzione offerta dai giudici di legittimità – è stato dunque osservato – sconta la particolarità del caso concreto, nel senso che non consente di esportare, con la dovuta tranquillità, i principi affermati nella sentenza in commento ad altre fattispecie, laddove appare dirimente l'accertamento dello stato dei luoghi e, segnatamente, la portata quantitativa/qualitativa dell'intervento modificatore del condomino che ha assunto la relativa iniziativa. In argomento, il Supremo Collegio ha avuto modo di statuire che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene (Cass. n. 14107/2012). E ancora, il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può effettuarne la parziale trasformazione in terrazza di proprio uso esclusivo, purché risulti – da un giudizio di fatto, sindacabile in sede di legittimità solo riguardo alla motivazione – che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione svolta dal tetto e che gli altri potenziali condomini-utenti non siano privati di reali possibilità di farne uso (Cass. n. 2500/2013). In buona sostanza, anche nell'ottica del novellato art. 1122 c.c., in quanto trattavasi di opere eseguite all'interno dell'appartamento di proprietà esclusiva, ancorché interessanti le parti comuni dell'edificio, è apparsa apodittica l'affermazione del giudice di merito, secondo cui il solo fatto di un intervento sul bene comune, segnatamente con l'eliminazione di alcune travi, ne avrebbe determinato la sua alterazione, dovendosi invece valutare, in concreto, se vi fosse a stata o meno alterazione della destinazione della cosa comune, avendo riguardo alla destinazione che i condomini avevano concretamente dato alla cosa comune. Nello specifico, l'inserimento di una bussola di accesso su un lastrico solare con l'uso esclusivo dello stesso a favore del condomino non necessariamente alterava la destinazione naturale del lastrico de quo, potendo la bussola d'accesso fornire sempre una copertura in sostituzione di quelle originaria. Nella stessa lunghezza d'onda, non sempre l'eliminazione di alcune travi costituisce alterazione vietata dall'art. 1102 c.c., in quanto si tratta di dimostrare, di volta in volta, se tale iniziativa possa assumere o meno aspetti lesivi per l'integrità dell'edificio, se ne comprometta la sicurezza, il decoro o altra essenziale caratteristica. Resta inteso, comunque, che l'apertura di un varco nel muro perimetrale per esigenze del singolo condomino è consentita, quale uso più intenso del bene comune, con eccezione del caso in cui tale varco metta in comunicazione l'appartamento del condomino con altra unità immobiliare attigua, pur di proprietà del medesimo, ricompresa in un diverso edificio condominiale, poiché, in questo caso, il collegamento tra unità abitative determina la creazione di una servitù a carico di fondazioni e struttura del fabbricato (Cass. n. 15024/2013; Cass. n. 3035/2009; Cass. n. 1708/1998). In quest'ultimo ordine di concetti – ha ricordato la stessa dottrina –, si è, di recente, affermato (Cass. n. 4501/2015), che, in tema di uso della cosa comune, è illegittima l'apertura di un varco praticata nel muro perimetrale dell'edificio condominiale da un comproprietario al fine di mettere in comunicazione un locale di sua proprietà esclusiva, ubicato nel medesimo fabbricato, con altro immobile pure di sua proprietà ma estraneo al condominio, comportando tale utilizzazione la cessione del godimento di un bene comune in favore di soggetti non partecipanti al condominio, con conseguente alterazione della destinazione, giacché in tal modo viene imposto sul muro perimetrale un peso che dà luogo ad una servitù, per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini. Parimenti, è stato affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell'edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, a condizione che sia salvaguardata, mediante opere adeguate, la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, restando così complessivamente mantenuta, per la non significativa portata della modifica, la destinazione principale del bene (Cass. II, n. 10004/2017). In presenza di un edificio strutturalmente unico, su cui insistono due distinti ed autonomi condominii, è illegittima l'apertura di un varco nel muro divisorio tra questi ultimi, volta a collegare locali di proprietà esclusiva del medesimo soggetto, tra loro attigui, ma ubicati ciascuno in uno dei due diversi condominii, in quanto una simile utilizzazione comporta la cessione del godimento di un bene comune, quale è, ai sensi dell' art. 1117 c.c. , il muro perimetrale di delimitazione del condominio (anche in difetto di funzione portante), in favore di una proprietà estranea ad esso, con conseguente imposizione di una servitù per la cui costituzione è necessario il consenso scritto di tutti i condomini (Cass. II, n. 20543/2020). Il pregiudizio all'esteticaUn pregiudizio all'estetica del fabbricato può in tanto configurarsi, in quanto gli interventi operati sulle proprietà solitarie vadano a collocarsi non all'interno, ma nella parte esterna delle singole unità immobiliari. Non vi può cioè essere lesione del decoro architettonico del caseggiato da parte del condomino che, pur trasformando un locale di proprietà esclusiva, ricorre solo ad opere interne senza variazione del volume del locale originario e quindi senza alterare esternamente l'edificio condominiale. Né ancora rileva, ai fini del decoro architettonico, l'apposizione di tendaggi e stracci sul terrazzo dell'edificio e rimovibili, senza nessuna compromissione per l'accesso al lastrico solare di proprietà condominiale (Cass. II, n.1326/2012). Detta ultima pronuncia – è stato osservato in dottrina – risulta aderente, rigorosamente, alla regola dettata dall'art. 1122 c.c., secondo cui ciascun condomino, nella propria proprietà esclusiva, può eseguire liberamente opere, purché non arrechino danno alle parti comuni che può consistere, oltre che nel pregiudizio per la statica e la sicurezza del fabbricato, anche nell'alterazione del decoro architettonico, tutelato espressamente dagli artt. 1120 e 1138 c.c., salvi gli effetti di una eventuale clausola di natura contrattuale del regolamento del condominio che dovesse inibire qualsiasi modificazione interna, accogliendo una nozione di decoro più rigorosa di quella codicistica, ritenuta ammissibile dalla giurisprudenza di legittimità e di merito (Cass. n. 14626/2010; Cass. n. 11121/1999; Cass. n. 8861/1987). La pronuncia è stata dunque ritenuta apprezzabile, oltre che per il chiaro dictum in ordine alla configurabilità dell'alterazione del decoro architettonico, anche sotto il diverso, ma concorrente, profilo dell'osservanza della regola del pari uso della cosa comune in ragione della lata ed onnicomprensiva accezione di danno che può discendere, in concreto, dall'esercizio «legittimo» dei propri diritti nell'ambito condominiale (artt. 1120,1122 e 1102 c.c.), con il corollario, niente affatto secondario e motivo di frequenti liti condominiali, che in entrambe le ipotesi previste dall'art. 1122 e 1102 c.c. non è prescritta alcuna «formale» autorizzazione assembleare (per l'art. 1102 c.c., cfr. ex multis Cass. n. 6483/2012). A tal fine, è stato ulteriormente osservato che le eventuali prescrizioni regolamentari di dare notizia di eventuali modificazioni da apportare all'unità immobiliare di proprietà esclusiva non sono interpretabili come previsioni di autorizzazioni quanto, invece, di informazioni finalizzate ad agevolare e consentire la tempestiva verifica di eventuali pregiudizi alle parti comuni dell'edificio in condominio. Sull'estensione, in via analogica, alle modificazioni consentite al condomino ex art. 1102, comma 1, c.c., del divieto di