Codice Civile art. 1123 - Ripartizione delle spese.

Alberto Celeste

Ripartizione delle spese.

[I]. Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione [1104, 1118 2; 68 ss. att.].

[II]. Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne.

[III]. Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità [1124-1126; 63 att.].

Inquadramento

L'inevitabile degrado del patrimonio immobiliare esistente ha comportato un sensibile aumento delle spese di manutenzione e riparazione degli edifici; in particolare, la necessità di opere, talvolta radicali, interessanti le parti (sia esterne che interne) dei fabbricati urbani (pittura, rifacimento, sistemazione, restauro, ristrutturazione, ecc.) ha dato luogo ad interventi dispendiosi per il condominio nel suo complesso, che, nel contempo, hanno inciso in maniera rilevante nel bilancio del singolo partecipante.

Ciò ha comportato numerose problematiche sulle relative spese, che spesso hanno trovato «sfogo» nelle aule giudiziarie, coinvolgendo diversi profili che – tanto per accennarne alcuni – riguardano: a) l'individuazione di chi può statuire lo stanziamento dei fondi ed erogare le somme (amministratore, assemblea, singolo condomino); b) la verifica, in caso di competenza assembleare, delle necessarie maggioranze richieste dalla legge per la relativa approvazione (semplice, qualificata, agevolata); c) l'accertamento del soggetto obbligato alla contribuzione (condomino, acquirente o alienante, conduttore, usufruttuario o nudo proprietario, titolare apparente specie dopo l'istituzione della c.d. anagrafe condominiale); d) il riconoscimento del momento di nascita del debito (approvazione della spesa, ripartizione della stessa, attuazione dei lavori, rilevante per l'imputazione tra cedente e cessionario in caso di vendita medio tempore dell'unità immobiliare, per l'individuazione del dies a quo del semestre per la sua obbligatoria riscossione ex art. 1129, comma 9, c.c., per la decorrenza del termine quinquennale di cui all'art. 2948, n. 4, c.c.); e) la scelta dei modi di riscossione coattiva dei relativi contributi (giudizio ordinario o ricorso per decreto ingiuntivo, con conseguenze in ordine alla competenza del giudice ed alla connessione con la causa di impugnazione della delibera assembleare di approvazione della spesa).

Tuttavia, tra le questioni più controverse, sicuramente la disputa più accesa concerne la ripartizione delle spese, argomento questo che rappresenta, talvolta, solo il riflesso economico di questioni ancora più complesse che stanno, per così dire, a monte, come ad esempio quella circa l'appartenenza (comune o esclusiva) delle cose, dei servizi e degli impianti siti nell'edificio condominiale.

Peraltro, la materia in esame si presenta alquanto complessa, soprattutto in considerazione dell'articolata configurazione che possono assumere i diversi manufatti e dell'eterogeneità dei servizi forniti, nonché del fatto che la giurisprudenza – ammesso che sia concorde su un punto – può offrire una soluzione limitata ad alcune fattispecie concrete; d'altronde, va riconosciuto che la realtà edilizia presenta una molteplicità (quasi infinita) di diversificazioni, rendendo così impossibile applicare una regola univoca per tutte le tipologie ivi esistenti.

Senza contare che la stessa disciplina codicistica in tema di ripartizione delle spese – peraltro, non oggetto di rilevanti modifiche da parte della Riforma del 2013 – o detta criteri estremamente generici, non specificando la portata delle differenti espressioni usate, o utilizza una terminologia che non si caratterizza per chiarezza ed uniformità, oppure, in alcuni casi, si presenza addirittura lacunosa, considerando, ad esempio, che non si occupa tuttora del servizio di riscaldamento, dell'impianto di ascensore, del portiere.

Insufficienza del regime normativo

Prima, però, di addentrarci nell'analizzare la tematica relativa alle spese condominiali, è opportuna un'altra breve premessa per comprendere meglio la problematica che è oggetto del commento dell'art. 1123 c.c.

Si è rilevato sopra che sussiste un notevole margine di incertezza dell'attuale normativa codicistica in tema di ripartizione delle spese condominiali, il che è causa di perenni conflittualità, dovute anche ad altri fattori, quali la miopia o l'avarizia dei condomini, la trascuratezza nella redazione dei regolamenti condominiali, la vastità ed imprevedibilità della casistica edilizia, gli orientamenti ondivaghi della stessa giurisprudenza.

Tuttavia, tale incertezza, e conseguente conflittualità, si inserisce, più in generale, in un diffuso giudizio di insufficienza del vigente regime normativo condominiale.

Invero, l'entrata in vigore del codice civile del 1942, che dedicava al «condominio negli edifici» solo ventitré articoli, avveniva in un clima ben diverso da quello attuale, e forse soddisfaceva gli auspici e le aspettative dell'epoca: detto codice finì, nella sostanza, per recepire le previsioni del r.d.l. 15 gennaio 1934 n. 56, con cui il nostro legislatore, premiando l'iniziativa presa dalla Federazione nazionale della proprietà edilizia, aveva tentato una prima compiuta sistemazione della materia condominiale (è interessante segnalare che, ancor prima, il codice civile del 1865 dava un'attenzione solo indiretta nei confronti dell'istituto del condominio nell'àmbito dei titoli riservati alla comunione e alle servitù, ed in particolare il solo art. 562 si occupava della ripartizione delle spese).

La predetta connotazione storica della disciplina chiarisce il collegamento esistente tra la sistemazione data dal codice civile al condominio e la tutela della proprietà edilizia; la regolamentazione dei rapporti condominiali non si è risolta, però, essenzialmente nei problemi della proprietà individuale, tanto è vero che l'art. 1139 c.c. chiude ancora l'apposito capo II del titolo VII con un generico rinvio alle norme sulla comunione: questo richiamo, da un lato, ha coinvolto l'istituto del condominio nell'irrisolta disputa sulla sua natura giuridica – comproprietà necessaria, proprietà plurima, persona giuridica, ente di gestione, e quant'altro – ma, dall'altro, ha impedito un automatico «dissolvimento» della corrispondente complessa situazione di contitolarità nel più semplice diritto proprietario (Scarpa 2000, 25).

Sta di fatto, però, che la disciplina del condominio risulta sostanzialmente modellata sul valore della porzione di piano e ora dell'unità immobiliare: del resto, la reale intenzione del legislatore del codice civile è stata quella di predisporre un regime delle parti comuni e proporzionare poteri (di utilizzo) e doveri (di contribuzione) dei singoli partecipanti sulle cose comuni in base al valore della porzione appartenente a ciascuno.

Nel contempo, stante che il fine preminente di questa regolamentazione delle parti comuni risulta sempre il godimento delle porzioni oggetto di proprietà individuale, logica conseguenza è quella di restringere l'operatività di quella normativa all'àmbito dei rapporti tra i proprietari; in tal modo, si comprende il senso di incompletezza suscitato dall'esame della vigente disciplina condominiale, ogni qual volta gli scarni precetti di quel regime siano adattati (spesso invano) ad affrontare fattispecie esulanti dai rapporti tra i condomini, e piuttosto riguardanti situazioni soggettive spettanti a soggetti estranei alla compagine condominiale (Guida, 112; Ditta, 29).

Di tutto questo la Riforma della normativa condominiale, entrata in vigore il 18 giugno 2013, non si è preoccupata affatto, se non marginalmente ed in modo non risolutivo, ad esempio, integrando il disposto dell'art. 1124, comma 1, c.c. (nel senso di contemplare nel regime delle scale anche gli ascensori), ritoccando lievemente l'art. 1134 (intitolato ora «gestione di iniziativa individuale»), ed innovando l'attività di riscossione dei contributi condominiali (con una maggiore attenzione prestata nei confronti dei creditori del condominio).

Tale latitanza del patrio legislatore è, però, poco giustificabile, considerando che – come abbiamo visto – le problematiche in materia di riparto delle spese sono forse tra le cause più frequenti della realtà condominiale.

Tuttavia, qualche piccolo segnale di cambiamento si può intravedere già nella l. n. 220/2012, e gli interpreti più sensibili lo stanno avvertendo: tocca, quindi, agli operatori del settore, fare il punto della situazione, delineando gli orientamenti consolidati ed individuando le prospettive evolutive, senza mai dimenticare i risvolti pratici.

Terminologia codicistica

Avevamo accennato prima che la terminologia adoperata dal legislatore codicistico in tema di spese condominiali non si presenta del tutto puntuale, ma occorre partire proprio dal concetto di «spesa condominiale» perché, prima di analizzare i criteri di riparto, va verificato cosa si deve ripartire.

Invero, la stessa norma chiave in argomento, ossia l'art. 1123 c.c., non è un esempio di chiarezza: la rubrica che reca il titolo «ripartizione delle spese» non rispecchia puntualmente il contenuto, in quanto la prima parte della disposizione disciplina più l'imputazione che la ripartizione, mentre il comma 1 si riferisce alle spese per la conservazione, per il godimento, per la prestazione di servizi e per le innovazioni, laddove il comma 3 parla soltanto delle spese di manutenzione.

I successivi artt. 1124 e 1125 c.c. disciplinano, poi, le manutenzioni, le sostituzioni (sic!) e le ricostruzioni, rispettivamente, delle scale e degli ascensori, nonché dei soffitti, delle volte e dei solai, mentre l'art. 1126 c.c., occupandosi dei lastrici solari, menziona le riparazioni e le ricostruzioni.

Peraltro, tutte le altre norme contenute nel capo II dedicato al condominio non classificano con precisione le spese per le cose, gli impianti ed i servizi di uso comune, e non adoperano neppure espressioni uniformi: si parla di spese per la manutenzione ordinaria, la manutenzione straordinaria, la conservazione, il godimento, le innovazioni, la prestazione dei servizi, l'esercizio, la ricostruzione, la riparazione, e così via, mentre, per ciò che attiene più da vicino alla ripartizione, si operano connessioni varie all'uso, alla funzione, all'utilità e quant'altro (CelesteSalciarini 2005, 3).

È, quindi, evidente che, a fronte della già rilevata eterogeneità delle cose comuni e della molteplicità dei servizi forniti nell'àmbito condominiale, la disciplina dettata dal codice – purtroppo, non oggetto di aggiornamento da parte del legislatore riformatore – si rivela estremamente lacunosa, e, laddove è presente, non si chiarisce la portata della terminologia utilizzata.

Senza dimenticare, infine, che, individuata la norma applicabile ad una fattispecie, quest'ultima presenta una varietà di sfaccettature che ne impediscono un'esatta classificazione; si pensi ai balconi, che comprendono il parapetto, la ringhiera, il frontalino, il marcapiano, la soletta divisoria, il piano di calpestio, o si pensi alle scale, che sono composte da muri, pianerottoli, gradini, passamani, finestre, ringhiere, alzate, pedate, luci, vetrate, e chi più ne ha più ne metta (e ciascuno di tali elementi potrebbe essere soggetto a diverse discipline).

Deve, comunque, trattarsi di spese condominiali «necessarie», ossia erogazioni destinate ad assicurare alle cose comuni la destinazione che devono realizzare e costituenti le finalità del condominio (si pensi ai muri maestri), oppure quelle concernenti opere destinate alle parti comuni dell'edificio elencate nell'art. 1117, nn. 2) e 3), c.c. (si pensi ai locali per la portineria, come anche i locali destinati ai servizi comuni, come lavanderia, stenditoi, serbatoi dell'acqua, sale giochi, sedi di assemblea, uffici di deposito della documentazione condominiale, ecc.) o intese ad assicurare il funzionamento dei relativi servizi (si pensi al riscaldamento), sicché, ad esempio, non dovrebbero comprendersi le utilità derivanti ai condomini dall'adesione del condominio all'associazione della proprietà edilizia (fattispecie affrontata ex professo da Cass. II, n. 227/1977).

Conservazione delle parti comuni dell'edificio

Prima di passare ad esaminare i criteri adottati dal legislatore codicistico per la ripartizione delle spese condominiali, è opportuno, innanzitutto, chiarire il concetto di «spesa condominiale», prendendo le mosse proprio dalla norma chiave in tema di ripartizione, ossia l'art. 1123 c.c. (con rilievi che potranno essere «esportati» anche nella trattazione dei successivi artt. 1124, 1125 e 1126 c.c., al cui commento si rinvia).

In primo luogo, il comma 1 del predetto disposto definisce «condominiali» le spese necessarie alla «conservazione» delle parti comuni dell'edificio.

La norma in oggetto parla anche di «godimento» di tali parti comuni, ma è ovvio che, per poterle utilizzare, occorre prima mantenerle in efficienza, anche se, a stretto rigore, le spese per la «conservazione» sono quelle che attengono all'integrità del bene (ad esempio, riparazioni, ricostruzioni, ecc.), mentre quelle per il «godimento» sono quelle concernenti l'uso del bene e la prestazione dei servizi (ad esempio, energia elettrica, carburante, pulizia delle scale, ecc.).

La distinzione, a prima vista, si rivela incerta, poiché in effetti è difficile distinguere il deterioramento della cosa prodotto dall'uso da quello prodotto dalla vetustà, ma i giudici di legittimità hanno avuto modo di distinguere con dovizia di argomentazioni i due concetti (v., soprattutto, Cass. II, n. 8292/2000).

Sul punto, anche la migliore dottrina (Corona 1987, 929) ha messo in luce che il codice distingue le spese avuto riguardo al fine, che l'obbligazione di contribuire alle spese persegue, ed al fondamento da cui l'obbligazione medesima ha origine; la differenza tra il valore capitale di un bene ed il costo del suo uso è evidente; la funzione ed il fondamento delle spese occorrenti per la conservazione del valore capitale, vale a dire per tutela o per il ripristino della sua integrità, sono diversi rispetto alla funzione ed al fondamento delle spese necessarie per il godimento.

Orbene, la diversità oggettiva della funzione e del fondamento si riverbera sui soggetti, ai quali i contributi vengono imputati, perché alla conservazione sono interessati i proprietari, mentre, all'uso, chiunque lo eserciti; siffatta diversità si rinviene nell'art. 1104 c.c., il quale distingue con chiarezza due specie di spese comprensive di tutte le altre: le spese per la conservazione e quelle per il godimento (ovverosia per l'uso); da questa disposizione si ricava il principio, che regola il regime dell'imputazione e della suddivisione delle spese tanto in materia di comunione in generale, quanto nella specifica materia del condominio negli edifici.

La distinzione delle spese per le cose, gli impianti ed i servizi comuni secondo il criterio della funzione e del fondamento, accolto dall'art. 1104 c.c., riguarda anche il condominio negli edifici, in quanto anche nel condominio dall'art. 1123 c.c. tutte le spese vengono imputate e ripartite avuto riguardo al fondamento ed alla funzione; i contributi per la conservazione si ascrivono sempre in ragione dell'appartenenza e si dividono in proporzione alle quote: vale a dire, della funzione e del fondamento immediati e indipendentemente dal vantaggio soggettivo espresso dalla destinazione delle parti a servire in misura diversa; le spese per l'uso, le quali hanno origine dal godimento soggettivo e personale, tenuto conto appunto della funzione e del fondamento, si suddividono in proporzione all'uso e, quindi, della misura di esso.

Per la verità, la funzione ed il fondamento delle due obbligazioni sono diversi; le spese per la conservazione costituiscono delle obbligazioni propter rem, nelle quali il nesso immediato tra l'obbligo e la res non è modificato dall'interferenza di nessun elemento soggettivo, sicché il quantum resta sempre commisurato alla proporzione espressa dalla quota che, per determinazione normativa, esprima la misura dell'appartenenza; il contributo riflette l'estensione dell'oggetto del diritto, da cui l'obbligazione ha origine (ed a questa regola si deroga eccezionalmente, in casi determinati in modo tassativo).

L'obbligazione di concorrere alle spese per l'uso, invece, scaturisce dall'uso, cioè da un fatto soggettivo, personale e mutevole e, ciò che più conta, indipendentemente dalla misura proporzionale dell'appartenenza; perciò, il contributo è adeguato al godimento che, in ordine alla stessa cosa, può cambiare da un condominio all'altro in modo del tutto autonomo rispetto al valore della quota (Triola 2003, 364).

Quanto all'imputazione ed alla ripartizione dei due tipi di spese, l'ordinamento attribuisce rilevanza decisiva a due dati non omogenei: esclusivamente al rapporto di diritto, nel primo caso; essenzialmente alla relazione di fatto, nel secondo; per le spese per la conservazione, al rapporto di diritto costituito dal condominio; per le spese per l'uso, alla relazione di fatto consistente nel godimento compiuto, peraltro, nell'esercizio di una facoltà inerente al diritto di condominio.

Manutenzione ordinaria e straordinaria

Chiarito ciò, va rilevato che, per «conservazione», secondo il significato più comune del termine, si deve intendere soprattutto la «manutenzione», così da rientrare tutte le spese necessarie per assicurare che i beni comuni conservino la loro funzionalità ed utilità; si parla anche di «riparazione», che però fa pensare all'attività volta a rimediare ad un'alterazione già verificatasi, mentre con la manutenzione si intende piuttosto l'opera che previene la detta alterazione (le due attività si pongono quasi come ante e post).

L'attività di manutenzione, tradizionalmente, si distingue in ordinaria e straordinaria: nella prima, potrebbe rientrare l'intervento programmabile periodicamente, anche se a distanza di tempo, senza carattere di urgenza, ed ogni piccola riparazione, mentre la seconda comprende ogni intervento che si rende necessario per eventi di carattere eccezionale, sia per la loro infrequenza, sia per la loro rilevanza economica (Melis, 693).

Esempi della prima attività potrebbero essere – anche se non esaustivi – la tinteggiatura delle finestre delle scale, la sostituzione delle lampadine dell'androne, la riparazione delle serrature del portone, la sostituzione dei portoncini di accesso alle cantine, la disostruzione di una fognatura, la liberazione di un canale di scarico, la pulizia dei cortili, la sistemazione dei giardini, e in generale le opere destinate a preservare la costruzione dagli agenti atmosferici e dalle infiltrazioni d'acqua (piovana o sotterranea); nell'àmbito della seconda, potrebbero rientrare il rifacimento della facciata, il cambio del motore dell'ascensore, il rinforzo delle fondazioni, la rimozione dei cornicioni pericolanti, la sostituzione della caldaia per il riscaldamento, il prosciugamento della cantina, il rifacimento del tetto, la riparazione della fognatura; oppure quegli interventi correlati ad eventi imprevisti e imprevedibili, determinati da caso fortuito o da forza maggiore, quali, ad esempio, i guasti derivanti dalla caduta di un fulmine, da un incendio o da un terremoto (argomento, quest'ultimo, purtroppo di grande attualità).

Più tecnicamente, rientrano nell'ordinaria manutenzione i lavori che, per la naturale deteriorabilità della cosa, si rendono necessari per il perfetto uso e godimento della cosa stessa, lavori periodici che servono a mantenere la cosa in efficienza; rientrano, invece, tra la straordinaria manutenzione quei lavori che si rendono opportuni saltuariamente, per il sopravvenire di un guasto o di un'alterazione o di un danno prodotto occasionalmente da un fattore fisico o naturale che non poteva prevedersi.

A ben vedere, però, la definizione della linea che separa i due concetti si presenta incerta, perché tutte le spese sono in qualche modo necessarie e tendono alla conservazione del bene comune, cioè per premunire o reintegrare lo stesso dal lento e quotidiano logorio naturale, anche se ve ne sono alcune che esorbitano per valore o per importanza speciale (tecnica e architettonica).

