Codice Civile art. 1131 - Rappresentanza.Rappresentanza. [I]. Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'articolo 1130 (1) o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio [1138] o dall'assemblea, l'amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi. [II]. Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell'autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto. [III]. Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell'amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei condomini. [IV]. L'amministratore che non adempie a quest'obbligo può essere revocato [1129; 64 att.] ed è tenuto al risarcimento dei danni [1138 4]. (1) L'art. 12, l. 11 dicembre 2012, n. 220, ha sostituito le parole "dall'articolo precedente" con le parole "dall'articolo 1130". La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013. InquadramentoL'amministratore, in quanto mandatario del condominio, è titolare nei confronti dello stesso di una duplice rappresentanza: sostanziale e processuale. Il criterio per individuare l'ambito nel quale il rappresentante dell'ente condominiale può agire in piena autonomia è costituito dall'oggetto dei propri atti: pieno potere decisionale quando si tratti di assumere determinazioni che rientrano nell'ambito delle attribuzioni assegnategli dal codice civile o dalle leggi vigenti, oppure limitato perché soggetto ad autorizzazione dell'assemblea o definito per prescrizione regolamentare, se esorbiti da tali confini. L'art. 1131 c.c., rimasto sostanzialmente invariato rispetto alla precedente stesura, ad eccezione della specificazione che le funzioni ordinarie sono quelle definite dall'art. 1130 c.c., si è occupato di entrambi i profili della rappresentanza dei quali quello processuale, che vede il condominio direttamente interessato nella veste di parte di un giudizio, tanto nella forma di legittimato attivo quanto passivo, assume particolare rilevanza. Lo sconfinamento dell'amministratore dall'ambito dei suoi poteri condiziona la sua attività e differenzia gli effetti degli atti dallo stesso compiuti. Il fondamento della norma va individuato sempre nella natura del condominio, che si sostanzia in una collettività di persone, nella quale coesistono sia interessi collettivi, aventi ad oggetto le parti ed i servizi in comunione, sia interessi autonomi e distinti per le singole posizioni soggettive. La mancanza di un riconoscimento della personalità giuridica al condominio determina le interferenze tra situazioni individuali e collettive che si ripercuotono sui poteri e sui limiti della rappresentanza dell'amministratore. La rappresentanza sostanzialeIl potere di rappresentanza, sostanziale o negoziale, dell'amministratore si riferisce – come accennato – alle parti ed ai servizi comuni, si estende ai maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall'assemblea, non riguarda posizioni personali. In tale ultimo caso è, tuttavia, possibile che l'amministratore intervenga per tutelare gli interessi del singolo condomino ma solo se questi gli abbia conferito espressa procura. Devono, quindi, essere tenute ben separate le situazioni di carattere condominiale da quelle di natura individuale, e solo alle prime viene riconosciuta la titolarità dell'amministratore a rappresentare l'ente senza dovere ricorrere all'assenso dell'assemblea (Scarpa, 130; Cassano, 206). Anche se il precedente orientamento dottrinale e giurisprudenziale aveva già definito la figura dell'amministratore come parte del contratto di mandato, il riconoscimento ufficiale di tale soggetto nella veste di mandatario conferma che per tutte le questioni concernenti le attribuzioni previste dalla legge non è necessaria una procura espressa rilasciata dai condomini o dall'assemblea condominiale. Mentre è importante che l'amministratore negli atti che va a compiere (come: contratti di appalto lavori, forniture di beni e servizi, adempimenti fiscali, ecc.) indichi che egli agisce a nome e per conto del condominio. La spendita del nome del condominio non richiede l'uso di formule particolari, essendo sufficiente che la qualità di amministratore emerga da elementi tali da consentire all'altra parte di collegare l'atto non al medesimo personalmente, ma in veste di rappresentante del condominio. Una volta che l'amministratore abbia dichiarato di agire «nella sua qualità» l'attività espletata è immediatamente riconducibile al condominio ed ai condomini, obbligati verso i terzi con i quali sono stati assunti impegni. In tema di mandato con rappresentanza, ai fini della sussistenza della contemplatio domini, che rende possibile l'imputazione degli effetti del contratto nella sfera di un soggetto diverso da quello che l'ha concluso, pur non essendo richiesto l'uso di formule solenni o che la spendita del nome altrui risulti dallo stesso contratto, è tuttavia necessario che il rappresentante abbia reso edotto l'altro contraente, in modo esplicito e non equivoco, che egli agisce non solo nell'interesse, ma anche in nome del rappresentato; nel caso in cui la spendita del nome