alterare il decoro architettonico, dettato espressamente per le innovazioni delle parti comuni dell'edificio in condominio, in ragione dell'identità di ratio legis, cfr. Cass. n. 12343/2003. In senso conforme alla pronuncia in esame, Cass. n. 24645/2011 afferma che la nozione di «decoro architettonico» si identifica con l'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante dell'edificio e imprimono alle varie parti di esso una sua determinata, armonica fisionomia, con l'effetto che esso può ritenersi pregiudicato non da qualsiasi innovazione, ma soltanto da quella idonea ad interromperne la fine armonica delle strutture che conferiscono al fabbricato una propria identità (Cass. n. 14455/2009; Cass. n. 27551/2005), mentre Cass. n. 28919/2011 precisa che il decoro architettonico va valutato, in aderenza alla giurisprudenza consolidata di legittimità e ai sensi dell'art. 1120, comma 2, c.c. con riferimento al fabbricato condominiale nella sua totalità, soggiungendo che l'alterazione del decoro deve, inoltre, essere apprezzabile, dovendosi trovare una situazione di equilibrio tra i contrapposti interessi della comunità condominiale e quelli del singolo condomino che ha agito sulla sua proprietà esclusiva e deve tradursi, poi, in un pregiudizio economico comportante un deprezzamento dell'intero fabbricato e delle singole porzioni in esso comprese (Cass. n. 6640/1987; Cass. n. 16098/2003; Cass. n. 5899/2004; Cass. n. 5417/2002), salva, ovviamente, la prova contraria. In senso conforme alla considerazione svolta nella decisione in rassegna, a proposito della generica deduzione della «lesività dell'installazione di impianti e servizi comuni», ritenuti, significativamente, afferenti, comunque, ad «adeguamenti e aggiunte funzionali», Cass. n. 10350/2011 ha precisato che per la configurazione della lesione del decoro architettonico occorre che l'opera (innovazione ex art. 1120 c.c. o modificazione ex art. 1102 c.c.) si rifletta negativamente sull'insieme dell'armonico aspetto dello stabile a prescindere dal particolare pregio estetico dell'edificio e nello stesso senso si è pronunciata Cass. n. 8830/2008 con riferimento al comportamento del condomino proprietario delle unità abitative al piano terra e primo che, per realizzare un vano di circa mq. 25 da adibire a servizi igienici e cucina, aveva inglobato uno degli archi laterali asimmetrici del piano terra del fabbricato, interrompendo l'armonia del prospetto architettonico costituito dall'arco centrale di ingresso all'androne e da ciascuno dei due archi sugli altri lati. Più in particolare, in ordine all'analoga vicenda di negata autorizzazione all'allaccio di un'unità immobiliare sita in condominio alla rete idrica, fognante e citotelefonica, Cass. n. 21832/2007 osservava, condivisibilmente, che il giudice del merito aveva «correttamente rilevato che l'allaccio di nuove utenze a una rete non costituisce di per sé una modifica della stessa, perché una rete di servizi (sia fognaria, sia elettrica, idrica o di altro tipo) è per sua natura suscettibile di accogliere nuove utenze, per cui sarebbe stato, semmai, onere del condominio dimostrare che, nel caso particolare, l'allaccio di una sola nuova utenza avrebbe inciso sulla funzionalità dell'impianto, non potendo valere l'assunto secondo cui il divieto frapposto dall'assemblea era finalizzato ad impedire mutamenti di destinazione, perché il mutamento di destinazione di una unità immobiliare può essere impedito dal condominio solo ove detta limitazione sia prevista dal regolamento condominiale di natura contrattuale; né tale scopo può essere indirettamente perseguito frapponendo ostacoli all'uso di quei servizi comuni indispensabili all'eventuale mutamento, in violazione del diritto del condomino di esercitare sui beni comuni i poteri attribuitigli dall'art. 1102, comma 1, c.c.». Comunque, costituisce ius receptum che la valutazione circa l'alterazione del decoro architettonico si risolve in apprezzamento discrezionale istituzionalmente demandato al giudice di merito e, come tale, incensurabile in cassazione se congruamente motivato (ex multis, Cass. n. 10684/2011; e Cass. n. 10350/2011). Con riferimento alla pronunciata esclusione dell'incidenza dei tendaggi apposti sul terrazzo e, quindi non interessanti la facciata e la sagoma dell'edificio, la giurisprudenza di merito ritiene che l'apposizione di «tende da sole» nell'esercizio del diritto d'uso della cosa comune può incidere sul decoro architettonico (Trib. Monza 17 novembre 1990), mentre per l'installazione della canna fumaria cfr., ex multis: Cass. n. 10350/2011; Cass. 6341/2000. Per le opere visibili dall'esterno trova invece applicazione la norma in commento, in forza della quale devono considerarsi vietate le opere realizzate dal condomino nella proprietà esclusiva che comportino una lesione del decoro architettonico dell'edificio, non operando al riguardo la norma dettata dall'art. 1120 c.c. in tema d'innovazione delle parti comuni (Cass. II, n.2743/2005, concernente l'installazione di tettoie, che, pur essendo state realizzate nella proprietà esclusiva del condomino, comportavano un danno estetico alla facciata dell'edificio condominiale; nello stesso senso Cass. II, n.5612/2001). Costituisce effettiva lesione del decoro architettonico di un edificio condominiale, la realizzazione sull'ultimo piano, sul terrazzo di proprietà esclusiva del condomino, di un nuovo corpo di fabbrica (specificamente costituito da una veranda), che nulla ha a che fare, secondo le condivise prospettazioni del consulente d'ufficio, con la composizione prevista dal progettista, che è posto in maniera occasionale rispetto a quella previsione e che incombe sulla facciata principale dell'edificio. Una simile descrizione del manufatto esprime, invero, irrecuperabilmente la compromissione delle linee architettoniche e dell'aspetto armonico del fabbricato condominiale, dovendosi in tal modo intendere la completa differenziazione progettuale, la illogica sovrapposizione e la evidenza strutturale. L'opera predetta rientra concettualmente nella nozione di intervento sulla porzione di piano di proprietà personale, in quanto inerente ad un bene esclusivo come quelli menzionati nell'art. 1122 c.c., che non deve essere oggetto di modifiche che rechino danno alla cosa comune. (Cass. II, n. 2109/2015, che ha confermato la sentenza di merito presa in appello recante, conformemente alla sentenza di primo grado, la condanna del condomino alla demolizione ed eliminazione del manufatto). Si è già visto, nel commento all'art. 1120 c.c., che le norme di un regolamento di condominio – aventi natura contrattuale, in quanto predisposte dall'unico originario proprietario dell'edificio ed accettate con i singoli atti di acquisto dai condomini, ovvero adottate in sede assembleare con il consenso unanime di tutti i condòmini – possono derogare od integrare la disciplina legale, consentendo l'autonomia privata di stipulare convenzioni che pongano nell'interesse comune limitazioni ai diritti dei condomini, sia relativamente alle parti condominiali, sia riguardo al contenuto del diritto dominicale sulle porzioni di loro esclusiva proprietà. Ne consegue che il regolamento di condominio può legittimamente dare del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall'art. 1120 c.c., estendendo il divieto di innovazioni sino ad imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all'estetica, all'aspetto generale dell'edificio, quali esistenti nel momento della sua costruzione od in quello della manifestazione negoziale successiva (Cass. II, n.1748/2013; sulle limitazioni legittime della destinazione delle proprietà esclusive ad opera del regolamento