Comunque, il discrimen tra intervento di manutenzione ordinaria e straordinaria non ha influenza in ordine alla ripartizione delle relative spese, in quanto la stessa deve sempre avvenire secondo il criterio della partecipazione proporzionale al valore delle singole proprietà; in proposito, si è aggiunto (Cass. II, n. 18082/2012) che le spese dei lavori di manutenzione straordinaria delle parti comuni deliberati dall'assemblea si ripartiscono tra i condomini secondo le tabelle millesimali, ai sensi dell'art. 1123 c.c., sicché ricorrono le condizioni di liquidità ed esigibilità del credito, che consentono al condominio di richiederne il pagamento con procedura monitoria nei confronti del singolo condomino (diverso è il discorso in ordine all'imputazione delle spese in caso di immobile soggetto al regime di usufrutto, v. art. 67 disp. att. c.c. al cui commento si rinvia).

Una rilevanza della predetta distinzione può, invece, riguardare l'organo deputato ad intraprendere la relativa iniziativa, in quanto la Riforma del 2013 ha ribadito che la manutenzione ordinaria può essere disposta direttamente dall'amministratore nell'àmbito dei suoi poteri (art. 1130, n. 3, c.c.), mentre solamente l'assemblea può decidere interventi di manutenzione straordinaria (art. 1135, n. 4, c.c.).

Un utile ausilio ci proviene da una recente precisazione del Supremo Collegio (Cass. II, n. 10865/2016), secondo il quale il criterio discretivo tra atti di ordinaria amministrazione, rimessi all'iniziativa dell'amministratore nell'esercizio delle proprie funzioni e vincolanti per tutti i condomini ex art. 1133 c.c., ed atti di amministrazione straordinaria, al contrario bisognosi di autorizzazione assembleare per produrre detto effetto, salvo quanto previsto dall'art. 1135, comma 2, c.c., riposa sulla “normalità” dell'atto di gestione rispetto allo scopo dell'utilizzazione e del godimento dei beni comuni, sicché gli atti implicanti spese che, pur dirette alla migliore utilizzazione delle cose comuni o imposte da sopravvenienze normative, comportino, per la loro particolarità e consistenza, un onere economico rilevante, necessitano della deliberazione dell'assemblea condominiale.

In pratica, l'amministratore dovrà curare che i beni comuni siano mantenuti e riparati con le opere necessarie alla loro conservazione, così come dovrà curare che i servizi e gli impianti siano funzionanti, e nell'uno e nell'altro caso potrà spendere le somme opportune anche senza una specifica autorizzazione da parte dell'organo gestorio; così, ad esempio, gli esborsi relativi alla sostituzione di una chiave, al ripristino delle originarie condizioni di illuminazione, ecc. possono essere effettuati di propria iniziativa dall'amministratore, oppure i contributi, le utenze, i premi assicurativi, le spese per riscaldamento, ecc. sono dovuti a scadenze fisse e rispetto ai quali l'amministratore provvede in base ai suoi poteri e non quale esecutore delle delibere assembleari.

L'assemblea, dal canto suo, è competente, in via esclusiva e assoluta, per le opere di manutenzione straordinaria, in cui possono ricomprendersi, le riparazioni o le sostituzioni dovute ad avvenimenti imprevisti e che, al tempo stesso, siano di notevole entità; ciò trova conferma nel comma 2 dell'art. 1135 c.c. che ribadisce il divieto di qualsiasi provvedimento dell'amministratore in merito a queste ultime opere, salvo che siano interventi urgenti e con l'obbligo di riferire nella prima assemblea, e nell'art. 1134 c.c. secondo cui il singolo condomino non può effettuare spese, anche migliorative, per la gestione delle cose comuni se non ha avuto l'autorizzazione dell'assemblea o dell'amministratore, potendo chiederne il rimborso solo nel caso si tratti di spesa urgente.

In quest'ordine di concetti, è condivisibile la recente affermazione (Cass. II, n. 6833/2017), ad avviso della quale il contratto stipulato dall'amministratore, qualora implichi l'obbligo di sostenere le spese relative ad un bene non rientrante tra le parti comuni dell'edificio condominiale, assume efficacia vincolante nei confronti dei condomini solo in virtù di uno speciale mandato rilasciato da ciascuno di essi, o della ratifica del pari proveniente da ognuno, atteso che, trattandosi di ipotesi estranea all'àmbito di operatività dei poteri rappresentativi di cui agli artt. 1130 e 1131 c.c., è necessaria la sussistenza, in capo all'amministratore predetto, di un potere di rappresentanza convenzionale (fattispecie relativa ad un contratto avente ad oggetto l'assunzione di oneri di manutenzione di un cancello elettrico utilizzato dai condomini per il transito su di un'area di proprietà esclusiva di un terzo).

Controversa, invece, è la competenza per ciò che attiene agli interventi straordinari c.d. necessitati, ossia imposti dalla normativa di settore per l'adeguamento degli impianti – la ripartizione delle relative spese sarà affrontata infra – che, peraltro, espongono l'amministratore, in caso di inosservanza, a responsabilità di vario livello (si pensi alla legislazione speciale in tema di sicurezza, che può interessare gli impianti termici, l'ascensore, il montacarichi, il cancello elettrico, le antenne, l'autoclave, le insegne, il citofono, l'illuminazione, ecc.); trattandosi di interventi straordinari dovrebbero essere di competenza esclusiva dell'assemblea, ma l'amministratore è tenuto a sottoporre tempestivamente la relativa decisione all'organo gestorio, salvo, in caso di inerzia di quest'ultimo, o dimettersi (come forma estrema), oppure sottoporre la questione al giudice perché adotti i provvedimenti necessari (ai sensi dell'art. 1105, ultimo comma, c.c.).

Riparazioni di notevole entità

Da ricordare, infine, che, quanto alla maggioranza assembleare, a norma del comma 4 dell'art. 1136 c.c., «le deliberazioni che concernono...riparazioni straordinarie di notevole entità... devono essere sempre prese con la maggioranza stabilita dal secondo comma», ossia quella che rappresenta almeno la metà del valore dell'edificio (oltreché la maggioranza degli intervenuti alla riunione), mentre per le opere di manutenzione «straordinaria», che comportano una spesa di normale entità, è sufficiente un quorum che rappresenti un terzo del valore dell'edificio (unitamente al terzo degli intervenuti).

Per una particolare fattispecie in merito al contratto di appalto, i magistrati di Piazza Cavour (Cass. II, n. 517/1982) hanno statuito che la deliberazione assembleare in ordine a riparazioni straordinarie di edificio in condominio, da assumere con la maggioranza prescritta dall'art. 1136, comma 4, c.c., ove non deleghi fiduciariamente a terzi la scelta dell'impresa cui commettere l'esecuzione dei lavori, ha come elemento essenziale ed inscindibile tale scelta, date le rimarchevoli conseguenze, nei riguardi del condominio, ricollegabili alla puntuale esecuzione o meno del contratto di appalto, sicché, una volta designato l'appaltatore, ai sensi della norma citata, contestualmente all'approvazione dei lavori, la sostituzione del medesimo non può essere deliberata che con la stessa suindicata maggioranza.

In ordine al requisito della «notevole entità», nel silenzio del legislatore al riguardo – a parte il caso della ricostruzione dell'edificio, pure richiamato nel citato comma 4 – stabilire se una spesa sia o meno di notevole entità, comporta una valutazione non agevole; potrebbe essere utile il criterio dell'ammontare oggettivo della somma occorrente, del rapporto tra la stessa ed il costo delle comuni riparazioni straordinarie, dell'incidenza della spesa in relazione al valore economico della proprietà comune, dell'entità dell'esborso ricadente sui singoli condomini (si pensi alle spese per il rifacimento di una facciata dell'edificio condominiale); l'importante è che non si faccia riferimento al reddito variabile di ciascun condomino, perché, ovviamente, una spesa notevole per uno potrebbe essere irrilevante per un altro, e viceversa.

Al riguardo, i giudici di legittimità hanno chiarito che, in tema di riparazione di un edificio condominiale, l'individuazione della «notevole entità» delle riparazioni straordinarie – la cui approvazione esige, ai sensi del comma 4 dell'art. 1136 c.c., la maggioranza qualificata indicata nel capoverso – deve ritenersi affidata, in assenza di un criterio normativo, alla valutazione discrezionale del giudice del merito; in proposito, i criteri della proporzionalità tra la spesa ed il valore dell'edificio e la ripartizione di tale costo tra i condomini configurano non un vincolo ed un limite della discrezionalità, bensì un ulteriore ed eventuale elemento di giudizio, nel senso della possibilità per il giudice di tener conto, nei casi dubbi, oltre che dei dati di immediato rilievo, cioè dell'ammontare complessivo dell'esborso occorrente per la realizzazione delle opere, anche del rapporto tra quei tre elementi (costo delle opere, valore dell'edificio ed entità della spesa ricadente sui singoli condomini) quando quel dato, per la sua entità, non appaia risolutivo (Cass. II, n. 810/1999).

Ne consegue la legittimità della maggiore incidenza riconosciuta all'uno piuttosto che all'altro degli elementi di giudizio, e della sufficienza, ai fini del corretto adempimento dell'obbligo di motivazione, delle risultanze reputate determinanti in ordine alla valutazione della sussistenza della «notevole entità» della spesa deliberata (Salciarini 2010, 23).

In senso conforme, si sono espresse altre pronunce, secondo cui, in tema di riparazioni di edificio condominiale, l'individuazione, agli effetti dell'art. 1136, comma 4, c.c., della «notevole entità» delle riparazioni straordinarie deve ritenersi affidata, in assenza di un criterio normativo, alla valutazione discrezionale del giudice del merito, rispetto alla quale l'estremo della proporzionalità tra spesa e valore dell'edificio configura, non un vincolo e limite della discrezionalità, bensì un eventuale elemento di giudizio, nel senso della possibilità per il giudice di tener conto, nei casi dubbi, oltre che dei dati di immediato rilievo, cioè dell'ammontare oggettivo della somma occorrente e del rapporto tra la stessa ed il costo delle comuni riparazioni straordinarie, anche dell'importanza economica dell'immobile, con la conseguenza della legittimità della maggiore incidenza riconosciuta all'uno piuttosto che all'altro degli elementi di giudizio e della sufficienza, ai fini dell'obbligo di motivazione, dell'indicazione delle risultanze reputate determinanti in ordine alla «notevole entità» o meno della spesa deliberata (Cass. II, n. 15/1982).

Nella stessa ottica, si pongono, più di recente, i giudici di Piazza Cavour, ad avviso dei quali, in tema di assemblea di condominio, l'individuazione, agli effetti dell'art. 1136, comma 4, c.c. – approvazione con maggioranza degli intervenuti rappresentanti metà del valore dell'edificio – della “notevole entità” delle riparazioni straordinarie è rimessa, in assenza di un criterio normativo, alla valutazione discrezionale del giudice di merito, che può tenere conto senza esserne vincolato, oltre che dell'ammontare complessivo dell'esborso necessario, anche del rapporto tra tale costo, il valore dell'edificio e la spesa proporzionalmente ricadente sui singoli condomini (Cass. II, n. 26733/2008).

Prestazione dei servizi nell'interesse comune

Proseguendo la lettura del comma 1 dell'art. 1123 c.c., sono «condominiali» – oltre quelle sopra analizzate relative alla conservazione ed al godimento delle parti comuni dell'edificio – le spese «per la prestazione dei servizi nell'interesse comune».

Tra le suddette spese quelle che hanno sollevato maggiori dubbi sono le spese per il servizio di riscaldamento (in questa sede, si analizzeranno i risvolti riguardanti il godimento del medesimo servizio, con tutte le problematiche connesse all'esistenza, e in che misura, del relativo obbligo contributivo a causa dell'omessa o insufficiente erogazione, mentre la tematica del distacco è disciplinata dal novellato art. 1118, comma 4, c.c., al cui commento si rinvia).

Iniziamo con il premettere che l'impianto di riscaldamento è compreso tra i beni rispetto ai quali si applica la c.d. presunzione di comunione di cui all'art. 1117, n. 3), c.c. (la Riforma del 2013 vi affianca l'impianto di «condizionamento dell'aria»): la presunzione opera, però, soltanto per quella parte di impianto che può ritenersi «centrale», e quindi comune, e cioè la caldaia e le condutture che da essa si dipartono, e ciò fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, che si presumono di proprietà esclusiva, in quanto finalizzate a soddisfare le esigenze del singolo, alimentando unicamente i termosifoni allocati all'interno dell'appartamento (con le evidenti conseguenze in tema di responsabilità, per esempio, per danni da infiltrazioni).

Tutto ciò, ovviamente, in difetto di titolo contrario riguardo all'individuazione delle parti comuni dell'edificio ai sensi del citato art. 1117; invero, tale titolo contrario, di solito costituito dal regolamento di condominio, avente natura contrattuale – o perché predisposto dall'originario unico proprietario e richiamato espressamente, quale parte integrante, negli atti di acquisto delle singole unità immobiliari facenti parte dell'edificio, oppure perché adottato con consenso unanime di tutti i partecipanti, manifestato nelle dovute forme – potrebbe sia negare la comproprietà dell'impianto di riscaldamento in capo ad uno o più condomini, sia estendere la stessa anche oltre la diramazione sopra indicata.

In questa prospettiva, è pienamente condivisibile il principio secondo cui, qualora un regolamento avente natura contrattuale stabilisca che i condomini sono tenuti a sostenere le spese necessarie per la manutenzione e l'esercizio dell'impianto di riscaldamento anche nelle diramazioni interne dei singoli appartamenti, prevedendo espressamente che anche tali diramazioni sono di proprietà comune, non trova applicazione, ai sensi dell'art. 1138, ultimo comma, c.c., la regola sancita dall'art. 1123, comma 2, c.c., a norma della quale le cennate spese vanno commisurate al coefficiente di utilità derivante a ciascuna unità immobiliare dal servizio di riscaldamento, con la conseguenza che le spese di manutenzione straordinaria e quelle consequenziali di restaurazione dell'immobile non possono far carico per intero al condomino proprietario dell'appartamento nell'àmbito del quale è stato necessario intervenire, bensì per esse si configura l'obbligo di ripartizione tra tutti i condomini, secondo la regola generale dettata dal comma 1 dell'art. 1123 c.c. per le spese di manutenzione delle cose comuni (Cass. II, n. 4717/1980).

Vista la problematica sotto un diverso angolo di visuale, i criteri stabiliti dall'art. 1123 c.c. in tema di ripartizione delle spese del servizio di riscaldamento possono essere derogati soltanto da una convenzione sottoscritta da tutti i condomini, o da una deliberazione presa dagli stessi in sede assembleare con l'unanimità dei consensi dei partecipanti al condominio, non essendo consentito all'assemblea, deliberando a maggioranza, di porre le spese di riparazione degli impianti singoli a carico indistintamente di tutti i condomini (Cass. II, n. 12307/1991).

Peculiare si presenta, invece, la fattispecie relativa al riparto delle spese del riscaldamento centralizzato di un edificio in un condominio ove sia stato adottato un sistema di contabilizzazione del calore che devono essere ripartite in base al consumo effettivamente registrato, risultando perciò illegittima una suddivisione di tali oneri - sia pure solamente parziale - alla stregua dei valori millesimali delle singole unità immobiliari, giacché tale criterio di riparto delle spese è possibile solo in assenza di sistemi di misurazione del calore erogato valevoli a ripartirle in base all'uso (Cass. II, n. 18045/2024; in senso conforme, si pone Cass. II, n. 28282/2019, la quale ha aggiunto che, al tal fine, non possono rilevare i diversi criteri di riparto dettati da una delibera di giunta regionale, che pur richiami specifiche tecniche a base volontaria, in quanto atto amministrativo comunque inidoneo ad incidere sul rapporto civilistico tra condomini e condominio).

In tema di condominio negli edifici, le spese del riscaldamento centralizzato, ove sia stato adottato un sistema di contabilizzazione del calore, vanno ripartite in base al consumo effettivamente registrato, risultando perciò illegittima una loro suddivisione (ancorché parziale) in base ai valori millesimali delle singole unità immobiliari, giacché tale criterio di riparto delle spese è possibile solo in assenza di sistemi di misurazione del calore erogato valevoli a ripartirle in base all'uso.

A questo punto, è doveroso distinguere due situazioni: l'impianto di riscaldamento preesistente (o al più) contemporaneo alla nascita del condominio e l'impianto successivo al sorgere del condominio stesso.

Nel primo caso, opera pienamente la presunzione di comunione tra tutti i partecipanti, sussistendo solo il dubbio se ciò vale anche nei confronti di quei condomini che siano proprietari di unità prive di allaccio con la centrale termica e pertanto impossibilitati ad usufruire del servizio (è il caso classico dei negozi siti al piano terra).

La giurisprudenza (v., tra le altre, Cass. II, n. 693/1977) aveva affermato, in un primo momento, che l'impianto è comune a tutti i condomini, ivi compresi quelli i cui locali non siano raggiunti dalle diramazioni dell'impianto centrale, e ciò sulla base della considerazione che sussiste in ogni caso la possibilità per il condomino di allacciarsi successivamente all'impianto centrale, dal funzionamento del quale è altresì ipotizzabile un beneficio anche in favore del proprietario che non vi sia direttamente allacciato; da ciò consegue l'obbligo, in capo a tali condomini, di partecipare alle spese di manutenzione, il cui riparto verrà operato in misura proporzionale ai valori della singola proprietà, ai sensi del generale disposto dell'art. 1123, comma 1, c.c., senza che, quindi, possa incidere l'effettivo uso dello stesso.

Il suddetto orientamento giurisprudenziale è stato, poi, messo in discussione.

Occorre, infatti, segnalare alcune decisioni del Supremo Collegio (v., ex multis, Cass. II, n. 7730/2000) che hanno escluso la comunione dell'impianto centralizzato di riscaldamento, inserendosi nel filone giurisprudenziale che riconosce la cittadinanza nel nostro ordinamento del c.d. condominio parziale (il ragionamento riguardava i locali mansarda, ma lo stesso dicasi per le autorimesse e le cantine, v., rispettivamente, Cass. II, n. 4270/1996 e Cass. II, n. 1420/2004).

Questi principi vengono plasticamente compendiati nella seguente massima, secondo la quale il proprietario di un'unità immobiliare (nella specie, magazzino) che, per ragioni di conformazione dell'edificio, non sia servita dall'impianto di riscaldamento centralizzato, non ha su di esso il diritto di condominio, mancando la relazione di accessorietà che ne costituisce il fondamento tecnico (Cass. II, n. 24296/2015).

Resta inteso che deve considerarsi legittima, in quanto posta in essere in esecuzione di una disposizione del regolamento condominiale, avente natura contrattuale, la deliberazione assembleare che disponga, in deroga al criterio legale di ripartizione delle spese dettato dall'art. 1123 c.c., che le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria dell'impianto centrale di riscaldamento siano a carico anche delle unità immobiliari che non usufruiscono del relativo servizio, tenuto conto che la predetta deroga è consentita, a mezzo di espressa convenzione, dalla stessa norma codicistica (Cass. II, n. 6158/2006).

Di contro, va considerata nulla – e non soggetta, quindi, al termine di impugnazione di cui all'art. 1137 c.c. – la deliberazione assembleare che addebiti le spese di riscaldamento ai condomini proprietari di locali (nella specie, sottotetti), cui non sia comune, né siano serviti dall'impianto di riscaldamento, trattandosi di deliberazione che inerisce ai diritti individuali di tali condomini e non alla mera determinazione quantitativa del riparto delle spese (Cass. II, n. 22634/2013; di contro, Cass. II, n. 7708/2007 ha considerato annullabile, e non nulla, la deliberazione che esclude dal riparto delle spese per lavori straordinari e di manutenzione dell'impianto di riscaldamento una unità immobiliare sull'erroneo presupposto che essa non sia allacciata all'impianto centralizzato).

La seconda ipotesi riguarda l'impianto di riscaldamento che venga realizzato successivamente nello stabile a cura di uno o più condomini, ipotesi che, per la verità, sembra piuttosto marginale, in considerazione dei progressi tecnologici e della possibilità – certamente più idonea a soddisfare le esigenze, in termini di comfort, (Salis 1972, 369).

In tal caso, si ritiene che debbano operare i medesimi principi elaborati dalla giurisprudenza per l'installazione successiva alla creazione del condominio dell'impianto di ascensore: trattasi di innovazione, con la conseguenza che i condomini, che non intendono parteciparvi, dovrebbero essere esonerati dalla contribuzione, e la proprietà dell'impianto sarebbe limitata a coloro che lo hanno installato, salva la possibilità per gli altri condomini di parteciparvi successivamente ex art. 1121 c.c. (De Tilla 2005, 51).

Qualora sia in funzione l'impianto di riscaldamento centralizzato, deve essere riconosciuto il diritto di ogni condomino ad ottenere il riscaldamento in misura uniforme agli appartamenti degli altri condomini.

Nell'ipotesi in cui tale uniformità non si realizzi, occorre accertare le cause del fenomeno, poiché a volte sono proprio le caratteristiche del singolo appartamento a determinare una dispersione di calore senza che possano individuarsi carenze nella strutturazione del servizio (Accordino, 603).

In tali casi, secondo la giurisprudenza di legittimità, deve riconoscersi al condomino la facoltà di ottenere una maggiore fruizione del servizio comune nell'esercizio dei poteri che l'art. 1102 c.c. riconosce al comproprietario, purché ciò sia consentito dalle caratteristiche dell'impianto e possa effettuarsi senza pregiudizio o disagio per gli altri condomini, restando a carico del condomino la spesa necessaria ad una migliore fruizione del servizio.

Se, peraltro, le caratteristiche di posizione, struttura ed esposizione di un appartamento – nella specie, posto al piano attico – siano tali da determinare, nelle ore di interruzione del funzionamento dell'impianto, un calo della temperatura più accentuato che negli altri appartamenti, al di fuori di qualsiasi deficienza nell'organizzazione e conduzione del servizio, il condomino interessato ha diritto di ottenere una maggiore fruizione del servizio comune – nei limiti stabiliti dalle norme generali regolanti il funzionamento degli impianti termici – purché ciò sia consentito dalle caratteristiche dell'impianto e possa effettuarsi senza pregiudizio o disagio per gli altri condomini, restando a carico del richiedente la maggiore spesa derivante dal protratto o più intenso funzionamento dell'impianto (anche in relazione all'eventuale deterioramento) e quella che possa rendersi necessaria per la messa in opera di strumenti o l'adozione di accorgimenti tecnici atti di evitare un eccesso di calore negli altri appartamenti (Cass. II, n. 3775/1981).

È, altresì, ovvio che il condomino non possa essere esonerato dall'obbligo di contribuire alle spese del servizio di riscaldamento centralizzato allorché l'impianto utilizzato sia strutturato in guisa tale da assicurare all'appartamento di sua proprietà esclusiva un beneficio non diverso da quello garantito ai proprietari delle altre porzioni immobiliari, allorché si è in presenza di ostacoli che occasionalmente precludono tale risultato, ma che siano eliminabili con opportuna manovra, come quella di «sfiato» dei radiatori (fattispecie esaminata da Cass. II, n. 4715/1994).

Diverso è il caso in cui l'insufficiente riscaldamento di un appartamento dipenda – per così dire, a monte – da una deficienza nell'organizzazione e conduzione del servizio, per cui, ad esempio, per un difetto nella generale distribuzione dell'acqua nell'appartamento di un condomino, non si abbia la medesima erogazione di calore assicurata negli altri appartamenti, ed il condominio sia tenuto ad eliminare ogni vizio o difetto di funzionamento risarcendo il condomino danneggiato.

È stato, in proposito, necessario l'intervento delle Sezioni Unite per dirimere il contrasto giurisprudenziale che era sorto in ordine alla possibilità per il condomino, nel cui appartamento si determinasse un'insufficiente o comunque ridotta erogazione di calore, di opporre l'eccezione di inadempimento – posta in materia contrattuale dall'art. 1460 c.c. – ed ottenere per tale via una riduzione della propria quota di spese.

Per la positiva, si era espressa una parte della giurisprudenza (Cass. II, n. 10723/1993), secondo cui la legittimità di una deliberazione assembleare di riparto della spesa non comportava automaticamente l'obbligo del condomino di provvedere al pagamento della quota di contributi, cui in astratto sarebbe stato tenuto, anche se il servizio non gli era stato erogato, mentre la soluzione negativa era stata propugnata da un'altra, quasi coeva, decisione (Cass. II, n. 12420/1993), sul presupposto che il singolo condomino non era titolare di un diritto di natura sinallagmatica nei confronti del condominio relativamente all'utilizzazione dei servizi comuni, potendo agire a difesa dei suoi diritti di comproprietario pro quota delle parti comuni, anche ricorrendo all'autorità giudiziaria ai sensi dell'art. 1105 c.c. in caso di inerzia dell'amministratore.

La decisione del massimo organo della nomofilachia (Cass.  S.U., n. 10492/1996) si è espressa nel senso che l'obbligo del condomino di contribuire alle spese necessarie alla conservazione ed al godimento delle parti comuni dell'edificio, alla prestazione dei servizi nell'interesse comune e alle innovazioni deliberate dalla maggioranza trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell'edificio (art. 1123, comma 1, c.c.); con la conseguenza che la semplice circostanza che l'impianto centralizzato di riscaldamento non eroghi sufficiente calore non può giustificare un esonero dal contributo, neanche per le sole spese di esercizio dell'impianto, dato che il condomino non è titolare, nei confronti del condominio, di un diritto di natura contrattuale sinallagmatica e, quindi, non può sottrarsi dal contribuire alle spese allegando la mancata o insufficiente erogazione del servizio.

Nella medesima linea di pensiero, si pongono altre successive pronunce (Cass. II, n. 12596/2002), che, ribadito il principio per cui il condomino non è esonerato dall'obbligo di contribuire alle spese per il servizio nell'ipotesi di insufficiente erogazione del servizio, tuttavia, tempera lo stesso, affermando che il medesimo condomino può fare valere la lesione al suo diritto ad un'adeguata erogazione di calore previo accertamento giudiziale del danno subìto e della sua liquidazione, riferibile, da un lato, ai contributi pagati a questo scopo al condominio e, da un altro lato, alle spese affrontate per supplire con propri mezzi alla carente erogazione del servizio centralizzato.

Nella stessa lunghezza d'onda, si è statuito che, in tema di godimento dei servizi condominiali, il singolo condomino non è titolare verso il condominio di un diritto di natura sinallagmatica, atteso che il pagamento degli oneri relativi trova causa nella disciplina del condominio e non in un rapporto di natura contrattuale; pertanto, egli non può sottrarsi al pagamento delle spese relative all'impianto di riscaldamento comune eccependo che il servizio è stato erogato in misura inadeguata, potendo, al più, avanzare verso il condominio una pretesa risarcitoria nel caso di colpevole omissione dello stesso nel provvedere alla riparazione o all'adeguamento dell'impianto (Cass. II, n. 12956/2006).

Tali principi risultano confermati, di recente, dai giudici di legittimità (Cass. VI/II, n. 16608/2017), ad avviso dei quali – sempre sul presupposto che il singolo condomino non è titolare, nei confronti del condominio, di un diritto di natura sinallagmatica relativo al buon funzionamento degli impianti condominiali (nella specie, l'impianto elettrico comune), che possa essere esercitato mediante un'azione di condanna della stessa gestione condominiale all'adempimento corretto della relativa prestazione contrattuale, trovando causa l'uso dell'impianto che ciascun partecipante vanta nel rapporto di comproprietà delineato negli artt. 1117 ss. c.c.il condomino non ha azione per richiedere la messa a norma dell'impianto medesimo, potendo al più avanzare, verso il condominio, una pretesa risarcitoria nel caso di colpevole omissione nella sua riparazione o adeguamento, oppure sperimentare altri strumenti di reazione e di tutela, quali, ad esempio, le impugnazioni delle deliberazioni assembleari ex art. 1137 c.c., i ricorsi contro i provvedimenti dell'amministratore ex art. 1133 c.c., la domanda di revoca giudiziale dell'amministratore ex art. 1129, comma 11, c.c., o il ricorso all'autorità giudiziaria in caso di inerzia agli effetti dell'art. 1105, comma 4, c.c.

Innovazioni deliberate dalla maggioranza

Concludendo l'esame dell'art. 1123, comma 1, c.c., sono, altresì, sostenute dai condomini in misura proporzionale ai millesimi di proprietà – oltre le spese per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio, nonché quelle per la prestazione di servizi per l'interesse comune, analizzate supra – le spese che riguardano le «innovazioni» da apportare alle parti comuni contemplate nel comma 5 dell'art. 1136 c.c., che, a sua volta, richiama il comma 1 dell'art. 1120 c.c., ossia quelle «dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni».

Tali innovazioni devono essere approvate con una maggioranza qualificata, ossia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno i due terzi del valore dell'edificio – salva la necessità del consenso di tutti i condomini per alcune innovazioni vietate (salvo quelle attinenti alla statica e sicurezza dello stabile) – mentre le opere costituenti semplici miglioramenti richiedono l'ordinario quorum delle deliberazioni sugli affari di ordinaria o straordinaria amministrazione, per le quali, in seconda convocazione, è sufficiente, invece, l'adesione di un terzo degli intervenuti che rappresenti un terzo del valore dell'edificio.

La legislazione speciale successiva all'entrata in vigore del codice civile, peraltro, aveva previsto maggioranze agevolate, nonostante trattavasi di lavori certamente innovativi, per le opere dirette all'eliminazione delle barriere architettoniche (l. n. 13/1989), alla realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari (l. n. 122/1989), alla trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato in impianti unifamiliari a gas (l. n. 10/1991), nonché all'installazione di antenne satellitari collettive (l. n. 66/2001).

Nell'attuale testo dell'art. 1120, comma 2, c.c. – così come integrato dalla l. n. 220/2012 – in ossequio ad un intento di uniformità di disciplina, i cinquecento millesimi e le maggioranze degli intervenuti sono prescritti per le innovazioni c.d. sociali, ossia nel dettaglio: 1) le opere e gli interventi volti a migliorare la sicurezza e la salubrità degli edifici e degli impianti, 2) le opere e gli interventi previsti per eliminare le barriere architettoniche, per il contenimento del consumo energetico degli edifici e per realizzare parcheggi destinati a servizio delle unità immobiliari o dell'edificio, nonché per la produzione di energia mediante l'utilizzo di impianti di cogenerazione, fonti eoliche, solari o comunque rinnovabili da parte del condominio o di terzi che conseguano a titolo oneroso un diritto reale o personale di godimento del lastrico solare o di altra idonea superficie comune, e 3) l'installazione di impianti centralizzati per ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino alla diramazione per le singole utenze.

L'art. 1108 c.c., per la comunione, prevede, invece, la maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune, «per le innovazioni dirette al miglioramento della cosa o a renderne più comodo o redditizio il godimento» purché esse non pregiudichino il godimento di alcuno dei partecipanti e non importino una spesa eccessivamente gravosa (nonché) «per gli altri atti eccedenti l'ordinaria amministrazione», sempre che non risultino pregiudizievoli all'interesse di alcuno dei partecipanti, mentre è necessario il consenso di tutti i partecipanti «per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali sul fondo comune e per le locazioni di durata superiore a nove anni».

Se si guarda bene, si nota che l'art. 1120 c.c. non dà una definizione del concetto di «innovazione», limitandosi a stabilirne finalità e scopi – le stesse devono essere «dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggiore rendimento delle cose comuni» – salvo indicare, per così dire in negativo, quelle vietate, e prevedere, nel successivo art. 1121 c.c., quelle gravose e voluttuarie, perciò non resta che verificare come la giurisprudenza abbia individuato i requisiti fondamentali di tale figura.

Si può convenire che l'innovazione, secondo il suo significato etimologico, evoca un quid novi, che si traduce, dal punto di vista oggettivo, in una modificazione della cosa comune, mediante aggiunte materiali (quindi, non solo trasformazioni della cosa, ma anche costruzioni ex novo, ad esempio, l'allargamento del portone di ingresso da pedonale a carrabile, la realizzazione di un manufatto, la demolizione di un muro, lo scavo nel giardino, e così via) o mutamenti della destinazione funzionale (il cortile da stenditoio a parcheggio di autovetture, il tetto in lastrico solare, ecc.), e si connota, dal punto di vista soggettivo, dall'interesse per la stessa innovazione da parte della maggioranza dei partecipanti al condominio.

Incidentalmente, va sottolineato che il nuovo art. 1117-bis c.c. – al cui commento si rinvia – ha disciplinato espressamente le «modificazioni delle destinazioni d'uso» delle parti comuni dell'edificio, adottate dall'assemblea «per soddisfare esigenze di interesse condominiale»; trattasi di interventi difficili da distinguere rispetto alle classiche innovazioni, specie laddove quest'ultime potevano appunto spingersi fino al mutamento della destinazione funzionale del bene; comunque, le suddette modificazioni scontano un iter abbastanza stringente per la loro adozione e richiedono l'approvazione con l'elevato quorum dei quattro quinti (riferiti sia alle teste che ai millesimi).

Dunque, la cosa comune, a seguito dell'innovazione, si presenta «nuova», in quanto, quale che sia l'intervento operato su essa, è stata trasformata nella sostanza, alterata la sua entità, cambiata la sua originaria funzione, accresciuto il suo reddito il suo valore di scambio e la sua utilità, modificata la sua consistenza materiale, utilizzata per fini diversi, e, al contempo, l'iniziativa deve giovare a tutti i condomini, essendo volta ad un miglioramento della cosa stessa (considerando lo stato particolare dell'edificio), in relazione all'uso dell'intero stabile, senza che sia necessario richiederne anche l'esistenza per ogni singola porzione di proprietà individuale (Iannone, 1084).

Il suddetto «miglioramento» – da intendersi lato sensu, comprendendosi in tale concetto anche la maggiore comodità ed il maggior rendimento – deve sussistere almeno in teoria, altrimenti l'innovazione rischierebbe di danneggiare la cosa comune (un intervento sulle finestre delle scale volto a dare alle stesse più luce potrebbe, ad esempio, renderle impraticabili per l'eccessivo freddo attesa l'esposizione ai venti ed alle intemperie); lo stesso miglioramento può essere anche futuro o sperato, purché rappresenti una concreta possibilità: non si pretende la certezza o la probabilità ma, al contempo, la maggioranza non potrebbe imporre ai dissenzienti qualsiasi capriccio.

Inoltre, l'innovazione deve essere «diretta a ...», nel senso che la maggioranza assembleare – in questo non ostacolata dall'eventuale dissenso del singolo (è stato opportunamente eliminato lo ius  prohibendi del previgente sistema normativo) – ha una certa discrezionalità nello scegliere quale miglioramento ritiene più opportuno, anche se l'opzione potrebbe apparire meno conveniente di altre: in quest'ordine di concetti, il merito della decisione non è sindacabile dall'autorità giudiziaria, la quale valuta soltanto se la delibera è contraria alla legge o al regolamento condominiale, ma non può sostituirsi all'organo gestorio provvedendo in modo diverso da come questo ha deciso.

Al riguardo, non è rilevante il carattere della stabilità e della permanenza, potendosi trattare di interventi a carattere temporaneo, purché non siano meramente finalizzati a disciplinare le modalità d'uso della cosa comune (ad esempio, modifica dell'uso turnario di utilizzo del cortile comune per parcheggiarvi le autovetture) o non si sostanzino in un'attività comportamentale necessariamente saltuaria (come lo stendimento dei panni nel terrazzo condominiale); non costituiscono, invece, innovazioni quegli incrementi che sono sviluppi prevedibili della cosa comune e che si risolvono, in buona sostanza, nel trasformare da potenziali in attuali le utilità insite nella natura del bene (salvo che si tratti di interventi così incisivi da rendere nuova la parte comune rispetto alle caratteristiche dello stabile così come realizzato).

Una volta assodato che gli interventi sulla cosa comune siano imputabili alla maggioranza condominiale e non al singolo partecipante – con ovvie ricadute in tema di ripartizione delle spese, vale a dire incidenza delle stesse, rispettivamente, su tutti i condomini o soltanto su quelli che intraprendono l'iniziativa – va ricercato il corretto discrimen tra innovazioni e modifiche, poiché le prime devono essere sempre approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed i due terzi del valore dell'edificio, mentre le seconde con l'ordinario quorum delle deliberazioni sugli affari di ordinaria o straordinaria amministrazione, per le quali, in seconda convocazione, è sufficiente l'adesione di un terzo degli intervenuti che rappresenti un terzo del valore dell'edificio (art. 1136, comma 3, c.c.).

Orbene, non basta, sul punto – affinando il discorso appena fatto – definire l'innovazione una opus novum o un quid pluris con riferimento all'edificio condominiale già esistente, perché tale connotato lo troviamo in qualsiasi modifica (materiale o funzionale) della cosa comune, che comporti aggiunte materiali o mutamenti della destinazione originaria del bene comune.

Occorre, invece, aver riguardo all'elemento di carattere «oggettivo», prendendo nella dovuta considerazione la qualità e la rilevanza della relativa iniziativa, oltre quello «soggettivo» sopra ricordato (Nicoletti, 221).

In quest'ottica, si è in presenza di una «modifica» ogni volta che vi siano meri atti di maggiore e più intensa utilizzazione della cosa comune, che non importino alterazione della stessa, e non precludano agli altri partecipanti la possibilità di utilizzare la cosa facendone lo stesso maggior uso del condomino che abbia effettuato la modifica stessa; trattasi, invece, di «innovazione» ove vi sia qualsiasi opera nuova che alteri, in tutto od in parte, nella materia e nella forma, nella destinazione di fatto o di diritto, la cosa comune, eccedendo i limiti della conservazione, dell'ordinaria amministrazione o del godimento della cosa, e che importi una modificazione considerevole della cosa medesima, una trasformazione della struttura tecnica della stessa che ne muti la consistenza, con l'effetto di migliorarne il godimento o comunque alterarne la funzione o la destinazione originaria, con la conseguente implicita incidenza sull'interesse di tutti i condomini, i quali devono essere liberi di valutare la convenienza dell'innovazione (v., ex multis, Cass. II, n. 11936/1999; Cass. II, n. 5028/1996; Cass. II, n. 10602/1990; Cass. II, n. 2746/1989; Cass. II, n. 1789/1983).

Si può, dunque, convenire che la distinzione tra innovazioni e modifiche si ricollega all'incidenza della nuova opera sulla consistenza e sulla destinazione della cosa comune: le innovazioni devono intendersi quelle opere dirette al miglioramento della proprietà condominiale che, da un lato, comportino sensibili modifiche di carattere strutturale, e, dall'altro, si risolvano in un mutamento dell'ordinaria destinazione della cosa comune, mentre non lo sono quelle modifiche non rilevanti che rispondano allo scopo di rendere più comodo o a potenziare l'uso ed il godimento della proprietà condominiale, lasciandone immutate la consistenza e la destinazione, in modo da non turbare i concorrenti interessi dei condomini; costituisce innovazione ex art. 1120 c.c., non una qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quando il bene comune presenti, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale oppure sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l'esecuzione delle opere, mentre ove, invece, l'intervento sulla cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, siamo in presenza di una mera modifica della medesima cosa.