condominiale, v. Cass. II, n.20237/2009; Cass. II, n.11684/2000; Cass. II, n.1195/1992; Cass. II, n. 49/1992). Ne deriva l'illegittimità di tutte le opere che violino quanto disposto dal regolamento condominiale (Cass. II, n. 12582/2015). Sul versante dottrinale, v. anche Corona, 984; Cuffaro, 829; Del Buono, 2892; Proto, 661; Ramella, 819; Zuddas, 1. Per altro verso, le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva, contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale, devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo tale da non lasciare alcun margine d'incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni. Trattandosi di materia che attiene alla compressione di facoltà normalmente inerenti alle proprietà esclusive dei singoli condomini, i divieti ed i limiti devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un'interpretazione estensiva delle relative norme. Non appare pertanto legittima un'interpretazione della norma regolamentare che non pone alcun espresso divieto all'utilizzo del locale a ristorazione in modo estensivo, comprimendo ulteriormente in modo arbitrario le facoltà del proprietario (Cass. II, n. 16832/2009). Ebbene, non occorre la verifica della sussistenza del pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio quando i parametri da osservare, in proposito, siano già contenuti nel regolamento contrattuale, tanto condominiale che di supercondominio. A quest'ultimo riguardo è stato recentemente affermato che la presenza, nel regolamento contrattuale di un supercondominio, del divieto di apportare modifiche strutturali, funzionali ed estetiche alle proprietà individuali rende superfluo, allorché si lamenti la sua violazione, l'esame giudiziale circa il rispetto, o meno, del decoro architettonico dell'intero complesso immobiliare (Cass. II, n. 14898/2013). D'altro canto, si osserva nella medesima pronuncia che le clausole del regolamento contrattuale le quali assoggettino al peso della immodificabilità ogni singola unità immobiliare oggetto di proprietà esclusiva, a vantaggio di tutte le altre unità immobiliari, anche quando creino vincoli valevoli per gli aventi causa dalle parti originarie, non possono essere considerate nulle per violazione del principio del numero chiuso delle obbligazioni reali, giacché non costituiscono obbligazioni propter rem, dando, bensì, origine ad una servitù reciproca. L'amministratore è legittimato, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea dei condomini, ad instaurare il giudizio per la rimozione di finestre aperte abusivamente da taluni condòmini, in contrasto con il regolamento, sulla facciata dello stabile condominiale, perché tale atto, diretto a preservare il decoro architettonico dell'edificio contro ogni alterazione dell'estetica dello stesso, è finalizzato alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, e pertanto ricade, ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c., tra le attribuzioni dell'amministratore, potendo il regolamento condominiale di origine contrattuale configurare un concetto di decoro architettonico più rigoroso della configurazione accolta dall'art. 1120 (Cass. II, n. 14626/2010; Cass. II, n. 13102/1997). L'azione a tutela del decoro architettonico dell'edificio condominiale, riconducibile all'art. 1122 c.c., trattandosi di opere realizzate da un condomino nella porzione di proprietà esclusiva ha natura reale, costituendo estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà, ed è perciò imprescrittibile, in applicazione del principio per cui in facultativis non datur praescriptio. Qualora, tuttavia, l'azione diretta alla riduzione in pristino ex art. 1122 c.c. riguardi un immobile comune a più persone, sussiste una causa inscindibile per ragioni sostanziali, comportante litisconsorzio necessario tra tutti i comproprietari medesimi, incidendo la condanna all'abbattimento sull'esistenza dell'oggetto della comproprietà spettante a persone estranee al processo (Cass. II, n. 4193/2017). In ordine alle c.d. «fioriere» esistenti in facciata e visibili all'esterno, Cass. n. 6624/2012 – affermando che i balconi aggettanti costituiscono un «prolungamento» della corrispondente unità immobiliare per cui appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, mentre soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore si debbono considerare beni comuni a tutti, quando si inseriscono nel prospetto dell'edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole – non ha condiviso il ragionamento del giudice del merito che le «fioriere» farebbero parte di un progetto complessivo dello stabile quale parte integrante del profilo architettonico, per cui devono ritenersi appartenere al condominio e non ai soli condomini proprietari del lastrico solare a cui accedono, come invece sembrerebbe più corretto e logico, precisando che, tenuto conto della conformazioni di tali manufatti (comuni «vasconi trapezoidali di calcestruzzo» posati sul cordolo e non sporgenti), deve escludersi o almeno deve dubitarsi, che gli stessi abbiano un qualche pregio artistico e facciano parte del decoro architettonico dell'edificio ovvero costituiscano parte integrante della struttura dello stabile, per cui, avuto riguardo inoltre alla loro prevalente funzione di protezione della terrazza, di cui fungono da parapetto non essendo al riguardo sufficiente ai fini protettivi il solo corrimano, così come in concreto realizzato. In ordine alla destinazione di un'area di giardino condominiale, in parte, a parcheggio autovetture dei singoli condomini e in parte a parco giochi, interessata solo in piccola parte da alberi di alto fusto e di ridotta estensione rispetto alla superficie complessiva, Cass. n. 15319/2011 ha ritenuto che tale modificazione non dia luogo a un'innovazione vietata dall'art. 1120 c.c., non comportando tale destinazione alcun apprezzabile deterioramento del decoro architettonico, né alcuna significativa menomazione del godimento e dell'uso del bene comune, ed anzi, da essa derivando una valorizzazione economica di ciascuna unità abitativa e una maggiore utilità per i condomini, mentre in senso contrario Cass. n. 4922/1977, aveva affermato che l'utilizzazione a parcheggio di autovetture private di un'area comune alberata, originariamente goduta come «parco-giardino», in relazione alla sua apprezzabile estensione, non si traduce in un miglioramento della cosa comune, ma comporta mutamento ed alterazione della destinazione della medesima, in pregiudizio dei diritti dei singoli condomini. Essa, pertanto, non può essere validamente deliberata dall'assemblea del condominio con le maggioranze previste per le innovazioni utili (art. 1120, comma 1, e 1136, comma 5, c.c.), ma postula l'unanimità di tutti i condomini. Sulla imprescrittibilità dell'azione a tutela del decoro architettonico, in quanto estrinsecazione di facoltà insita nel diritto di proprietà che può essere superata solo dalla prova della usucapione del diritto a mantenere la situazione lesiva, cfr. Cass. n. 7727/2000. Condominio e rapporti di vicinatoSi è già detto che l'art. 1122 c.c. si occupa delle ricadute sulle parti comuni delle opere eseguite nelle proprietà individuali, ma nulla dice delle medesime ricadute sulle altre unità immobiliari appartenenti ai singoli condomini. È stato in proposito osservato che il codice civile si occupa dei rapporti di vicinato «considerando il frazionamento fondiario in senso orizzontale [...], ma lo sviluppo che ha assunto il frazionamento in senso verticale impone una disciplina dei rapporti di vicinanza in senso verticale... I proprietari dei singoli piani non cessano di essere vicini solo perché i rispettivi fondi si trovano non uno accanto all'altro, ma uno sopra