Circa le differenze, poi, con il concetto di opere di manutenzione (ordinaria e straordinaria) delle parti comuni dell'edificio, si può rilevare che, in queste ultime, ricorre un carattere di «necessità» che non troviamo nelle innovazioni, nel senso che le prime sono appunto necessarie per ripristinare l'efficienza delle cose comuni e per conservare alle stesse la possibilità di assicurare ai condomini l'uso ed il godimento delle porzioni di loro esclusiva proprietà, quali piani, appartamenti, locali, ecc. – non è, però, indispensabile che la manutenzione si limiti ad interventi esecutivi tali da riportare la cosa comune agli identici livelli (quantitativi e qualitativi) originari – mentre le seconde sono rimesse alla volontà discrezionale dell'assemblea condominiale (in quest'ottica, ad avviso di Cass. II, n. 16638/2007, la ristrutturazione dell'impianto fognario, vecchio di oltre cinquant'anni e bisognoso di interventi strutturali, in quanto necessaria alla conservazione ed al godimento della cosa comune, non costituisce innovazione).

In parole povere, l'iniziativa relativa alla manutenzione non è soggetta ad alcun arbitrio della maggioranza dei condomini (potendo, altresì, essere pretesa dal singolo partecipante), e rientra tra i doveri che il legislatore impone all'amministratore, se trattasi di manutenzione ordinaria, o all'assemblea, se straordinaria, salvo che rivestano natura urgente nel qual caso potrebbe intervenire anche lo stesso amministratore (v., rispettivamente, artt. 1130, n. 3, e 1135, n. 4, c.c.); al contrario, l'innovazione può essere deliberata dall'assemblea, come quest'ultima potrebbe del tutto trascurarla senza che, però, si possa provocare un danno alle cose comuni.

Appare utile, infine, richiamare l'immutata norma dell'art. 1121 c.c. – al cui commento si rinvia – che si occupa delle spese per le innovazioni che importano una spesa molto gravosa, ossia quelle che, in relazione all'entità dell'esborso, incidono in modo rilevante e sproporzionato rispetto al valore delle proprietà individuali, e di quelle per le innovazioni voluttuarie, ossia quelle che arrecano ai condomini un'utilità del tutto marginale o superflua, o che sono dirette al conferimento di un aspetto migliorativo dell'edificio o di parte di esso senza che tali miglioramenti possano ritenersi giustificati in relazione alle particolari condizioni ed all'importanza del medesimo edificio.

In tali ipotesi, se trattasi di innovazioni consistenti in opere, impianti e manufatti suscettibili di utilizzazione separata, saranno a carico soltanto dei condomini che le hanno deliberate, con esonero dalla contribuzione per quelli che ne intendono trarre vantaggio (si pensi ad un impianto di ascensore montacarichi esterno, la cui spesa di installazione e manutenzione va sostenuta solo dai condomini che usufruiscono del servizio).

È lo stesso art. 1121 c.c., peraltro, che espressamente afferma che la voluttuarietà e la gravosità debbano essere accertate con riferimento alle «particolari condizioni ed importanza dell'edificio» e non avendo riguardo alle persone dei condomini; a stretto rigore, il criterio oggettivo dovrebbe essere utilizzabile esclusivamente con riferimento alla voluttuarietà, mentre per quanto riguarda la gravosità possono essere considerate anche le condizioni economiche personali dei singoli condomini, il che appare pienamente coerente con l'intero sistema normativo sul condominio – nel quale non è consentito alla maggioranza incidere sui diritti esclusivi dei singoli – ma consentirebbe anche una regolamentazione degli interessi più rispondente a criteri di solidarietà tra conviventi nel medesimo edificio.

Tuttavia, la giurisprudenza appare ferma e costante nell'utilizzare un criterio oggettivo; invero, le innovazioni per le quali l'art. 1121 c. c. consente al condomino di sottrarsi alla quota di spese che gli compete, sono quelle che riguardano gli impianti suscettibili di utilizzazione separata e che hanno natura voluttuaria, cioè sono prive di utilità, ovvero risultano molto gravose, ossia sono caratterizzate da una notevole onerosità, da intendersi in senso oggettivo, dato il testuale riferimento della norma alle particolari condizioni e all'importanza dell'edificio (Cass. II, n. 428/1984).

Qualora, invece, l'innovazione gravosa o voluttuaria non sia suscettibile di utilizzazione separata, la stessa è consentita soltanto se la maggioranza dei condomini che l'ha deliberata ed accettata intenda sopportarne integralmente la spesa, esonerando i dissenzienti da qualsiasi contribuzione (ad esempio, quando alcuni condomini decidano di eseguire particolari opere di abbellimento dell'androne, adoperando marmi o comunque materiali pregiati, in un edificio dalle caratteristiche popolari).

Trattandosi, però, di opere godibili immediatamente ed indistintamente da tutti, l'eventuale partecipazione alla spesa da parte dei dissenzienti è affidata unicamente alla decisione volontaria degli stessi, mentre, nel caso precedente, i condomini dissenzienti, che intendano poi partecipare ai vantaggi dell'innovazione suscettibile di uso separato, dovranno contribuire pro quota alle spese di esecuzione e di manutenzione della stessa, ragguagliate al valore attuale della moneta presente, considerando, altresì, che, ad esempio a seguito dell'installazione dell'ascensore, si sono trovati poi rivalutate le rispettive unità abitative senza alcuna spesa, ma anche cercando di evitare arricchimenti in danno dei condomini che hanno assunto l'iniziativa dell'opera (fattispecie esaminata da Cass. II, n. 8746/1993).

Ovviamente, nel caso che l'opera riguardi solo alcuni condomini (circostanza assolutamente consequenziale nel caso di un'innovazione gravosa o voluttuaria con uso separato), si verificherà il fenomeno del c.d. condominio parziale, in applicazione del quale l'ente condominiale si restringerà ad una sola parte dei partecipanti in relazione ai quali andranno applicate le norme gestionali e procedimentali previste dal codice; in altri termini, qualora l'opera sia di proprietà di alcuni condomini, all'assemblea convocata per le decisioni in merito alla sua gestione dovranno essere chiamati i soli condomini interessati i quali, soltanto, avranno diritto di partecipare alle relative decisioni (sopportando, di conseguenza, i relativi esborsi).

È espressione di tale impostazione la pronuncia di legittimità, ad avviso della quale i presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza e per l'uso, ovvero sono destinati all'uso o al servizio, non di tutto l'edificio, ma di una sola parte, o di alcune parti di esso, ricavandosi dall'art. 1123, comma 3, c.c. che le cose, i servizi, gli impianti, non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti; ne consegue – v. anche infra – che dalle situazioni di c.d. condominio parziale derivano implicazioni inerenti la gestione e l'imputazione delle spese, in particolare non sussiste il diritto di partecipare all'assemblea relativamente alle cose, ai servizi, agli impianti, da parte di coloro che non ne hanno la titolarità, ragion per cui la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle parti comuni che della delibera formano oggetto (Cass. II, n. 7885/1994; Cass. II, n. 791/2020); quindi, mentre vanno ripartite tra tutti i condomini, in proporzione al valore della quota di ciascuno, le spese che attengano a parti dell'edificio comuni o ritenute tali in base a norma regolamentare e che adempiano, attraverso le opere poste in essere, ad una funzione di prevenzione di eventi che potrebbero interessare l'intero edificio condominiale, non così accade quando l'utilità riguardi la singola proprietà esclusiva e l'intervento non possa in alcun modo servire ad uno o più condomini, non essendo gli stessi obbligati a contribuire alle spese relative (v., da ultimo, Cass. 24166/2021: nella specie, si era cassata la decisione con cui si era ritenuta legittima la delibera condominiale che aveva posto a carico dei condomini non proprietari le spese concernenti la progettazione e l'esecuzione dei lavori di adeguamento alla normativa antincendi di autorimesse interrate di proprietà esclusiva e dei relativi spazi di manovra, stante l'assenza per essi di utilità, e l'irrilevanza del beneficio solo indiretto ritratto).

Criteri legali di riparto

Prendendo le mosse dall'art. 1123 c.c., si rileva che quest'ultimo, al comma 1, stabilisce che le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini «in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno».

La previsione in esame va completata con l'art. 68 disp. att. c.c. che, per gli effetti indicati dagli artt. 1123,1124,1126 e 1136 c.c., assegna al regolamento di condominio il compito di precisare in apposita tabella il valore proporzionale, espresso in millesimi, di ciascuna porzione di proprietà esclusiva.

Invero, le regole sulla ripartizione delle spese tra i condomini sono generalmente contenute nel regolamento di condominio, che deve specificatamente contenere le disposizioni che consentono la distribuzione proporzionale degli oneri tra i vari partecipanti della comunione edilizia, nonché la definizione dei valori proporzionali delle singole proprietà attraverso le tabelle millesimali.

Il regolamento condominiale definisce, di solito, i criteri in base ai quali, nelle ipotesi di beni, impianti o servizi destinati a servire i condomini in misura diversa, deve effettuarsi la ripartizione, e contiene tabelle differenziate in base alle quali è stabilita la ripartizione delle spese in relazione ad alcune «voci», in modo da rendere possibile una ripartizione che tenga conto delle differenti modalità di utilizzazione.

Così, accanto alla tabella generale dei millesimi di proprietà (di solito, denominata tabella A), che, di regola, è applicata alle spese di carattere generale, come quelle attinenti all'amministrazione, all'assicurazione, alle riparazioni degli elementi strutturali comuni, troviamo altre tabelle relative a spese particolari, come quelle concernenti il servizio di portierato, il riscaldamento, l'ascensore, le scale, ecc. (che prendono il nome di tabelle B, C, D e via dicendo).

Si può convenire che la frequente predisposizione delle tabelle millesimali da parte del venditore-costruttore, con allegazione ai singoli contratti di compravendita e la conseguente accettazione da parte dei condomini acquirenti fa nascere una convenzione vincolante tra le parti, non modificabile se non con il consenso unanime di tutti i condomini o da parte del magistrato se sussistono i presupposti di cui all'art. 69 disp. att. c.c.

Orbene, la norma di cui all'art. 1123 c.c. relativa alla ripartizione delle spese è rivelatrice dell'accezione codicistica dell'istituto condominiale sopra accennata.

Nello specifico, secondo quanto stabilito nel comma 1 del medesimo disposto, le spese relative alle parti ed ai servizi comuni sono distribuite tra i partecipanti in proporzione al valore economico delle rispettive unità abitative, mentre i commi 2 e 3, avuto riguardo a cose o impianti destinati a servire i condomini in misura diversa, ovvero solo una parte dell'intero fabbricato, addossano, invece, il carico delle spese ai soli condomini che ne facciano uso o ne traggano utilità.

Semplificando al massimo, possiamo rilevare che, posto che ogni condomino ha il dovere di contribuire alle spese necessarie per mantenere in funzione il condominio di cui fa parte, il legislatore ha optato per un criterio che tenga conto sia del rapporto di comproprietà che lega i condomini tra di loro (come è per la comunione), sia in base al vantaggio ed all'utilità che ciascun proprietario di unità immobiliari può trarre dalle cose comuni (che è una caratteristica del condominio).

In quest'ottica, la riscrittura della disciplina codicistica del condominio edilizio non ha, pertanto, abbandonato il radicamento strettamente proprietario del diritto di condominio, sebbene le prassi applicative in tema di ripartizione delle spese e di uso delle cose comuni si orientino sempre più spesso nella direzione di privilegiare un fondamento utilistico delle relazioni condominiali (Scarpa 2016, 439).

Va ulteriormente posto in risalto come il legislatore della recente Riforma del 2013 abbia posto l'accento della nuova disciplina condominiale anche sul valore della «destinazione» unitaria delle cose comuni (artt. 1117,1117-ter, 1117-quater, 1118,1120,1122-bis c.c.), valore che suppone un'organizzazione dei beni ispirata dallo scopo di un'unità funzionale.

Ora, si voglia o meno concordare sull'individuazione di una relazione di regola ed eccezione nello schema delineato dai tre commi dell'art. 1123 c.c., è evidente come l'articolo in esame presti ossequio, a seconda delle caratteristiche e della destinazione delle cose analizzate, a contrapposti criteri di riparto delle spese: l'uno, più elementare e di intuitiva applicazione, legato al valore della quota e quindi all'appartenenza della  res, mentre l'altro, più evoluto, legato all'uso potenziale, e quindi avente causa nell'interesse alla  res.

Peraltro, mentre nella comunione il concorso dei partecipanti negli oneri in proporzione alla rispettive quote (art. 1101, comma 2, c.c.) risulta idoneo ad eliminare ogni conflitto, nel condominio la misura del godimento delle cose comuni dipende dal godimento delle proprietà individuali, per cui è impossibile calcolare precisamente la relativa quantità e il codice civile finisce per adottare un criterio empirico, proporzionando presuntivamente l'entità del servizio reso al singolo dalle parti comuni ai millesimi dell'unità immobiliare esclusiva; così, mentre la situazione di comunione è caratterizzata da una presunzione di eguaglianza delle quote di ciascuno, la disciplina del condominio evita un esplicito riferimento alla nozione di «quota» (intesa come «misura dell'appartenenza») riguardo alla comproprietà dei beni elencati nell'art. 1117 c.c., ed utilizza, piuttosto, l'indice del valore dell'unità immobiliare che appartiene al condomino.

In proposito, si è anche proposta una diversificazione degli ambiti di operatività dei vari capoversi dell'art. 1123 c.c. in relazione alle parti comuni dell'edificio che provocano l'obbligo di spesa, sicché vi sarebbero beni, opere e manufatti che producono utilità in senso oggettivo in favore delle unità di proprietà esclusiva, in forza della loro unione materiale o destinazione funzionale assolutamente necessaria al servizio collettivo dei condomini (in sostanza, le parti elencate per lo più nell'art. 1117, n. 1 e n. 3, c.c.: suolo, fondazioni, muri maestri, pilastri, travi portanti, tetti, lastrici solari, cortili, facciate, impianti idrici e fognari), e dunque indipendentemente da qualsiasi attività umana compiuta dal singolo partecipante; altre parti comuni, per contro, arrecano utilità solo per effetto dell'attività personale dei titolari delle unità immobiliari individuali (generalmente quelle indicate nell'art. 1117, n. 2, ma pure alcune di cui al n. 3: lavanderie, stenditoi, ascensori, impianti di riscaldamento e condizionamento, ecc.).

In quest'ordine di concetti, si è affermato che le spese per la conservazione della prima categoria di beni, rientranti, per la loro funzione, fra le cose comuni, sarebbero assoggettate alla ripartizione in misura proporzionale al valore delle singole proprietà esclusive ai sensi della prima parte dell'art. 1123 c.c., mentre le spese correlate ai beni della seconda categoria, giacché suscettibili di destinazione al servizio dei condomini in misura diversa o al godimento di alcuni condomini e non di altri, giustificherebbero il ricorso agli altri due metodi di ripartizione contemplati dalla medesima disposizione (v., ad esempio, Cass. II, n. 64/2013, relativamente alle spese per le parti dell'edificio destinate al riparo dagli agenti atmosferici e dalle infiltrazioni d'acqua, piovana o sotterranea, come i muri e tetti ex art. 1117, n. 1, c.c., oppure le opere ed i manufatti, come fognature, canali di scarico e simili di cui all'art. 1117, n. 3, c.c.; Cass. II, n. 2946/2005, sulla legittimità della ripartizione delle spese di riscaldamento delle parti comuni in base al valore della proprietà di ciascuno dei condomini, e non dell'uso differenziato; Cass. II, n. 1420/2004, che ha escluso l'applicabilità per la spesa di sostituzione della caldaia del criterio di ripartizione in proporzione dell'uso; Cass. II, n. 12737/2001, la quale ha del pari negato l'operatività del criterio di riparto proporzionato all'uso, ex art. 1123, comma 2, c.c., per le spese di adeguamento dell'impianto elettrico condominiale; e, ancora, Cass. II, n. 4403/1999; Cass. II, n. 8657/1996; Cass. II, n. 7077/1995; Cass. II, n. 1255/1995; Cass. II, n. 13655/1992; Cass. II, n. 5179/1992; Cass. II, n. 13160/1991; Cass. II, n. 5081/1990; Cass. II, n. 8484/1987).

In quest'ordine di concetti, da ultimo, si è avuto modo di puntualizzare

(Cass. II, n. 884/2018), sempre sul presupposto che la disciplina del condominio degli edifici sia ravvisabile ogni qual volta sia accertato in fatto un rapporto di accessorietà necessaria che lega alcune parti comuni – come quelle elencate in via esemplificativa dall'art. 1117 c.c. – ad unità o porzioni di proprietà individuale, delle quali le prime rendono possibile l'esistenza stessa o l'uso – che anche i proprietari esclusivi di spazi destinati a posti auto compresi nel complesso condominiale possono dirsi condomini, e quindi presumersi comproprietari (nonché obbligati a concorrere alle relative spese, ex art. 1123 c.c.) di quelle parti comuni che, al momento della formazione del condominio, si trovino in rapporto di accessorietà, strutturale e funzionale, con detti spazi.

Si è evidenziato che, in realtà, il principio della «utilità» obbiettiva della cosa costituisca l'elemento unificante dell'intero art. 1123 c.c. (Guarini, 203).

Peraltro, alcune decisioni elaborano una sorta di adeguatezza presuntiva del criterio proporzionale alla proprietà, ex art. 1123, comma 1, c.c., nel senso che, una volta verificato che il bene realizzi l'interesse di tutti condomini, ed ove non sia possibile determinare in concreto il diverso grado di utilità ulteriori da esso ritraibili, la ripartizione delle spese relative deve avvenire in base alla compartecipazione al condominio espressa nei millesimi (così Cass. II, n. 10270/2014).

È, tuttavia, difficile individuare, nell'àmbito delle variegate posizioni dottrinali, un'enunciazione sintetica e definitoria della ratio sottesa all'art. 1123 c.c., orientandosi tra meccanismi di imputazione delle spese che prestano attenzione alla titolarità della quota e meccanismi inclini alla funzione o alla natura delle spese, senza che vi sia concordia neppure sulla scala di priorità presunta nel sistema del codice (per alcuni contributi generali sull'argomento, Pucci, 42, Avigliano, 22; Balzani, 563; Besostri Grimaldi 621; Blangetti, 565; Bordolli, 139; Bruder, 654; De Tilla 2006, 656; Scripelliti, 575).

Il mero richiamo bibliografico alle più autorevoli e note ricostruzioni diviene forse inutile se non abbinato ad un approfondimento, di volta in volta, delle implicazioni operative discendenti dall'adesione all'una o all'altra interpretazione, ma – a ben vedere – anche sotto il profilo giurisprudenziale, la casistica delle sentenze in tema di ripartizione delle spese è sconfinata.

Una questione a parte – e che, quindi, in teoria dovrebbe esulare dalla tematica concernente i “criteri legali di riparto” – attiene alle c.d. spese personali o individuali, da porsi cioè a carico del singolo condomino, in ordine alle quali, a rigore, non dovrebbe configurarsi alcuna competenza dell'assemblea riguardo alla relativa ripartizione (Salciarini 2011, 19; Tagliolini, 353).

Si pensi, ad esempio, alle spese postali, per avviso di convocazione (se sono indirizzate a quel condomino che risiede fuori dell'immobile, dove invece abitano tutti gli altri partecipanti), o per risposta a continui solleciti, o quelle per diffide ad adempiere in caso di persistente morosità, o quelle per soddisfare la richiesta di documentazione contabile avanzata non nella sede «istituzionale» di approvazione del bilancio annuale, aderendo ai rilievi di quell'orientamento (Cass. II, n. 8460/1998), che considera legittima tale istanza in ogni tempo, addossandone però i costi delle relative operazioni finalizzate a prendere visione ed estrarne copia al condomino richiedente (v., ora, il disposto dell'art. 1130-bis, comma 1, c.c., come introdotto dalla l. n. 220/2012).

Al riguardo, un giudice meneghino (Trib. Milano 9 giugno 2015) ha dichiarato nulla – e come tale impugnabile anche oltre il termine di 30 giorni previsto dall'art. 1137 c.c. – la deliberazione assembleare con la quale si erano addebitate ad un condomino le spese postali per lo scambio di corrispondenza intercorso tra lo stesso condomino ed il condominio, spiegando che le spese postali rientrano tra “le spese di gestione”, e dunque, anche se relative all'invio della corrispondenza a singoli condomini, devono essere sempre ripartite tra tutti i condomini in base alle tabelle millesimali e non, invece, imputate ad personam (nel caso concreto, durante l'anno, l'amministratore aveva intrattenuto un fitto scambio di corrispondenza con un condomino che abitava fuori dall'edificio, e, al momento del rendiconto, lo stesso amministratore aveva addebitato al destinatario le spese postali inserendole nella voce “spese personali”, in quanto da lui provocate; il condominio interessato aveva impugnato tale delibera, sostenendo che la ripartizione approvata dall'assemblea doveva considerarsi illegittima, perché le spese di corrispondenza, anche se riferite a chiarimenti da lui richiesti al condominio, dovevano essere ritenute spese di amministrazione e, come tali, da ripartirsi tra tutti i partecipanti alla compagine condominiale, ed ha avuto ragione in quanto le spese di corrispondenza, anche verso singoli condomini, rientrano tra le spese di amministrazione o di gestione, e comunque non tra le spese personali, sicché vanno ripartite tra tutti i condomini e non addebitate al soggetto interessato; v. altresì, nella giurisprudenza di merito, Trib. Napoli 29 novembre 2003).

Tali considerazioni, d'altronde, si rivelano in linea con quanto affermato dai giudici di legittimità – v., tra le altre, Cass. II, n. 3946/1994 – avviso dei quali è affetta da “nullità” la deliberazione dell'assemblea che incida sui diritti individuali di un condomino, come quella che ponga a suo totale carico le spese del legale del condominio per una procedura iniziata contro di lui, in mancanza di una sentenza che ne sancisca la soccombenza, aggiungendo che tale vizio, a norma dell'art. 1421 c.c., può essere fatto valere dallo stesso condomino che abbia partecipato all'assemblea ancorché abbia espresso voto favorevole alla delibera medesima, ove con tale voto non si esprima l'assunzione o il riconoscimento di una sua obbligazione.

Più opinabile si presenta la questione relativa alle spese postali sostenute dal condominio per la convocazione dell'assemblea, in ordine alle quali si potrebbe sostenere che tali spese, in quanto di interesse individuale, concernendo la corretta informazione del condomino rispetto allo svolgimento della riunione, dovrebbero essere espunte dalle spese generali ed addebitate direttamente al singolo in favore del quale sono state sostenute.

Il ragionamento trova le sue basi segnatamente in motivi di equità sostanziale, nel senso che appare ragionevole concludere per l'addebito delle spese alla persona che, in buona sostanza, le ha generate, anche se potrebbe essere altrettanto sostenibile la tesi secondo la quale le spese de quibus attengono all'iter  formativo della volontà assembleare, che vede tra le sue imprescindibili fasi quella della convocazione dell'organo gestorio, indipendentemente dal luogo di residenza del singolo partecipante.

In precedenza, essendo sancito il diverso principio della libertà di forma degli atti condominiali, e segnatamente quelli volti alla convocazione dell'assemblea di condominio, pur non essendo espressamente prescritto, assai frequentemente si effettuavano spedizioni postali che generano ovvi costi, sicché si era posto il problema se tali spese dovessero essere ripartite tra tutti i condomini (in ragione della quota millesimale) oppure attribuiti al singolo condomino, con riferimento alla specifica (e personale) modalità di convocazione.

Il problema era in grado di generare spigolose contestazioni, specialmente allorquando i condomini risultassero convocati con differenti sistemi (ad esempio, taluno con lettera raccomandata a mano, talaltro con lettera raccomandata postale).

La giurisprudenza di merito ha risolto il problema prevalentemente collegando i costi di convocazione – e, principalmente, quelli postali – alle spese relative al funzionamento stesso del procedimento assembleare (al pari, ad esempio, di quelle per l'affitto della sala) e, quindi, in quanto tali, riferibili all'intera compagine condominiale che è tenuta a sostenerli pro quota (peraltro, il novellato art. 66, comma 3, disp. att. c.c., contemplando anche l'utilizzo dei sistemi telematici, dovrebbe ridurre al minimo tali costi); diversa, invece, si presenta la soluzione offerta dalla magistratura di vertice (Cass. II, n. 12573/2019), ad avviso della quale gli oneri riguardanti le spese effettuate per fini individuali, come quelle postali ed i compensi dovuti all'amministratore in dipendenza di comunicazioni e chiarimenti su comunicazioni ordinarie e straordinarie, sono inquadrabili nell'àmbito dell'art. 1123, comma 2, c.c., purché sia concretamente valutata la natura dell'attività resa al singolo condomino e la conseguente addebitabilità individuale o meno ad esso dei relativi costi.

Differente – come visto – il caso in cui vengono addebitate al singolo condomino, in quanto rientranti tra le c.d. spese personali, quelle sostenute per le copie della documentazione richiesta in sede di consultazione.

Sul punto, il disposto del riformato art. 1129, comma 2, c.c. è chiaro nel senso che l'amministratore è tenuto a comunicare (oltreché i propri dati anagrafici e professionali, anche) il locale dove si trovano i quattro registri obbligatori – anagrafe condominiale, verbali delle assemblee, nomina/revoca dell'amministratore, e di contabilità – indicando «i giorni e le ore in cui ogni interessato, previa richiesta all'amministratore, può prenderne gratuitamente visione e ottenere, previo rimborso della spesa, copia da lui firmata”; tale disposto fa pendant con la previsione contenuta in fondo al comma 1 dell'art. 1130-bis c.c. sul rendiconto condominiale, in cui si stabilisce che “i condomini .... possono prendere visione dei documenti giustificativi di spesa in ogni tempo ed estrarne copie a proprie spese».

In quest'ordine di concetti, dunque, riguardo alle c.d. spese personali, è necessario effettuare una precisazione quanto mai importante poiché, nella prassi delle gestioni condominiali, con particolare riferimento alle modalità contabili, accade spesso di veder registrata, tra le poste di bilancio, la voce de qua.

Tuttavia, tale circostanza, la quale corrisponde, nella grande maggior parte delle ipotesi, ad una spesa effettuata a totale favore ed interesse di un singolo compartecipante, potrebbe denotare profili di invalidità.

Invero, l'assemblea, nella deliberazione di approvazione del rendiconto gestionale, deve occuparsi esclusivamente dell'amministrazione dei beni comuni, e non può, invece, decidere, con valore vincolante, su spese estranee, incluse quelle personali e private.

Dal punto di vista giuridico, se la gestione del condominio pone in essere una spesa a favore di un singolo, ne nasce un diritto di credito, del quale è titolare il condominio stesso e soggetto obbligato risulta il condomino a favore del quale la spesa è stata effettuata; in altri termini, siamo in presenza di un rapporto di natura privatistica tra condominio/creditore e condomino/debitore che non riguarda affatto la gestione dei beni comuni, per cui, a stretto rigore, il rimborso, o il pagamento, di tale spesa non potrebbe essere incluso nelle poste di bilancio, ma dovrebbe essere richiesto, o effettuato, in separata sede.

Qualora il condomino non riconosca tale spesa, il condominio si vede allora costretto ad agire per via ordinaria, senza poter vantare alcuna preferenza derivante dall'aver incluso la spesa nel rendiconto, e, quindi, senza poter utilizzare la procedura agevolata prevista dall'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., ossia il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo.

In tal senso, si pone una pronuncia di merito – v. App. Milano 22 giugno 2001 – in base alla quale esula dalle attribuzioni dell'assemblea il potere di imputare ad un singolo condomino, con efficacia vincolante propria della delibera assembleare, una determinata spesa “pretesamente individuale”, non potendosi ravvisare una sorta di autotutela dell'ente collettivo privilegiata rispetto alla posizione del normale creditore, conseguendone che l'inserimento tra gli addebiti “personali” di una spesa non tale “oggettivamente”, ma discrezionalmente valutata e riferita a condotta imputabile a fatto e colpa del condomino stesso, costituisce violazione dei criteri di ripartizione previsti dall'art. 1123 c.c., la cui eccepita difformità da luogo ad una delibera “annullabile”.

Sul versante operativo, la procedura più corretta sotto il profilo giuridico sembra, pertanto, quella di veder preventivamente autorizzata la spesa (personale) dal singolo condomino; l'inclusione, poi, nel consuntivo di gestione, pur non essendo, a rigore, pertinente – si tratta, come sopra rilevato, di una spesa extracondominiale – potrà essere utile per fornire sia un quadro complessivo delle operazioni effettuate, sia una rendicontazione scritta al soggetto interessato.

Valore della quota

Nelle pronunce della Suprema Corte, si afferma abitualmente che l'obbligo del condomino di contribuireex art. 1123, comma 1, c.c. in proporzione della rispettiva quota, indipendentemente dalla misura dell'uso – alle spese necessarie alla conservazione ed al godimento delle parti comuni dell'edificio, alla prestazione dei servizi nell'interesse comune ed alle innovazioni deliberate dalla maggioranza, ha origine nella comproprietà delle parti comuni dell'edificio indicate dall'art. 1117 c.c., ovvero, più in generale, delle cose che servono per l'esistenza e l'uso delle singole proprietà immobiliari (si è arrivati anche a sostenere che il condomino che subisca, nella propria unità immobiliare, un danno derivante dall'omessa manutenzione delle parti comuni di un edificio, assume, quale danneggiato, la posizione di terzo avente diritto al risarcimento nei confronti del condominio, senza tuttavia essere esonerato dall'obbligo - che trova, appunto, la sua fonte nella comproprietà non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile - di contribuire, a propria volta e pro quota, alle spese necessarie per la riparazione delle parti comuni, nonché alla rifusione dei danni cagionati, v. Cass. II, n. 18187/2021).

L'obbligo dei condomini di sostenere pro quota tali spese trova così fondamento nel collegamento strumentale tra cose, impianti o servizi comuni, e diritti dominicali sulle unità individuali comprese nell'edificio; il riferimento può farsi, più genericamente, alle c.d. spese generali, così definendosi tutti gli esborsi che riguardano il godimento delle cose comuni: per esse, il criterio di riparto applicabile è sempre quello stabilito dal comma 1 dell'art. 1123 c.c., in base al valore della proprietà di ciascun condomino, e mai quello dell'uso differenziato offerto dal comma 2 dello stesso articolo; né potrebbe l'assemblea, in difetto di apposita convenzione adottata all'unanimità ed espressione, perciò, dell'autonomia contrattuale, suddividere le spese generali con criterio c.d. capitario (Cass. II, n. 27233/2013; Cass. II, n. 3944/2002; v., da ultimo, Cass. II, n. 15302/2022, ad avviso della quale l'obbligo del singolo partecipante di contribuire agli oneri condominiali derivanti dalla transazione approvata dall'assemblea con riguardo ad una lite insorta con un terzo creditore ha causa immediata non nell'efficacia soggettiva del contratto, ma nella disciplina del condominio, essendo le deliberazioni prese dall'assemblea vincolanti per tutti i condomini e dovendo questi ultimi sostenere pro quota le spese necessarie alle parti comuni).

Si è anche chiarito come la misura di utilizzazione delle parti comuni sia stabilita dall'art. 1102 c.c. e non sia in rapporto con la quota maggiore o minore stabilità dalle tabelle millesimali per il calcolo delle spese relative alla gestione delle stesse (Cass. II, n. 820/2014).

Anche se non riguardano beni, impianti e servizi comuni, si reputa comunque che altri determinati oneri, siccome concernenti prestazioni di interesse collettivo, siano sopportati dalla comunità condominiale: tra questi, rientrano le spese relative al compenso dell'amministratore e tutte le spese da questi affrontate per lo svolgimento della sua attività in seno al condominio (come, ad esempio, le spese postali e quelle di cancelleria, quelle per le fotocopie, quelle bancarie, quelle relative all'affitto del locale per le riunioni assembleari, ecc.); le spese relative all'assicurazione del fabbricato (contro incendi, crolli, fulmini ed eventuali altri eventi imprevedibili); le tasse (per l'occupazione del suolo pubblico, per passi carrabili, per il trasporto di rifiuti solidi urbani, per la prevenzione incendi, per l'Ici, ecc.).

Per quanto concerne, in particolare, le spese relative all'adeguamento degli impianti (riscaldamento, ascensore, ecc.) alla normativa di settore – v. anche supra – si ritiene che le stesse attengono pur sempre alla proprietà ed all'integrità del bene, sicché debbano ripartirsi proporzionalmente al valore delle singole proprietà esclusive secondo il criterio dettato dal comma 1 dell'art. 1123 c.c. (Cass. II, n. 5975/2004, sugli interventi di adeguamento dell'ascensore alla normativa comunitaria; Cass. II, n. 12737/2001, in ordine alla spesa per la messa a terra dell'impianto elettrico condominiale; Cass. II, n. 2301/2001, che aveva censurato la ripartizione in parti uguali, decisa da una deliberazione assembleare adottata a mera maggioranza, di una spesa relativa all'adeguamento dell'impianto di automazione del portone).

Trattasi, infatti, di spese che arricchiscono il bene, migliorandolo – ad esempio, predisponendo quegli accorgimenti tecnici necessari al raggiungimento degli  standards di sicurezza imposti dalle varie legislazioni di settore succedutesi in materia – a prescindere dall'uso che di esso faccia ciascun condomino (Balzani, 31; Benedetti, 439; Colli, 832; Gallucci 2010; Terzago 1994, 449).

Orbene, si sostiene prevalentemente che l'obbligo dei condomini di contribuire alle spese ex art. 1223, comma 1, c.c., in proporzione della rispettiva quota, trova la sua origine nella comproprietà delle parti comuni, o delle cose che servono per l'esistenza e l'uso delle singole proprietà immobiliari; in quest'ottica, le spese per la conservazione della cosa comune costituirebbero obligationes  propter rem, caratterizzandosi per l'irrinunciabile collegamento tra l'obbligo e la  res, senza interferenza di elementi soggettivi, e quindi per la sola proporzionalità tra la prestazione e la quota.

L'opinione che gli obblighi dei condomini di concorrere alle spese per la conservazione delle cose comuni configurino obbligazioni propter rem è data sostanzialmente per «incontroversa» in dottrina, nel senso che, giacché la fonte dell'obbligo di contributo risiede nel diritto di condominio, l'obbligazione per le spese è propter rem in quanto nasce e vive in simbiosi con il diritto di comproprietà, insorge non appena occorra intervenire per soddisfare l'esigenza collettiva, ha i medesimi limiti di tale diritto e cessa quando esso cessa (Salis 1950, 100; Branca 1982, 159; Corona 2001, 405).

Dunque, l'obbligo dei condomini di sostenere pro quota tali spese trova così fondamento nel collegamento strumentale tra cose, impianti o servizi comuni, e diritti dominicali sulle unità individuali comprese nell'edificio.

Non si è mancato, altresì, di rinvenire, anche con riguardo all'àmbito di stretta pertinenza dell'art. 1123, comma 1, c.c., un fondamento utilistico, e non rigorosamente proprietario, sostenendo che, ai fini della ripartizione delle spese di ristrutturazione, sarebbe decisiva non l'appartenenza alla proprietà comune o esclusiva delle parti dell'edificio interessate, quanto la loro funzione (Cass. II, n. 22573/2020, la quale ha cassato la sentenza impugnata per l'omesso esame del vincolo di destinazione imposto dal Comune al costruttore circa il congruo numero di alberature da mettere a dimora, al fine di verificare se gli alberi oggetto di abbattimento e di reimpianto concorressero, in virtù del detto vincolo, a costituire il decoro architettonico dell'edificio; Cass. II, n. 3666/1994, concernente le spese di potatura degli alberi insistenti su suolo oggetto di proprietà esclusiva di un solo condomino, ma funzionali al decoro dell'intero edificio); così, ad esempio, in sede di riparto delle spese di manutenzione del tetto, quel che veramente rileverebbe non sarebbe tanto l'appartenenza del tetto medesimo ad alcuni o a tutti i condomini, quanto la funzione di copertura degli appartamenti (Cass. II, n. 532/1985; Cass. II, n. 1923/1973); parimenti, ai fini della corretta ripartizione tra i condomini delle spese per i lavori concernenti elementi strutturali portanti dall'intero edificio, si reputa irrilevante il dato formale della titolarità del bene, venendo in rilievo l'utilità dello stesso, con conseguente imputazione dei costi dell'intervento a tutti i condomini pro quota (Cass. II, n. 3470/2008, secondo cui, ai fini della corretta ripartizione delle spese tra i condomini di un edificio, riguardanti la costruzione di pilastri di acciaio, necessari per sostenere il prolungamento di un solaio comune solo ai condomini di un piano, non è rilevante la titolarità del diritto di proprietà ma la funzione della parte dell'edificio bisognosa degli interventi di ristrutturazione, con conseguente applicazione del criterio generale stabilito al comma 1 dell'art. 1123 c.c., secondo il quale tutti i condomini sono tenuti al pagamento pro quota, quando i pilastri siano elementi strutturali portanti l'intero stabile); in quest'ottica, si è aggiunto che, ai fini della corretta ripartizione delle spese di risanamento di alcuni pilastri di un complesso immobiliare costituito da corpi di fabbrica separati da giunti tecnici, strutturalmente portanti l'intero complesso, siccome necessari per sostenere non solo l'edificio sovrastante, ma anche elementi comuni agli altri edifici (nella specie, un camminamento su un porticato esterno condominiale), trova applicazione il criterio generale di cui all'art. 1123, comma 1, c.c., secondo il quale tutti i condomini sono tenuti al pagamento pro-quota, non rileva la titolarità del diritto di proprietà, quanto la funzione della parte dell'edificio bisognosa degli interventi di ristrutturazione (Cass. II, n. 13229/2019).

Questa conclusione è stata condivisa con riferimento ad ogni altra cosa, impianto o servizio, indispensabili per l'esistenza dell'edificio, sebbene appartenenti in proprietà esclusiva ad uno solo dei partecipanti al condominio; laddove del bene di proprietà esclusiva si avvantaggino anche gli altri condomini, ricavando, ad esempio, l'utilità del sostegno delle loro porzioni di piano, o della protezione delle stesse dagli agenti atmosferici, sulla stessa res concorre una comunione di godimento in favore di tutti i condomini beneficiati, i quali sono pure tenuti a sopportare le spese per la conservazione della cosa; è la funzionale inscindibilità di tali beni di proprietà esclusiva rispetto agli interessi condominiali a determinare, quindi, l'instaurarsi sulle medesime di una comunione incidentale di uso, la quale sorge non per intervento di una convenzione tra le parti ma per volontà della legge (Scarpa, 107).