l'altro» (Biondi 1957, 940). In mancanza di specifiche disposizioni, secondo l'opinione tradizionale, devono dunque trovare applicazione le norme concernenti i rapporti di vicinato, almeno, osserva lo stesso autore, «finché applicabili e con gli opportuni adattamenti». È ad esempio scontata la limitata compatibilità della disciplina delle distanze dei tubi dal confine di cui all'art. 889 c.c. (sul tema Bordolli, 15). Non vi è ragione – viene altrimenti osservato – che i vicini debbano osservare determinate precauzioni quando li separa, ad es., un muro divisorio, unica cosa comune, e non debbano osservarle se hanno in comune anche il tetto o altre parti dell'edificio, in quanto il condominio non si costituisce certamente per accrescere i poteri dei singoli sui propri piani o per diminuire quei limiti che la legge pone altrimenti nei rapporti di vicinato, ma per utilizzare le stesse parti dell'edificio (scala, tetti, ecc.) a vantaggio di più appartamenti. Le norme in tema di distanze legali non dovranno essere osservate quando sono in contrasto con i principi fondamentali sui quali si regge il condominio, per cui sarebbe possibile aprire una finestra sul cortile anche senza rispettare le distanze dall'appartamento di un altro condomino, in quanto la funzione del cortile è quella di dare luce ed aria (Branca 1952, 1166). Per alcuni (Salis 1966, 462), l'applicazione delle norme sulle distanze legali, nel caso del condominio, diventa ipotizzabile solo teoricamente, dato che nella pratica il divieto che discende dall'applicazione di tali disposizioni viene eluso totalmente, perché contrastante con i principi che regolano l'uso ed il godimento delle cose comuni, o diventa del tutto superfluo, in quanto l'osservanza delle limitazioni o divieti peculiari alla comunione priva di ogni pratico rilievo il divieto derivante dalle disposizioni che impongono l'osservanza delle distanze legali. Non manca poi la diversa opinione della inapplicabilità della disciplina dei rapporti di vicinato e, in particolare, delle distanze entro l'ambito condominiale: «Occorre in proposito considerare che le norme in tema di distanze legali sono state concepite in funzione dei rapporti tra “fondi” confinanti (come risulta espressamente dalla intestazione della sezione VI del capo II del titolo I del libro III del codice civile), pur non potendosi negare che alcune di esse potrebbero trovare applicazione anche con riferimento a proprietà immobiliari comunque adiacenti. Ne consegue che l'estensione di tali disposizioni agli edifici in condominio potrebbe, in teoria, avvenire solo in via analogica, al che però osta, in pratica, la inesistenza di una lacuna da colmare» (Triola 1995, 665). Ai rapporti di vicinato in un'ottica di valorizzazione del principio personalistico, che vuole la persona, con i suoi interessi e le sue esigenze, al centro dell'ordinamento (Sesta, 1471). Le distanze in ambito condominiale Accennando alla soluzione giurisprudenziale data al problema delle distanze, sembra che la Suprema Corte aderisca, sebbene con numerosi distinguo, all'indirizzo tradizionale che guarda al rapporto tra discipline del condominio e delle distanze in termini di compatibilità (v., tra le tante di recente, Cass. II, n. 1989/2016, la quale ha confermato la sentenza di merito con la quale era stato affermato che era possibile una diversa collocazione delle tubazioni nel rispetto dell'art. 889 c.c., anche se, come sostenuto dal consulente tecnico d'ufficio, ciò comportava la necessità del rifacimento dell'impiantistica, ed era stato aggiunto osservato in proposito che lo stesso consulente tecnico d'ufficio aveva prospettato alcune ipotesi certamente fattibili: di guisa che, in definitiva, il giudice del merito aveva correttamente rilevato che in sede di ristrutturazione dell'immobile gli appellanti avrebbero potuto mettere a norma l'impiantistica rispettando sostanzialmente le distanze di cui all'art. 889 c.c.). Quanto all'applicazione in ambito condominiale della disciplina delle distanze dalle vedute (art. 907 c.c.) è stato ad esempio ribadito che il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in a piombo fino alla base dell'edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino (si trattava di un pergolato realizzato a copertura del terrazzo del sottostante appartamento), che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l'esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l'art. 907 c.c. il bilanciamento tra l'interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l'igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita (Cass. II, n. 955/2013). La giurisprudenza di merito si esprime in termini analoghi, affermando che le norme sulle distanze, rivolte fondamentalmente a regolare con carattere di reciprocità i rapporti fra proprietà individuali, contigue o separate, sono applicabili anche tra i condomini di un edificio condominiale, a condizione, però, che siano compatibili con la disciplina particolare relativa alte cose comuni; propriamente in ipotesi di contrasto la norma speciale in tema di condominio prevale e determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulla proprietà, allorché i diritti o le facoltà da tal ultima disciplina previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal condomino secondo i parametri del 1102 c.c.; in tal guisa non sembra ragionevole individuare, nell'utilizzazione delle parti comuni, limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi in tema di comunione (Trib. Bari 3 marzo 2017). Le norme sulle distanze – è stato altrimenti osservato, in una prospettiva viceversa prossima all'ultimo degli indirizzi dottrinali prima ricordato – sono applicabili anche tra i condòmini di un edificio condominiale, purché siano compatibili con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, cioè quando l'applicazione di quest'ultima non sia in contrasto con le prime; nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima. Pertanto, ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale (Cass. II, n. 6546/2010, che ha cassato la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabili alla costruzione di un balcone le norme in tema di vedute e non anche quella dell'art. 1102 c.c.; Cass. II, n. 7044/2004, Cass. II, n. 8978/2003). Emblematica di questo indirizzo è ad esempio la pronuncia che, in un caso in cui era domandata la rimozione di una tenda installata dalla convenuta nel balcone di sua proprietà, in ragione della lesione del diritto di veduta laterale esercitato dagli attori dal balcone di loro proprietà ubicato a fianco di quello della convenuta, ha confermato la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda, aveva ritenuto l'inapplicabilità delle norme sulle distanze in materia di vedute sul rilievo che i due balconi si trovavano a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 907 c.c. (Cass. II, n. 22838/2005). In diverse occasioni, la Suprema Corte si è misurata con la questione dell'edificazione di una veranda in luogo del preesistente balcone. Il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, non è soggetto, rispetto a questa, all'osservanza delle distanze prescritte dall'art. 907 c.c. nel caso in cui la veranda insista esattamente nell'area del balcone, senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario del balcone sovrastante, giacché l'art. 907 c.c. citato non attribuisce a quest'ultimo la possibilità di esercitare dalla soletta o dal parapetto del suo balcone una inspectio o prospectio obliqua verso il basso e contemporaneamente verso l'interno della sottostante proprietà (Cass. II, n. 15186/2011, che ha considerato illegittimità la condotta della parte che aveva realizzato sul