Non sarebbe, perciò, sufficiente, l'attribuzione per titolo della proprietà individuale di una cosa, altrimenti presunta comune ex art. 1117 c.c., perché le spese ad essa necessarie gravino soltanto sul proprietario; quando il bene esclusivo sia necessario per l'esistenza delle unità immobiliari degli altri condomini, questi ultimi, quali partecipanti della rispettiva comunione di godimento, sono obbligati a contribuire agli oneri di manutenzione e di esercizio, a meno che il titolare solitario, in base ad espressa pattuizione, oltre a riservarsi la proprietà, abbia nel contempo pure assunto l'impegno di sostenere tali spese, con esonero degli altri comunisti da ogni concorso.

I magistrati di Piazza Cavour (Cass. II, n. 1154/1996, a proposito di un muro portante) aggiungono che l'obbligo di contribuzione alle spese del bene essenziale oggetto di mera comunione di godimento trarrebbe conferma dall'art. 882, commi 1 e 2, c.c., la cui ratio è nel senso che, nonostante la rinuncia alla comproprietà del muro comune, il comproprietario non può sottrarsi al concorso negli oneri di riparazione, quando il muro comunque sostiene un edificio di sua spettanza. Nella medesima ottica, si è puntualizzato (Cass. II, n. 18131/2020) che il condomino, autorizzato a rinunciare all'uso del riscaldamento centralizzato ed a distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto comune, rimane obbligato a pagare le sole spese di conservazione di quest'ultimo - quali, ad esempio, quelle di sostituzione della caldaia - perché l'impianto centralizzato è comunque un accessorio di proprietà comune, al quale egli potrà, in caso di ripensamento, riallacciare la propria unità immobiliare, tuttavia, qualora, in seguito ad un intervento di sostituzione della caldaia, il mancato allaccio non sia espressione della volontà unilaterale di rinuncia o distacco, ma una conseguenza dell'impossibilità tecnica di fruire del nuovo impianto, che non consente neppure un futuro collegamento, egli non può essere più considerato titolare di alcun diritto di comproprietà su tale impianto e perciò non deve più partecipare ad alcuna spesa ad esso relativa.

In dottrina, si sostiene, invece, che l'obbligo dei condomini di sopportare le spese di conservazione del bene di proprietà esclusiva, necessario, però, per le restanti unità immobiliari, deriverebbe piuttosto in via analogica, dall'art. 1030 c.c., il quale esenta il proprietario del fondo servente dagli oneri correlati alle opere di manutenzione o consolidamento occorrenti per consentire l'esercizio della servitù, mentre il concorso alle spese del proprietario esclusivo del bene necessario potrebbe discendere dall'art. 1069, comma 3, c.c. (Triola 2007, 656).

Dall'estensione di quest'ultima norma si avrebbe allora che, ove sia stato direttamente il proprietario della cosa o dell'impianto, indispensabili per l'esistenza dell'edificio, ad eseguire sul bene – sia pure nel proprio interesse – opere necessarie alla conservazione dell'utilità condominiale, le relative spese dovrebbero essere sostenute dai soggetti interessati, e cioè dal proprietario esclusivo della res e dagli altri condomini avvantaggiati, in proporzione ai rispettivi vantaggi.

Riprendendo l'impostazione tradizionale, va sottolineato che, poiché tutti i partecipanti al condominio, ossia i condomini, sono comproprietari dei beni facenti parte della comunione edilizia, secondo una quota ideale corrispondente al valore del proprio appartamento, rapportato al valore dell'intero edificio, secondo un principio che vige in ogni tipo di comunione, ne consegue che le spese che attengono direttamente a tali beni debbano essere sopportate proporzionalmente in relazione all'entità della quota stessa, e tale previsione poggia sulla presunzione secondo cui il legislatore, nell'impossibilità di determinazione differenziata, presume corrispondenti ai valori delle proprietà individuali le utilità che le cose comuni sono destinate alle proprietà medesime (si pensi all'androne dello stabile, che è un bene indivisibile nella struttura e nell'uso, e che presta un servizio di generale utilità per tutti i condomini).

Nel codice civile, quindi, non si è ricorso alla suddivisione paritaria tra i vari condomini per ragioni di equità, dal momento che, di regola, negli stabili coesistono unità immobiliari di varia grandezza, sicché la ripartizione delle spese in base al numero degli appartamenti, anziché in base ai valori millesimali delle singole proprietà, creerebbe un'ingiustificata disparità di trattamento, in particolare, per le unità immobiliari più piccole che verrebbero poste allo stesso piano di quelle più grandi (De Tilla 2001, 387).

È stata, invece, ritenuta corretta la ripartizione in parti uguali delle spese per l'installazione dell'impianto di televisione centralizzato, trattandosi di servizio destinato a servire i condomini in parti uguali (Cass. II, n. 2916/1969), quanto meno per l'antenna e la centralina, mentre le c.d. discese restano a carico di ciascun condomino a seconda del numero di prese per ogni appartamento, e lo stesso dicasi per le spese concernenti i citofoni e le cassette postali (in argomento, Cass. II, n. 12259/2023, sul presupposto che la presenza di un diritto di servitù in favore indistintamente delle proprietà esclusive presenti in un edificio condominiale assoggetta il diritto stesso, sia nelle modalità di esercizio, sia con riguardo alle spese di gestione del bene, alla disciplina propria del condominio, con conseguente criterio di ripartizione legale di quest'ultime fondato sulle quote di proprietà, ha ritenuto, tuttavia, valida la disposizione del regolamento condominiale, di natura contrattuale, secondo cui le suddette spese dovessero essere ripartite in quote uguali tra i condomini).

Resta inteso – ad avviso di Cass. II, n. 9280/2018 – che, in tema di c.d. condominio minimo, in mancanza di tabelle regolarmente approvate, la quota di partecipazione alle spese gravante sui singoli proprietari deve essere determinata dal giudice in base alla disciplina del condominio di edifici di cui all'art. 1123 c.c. e, quindi, tenendo conto del valore delle loro proprietà esclusive, e non, invece, applicando la regolamentazione in materia di comunione prevista dall'art. 1101 c.c., secondo la quale, in assenza di altra indicazione degli accordi, le quote si presumono uguali (sempre in tema di condominio minimo, Cass. VI/II, n. 5288/2012, ha precisato che la comunicazione, da parte di un condominio, del riparto delle spese non possa sostituire l'atto presupposto, ossia la delibera di approvazione, che è necessaria anche in presenza di un condominio composto di due soli condomini, cui è applicabile l'art. 1136 c.c., mentre il pagamento di acconti non può costituire prova di una deliberazione di approvazione delle spese inesistente, restando, peraltro, possibile, ove non si raggiunga l'unanimità e non si decida, poiché la maggioranza non può formarsi in concreto, il ricorso all'autorità giudiziaria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1105 e 1139 c.c.).

Dunque, l'onere di concorrere alle spese comuni è direttamente conseguente al diritto di proprietà del singolo appartamento e di comproprietà proporzionale sulle parti comuni; l'art. 1118, comma 2, c.c. – che non può essere derogato argomentando ex art. 1138 c.c. – sancisce, infatti, che il condomino non può, rinunciando al diritto sulle cose comuni di cui al precedente art. 1117 c.c., sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione, a meno che rinunci contemporaneamente ai diritti sull'unità immobiliare di sua esclusiva proprietà; la giurisprudenza fa qualche eccezione per gli impianti condominiali da considerarsi superflui in relazione alle condizioni oggettive ed alle esigenze delle moderne condizioni di vita, oppure illegali perché vietati da norme imperative (Cass. II, n. 4652/1991, che ha considerato legittima la rinuncia di un condomino al suo diritto sull'impianto condominiale di autoclave, adducendo l'esistenza di impianti pubblici idrici e fognari perfettamente efficienti, e sul pozzo nero, perché in contrasto con le prescrizioni di legge).

È interessante, in proposito, osservare la differenza rispetto al regime della comunione: l'art. 1104, comma 1, c.c., nel fissare l'obbligo dei partecipanti alla contribuzione delle spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune, prevede la facoltà per il comunista di liberarsi di detto obbligo con la rinuncia al suo diritto; nel condominio, invece, coesiste un diritto di proprietà con uno di comproprietà, mentre nella comunione vi è solo quest'ultimo, per cui, nel primo caso, il condomino, dopo la rinuncia, resta pur sempre proprietario dell'unità immobiliare strettamente collegata al godimento delle cose comuni, importando un aggravio per gli altri senza un vantaggio corrispondente.

Il comma 1 del citato art. 1118 ci dice, poi, che il diritto di proprietà di ciascun condomino sui beni comuni ha la sua estensione, e correlativo limite, determinato nella proporzione tra il valore della sua unità immobiliare ed il valore dell'intero edificio (di regola, secondo la tabella millesimale esistente), il che, però, non significa che la sua facoltà di utilizzazione sia ristretta per ciascuno entro i confini della rispettiva quota di proprietà; poiché il diritto, anche se espresso in quote millesimali, è pur sempre «ideale» e non reale, non è concepibile che il singolo possa usare, ad esempio, il cortile, l'androne, l'ascensore, le scale, la terrazza, e quant'altro per «tot» millesimi.

Indipendentemente dall'estensione del suo diritto, a norma dell'art. 1102 c.c., il singolo partecipante può usare della cosa comune a suo piacimento e nella sua interezza – a prescindere dal fatto che sia titolare di una quota maggiore o minore della comproprietà ragguagliata al valore dell'appartamento di sua pertinenza – con il solo limite che lo stesso uso non comporti un'alterazione della destinazione del bene e che non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, e con gli stessi limiti «può apportare a proprie spese le modifiche necessarie per il miglior godimento della cosa» comune, anche se si risolvano a suo esclusivo vantaggio (accollandosi però le spese, che quindi non andranno ripartite tra tutti i partecipanti).

Diverso discorso deve farsi riguardo ai danni causati da un condomino alle parti comuni, che possono essere addebitati a quest'ultimo soltanto se vi sia stato riconoscimento di responsabilità o all'esito di un accertamento giudiziale (Cass. II, n. 26360/2017), non potendo l'assemblea, in mancanza di tali condizioni, porre a suo carico l'obbligo di ripristino, o imputargli a tale titolo alcuna spesa, ed essendo obbligata ad applicare, come criterio di ripartizione della spesa, la regola generale stabilita dall'art. 1123 c.c.

Logico corollario è che, in tema di condominio negli edifici, il principio secondo cui, in ipotesi di danni alle parti comuni ascrivibili ad uno o ad alcuni dei condomini, sussiste l'obbligo del responsabile di assumere l'onere del relativo ripristino, non osta a che, fino a quando il singolo partecipante non abbia riconosciuto la propria responsabilità o essa non sia stata accertata in sede giudiziale, l'assemblea abbia il potere di ripartire tra tutti i condomini le spese di ricostruzione o riparazione dei beni danneggiati, secondo le regole generali, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, fermo restando il diritto di costoro di agire, individualmente o mediante l'amministratore, per ottenere dal responsabile il rimborso di quanto anticipato (Cass. II, n. 10053/2013: nella specie, in applicazione dell'enunciato principio, si era negata la nullità della deliberazione assembleare di approvazione dei lavori di rifacimento di un tetto comune e di ripartizione delle relative spese tra i condomini, pur trattandosi di opere imposte da un precedente intervento edilizio, costituente illecito urbanistico, unilateralmente eseguito sul medesimo tetto da alcuni comproprietari; sul punto, v., altresì, Cass. II, n. 7890/1999; Cass. II, n. 3176/1978).

Per completezza, va rammentato che, nell'ipotesi dell'aggiornamento della c.d. anagrafe condominiale, è appositamente l'art. 1130, n. 6, c.c. che autorizza l'amministratore, in caso di inerzia da parte dei condomini interessati, ad addebitare “i costi ai responsabili” relativi alle informazioni necessarie).

Si contempla, quindi, l'applicazione di un'apposita sanzione risarcitoria a carico del responsabile affidata all'amministratore, per cui deve oramai ritenersi che il singolo condomino debba rispondere tout court verso gli altri condomini dei danni causati alla gestione condominiale per effetto del suo rifiuto o delle sue resistenze alla regolare ed aggiornata tenuta del registro dell'anagrafe del fabbricato; in altri termini, tale obbligo, in capo al condomino che non collabori, di sostenere la spesa relativa ai costi sopportati dall'amministrazione per provocarsi in altra sede e per altra via i dati necessari, non presuppone più – come nel caso sopra esaminato – che egli stesso abbia riconosciuto la sua responsabilità, o che quest'ultima sia stata accertata in sede giudiziale.

In quest'ottica sanzionatoria che prescinde da un accertamento giudiziario, si inserisce anche l'opportuna aggiunta introdotta al testo dell'art. 69, comma 1, disp. att. c.c. – al cui commento si rinvia – secondo la quale l'assemblea può, con il quorum della metà del valore dell'edificio, procedere alla revisione delle tabelle millesimali qualora sopravvengano determinati mutamenti edilizi, ma, «in tal caso il relativo costo è sostenuto da chi ha dato luogo alla variazione».

Invero, il fatto che l'assemblea possa addossare al condomino responsabile, il quale ha provocato la suddetta variazione dell'edificio, le spese dell'eventuale perizia necessaria al fine della redazione delle nuove tabelle, si giustifica per il fatto che, in caso di ampliamenti, spesso arbitrari, era proprio il condomino “furbetto” che non dava il suo consenso alla revisione alle tabelle millesimali, meglio rispecchiante il reale valore millesimale attribuito alla sua unità abitativa rispetto all'articolazione dell'intero fabbricato, costringendo i condomini “onesti” a sobbarcarsi l'onere di un lungo e costoso giudizio per far accertare l'effettiva situazione.

Senza contare, poi, che la giurisprudenza (v., tra le altre, Cass. III, n. 5690/2011) è concorde nel ritenere che l'efficacia esecutiva della sentenza costitutiva (e non dichiarativa) di revisione delle tabelle millesimali operi soltanto a decorrere dal suo passaggio in giudicato (e non dalla domanda, né dalla realizzazione delle opere innovatrici dello stabile).

Ne consegue che l'efficacia ex nunc (e non ex tunc) di tale decisione, peraltro giunta a notevole distanza di tempo dall'incardinazione dell'azione – sovente proprio a causa della condotta ostruzionistica o dilatoria del soggetto controinteressato alla stessa revisione – comportava, nel frattempo, in capo agli altri condomini un'ingiusta partecipazione economica alle spese superiore al dovuto, a fronte del vantaggio medio tempore lucrato dal soggetto che aveva alterato abusivamente la consistenza dell'edificio.

Proporzionalità all'uso

Quando, invece, si tratti di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, il criterio di ripartizione delle spese non è quello previsto dal comma 1 dell'art. 1123 c.c., ma quello della proporzionalità tra spese ed uso, stabilito dal comma 2 del medesimo articolo.

La regola di ponderazione dell'obbligo del partecipante in rapporto all'uso che ciascuno può fare della cosa è spiegata come disposizione speciale rispetto al principio generale della comunione (art. 1100 c.c.), in forza del quale le spese debbono gravare su tutti i partecipanti in proporzione al valore delle quote di ciascuno di essi, che si presume eguale quando non risulti diversamente, ed è inspirata, quindi, ad un'esigenza di disciplina più adatta alle specifiche caratteristiche del condominio negli edifici, ove le parti comuni hanno una precipua funzione strumentale rispetto alle parti in proprietà esclusiva dei singoli condomini, delle quali esse sono a servizio consentendone l'esistenza e l'uso (v., tra le altre, Cass. II, n. 8292/2000) ; in termini plastici, v., da ultimo, Cass. II, n. 6010/2019, ad avviso della quale, in tema di condominio di edifici, se le cose comuni sono destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese, a meno che non vi sia un diverso accordo adottato all'unanimità dalle parti, vanno ripartite in proporzione all'uso che ogni condomino può farne, come stabilito dall'art. 1123, comma 2, c.c.).

Orbene, nel tentativo di dare una spiegazione alla tripartizione dei criteri di ripartizione delle spese, che connota l'art. 1123 c.c., un'autorevole dottrina (Corona 1969, 115) evidenzia che, mentre il comma 1 riguarda tanto le spese per la «conservazione» quanto quelle per il «godimento», e il comma 3 si rivolge esclusivamente alle spese per la conservazione (così spiegandosi il termine «manutenzione»), nella speciale ipotesi del c.d. condominio parziale, il comma 2 si limiterebbe a regolamentare la ripartizione delle spese per l'uso delle cose destinate a servire i condomini in misura diversa.

Infatti, in tale ipotesi, il metro di riparto delle spese non è quello previsto dal comma 1 dell'art. 1123 c.c., ma quello della proporzionalità tra spese ed uso; questa contrapposizione tra i primi due commi dell'art. 1123 c.c. costituirebbe ulteriore conferma della rilevanza del fine che l'obbligazione di contribuire alle spese persegue nel regime condominiale; un precetto ha origine nel fondamento delle spese imposte dalla conservazione del valore capitale dei beni comuni, o dall'esigenza di tutela o di ripristino della loro integrità, spese che non possono che imputarsi ai rispettivi proprietari, mentre l'altro precetto, invece, trovando il proprio fondamento negli esborsi correlati al godimento delle cose, non può che registrare come destinatari chi eserciti l'uso.

La regola di ponderazione dell'obbligo del partecipante in rapporto all'uso che ciascuno può fare della cosa è spiegata – come visto – come disposizione speciale rispetto al principio generale della comunione, in forza del quale le spese debbono gravare su tutti i partecipanti in proporzione del valore delle quote di ciascuno.

In tal senso, si sostiene che la distinzione tra spese per la conservazione e spese per l'uso sia in grado di comprendere tutte le spese per le parti comuni: nel senso che alla conservazione sono interessati i proprietari, all'uso chiunque lo eserciti; tanto più che queste stesse categorie poggiano su una base normativa, costituita dall'art. 1104 c.c., il quale esplicita siffatta distinzione (Cass. II, n. 19893/2011; Cass. II, n. 11779/2007).

Abbiamo sopra rilevato che possono qualificarsi spese per la conservazione quelle attinenti alla tutela dell'integrità materiale e, quindi, del valore capitale del bene comune; solo allora le spese per la conservazione sarebbero propriamente descritte come obbligazioni propter rem, non rilevando alcun elemento soggettivo nel nesso corrente tra l'obbligo di contributo ed il bene, perciò la spesa di conservazione è essenzialmente misurata sulla quota, e cioè sulla quantità dell'appartenenza.

Le spese per l'uso delle parti comuni, viceversa, derivano dal dato mutevole e fattuale del godimento soggettivo del bene, e perciò si suddividono in proporzione all'utilizzo, indipendentemente dal valore della proprietà; in altri termini, il debito relativo all'uso prescinde dall'attribuzione della res, in quanto non dipende da una predeterminata situazione di contitolarità.

Ulteriore conferma si trarrebbe dal novellato art. 1118, comma 3, c.c., secondo il quale «il condomino non può sottrarsi all'obbligo di contribuire alle spese per la conservazione delle parti comuni, neanche modificando la destinazione d'uso della propria unità immobiliare, salvo quanto disposto da leggi speciali»; la disposizione fa espresso riferimento alle spese per la conservazione, e non a quelle per l'uso, giacché queste insorgono soltanto quale conseguenza della fruizione delle cose, degli impianti e dei servizi.