proprio terrazzo una veranda pur in assenza di un balcone aggettante soprastante; la Suprema Corte ha in tal modo ribadito i principi di enunciati da Cass. II, n. 4190/2000; Cass. II, n. 13012/2000; Cass. II, n. 2873/1991; Cass. II, n. 3109/1993). Con riguardo a tale ultima decisione la dottrina ha osservato che «in tal modo, però, si dà per dimostrato che alle aperture esistenti nelle unità immobiliari di proprietà esclusiva corrispondono altrettante servitù di veduta» (Triola 2007, 271, il quale sostiene, come si è già ricordato, che le norme dettate in tema di distanze legali non sono applicabili nei rapporti tra condomini, in conseguenza della struttura dell'edificio comune, trovando applicazione esclusivamente l'art. 1102; sul tema v. anche Biondi 1961, 987; Bozza, 2838; Pironti, 810; Palmieri-Caputi, 353). Distinguendo ulteriormente, si è detto che il condomino che abbia trasformato il proprio balcone in veranda, elevandola sino alla soglia del balcone sovrastante, è soggetto alla normativa sulle distanze di cui all'art. 907 c.c. quando la costruzione insista su altra area del terrazzo non ricadente in quella del sovrastante balcone, mentre non è tenuto ad analogo rispetto qualora la veranda insista esattamente nell'area del balcone senza debordare dal suo perimetro, in modo da non limitare la veduta in avanti e a piombo del proprietario sovrastante (Cass. II, n. 17317/2007, che, pur cassando la sentenza di appello in accoglimento del ricorso incidentale, ha respinto il ricorso principale contro il capo della medesima pronuncia che aveva condannato il condomino alla demolizione del fabbricato realizzato in violazione dell'art. 907 c.c. nella parte relativa al superamento dei tre metri calcolati non dal parapetto, ma dal piano di calpestio del terrazzo sovrastante; analogamente Cass. II, n. 13012/2000). La trasformazione del balcone in veranda può dar luogo altresì ad una infrazione di rilievo penale. L'attività di trasformazione di un balcone in veranda per ottenere un vano lavanderia integra difatti un intervento di nuova costruzione ex art. 3, comma 1, lett. e), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, in quanto tali lavori ampliano il fabbricato al di fuori della sagoma preesistente con la conseguenza che la sua realizzazione in assenza di concessione edilizia costituisce (se non ricorre anche, come nella specie, la violazione paesaggistica) il reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. n. 380, citato (Cass. pen. III, n.28927/2011; Cass. pen. III, n.35011/2007; Cass. pen. III, n.3160/2002; Cass. pen. III, n.1758/1995). La veranda è cioè da considerare in senso tecnico-giuridico, una costruzione assoggettata al regime concessorio (Cass. pen. III, n.18507/2011, che ha confermato la sussistenza del reato di cui al d.P.R. n. 380, cit., art. 44, lett. b, e del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 181, addebitato all'interessato per avere, senza il permesso di costruire e senza il nulla osta paesaggistico, chiuso un balcone dell'immobile di proprietà comunale, condotto in locazione). È stato nello stesso ordine di idee precisato che «la trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia/permesso di costruire (Cass. pen. III, n.33039/2006, tra le altre). È stato ancor giudicato vietato apporre grate ad un balcone essendo state violate le distanze verticali stabilite dall'art. 907, comma 3, c.c. (Pret. Roma 18 aprile 1979). Analoghe regole trovano applicazione con riguardo alle distanze delle tubazioni. Il rispetto della normativa sulle distanze prevista dall'art. 889 c.c., che, per i tubi d'acqua pura o lurida, per quelli di gas e simili e loro diramazioni stabilisce la distanza di almeno un metro dal confine, è difatti reso intrinsecamente difficoltoso, talora impossibile, entro l'edificio condominiale. Tali norme, perciò, vanno applicate solo se compatibili con la struttura dell'edificio e la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei proprietari; pertanto, il giudice di merito deve accertare se la loro applicazione non sia irragionevole e, nel caso, concludere per la deroga alla norma; la deroga deve discendere quindi da necessità obiettive e non da esigenze soggettive del condòmino (Cass. II, n. 12633/2016). Viene osservato, in quest'ultima pronuncia, che il giudice del merito, nel ritenere che non ricorressero le condizioni per la deroga, in tema di condominio, alle prescrizioni di cui all'art. 889 c.c. dettate in materia di distanze legali, aveva fondato la decisione sul rilievo che la esigenza di dotare di servizi (relativi a cucina e bagno) nasceva da una scelta soggettiva della condomina e non era determinata dalle condizioni obiettive della struttura dell'edificio. Ed invero, secondo gli accertamenti compiuti nel corso del giudizio, l'appartamento era dotato di impianti pienamente funzionali mentre la necessità della installazione delle tubazioni a distanza illegale nasceva dalla esigenza della convenuta di suddividere l'immobile in due distinte ed autonome unità immobiliari, munite di bagno e cucina, al fine di collocarlo positivamente sul mercato immobiliare, attesa l'elevata metratura; peraltro, il consulente aveva accertato la possibilità di un tracciato diverso seppure con costi superiori. Ha dunque chiarito la Suprema Corte che in materia condominiale, le norme relative ai rapporti di vicinato, tra cui quella dell'art. 889 c.c., trovano applicazione rispetto alle singole unità immobiliari soltanto in quanto compatibili con la concreta struttura dell'edificio e con la particolare natura dei diritti e delle facoltà dei singoli proprietari; pertanto, qualora esse siano invocate in un giudizio tra condomini, il giudice di merito è tenuto ad accertare se la loro rigorosa osservanza non sia nel caso irragionevole, considerando che la coesistenza di più appartamenti in un unico edificio implica di per sé il contemperamento dei vari interessi al fine dell'ordinato svolgersi di quella convivenza che è propria dei rapporti condominiali. Ma evidentemente la deroga al rispetto delle distanze postula l'impossibilità di posizionare altrimenti le tubazioni – attesa la (necessaria) contiguità della unità immobiliari comprese nell'edificio condominiale. Viceversa nella specie, la installazione delle tubazioni a distanza illegale non era dovuta a una situazione strutturale obiettiva dell'edificio ovvero a necessità che rendevano irragionevole il rispetto delle distanze ma alla esigenza soggettiva del condomino di rendere commerciabile sul mercato l'immobile. Ed in proposito è stato ricordato che l'art. 1122 c.c. disciplina l'ipotesi in cui il condomino, realizzi opere e innovazioni nella proprietà esclusiva, consentendogli l'esercizio dei poteri dominicali semprechè non arrechi pregiudizio alle parti comuni (e comunque nel rispetto dell'altrui proprietà esclusiva del vicino). Il condomino ha il diritto di godere e disporre dell'appartamento, apportandosi modifiche o trasformazioni che ne possano migliorare la utilizzazione, peraltro con il limite di non ledere i diritti degli altri condomini (Cass. II, n. 2493/1967; Cass. II, n. 2683/1980): il che era per l'appunto quanto accaduto nella specie. Normalmente, in particolare, i bagni e le cucine sono incolonnati e serviti da tubazioni condominiali ascendenti e discendenti che necessariamente non rispettano tale distanza. D'altronde, le tubazioni di proprietà del singolo condomino sono di regola collocate nella soletta divisoria tra l'uno nell'altro piano, sicché anch'esse non possono rispettare la distanza prescritta. Proprio perciò, come si è visto, buona parte della giurisprudenza ha affermato che le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra i condòmini di un edificio condominiale solo quando siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni ed in particolare dell'art. 1102 c.c., mentre, in caso di contrasto, prevalgono le norme relative all'uso delle cose comuni. In concreto, ciò vuol dire che le distanze previste dall'art. 889 c.c. vanno rispettate, ma solo se ciò sia effettivamente possibile, avuto riguardo alla conformazione dell'edificio e delle unità immobiliari confinanti, nonché alla natura delle opere da realizzare. La disciplina di detta norma non opera dunque nell'ipotesi di installazione al servizio di un'unità immobiliare di proprietà esclusiva di impianti che, secondo l'incensurabile apprezzamento del giudice del merito, possano considerarsi indispensabili ai fini di una completa e reale utilizzazione dell'immobile; tale da essere adeguata all'evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene (Cass. II, n. 16958/2006; Cass. II, n. 7752/1995; Cass. II, n. 6885/1991; Cass. II, n. 11695/1990). D'altro canto non rileva, di per sé sola, la mancata concessione delle autorizzazioni amministrative: essa eventualmente rende soggetto l'autore delle opere abusive alle sanzioni ed ai provvedimenti che competono all'autorità ad esse preposte, nel perseguimento dei fini di pubblico interesse che le sono propri; ma non si concreta, per il vicino, in un diritto soggettivo all'eliminazione dell'opera, tutelabile dinanzi all'autorità giudiziaria ordinaria (Cass. II, n. 6885/1991). In tale contesto è stato affermato che la creazione o la modifica di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio medio, trattandosi di un'esigenza ormai talmente diffusa da rivestire quel carattere di essenzialità, giustifica la non applicazione negli edifici in condominio delle distanze di cui all'art. 889 c.c. soprattutto nei casi in cui la scelta della collocazione dei tubi è obbligata (Cass. II, n. 13313/2009). È stata parimenti cassata la pronuncia di merito che aveva ritenuto l'applicabilità dell'art. 899 c.c. ad una tubazione di gas metano a servizio del condominio collocata ad una distanza dal confine della singola unità esclusiva inferiore rispetto a quella prevista da detta norma (Cass. II, n. 16958/2006), mentre è stata per converso confermata la sentenza che aveva negato l'applicabilità della stessa norma con riguardo all'installazione di una canna fumaria lungo il muro perimetrale dell'edificio condominiale al fine della realizzazione di un impianto di riscaldamento (Cass. II, n. 3105/1981). Non è stata ritenuta sufficientemente motivata, invece, la decisione che aveva ritenuto legittima l'installazione a distanza inferiore a quella legale di una conduttura di scarico delle acque luride, a seguito di una ristrutturazione dei servizi, collocata, in sostituzione di quella preesistente situata all'interno dei muri portanti, sulla parete perimetrale esterna dell'edificio ed a distanza di circa 20 cm dallo stipite della finestra dell'appartamento al piano terra: in tal caso la Suprema Corte ha posto l'accento sull'esigenza di verificare se quella adottata fosse la migliore soluzione o se fosse preferibile la riattivazione della condotta di scarico già utilizzata anteriormente (Cass. II, n. 11695/1990). In materia condominiale, a fronte dell'illegittima realizzazione di un manufatto da parte condomino in violazione delle norme sulle distanze legali, il proprietario del singolo piano condominiale ha diritto ad esercitare, dalle proprie aperture, anche la veduta in appiombo, fino alla base dell'edificio e allo stesso è pertanto riconosciuto il diritto di opporsi a qualsiasi opera che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l'esercizio di tale diritto (App. Palermo 15 febbraio 2017, che ha disposto la rimozione di un manufatto realizzato da un condomino sul proprio balcone a meno di tre metri dalle finestre del condomino sovrastante). L'applicazione della disciplina delle distanze del condominio, tuttavia, trova un intuitivo limite nel caso in cui la conformazione dello stabile condominiale sia antecedente alla creazione del condominio. In tema di condominio degli edifici, cioè, la disciplina sulle distanze, in particolare di quelle di cui all'art. 889 c.c., non si applica in caso di opere eseguite in epoca anteriore alla costituzione del condominio, atteso che, in tal caso, l'intero edificio, formando oggetto di un unico diritto dominicale, può essere nel suo assetto liberamente precostituito o modificato dal proprietario anche in vista delle future vendite dei singoli piani o porzioni di piano, operazioni che determinano, da un lato, il trasferimento della proprietà sulle parti comuni (art. 1117 c.c.) e l'insorgere del condominio, e, dall'altro lato, la costituzione, in deroga (od in contrasto) al regime legale delle distanze, di vere e proprie servitù a vantaggio e a carico delle unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli acquirenti, in base a uno schema assimilabile a quello dell'acquisto della servitù per destinazione del padre di famiglia (Cass. II, n. 6923/2015, pronunciatasi con riferimento all'apertura di vedute – relative ad un edificio originariamente oggetto di proprietà esclusiva di una cooperativa – compiuta prima dell'alienazione delle singole unità immobiliari, evenienza ritenuta idonea ad integrare la condizione, rilevante ai sensi dell'art. 1062 c.c., della sussistenza di un'opera di asservimento, visibile e permanente, al momento dell'alienazione dei fondi da parte dell'unico originario proprietario; in senso conforme Cass. II, n. 139/1985). Immissioni nel condominio Sempre in tema di applicabilità in ambito condominiale dei limiti derivanti dai rapporti di vicinato, è ricorrente l'applicazione della disciplina delle immissioni. L'art. 844 c.c. è sicuramente applicabile tanto nei casi di immissioni tra le singole unità immobiliari, quanto nei casi di immissioni le unità immobiliari e le parti comuni. In tal senso già la remota Cass. II, n. 669/1959, affermava che: «La norma dell'art. 844, c.c. che vieta le immissioni in alienum, è applicabile anche ai rapporti di vicinato fra condòmini dello stesso edificio, qualora un condomino, nel godimento della cosa propria od anche della cosa comune, provochi immissioni moleste e dannose al condominio» (nello stesso senso Cass. II, n. 3772/1968; Cass. II, n. 570/1969; Cass. II, n. 3090/1993). Peraltro, dalla stessa conformazione dell'edificio condominiale discende che il diritto del singolo al godimento della proprietà esclusiva si estenda fino al punto di incontro-scontro con il diritto sulle parti esclusive o su quelle comuni degli altri partecipanti (Terzago 1966, 33). Circa il criterio della normale tollerabilità delle immissioni condominiali, vanno applicati i parametri consueti, con una duplice precisazione. In ambito condominiale è necessario tener conto sia delle peculiarità dei rapporti tra condòmini che della destinazione assegnata all'edificio dalle disposizioni urbanistiche. In particolare, nel caso in cui il fabbricato non adempia ad una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti, ad un tempo ad abitazione ed ad esercizio commerciale, il criterio dell'utilità sociale, cui è informato l'art. 844 c.c. impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condomini, privilegiando, alla luce dei principi costituzionali le esigenze personali di vita connesse all'abitazione, rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all'esercizio di attività commerciali (Cass. II, n. 3090/1993, concernente la rimozione dal muro perimetrale comune di una canna fumaria collocata nella parte terminale a breve distanza dalle finestre di alcuni condomini, destinata a smaltire le esalazioni di fumo, calore e gli