A questa complessa ricostruzione si è, tuttavia, obiettato che la generica menzione delle «spese» adoperata nel comma 2 dell'art. 1123 c.c. debba essere, piuttosto, spiegata con la superfluità della ripetizione dell'elencazione fatta nel comma precedente, e faccia, quindi, propendere per la conclusione che, quando si tratti di cose destinate a servire in misura diversa «tutti» (e non soltanto alcuni, come nella diversa fattispecie contemplata dal comma 3 dell'art. 1123 c.c.), sia le spese per la conservazione, sia le spese per il godimento vadano ripartite in base all'uso (Triola 2007, 637).

Pertanto, in deroga al principio generale del collegamento proporzionale tra spese e quota di proprietà, si permette di graduare, tra i condomini, l'onere delle spese di manutenzione di alcuni beni o di funzionamento di determinati impianti, in relazione alle caratteristiche oggettive quando gli stessi siano destinati a servire, in misura diversa (maggiore o esclusiva), alcuni condomini o gruppi di condomini rispetto agli altri, pur rimanendo tutti i partecipanti al condominio comproprietari di una quota pari al valore dell'appartamento (Cass. II, n. 7077/1995, in una particolare fattispecie concernente le spese di installazione delle porte tagliafuoco).

In quest'ordine di concetti, il comma 2 dell'art. 1123 c.c., che nell'ipotesi di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, dispone che le relative spese sono ripartite in proporzione dell'uso da ciascuno fattone, non può subire deroga per la circostanza che l'unità immobiliare sia compresa nella tabella millesimale generale dell'edificio condominiale, in quanto tali tabelle, formate in base al solo valore delle singole unità immobiliari, servono solo per il riparto delle spese generali e di quelle che riguardano l'edificio comuni a tutti i condomini, ma non sono utilizzabili per il riparto delle spese che non sono comuni a tutti i condomini in ragione del diverso uso delle cose condominiali (in una fattispecie particolare, Cass. II, n. 8484/1987, ha confermato la pronuncia della corte di merito che aveva ritenuto non dovute dalla parte attrice, la cui proprietà era pure inclusa nelle tabelle millesimali, le spese per la manutenzione delle fognature, in quanto il suo locale situato nel piano interrato era sfornito di servizi igienici).

Così, anche se la proprietà del cortile, dell'ascensore, del tetto, ecc. appartiene a tutti i condomini, nessuno escluso, la spesa per la loro manutenzione dovrà far carico solamente (o in misura maggiore) a coloro che utilizzano detti beni o impianti in via esclusiva (o maggiore), in relazione alle caratteristiche oggettive degli stessi; di contro, se si esclude la possibilità di un uso differenziato – ad esempio, una conduttura di scarico interessante tutti gli appartamenti dello stabile che dispongono di un identico numero di immissioni – le relative spese dovranno essere ripartite secondo il valore delle singole proprietà individuali (v., ex multis, Cass. II, n. 1511/1977; nello stesso ordine di concetti, Cass. II, n. 22573/2016 ha chiarito che le spese del riscaldamento centralizzato possono essere legittimamente ripartite in base al valore millesimale delle singole unità immobiliari servite, qualora manchino sistemi di misurazione del calore erogato in favore di ciascuna di esse, che ne consentano il riparto in proporzione all'uso).

In quest'ottica, di recente, si è statuito (Cass. II, n. 19651/2017) che la deliberazione condominiale che, a maggioranza ed in deroga al criterio legale del consumo effettivamente registrato o del valore millesimale delle singole unità immobiliari servite, ripartisca in parti uguali tra queste ultime le spese di esercizio dell'impianto di riscaldamento centralizzato è, indipendentemente dal precedente criterio di riparto adottato nel condominio, nulla per impossibilità dell'oggetto, giacché tale statuizione, incidendo sulla misura degli obblighi dei singoli condomini fissata dalla legge o per contratto, eccede le attribuzioni dell'assemblea e, pertanto, richiede, per la propria approvazione, l'accordo unanime di tutti i condomini, quale espressione della loro autonomia negoziale).

Va precisato, peraltro, che la deroga ipotizzata dal comma 2 dell'art. 1123 c.c. è correlata al godimento potenziale, e non effettivo, che il condomino può ricavare dalla cosa comune, in base all'oggettiva destinazione impressa alla stessa (Frugoni, 15).

Quindi, da un lato, la qualificazione dell'obbligo delle spese gravante sui condomini in termini di obbligazione propter rem – cioè la stretta connessione tra detto obbligo e la contitolarità dei diritto di proprietà che ciascun condomino vanta sui beni comuni, con accollo a chiunque subentri in tale diritto – esclude, in sostanza, che possa ritenersi esonerato dal pagamento delle spese il partecipante che, pur potendo godere della cosa comune, di fatto non la utilizzi (non si può sottrarre al pagamento delle spese di pulizia delle scale il condomino che adduca di non abitare l'appartamento).

Risulta, quindi, pienamente condivisibile l'assunto secondo cui, salva diversa convenzione, la ripartizione delle spese della bolletta dell'acqua, in mancanza di contatori di sottrazione installati in ogni singola unità immobiliare, deve essere effettuata, ai sensi dell'art. 1123, comma 1, c.c., in base ai valori millesimali, sicché è viziata, per intrinseca irragionevolezza, la delibera assembleare, assunta a maggioranza, che, adottato il diverso criterio di riparto per persona in base al numero di coloro che abitano stabilmente nell'unità immobiliare, esenti dalla contribuzione i condomini i cui appartamenti siano rimasti vuoti nel corso dell'anno (Cass. II, n. 17557/2014; in argomento, v., altresì, Cass. II, n. 10816/2009, secondo cui, sul presupposto che l'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. non trova applicazione nei rapporti tra condominio e singoli condomini, qualora si discuta di servizio di erogazione idrica e la fruizione dell'acqua sia in concreto dimostrata dalla misurazione mediante un contatore dei consumi, la controversia relativa alla quantità di acqua consumata non attiene all'effettività del servizio, ma al corrispettivo della prestazione ricevuta, in relazione alla quale la deliberazione condominiale di approvazione e riparto del consuntivo di spesa, ove non impugnata, assume necessariamente efficacia vincolante; sempre in tema di ripartizione di spese condominiali relative all'erogazione di acqua, qualora l'amministratore che abbia stipulato con l'ente erogatore un contratto avente ad oggetto il consumo complessivo del fabbricato onde beneficiare dell'applicazione di una tariffa agevolata, si è opinato che lo stesso possa, poi, del tutto legittimamente, calcolare la ripartizione interna delle spese pro quota in considerazione dei singoli ed effettivi consumi di ciascuno dei condomini, a prescindere dalla circostanza che questi, singolarmente considerati nel loro consumo, non avrebbero consentito l'applicazione della suddetta tariffa agevolata, v. Cass. II, n. 372/2003).

Per converso, proprio il principio di proporzionalità fra spese ed uso è invocato al fine di negare l'onere del condomino di contribuire alle spese di gestione del bene comune, allorché, avuto riguardo alla destinazione della quota immobiliare di proprietà esclusiva, sia impedita, per ragioni strutturali o attinenti alla destinazione oggettiva, indipendenti dalla libera scelta del condomino, la stessa possibilità dell'uso della res (ad esempio, si potrebbe sostenere l'esclusione dai proprietari dei negozi dal concorrere alle spese relative ai servizi di condominiali di giardinaggio e piscina cui non abbiano accesso).

Utilità separata

Il comma 3 dell'art. 1123 c.c., infine, dispone che, quando si tratta di cose che, benché comuni, sono destinate a servire solo una parte dell'intero fabbricato, deve seguirsi il criterio secondo cui le spese vanno poste soltanto a carico dei condomini che traggono utilità dalla cosa (la norma parla di scale, lastrici solari, cortili, ma è ovvio che, in tale regime, possono essere attratte in via analogica anche altre parti comuni non richiamate).

Tale disposto trova il suo fondamento nel collegamento strumentale, materiale e funzionale, e, in altri termini, nella relazione di accessorio a principale, con le singole unità immobiliari, per cui le cose, servizi ed impianti necessari per l'esistenza e l'uso delle predette unità di una parte soltanto dell'edificio appartengono ai proprietari di queste unità e non agli altri, riconoscendo così la cittadinanza nel nostro ordinamento alla figura del c.d. condominio parziale, già accennata in precedenza (Cusano, 110; De Tilla 1992, 540).

A ben vedere, di per sé, il condominio parziale non esige un proprio fatto o atto costitutivo, ma insorge ope legis, in presenza della condizione materiale o funzionale giuridicamente rilevante, finendo per coesistere nell'edificio con la più vasta organizzazione configurata dal condominio; nessuna modifica relativa al regime delle cose comuni può, infatti, derivare da una deliberazione di istituzione di uno o più condomini parziali nell'àmbito del fabbricato: la volontà della maggioranza assembleare non potrebbe validamente modificare le relazioni di comproprietà tra i singoli condomini e le parti comuni dell'edificio, né incidere sulla legittimazione dei partecipanti a decidere in ordine alla loro gestione.

Nulla esclude, però, che si possa ipotizzare un'apposita clausola del regolamento volta ad attribuire soltanto ad un gruppo di condomini la proprietà di un bene o di un impianto, oppure ad accertarne la titolarità esclusiva in forza della destinazione oggettiva della cosa stessa, dando conto delle conseguenze gestionali di tale situazione di condominio parziale (CelesteSalciarini 2006, 278).

Secondo la giurisprudenza, in siffatte ipotesi, diviene automaticamente configurabile la fattispecie del condominio parziale ex lege: tutte le volte, cioè, in cui un bene – come detto – risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell'edificio in condominio, esso rimane oggetto di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene.

Le sentenze, pur dando per scontata l'ammissibilità di una situazione giuridicamente rilevante di «condominio parziale», prescegliendone una definizione astratta quale strumento di semplificazione dei rapporti gestori interni alla collettività, giustificato dall'appartenenza di determinati beni o servizi soltanto ad alcuni condomini, si limitano, in realtà, a dare soluzione ai singoli casi di specie (v., tra le altre, Cass. II, n. 23851/2010, relativa alle spese di rifacimento di un tetto; Cass. II, n. 21246/2007, relativa al corridoio di accesso a più appartamenti; Cass. II, n. 8066/2005, sulle spese dei singoli corpi di fabbrica di un complesso di edifici raggruppati in blocchi; Cass. II, n. 8136/2004, concernente un corridoio comune soltanto a parte del fabbricato; Cass. II, n. 1255/1995, riguardo i proprietari dei box contenuti in un immobile che, benché posto all'interno del perimetro condominiale delimitato da un muro di cinta, separato dall'edificio con le unità abitative, erano stati obbligati a concorrere alle spese di manutenzione della facciata di quest'ultimo; e ancora, Cass. II, n. 8292/2000; Cass. II, n. 651/2000; Cass. II, n. 7885/1994; Cass. II, n. 9084/1991; Cass. II, n. 8958/1990; Cass. II, n. 9644/1987; Cass. II, n. 3882/1985; Cass. II, n. 2070/1985; Cass. II, n. 2206/1984; Cass. II, n. 1632/1983; Cass. II, n. 1559/1980).

In quest'ordine di concetti, ad esempio, in sede di ripartizione delle spese del tetto di un complesso immobiliare coperto da tetti diversi, occorrerebbe aver riguardo alla copertura dei singoli corpi di fabbrica, e porre le medesime spese non a carico di tutti i condomini, e lo stesso dicasi per i lastrici solari di proprietà comune per tutto ciò che concerne la pavimentazione, il manto di asfalto o di materiale impermeabile, le solette che li sorreggono, le gronde, i canali di attraverso cui si raccolgono e defluiscono le acque piovane, e quant'altro; così proseguendo, nel caso di uno stabile con due scale accessibili dallo stesso ingresso, che servono due gruppi di condomini distinti, le spese per le scale andranno a carico del relativo gruppo che viene servito, mentre quelle per l'androne comune saranno suddivise tra tutti i condomini; così le spese di manutenzione delle colonne di eduzione e di scarico graveranno su ogni gruppo di condomini situati sulla stessa verticale e non sugli altri, e via dicendo.

Si consideri, peraltro, come, per effetto della Riforma del 2013, con i nuovi artt. 1120,1122-bis e 1122-ter c.c., sono stati incentivati, nella fase formativa della deliberazione assembleare, alcuni impianti, per la loro finalità di ordine pubblico (miglioramento della sicurezza e della salubrità), il loro rilievo sociale (eliminazione delle barriere architettoniche o produzione di energie rinnovabili), o la funzione informativa (radiotelevisioni).

Tale favor legislativo per la realizzazione di impianti successivamente alla costruzione dell'edificio e per effetto di maggioranze più agevolmente raggiungibili accresce il numero di beni non costituenti proprietà comune di tutti i condomini, bensì appartenenti in proprietà a quei soli condomini che li abbiano realizzati a loro spese, rimanendo salva la facoltà degli altri condomini, prevista dall'art. 1121, ultimo comma, c.c., di partecipare successivamente all'innovazione, trattandosi, di regola, di impianti suscettibili di utilizzazione separata e, ad un tempo, molto gravosi. (v., da ultimo, Cass. II, n. 10850/2020, riguardo all’impianto di ascensore installato ex novo, per iniziativa ed a spese di alcuni condomini, successivamente alla costruzione dell'edificio).

Rimangono, perciò, esonerati da ogni contribuzione i condomini che non intendano trarre vantaggi da tali innovazioni, e i costi vengono sostenuti dalla maggioranza dei condomini che le abbia deliberate; il condomino che non voglia partecipare alle spese per un'innovazione gravosa o voluttuaria, deve, in ogni modo, manifestare il suo dissenso in assemblea o con la tempestiva impugnazione della deliberazione (Salis 1972, 369, traeva argomento proprio dal 1121 c.c. per ricavarne l'ipotizzabilità di conseguenti condominii parziali aventi ad oggetto l'innovazione deliberata a maggioranza)

Il condomino dissenziente (come i suoi eredi e aventi causa) può, poi, esercitare il diritto potestativo di partecipare successivamente ai vantaggi delle innovazioni gravose o voluttuarie, contribuendo pro quota nelle spese di esecuzione e di manutenzione dell'opera ragguagliate al valore attuale della moneta, onde evitare arricchimenti in danno dei condomini che hanno assunto l'iniziativa dell'opera.

Diverso rimane il caso dell'impianto pur installato successivamente alla costruzione dell'edificio, ma con il consenso di tutti i condomini, essendo lo stesso di proprietà comune – secondo la presunzione di cui all'art. 1117, n. 3), c.c., in mancanza di titolo contrario – fra tutti i condomini in proporzione al valore dell'unità di proprietà esclusiva (art. 1118 c.c.) e la ripartizione delle spese relative è regolata dai criteri stabiliti dall'art. 1123 c.c.

Comunque, dalle situazioni del c.d. condominio parziale derivano, poi, implicazioni inerenti la gestione dei beni, nel senso che non dovrebbe sussistere il diritto di partecipare all'assemblea da parte di coloro che non contribuiscono alle spese di conservazione e manutenzione delle cose, servizi ed impianti di cui non sono titolari, ragion per cui la composizione del collegio e delle relative maggioranze si dovranno modificare di conseguenza.

È espressione di tale impostazione la pronuncia (Cass. II, n. 7885/1994, già richiamata a proposito delle innovazioni gravose e voluttuarie poste in essere soltanto da alcuni condomini), secondo la quale i presupposti per l'attribuzione della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti vengono meno se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali e funzionali, sono necessari per l'esistenza e per l'uso, oppure sono destinati all'uso o al servizio, non di tutto l'edificio, ma di una sola parte, o di alcune parti di esso, ricavandosi dall'art. 1123, comma 3, che le cose, i servizi, gli impianti, non appartengono necessariamente a tutti i partecipanti; ne consegue che, dalle situazioni di c.d. condominio parziale, derivano implicazioni inerenti la gestione e l'imputazione delle spese, in particolare non sussistendo il diritto di partecipare all'assemblea relativamente alle cose, ai servizi, agli impianti, da parte di coloro che non ne hanno la titolarità, ragion per cui la composizione del collegio e delle maggioranze si modificano in relazione alla titolarità delle parti comuni che della deliberazione formano oggetto.

Nel medesimo ordine di concetti, si pone una più recente decisione (Cass. II, n. 4127/2016), secondo la quale sussiste condominio parziale ex lege, in base alla previsione di cui all'art. 1123, comma 3, c.c., ogni qualvolta un bene, rientrante tra quelli ex art. 1117 c.c., sia destinato, per obiettive caratteristiche strutturali e funzionali, al servizio e/o godimento esclusivo di una parte soltanto dell'edificio condominiale; tale figura risponde alla ratio di semplificare i rapporti gestori interni alla collettività condominiale, sicché il quorum, costitutivo e deliberativo, dell'assemblea nel cui ordine del giorno risultino capi afferenti la comunione di determinati beni o servizi limitati solo ad alcuni condomini, va calcolato con esclusivo riferimento a costoro ed alle unità immobiliari direttamente interessate.

Per completezza, va rilevato che non può ravvisarsi una legittimazione processuale del condominio parziale distinta da quella del condominio dell'intero edificio, né ammettersi che esso possa, mediante un proprio autonomo amministratore, agire a difesa dei diritti comuni inerenti alle parti oggetto della più limitata contitolarità di cui all'art. 1123, comma 3, c.c.: è ciò tanto assumendo la qualità di attore o di convenuto in una causa inerente la gestione di quelle parti, quanto intervenendo nel giudizio in cui la difesa dei beni oggetto del condominio parziale sia stata già assunta dall'amministratore dell'intero fabbricato, o anche avvalendosi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell'intero condominio rappresentato dall'amministratore (Cass. II, n. 16079/2016; Cass. II, n. 12641/2016; Cass. II, n. 2363/2012, secondo cui il condominio parziale – situazione configurabile per la semplificazione dei rapporti gestori interni alla collettività condominiale, in ordine a determinati beni o servizi appartenenti soltanto ad alcuni condomini – è privo di legittimazione processuale in sostituzione dell'intero condominio in ordine all'impugnazione per cassazione di una sentenza di merito, che abbia visto quest'ultimo parte di una controversia volta al risarcimento dei danni occasionati dall'esecuzione di un appalto dal medesimo conferito, a nulla rilevando che amministratore del condominio parziale ricorrente sia la stessa persona fisica, investita di tale ufficio nel condominio dell'intero edificio; v., però, anche Cass. II, n. 7885/1994, la quale, a proposito dei rapporti tra condominio dell'intero edificio e condominio parziale, ingannevolmente affermava che, «trattandosi di gruppi di interessi diversi, facenti capo a soggetti distinti, differenziate sono l'amministrazione e la rappresentanza»).

Oltre a doversi escludere la ravvisabilità di una distinta ed ulteriore capacità processuale del condominio parziale, deve qui aggiungersi che i criteri di ripartizione delle spese necessarie per provvedere alla manutenzione delle parti comuni, stabiliti dagli artt. 1123,1124,1125 e 1126 c.c., non possono mai influire sulla legittimazione del condominio nella sua interezza, né sulla rappresentanza del suo amministratore estesa a tutti i condomini (argomentando da Cass. II, n. 3676/2006; Cass. II, n. 642/2003; Cass. II, n. 15131/2001; Cass. II, n. 9009/1998).

Pertanto, la limitazione della responsabilità per le obbligazioni di spesa riferibili ad una situazione di condominio parziale, ai sensi dell'art. 1123, comma 3, c.c., non determina in alcun modo l'esautoramento dei poteri rappresentativi dell'amministratore del condominio, pur essendo destinata ad avere incidenza anche nei rapporti esterni del condominio.