odori prodotti dal forno di un esercizio commerciale ubicato nel fabbricato condominiale; si legge nella pronuncia che: «il criterio dell'utilità sociale, cui è informato l'art. 844 c.c., impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condomini, privilegiando, alla luce dei principî costituzionali (artt. 14,31,47 Cost.) le esigenze personali di vita connesse all'abitazione, rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all'esercizio di attività commerciali»). È in definitiva necessaria una maggiore ponderazione da parte del giudice nello scrutinare l'illiceità dell'immissione, tenuto conto della vicinanza estrema dei fondi (Mazzola, 725). Quanto alle prescrizioni dettate dal regolamento condominiale, nel quale possono essere esplicitamente vietati determinate condotte dati da comportare immissioni, il giudice è esonerato dal verificare in concreto la soglia della normale tollerabilità. Quando l'attività posta in essere da uno dei condòmini di un edificio, direttamente o tramite detentore qualificato, è idonea a determinare il turbamento del bene della tranquillità degli altri partecipi, tutelato espressamente da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non occorre cioè accertare al fine di ritenere l'attività stessa illegittima, se questa costituisca o meno immissione vietata ex art. 844 c.c., in quanto le norme regolamentari di natura contrattuale possono imporre limitazioni al godimento della proprietà esclusiva anche maggiori di quelle stabilite dall'indicata norma generale sulla proprietà fondiaria. Né, peraltro, in detta materia è applicabile la l. 26 ottobre 1995, n. 477, sull'inquinamento acustico, perché detta normativa attiene a rapporti di natura pubblicistica tra la P.A., preposta alla tutela dell'interesse collettivo della salvaguardia della salute in generale, ed i privati esercenti le attività contemplate, prescindendo da qualunque collegamento con la proprietà fondiaria (Cass. II, n. 4963/2001). La valutazione dell'intollerabilità dell'immissione, in altri termini, diviene superflua, essendo sufficiente esclusivamente verificare se il condomino abbia posto in essere l'attività vietata regolamento condominiale (Mazzola, 727). Al riguardo, in ordine alla concreta verifica della violazione del divieto di destinazione del singolo appartamento, qualora il regolamento non contenga un'elencazione delle attività vietate, ma faccia riferimento alla tipologia dei pregiudizi (Cass. II, n. 5393/1999; Cass. II, n. 9564/1997; Cass. II, n. 11126/1994; Cass. II, n. 4554/1986; Cass. II, n. 3629/1981). Qualora la violazione del divieto di destinare a determinati usi le unità immobiliari site nell'edificio condominiale sia posta in essere non direttamente dal condomino, ma dal suo inquilino, il condominio può agire direttamente nei confronti di quest'ultimo per ottenere la cessazione dell'attività da lui svolta (Cass. III, n.825/1997; Cass. III, n.5189/1988; Cass. III, n.15756/2001; sulla responsabilità del condomino-locatore verso il condominio, v. Cass. II, n. 8239/1997). La casistica giurisprudenziale è ampia (Cass. II, n. 4963/2001, concernente immissioni sonore provenienti da una birreria in cui si suonava musica dal vivo; Cass. II, n. 14353/2000, concernente immissioni sonore provenienti dal bagno del vicino; Cass. II, n. 9564/1997, concernente immissioni di odori, rumori, vibrazioni, umidità provenienti da un laboratorio di prodotti suini; Cass. II, n. 7143/1997, concernente immissioni derivate da una caldaia a gas metano installata su di un balcone; Cass. II, n. 3874/1997, concernente un aspiratore che convogliava verso l'esterno fumi ed odori di una pizzeria; Cass. II, n. 1485/1996, concernente immissioni provenienti da centrale termica; Cass. II, n. 3223/1995, concernente rumori provenienti da un cancello; Cass. II, n. 1195/1992, concernente immissioni causate da una tipografia ubicata nei locali del cantinato condominiale; Trib. Napoli 25 ottobre1990, concernente la violazione del divieto di tenere animali in casa, previsto da regolamento condominiale di natura contrattuale; sul possesso di animali v. pure Trib. Milano 28 maggio1990, su immissioni sonore da abbaiare di cani, oltre che da una batteria; Trib. Piacenza 10 aprile1990, su presenza di animali in casa, non espressamente vietata dal regolamento di condominio). Sulla prescrizione del diritto scaturente dal divieto del regolamento condominiale di adibire le unità immobiliari di proprietà esclusiva ad un determinato uso, v. Cass. II, n. 11684/2000. Con riguardo, infine, ai rimedi giudiziali alle immissioni intollerabili, occorre chiedersi entro che limiti il giudice investito di una domanda di cessazione di immissioni eccedenti la normale tollerabilità sia vincolato all'adozione di misure determinate. A tal riguardo occorre ribadire anzitutto che il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è mai assoluto, ma relativo alla situazione ambientale (dunque, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti), né può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati intollerabili (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti dell'art. 844 c.c. deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell'uomo medio e, dall'altro, alla situazione locale (Cass. II, n. 17051/2011; Cass. II, n. 5157/1983). Per altro verso, se è pur vero che è senz'altro illecito, ai sensi dell'art. 844 c.c., il superamento dei livelli di accettabilità stabiliti dalle leggi e dai regolamenti che, disciplinando le attività produttive, fissano nell'interesse della collettività le modalità di rilevamento dei rumori e i limiti massimi di tollerabilità, l'eventuale rispetto degli stessi non può fare considerare senz'altro lecite le immissioni (Cass. VI-II, n.1069/2017). Difatti, la norma di cui all'art. 844 c.c. e le leggi speciali in tema di inquinamento tutelano oggetti diversi (Cass. III, n.12091/1990), essendo destinate, rispettivamente, alla salvaguardia della proprietà fondiaria ed alla tutela della salute pubblica (Cass. III, n.4937/1981). Tale distinzione conserva attualità anche a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 6-ter d.l. n. 208 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 13 del 2009, cui non può aprioristicamente attribuirsi una portata derogatoria e limitativa dell'art. 844 c.c. (con l'effetto di escludere l'accertamento in concreto del superamento del limite della normale tollerabilità), dovendo comunque ritenersi prevalente, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata, il soddisfacimento dell'interesse ad una normale qualità della vita rispetto alle esigenze della produzione (Cass. III, n.20198/2016). Resta perciò afferma la regola, alla quale si è già fatto in precedenza riferimento, secondo cui, nell'applicazione dell'art. 844 c.c. in ambito condominiale, deve aversi riguardo alla peculiarità dei rapporti di vicinato delle case in condominio, nonché alla destinazione assegnata all'edificio dalle disposizioni urbanistiche o, in mancanza, dai proprietari: sicché, ove il regolamento contrattuale non disponga in maniera più rigorosa e stringente della menzionata disposizione (Cass. II, n. 4332/1997; Cass. II, n. 1195/1992), il fabbricato non adempia ad una funzione uniforme e le unità immobiliari siano soggette a destinazioni differenti – ad contempo abitative e commerciali – il criterio dell'utilità sociale, cui è informato l'art. 844 c.c. impone di graduare le esigenze in rapporto alle istanze di natura personale ed economica dei condomini, privilegiando, alla luce dei principi costituzionali ricavabili dagli artt. 14,31 e 47 Cost.) le esigenze personali di vita connesse all'abitazione, rispetto alle utilità meramente economiche inerenti all'esercizio di attività commerciali (Cass. II, n. 3090/1993). Deve poi aggiungersi che la verifica della normale tollerabilità ex art. 844 c.c. dà luogo ad un giudizio tecnico da formularsi, normalmente, attraverso consulenza tecnica d'ufficio, la quale ha natura percipiente, giacché soltanto un esperto può essere in grado di stabilire, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone, onde il ricorso alla prova testimoniale è ammissibile soltanto quando essa verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti e non si riveli espressione di giudizi valutativi (Cass. II, n. 1606/2017). D'altro canto, è stato in più occasioni ripetuto che il giudice, nel pronunciare sulla domanda di cessazione delle immissioni eccedenti la normale tollerabilità non vincolato all'adozione delle misure eventualmente indicate dall'interessato, ben potendo disporre le soluzioni, anche diverse da essa, di volta in volta più adeguate ad eliminare la situazione denunciata (Cass. VI-II, n.887/2011; Cass. II, n. 3547/1977). Ciò significa che l'adozione di misure dirette ad evitare il verificarsi di immissioni intollerabili non determina, qualora si tratti di misure diverse da quelle richieste, un vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c. Merita infine per completezza accennare che, quando venga accertata la non tollerabilità delle immissioni rumorose in un condomino, l'esistenza del danno è in re ipsa e, pertanto, il vicino, fino a quando il pregiudizio non viene eliminato, ha diritto ad ottenere il risarcimento del danno a norma dell'art. 2043 c.c. (Cass. II,n. 2864/2016). L'assenza di un danno biologico documentato non osta al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, allorché siano stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la prova del cui pregiudizio può essere fornita anche con presunzioni (Cass.S.U., n.2611/2017), né assume rilievo, quale causa di esclusione della responsabilità, la circostanza che le immissioni illecite provengano da impianti comuni (nella specie, l'impianto di riscaldamento centralizzato) a norma e mantenuti a regola d'arte, integrando comunque le immissioni moleste gli estremi di un'attività vietata (Cass. II, n. 23283/2014). I termini della questione sono ben chiariti in una recente pronuncia in cui si afferma che l'art. 844 c.c., sul divieto delle immissioni che superino la normale tollerabilità, mira alla tutela della proprietà nella sua pienezza, con riferimento alle multiformi esigenze di vita e di piena fruibilità del bene e non solo alla tutela della salute in quanto tale (Cass. II, n. 6786/2015). Tale decisione contiene un complessivo inquadramento sui parametri di riferimento per la valutazione dell'intollerabilità delle immissioni di cui all'art. 844 c.c. La pronuncia è stata resa in un caso in cui i condomini di uno stabile avevano agito nei confronti del titolare di una gelateria poiché questi aveva installato sotto i balconi dei loro appartamenti due condizionatori, lamentando, tra l'altro, la loro rumorosità, intollerabili ai sensi dell'art. 844 c.c. Respinta la domanda dal Tribunale, in sede di appello, sul rilievo che gli attori non avevano subito un pregiudizio alla salute, la Suprema Corte ha ritenuto che, pur essendovi stretta connessione tra le immissioni e il diritto alla salute, in un'interpretazione della norma costituzionalmente orientata e ormai consolidata, l'art. 844 c.c. mira alla tutela della proprietà nella sua pienezza. Il parametro da utilizzare per valutare la tollerabilità o meno delle immissioni non può limitarsi sic et simpliciter alla tutela del diritto della salute, dovendo estendersi alle multiformi esigenze di vita e di piena fruibilità del bene. Secondo la Suprema Corte, se si ammettesse la sussistenza di un nesso inscindibile tra l'intollerabilità delle immissioni ed il verificarsi di un danno alla salute, il soggetto che le subisce rimarrebbe sostanzialmente privato di tutela. Nell'operare il necessario bilanciamento di interessi occorrendo definitiva tener conto del diritto di proprietà inteso nella sua pienezza, e nella sua strumentalità di soddisfazione delle esigenze di vita rilevanti quand'anche non vi sia una compressione piena e assoluta della salute. Peraltro, in tema di immissioni moleste, l'uso meramente sporadico ed occasionale per riunioni condominiali (per poche volte nel corso di un anno e per non più di qualche ora in orario diurno o in prima serata) di un locale condominiale non può arrecare ai proprietari dell'appartamento adiacente alcun danno alla salute, con la conseguenza che non può ravvisarsi un obbligo risarcitorio ex art. 2043 c.c. (Cass. II, n. 661/2017; In termini analoghi, v. Cass. III, n.21172/2015; Cass. III, n.4394/2012; Cass. II, n. 5564/2010). L'avviso all'amministratoreLa vecchia formulazione dell'art. 1122 c.c. non prevedeva alcuna comunicazione preventiva, da parte del condomino, nell'esecuzione di opere sull'unità immobiliare di sua esclusiva proprietà: con la conseguenza che il controllo condominiale sulla liceità delle opere era destinato ad aver luogo esclusivamente ex post, dopo la loro esecuzione. Nell'attuale versione, la disposizione in commento stabilisce che il condomino debba preventivamente dare comunicazione delle opere che intende seguire all'amministratore, il quale ne riferisce all'assemblea. La novella, nell'investire preventivamente la compagine condominiale dell'intento del singolo condomino di dar corso ad opere dell'unità immobiliare a lui appartenenti persegue lo scopo di pervenire ad una deflazione della conflittualità condominiale, quantomeno quella destinata a sorgere non tanto in ragione dell'an dell'opera eseguita sulla proprietà solitaria, quanto del quomodo di essa. Attraverso la previsione dell'interessamento dell'assemblea, a mezzo dell'amministratore, tutti i condòmini sono difatti messi in condizione di esprimere preventivamente le proprie eventuali obiezioni in ordine all'opera da eseguire ed alle sue modalità. Per parte sua, nell'occasione dell'assemblea il condomino interessato potrà dare le opportune delucidazioni sui lavori da effettuare, consentendo se necessario l'accesso sui luoghi. BibliografiaBiondi, Uso della cosa comune e limiti legali della proprietà, in Giust. civ. 1961, I, 987; Biondi, Disciplina del condominio e limiti legali della proprietà in senso verticale, in Foro it. 1957, I, 940; Bordolli, Condominio ed art. 889 del codice civile: analisi dei principali problemi, in Immobili e proprietà 2010, 15; Bozza, La distanza delle costruzioni dalle vedute nel condominio, in Giust. civ. 1992, I, 2838; Branca, Distanze legali e condominio, in Foro it. 1952, I, 1166; Branca, Comunione. Condominio negli edifici, in Comm. S.B. III. 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Gabrielli, Della proprietà, III, a cura di Jannarelli-Macario, Torino 2013; Mazzola, Le immissioni, Torino, 2004; Palmieri-Caputi, Distanza delle costruzioni dalle vedute: misure fisse o modello variabile?, in Foro it. 2000, I, 353; Peretti-Griva, Il condominio di case divise in parti, Torino, 1960; Pironti, Chiose minime sull'applicabilità dell'art. 907 in tema di tende solari, in Nuovo dir. 1998, 810; Proto, Regolamento di condominio e limitazioni della proprietà: il punto su dottrina e giurisprudenza, in Riv. not. 1986, 661; Ramella, In tema di regolamenti condominiali, in Giur. it. 1983, 819; Salis, Impianto di ascensore e distanze legali, in Riv. giur. edil. 1966, I, 462; Salis, Il condominio negli edifici, Torino, 1959; Sesta, Rapporti personali di vicinato: immissioni, atti emulativi, privacy, in Riv. not. 2006, 1471; Terzago, Il condominio. 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