In pratica, qualora, in ipotesi di spesa occorrente per cose rientranti in un condominio parziale, il terzo contraente trova comunque quale suo interlocutore l'amministratore, investito dalle attribuzioni istituzionali concernenti le parti comuni dell'edificio, viene a verificarsi un'automatica restrizione degli effetti soggettivi dell'agire negoziale del rappresentante, nel senso che l'obbligazione così assunta dal mandatario deve essere automaticamente imputabile ai soli condomini interessati, in quanto proprietari delle porzioni cui quelle cose, quegli impianti o quei servizi siano accessori.

Deroga convenzionale

Regolamento condominiale

I criteri stabiliti dall'art. 1123 c.c. possono essere derogati, come prevede la stessa norma – «salvo diversa convenzione» – occorrendo però una convenzione sottoscritta da tutti i condomini (v., ex multis, Cass. II, n. 16321/2016; Cass. II, n. 27233/2013; Cass. II, n. 28679/2011; Cass. II, n. 7300/2010; Cass. II, n. 20318/2004; Cass. II, n. 5975/2004; Cass. II, n. 641/2003; Cass. II, n. 3944/2002; Cass. II, n. 13631/2002; Cass. II, n. 2301/2001; Cass. II, n. 126/2000; Cass. II, n. 1511/1997; Cass. II, n. 6231/1993; Cass. II, n. 12881/1992; Cass. II, n. 9833/1991).

Al riguardo, si è, però, precisato (Cass. II, n. 23688/2014) che il regolamento di un condominio non integra, rispetto ad altro condominio facente parte del medesimo supercondominio, la “diversa convenzione” di cui all'art. 1123, comma 1, ultima parte, c.c., che si riferisce esclusivamente ad una ripartizione convenzionale tra gli interessati, diversa da quella legale, delle spese che i condomini di un edificio sono tenuti a sopportare, sicché è stata considerata nulla la deliberazione che accollava ai condomini gli oneri relativi ad un altro fabbricato sul solo fondamento delle disposizioni regolamentari di quest'ultimo in assenza di espressa adesione.

Invero, i metodi di spesa indicati dagli artt. 1123 ss. c.c. incidono direttamente nella sfera individuale del singolo condomino, sicché un mutamento di essi, coincidendo con una modifica del valore della parte di edificio di proprietà del singolo partecipante al condominio, richiede necessariamente il consenso espresso del soggetto interessato (De Tilla 2003, 255).

In assenza di limiti posti alle parti dall'art. 1123 c.c., la deroga convenzionale ai criteri legali di ripartizione delle spese condominiali potrebbe discostarsi di molto dai criteri legali – sulla piena legittimità, ad esempio, della ripartizione delle spese generali e di manutenzione delle parti comuni dell'edificio in parti uguali, v. Cass. II, n. 3944/2002, (aggiungendo che siffatta deroga non può avere alcuna effettiva incidenza sulla disposizione inderogabile dell'art. 1136 c.c. o su quella dell'art. 69 disp. att. c.c., in quanto, seppure con riguardo alla stessa materia del condominio negli edifici, queste ultime disciplinano segnatamente i diversi temi della costituzione dell'assemblea, della validità delle deliberazioni e delle tabelle millesimali) – ed addirittura prevedere anche l'esenzione totale o parziale per taluno dei condomini dall'obbligo di partecipare alle spese medesime (in tale ultima ipotesi, ad avviso di Cass. II, n. 5975/2004, ove una clausola del regolamento di condominio stabilisca, per una determinata categoria di condomini, l'esenzione dal concorso in qualsiasi tipo di spesa, comprese quelle di conservazione, in ordine ad una determinata cosa comune, essa comporta il superamento, nei riguardi di detta categoria di condomini, della presunzione di comproprietà su detta parte del fabbricato).

Riguardo a tale esenzione ad personam, il Supremo Collegio (Cass. II, n. 6844/1988) ha avuto modo di precisare che l'obbligazione in base alla quale ciascuno dei condomini è tenuto a contribuire alle spese per la conservazione e manutenzione delle parti è propter rem, essendo strettamente connessa alla contitolarità del diritto di proprietà che i partecipanti alla comunione hanno su di esse, con la conseguenza che deve presumersi l'efficacia reale anche della clausola del regolamento di condominio, di natura contrattuale, con cui la singola unità immobiliare viene esonerata, in tutto o in parte, dal contributo delle spese stesse – salvo che dalla clausola non risulti l'inequivoca volontà di concedere l'esenzione solo a colui che, in un determinato momento, sia proprietario del bene – e deve quindi ritenersi che detta clausola sia operante anche a favore dei successori, a titolo universale o particolare, del condomino a favore del quale l'esenzione era stata prevista.

Del resto, non opera, in materia di condominio negli edifici, nulla di simile all'art. 2265 c.c., giacché questa norma è intimamente correlata alla posizione che un socio può assumere nell'àmbito societario e nella compagine sociale, e sanziona il patto con cui un socio, venendo escluso da ogni partecipazione alle perdite, vede così esclusa ogni sua partecipazione al rischio patrimoniale di impresa; trovando, dunque, il divieto del patto leonino la propria giustificazione nell'essenziale scopo lucrativo che viene perseguito tramite un'attività imprenditoriale, esso rimane estraneo alla situazione di mero godimento di beni comuni, per quanto strumentale al godimento delle porzioni esclusive, tipica del condominio di edificio; non si intravede, quindi, motivo per impedire la validità di una convenzione di esonero di taluno dei condomini dagli obblighi propter rem collegati alla contitolarità del diritto di proprietà sulle medesime cose comuni, rivelandosi essa espressione dell'autonomia negoziale meritevole di tutela giuridica a norma dell'art. 1322 c.c.

Dunque, la natura delle disposizioni contenute nell'art. 1118, comma 1, c.c. e nell'art. 1123 c.c. non preclude l'adozione di discipline convenzionali che differenzino tra loro i diritti di ciascun condomino sulle parti comuni e simmetricamente gli oneri di gestione del condominio, attribuendo gli uni e gli altri in proporzione maggiore o minore rispetto a quella scaturente dalla rispettiva quota individuale di proprietà; da ricordare, sul punto, che l'art. 1123 c.c. non è inserito tra le norme dichiarate espressamente inderogabili dal successivo art. 1138 relativo al regolamento di condominio.

Va precisato, però, che il regolamento assembleare, nel disciplinare la misura dei contributi di ciascuno alle spese di condominio, non può dettare norme in contrasto con il principio secondo cui ogni condomino è tenuto a concorrere proporzionalmente alle spese stesse, esonerando, ad esempio, qualcuno da qualsiasi partecipazione (si pensi i proprietari dei locali commerciali), in quanto solamente un regolamento contrattuale – sia di origine interna che esterna – può modificare tale principio, indipendentemente dalle caratteristiche oggettive di utilizzazione dei beni.

In ordine all'opponibilità ai terzi acquirenti delle clausole regolamentari derogatorie dei criteri legali di ripartizione delle spese condominiali, si può ricordare che la giurisprudenza, per l'efficacia nei confronti dei successori a titolo particolare, richiede che le stesse clausole debbano essere trascritte (con particolare riferimento alle clausole che limitano il diritto di godimento sulle singole unità immobiliari in proprietà esclusiva, v. Cass. II, n. 2546/1994; Cass. II, n. 1303/1980; Cass. II, n. 2305/1978); in mancanza di trascrizione, invece, il vincolo degli acquirenti dei singoli appartamenti sussiste qualora essi nell'atto di acquisto, facendo esplicito riferimento al regolamento condominiale, dimostrino di esserne a conoscenza e di approvarne il contenuto (Cass. II, n. 2610/1983; Cass. II, n. 634/1983; Cass. II, n. 2966/1982).

Una parte della dottrina (Gabrielli, 191) ha mostrato perplessità sulle soluzioni prospettate in argomento dalla giurisprudenza: l'esigenza di pubblicità del regolamento di condominio, in quanto specie di quello che può adottarsi in tutte le comunioni, vien fatta, invero, discendere direttamente dall'art. 1107, comma 2, c.c., secondo cui esso «ha effetto anche per eredi e gli aventi causa dai singoli partecipanti»; ne consegue che, al terzo, interessato a far parte della compagine condominiale, dovrebbe essere data in ogni modo l'opportunità di conoscere le prescrizioni del regolamento in tema di (uso delle cose comuni e di) ripartizione delle relative spese, facendo altrimenti egli legittimo affidamento sull'operatività dei criteri generali di cui agli artt. (1102, comma 1, e) 1123 c.c.; seppure, si aggiunge, per consentire la trascrizione delle clausole che impongano prestazioni positive a carico dei partecipanti, occorrerebbe accogliere un'interpretazione antiletterale dell'art. 2645 c.c., incompatibile con il precetto di tassatività delle previsioni di formalità pubblicitarie.

Discussa è, infine, la possibilità di una convenzione modificatrice ottenuta per facta concludentia, vale a dire l'esistenza di un comportamento non equivoco rivelatore della volontà di modifica della disciplina della ripartizione delle spese contemplata nel regolamento condominiale.

È ovvio che andranno attentamente valutate le peculiarità del caso concreto, per cui è in quest'ottica che vanno inquadrate le (apparenti) contrastanti soluzioni offerte dai giudici di legittimità (Cass. II, n. 13592/2000; Cass. II, n. 4814/1994; Cass. II, n. 7884/1991).

Delibera assembleare

I criteri legali in tema di spese condominiali stabiliti dall'art. 1123 c.c. possono essere derogati da una «diversa convenzione», richiedendosi però una delibera presa dai condomini in sede assembleare con l'unanimità (e non a mera maggioranza) dei consensi dei partecipanti, come ha precisato ripetutamente il Supremo Collegio (v., ex plurimis, Cass. II, n. 4844/2017; Cass. II, n. 3042/1995; Cass. II, n. 12375/1992; Cass. II, n. 2928/1980; v., da ultimo, Cass. II, n. 2580/2024, secondo cui le attribuzioni dell'assemblea non comprendono il potere di introdurre criteri di riparto differenti da quelli previsti ex lege, sicché la delibera che stabilisca, a maggioranza, di modificare, in astratto e pro futuro, i criteri legali è affetta da nullità: nella specie, la delibera aveva imposto, a carico di alcuni condomini, spese non dovute perché relative all'utilizzo di beni a loro non comuni e a servizi di cui essi non fruivano).

La suddetta «diversa convenzione» ex art. 1123 c.c. ben può, tuttavia, risultare dal verbale di assemblea condominiale sottoscritto da tutti i condomini; in tal caso, si sostiene che il verbale stesso acquista l'efficacia probatoria e la funzione propria della scrittura privata, facendo fede della manifestazione di volontà contrattuale di tutti gli intervenuti, valendo, per di più, la sottoscrizione a conferire alla convenzione pure il requisito della forma scritta, ove necessario ad substantiam (Cass. II, n. 2297/1996; Cass. II, n. 2071/1979; Cass. II, n. 3317/1968).

Al riguardo, si è avuto modo di puntualizzare che la convenzione sulla ripartizione delle spese in deroga ai criteri legali, ai sensi dell'art. 1123, comma 1, c.c., deve essere approvata da tutti i condomini, ha efficacia obbligatoria soltanto tra le parti, non vincolando essa gli aventi causa da queste ultime, è modificabile unicamente tramite un rinnovato consenso unanime e presuppone una dichiarazione di accettazione avente valore negoziale, espressione di autonomia privata, la quale prescinde dalle formalità richieste per lo svolgimento del procedimento collegiale che regola l'assemblea e può perciò manifestarsi anche mediante successiva adesione al contratto, con l'osservanza della forma prescritta per quest'ultimo (Cass. II, n. 21086/2022).

Invero, gli artt. 1136, comma 7, 1137, comma 2, e 1138, comma 3, c.c., guardano alla «deliberazione» come portato del principio maggioritario che, consentendo di superare i voti di dissenso, contraddice il principio di unanimità, coessenziale ai canoni dell'autonomia privata, sfuggendo, quindi, al concetto di deliberazione l'espressione di una volontà unanime del gruppo.

D'altra parte, il medesimo concetto di deliberazione implica una riunione dell'assemblea, mentre, laddove si intendesse assicurare rilevanza vincolante al comportamento concludente osservato dai partecipanti, il consenso discenderebbe da autonome dichiarazioni implicite di volontà dei condomini emerse al di fuori di un'assemblea propriamente detta; l'adozione del principio maggioritario, ispirata dal descritto bisogno di funzionalità nella gestione delle cose comuni, non espropria i condomini della loro autonomia contrattuale.

È in ogni caso necessario, perché sia giustificata l'applicazione di un criterio di ripartizione delle spese diverso da quello legale, commisurato alla quota di proprietà di ciascun condomino, che la deroga convenzionale sia prevista espressamente; così, il fatto che per alcune parti dell'edificio la misura della partecipazione di ciascun condomino alla comunione risultasse determinata in misura diversa da quella corrispondente alla rispettiva quota di proprietà esclusiva, non si è ritenuto implicante l'estensione di tale diversa misura alle restanti parti comuni (Cass. II, n. 1033/2000).

Gli ermellini hanno puntualizzato (Cass. II, n. 7300/2010) che, qualora i condomini, nell'esercizio della loro autonomia negoziale, abbiano in modo espresso dichiarato di accettare che le loro quote nel condominio vengano determinate in modo difforme da quanto previsto nell'art. 1118 c.c. e nell'art. 68 disp. att. c.c., dando vita alla «diversa convenzione» di cui all'art. 1123, comma 1, c.c., tale dichiarazione, di valore negoziale, si risolverebbe in un impegno irrevocabile di determinare le quote in un certo modo, preclusivo altresì di una revisione ai sensi dell'art. 69 disp. att. c.c. sull'assunto dell'obiettiva divergenza tra il valore effettivo delle singole unità immobiliari dell'edificio ed il valore proporzionale ad esse attribuito nelle tabelle convenzionali.

Altrimenti, la permanenza degli obblighi contrattualmente assunti, in relazione a diritti disponibili, rimarrebbe condizionata al mero arbitrio di ciascuno dei condomini; peraltro, secondo alcuni (Triola 2007, 645), ove non sia stato posto un termine di durata alla «diversa convenzione» ex art. 1123 c.c., dovrebbe ammettersi pur sempre il recesso ai sensi dell'art. 1373 c.c.

Per completezza, mette punto rammentare che, riguardo alle delibere dell'assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, secondo i giudici di legittimità, occorre distinguere quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell'art. 1123 c.c. oppure sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali, nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall'art. 1135, nn. 2) e 3), c.c. vengono in concreto ripartite le spese medesime, atteso che soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza di trenta giorni previsto dall'art. 1137, comma 2, c.c. (v., tra le altre, Cass. II, 17101/2006; Cass. II, n. 1455/1995; Cass. II, n. 1213/1993; Cass. II, n. 4851/1988; segnatamente, ad avviso di Cass. II, n. 10816/2009, va considerata annullabile, ma non affetta da nullità, la deliberazione con la quale un numero insufficiente di condomini adotti una modifica delle modalità di pagamento delle spese condominiali – nella specie, prevedendo che i pagamenti fossero convogliati su conto corrente bancario – qualora detto provvedimento non modifichi nella sostanza il piano di riparto delle spese stesse ma si limiti a determinarne le modalità di pagamento).

Sul versante della legittimazione passiva, si è, di recente, ritenuto (Cass. II, n. 29748/2017) che, nelle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione di deliberazioni della assemblea condominiale relative alla ripartizione delle spese per le cose e per i servizi comuni, unico legittimato passivo è l'amministratore di condominio, sicchè non è ammissibile il gravame avanzato da un singolo condomino avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio, trattandosi di controversie aventi ad oggetto non i diritti su di un bene o un servizio comune, bensì la gestione di esso, e, dunque, intese a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale, nelle quali non v'è correlazione immediata con l'interesse esclusivo d'uno o più condomini (nella fattispecie, la Suprema Corte, in una controversia avente ad oggetto l'impugnazione di una deliberazione assembleare relativa alla ripartizione delle spese per il servizio di auto spurgo, ha dichiarato inammissibile il ricorso per cassazione proposto da alcuni condomini, affermando che la mancata impugnazione della sentenza da parte dell'amministratore del condominio escludeva la possibilità, ad opera dei singoli condomini, di proporre gravame). In senso contrario, gli stessi ermellini (Cass. II, n. 16562/2015) hanno affermato che, nel giudizio di impugnazione della deliberazione dell'assemblea di condominio, il singolo condomino è legittimato ad impugnare la sentenza emessa nei confronti dell'amministratore e da questi non impugnata, anche qualora la deliberazione controversa persegua finalità di gestione di un servizio comune ed incida sull'interesse esclusivo del condomino soltanto in via mediata.

Anche la dottrina, sia pure con sfumature diverse, concorda con il discrimen di cui sopra, evidenziando comunque la labile linea di confine (Gallucci 2010; Salciarini 2010, 24).

Ad ogni buon conto, per giurisprudenza costante, le attribuzioni dell'assemblea dei condomini in tema di spese condominiali, sono circoscritte alla verificazione ed applicazione in concreto dei criteri stabiliti dalla legge, non comprendendo, quindi, il potere di introdurre deroghe ai criteri medesimi; tali deroghe – venendo ad incidere sul diritto individuale del singolo condomino di concorrere alle spese per le cose comuni in proporzione alla sua quota e, dunque, in misura non superiore a quelle dovute per legge – possono conseguire soltanto ad una convenzione, cui egli aderisca (Cass. II, n. 4270/1996; Cass. II, n. 1028/1995; Cass. II, n. 3946/1994, in una fattispecie concernente le spese legali sostenute da un condomino in una causa intentata nei confronti del condominio).

Per analogia, mette punto rammentare che – sul presupposto secondo cui, nell'àmbito di un condominio, la trasformazione, in tutto o in parte, di un bene comune in bene esclusivo di una sola parte dei condomini, mediante esclusione di alcuni di essi dalla percezione dei frutti, può essere validamente deliberata soltanto all'unanimità, ossia mediante una decisione che abbia valore contrattuale – va ritenuta nulla, in quanto approvata a mera maggioranza, la deliberazione in base alla quale si è deciso che il canone relativo all'alloggio  ex  portineria, bene di proprietà comune pro indiviso di tutti i condomini, sia accreditato al solo gruppo di condomini cui era originariamente destinato il servizio di portineria (Cass. II, n. 7459/2015).

In quest'ottica, anche la deliberazione assembleare avente ad oggetto la ripartizione delle spese, con la quale si deroga una tantum ai criteri legali di ripartizione delle spese medesime, ove adottata senza il consenso unanime dei condomini, deve considerarsi nulla; è consentita, ma soltanto in via transitoria, l'adozione di un criterio diverso da quello legale unicamente al fine di provvedere, con le somme anticipate dai condomini a titolo di acconto e da conguagliare successivamente all'approvazione delle tabelle, alla gestione e manutenzione delle cose e dei servizi comuni (Terzago 1987, 1425).

In senso conforme, anche la recente giurisprudenza (Cass. II, n. 23128/2021), a parere della quale l'assemblea del condominio, al limitato fine di provvedere alle esigenze di ordinaria gestione delle cose e dei servizi comuni, può deliberare validamente a maggioranza una ripartizione provvisoria dei contributi tra i condomini, a titolo di acconto salvo conguaglio, solo in mancanza di tabelle millesimali applicabili in relazione alla specifica spesa effettuata.

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