sia contestata, l'onere della relativa prova in giudizio incombe su chi afferma avere assunto la veste di rappresentante e la relativa indagine, involgendo accertamenti di fatto, è devoluta al giudice di merito, il cui apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (Cass. II, n. 25247/2006). Tale effetto si produce anche nel caso in cui l'amministratore ordini, senza il consenso dell'assemblea, lavori urgenti di manutenzione straordinaria – sempre che ne sussistano i presupposti – fermo restando l'obbligo di riferirne nella prima riunione. Come affermato dalla Suprema Corte, l'amministratore, quando agisce nei limiti dei poteri attribuitigli dalla legge o di quelli conferitigli dall'assemblea, rappresenta il condominio e, pertanto, ove ne abbia speso il relativo nome, contrae per conto dello stesso, con conseguente riferibilità diretta dei relativi rapporti all'anzidetto ente di gestione. Tale principio si desume non solo dall'art. 1131 c.c., che fa riferimento alle attribuzioni elencate nel precedente art. 1130 c.c., ma anche dall'art. 1133 c.c., prevedente l'obbligatorietà per tutti i condomini dei provvedimenti presi dall'amministratore nell'ambito dei suoi poteri. Conseguentemente, nel caso in cui l'amministratore, avvalendosi dei poteri di cui all'art. 1135, comma 2, c.c., abbia assunto l'iniziativa di compiere opere di manutenzione straordinaria caratterizzate dall'urgenza, ove questa effettivamente ricorra e negli eventuali rapporti instaurati con i terzi, per farvi fronte, abbia speso il nome del condominio, quest'ultimo deve ritenersi validamente rappresentato, con conseguente diretta esigibilità da parte dei terzi contraenti dell'adempimento delle relative obbligazioni (Cass. II, n. 6557/2010). Poiché sono considerate ordinarie le attribuzioni stabilite dall'art. 1130 c.c. a carico dell'amministratore, la rappresentanza sostanziale si estende a tutte le attività ad esse connesse. In questo ambito l'amministratore può sottoscrivere i contratti per l'assunzione di dipendenti del condominio (ad esempio, portiere, pulitore, giardiniere, ecc.); provvedere al pagamento dei correlati contributi previdenziali ed assistenziali; stipulare contratti di somministrazione per le forniture di energia elettrica per l'illuminazione delle parti comuni, nonché del carburante per il riscaldamento; firmare contratti di appalto per il compimento di lavori aventi ad oggetto la stretta manutenzione ordinaria, che rientra nell'ambito degli atti conservativi relativi alle parti comini (art. 1130, n. 4, c.c.). Occorre, però, precisare che, per alcune di queste attività (come la sottoscrizione dei detti contratti), è sempre necessario che l'impegno di spesa, come la scelta di una ditta appaltatrice, ovvero di un gestore dei servizi, passi sempre per il relativo assenso dell'assemblea. Si può parlare in questo caso di una rappresentanza ridotta, anche se l'oggetto dell'attività espletata è elemento caratteristico della gestione ordinaria dello stabile condominiale. Si rientra sempre nell’ambito della rappresentanza sostanziale nel caso in cui l’amministratore partecipi alla procedura di mediazione obbligatoria disciplinata dall’art. 71 quater disp.att.c.c.. La mancanza di una delibera assembleare che autorizzi l’amministratore a prendere parte agli incontri concernenti la mediazione rende il soggetto privo della necessaria legittimazione, determinando tale circostanza l’improcedibilità della domanda. Non rileva nel senso di escludere la necessità della delibera assembleare ex art. 71 quater, comma 3, disp. att. c.c., il fatto che si tratti di controversia che rientri nell'ambito delle attribuzioni dell'amministratore, in forza dell'art. 1130 c.c., e con riguardo alla quale perciò sussiste la legittimazione processuale di quest'ultimo ai sensi dell'art. 1131 c.c., senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea. Pur in relazione alle cause inerenti all'ambito della rappresentanza istituzionale dell'amministratore, questi non può partecipare alle attività di mediazione privo della delibera dell'assemblea, in quanto l'amministratore, senza apposito mandato conferitogli con la maggioranza di cui all'art. 1136, comma 2.c.c., è altrimenti comunque sprovvisto del potere di disporre dei diritti sostanziali che sono rimessi alla mediazione, e, dunque, privo del potere occorrente per la soluzione della controversia (Cass. VI, n. 10846/2020; Cass. III, n. 8473/2019).
La ratifica e la rappresentanzaIl potere di rappresentanza dell'amministratore incontra limiti quando il suo operato abbia per oggetto attività straordinarie, ad eccezione dei lavori di carattere urgente previsti dall'art. 1135 c.c. Il criterio che distingue atti di ordinaria amministrazione ed atti di gestione straordinaria va individuato nella «normalità» dell'atto rispetto allo scopo dell'utilizzazione e del godimento dei beni comuni (Lazzaro-Di Marzio-Petrolati, 472). Altro criterio distintivo tra le due fattispecie, enucleato dall'ambito edilizio, può essere determinato anche dalla differenza qualitativa tra le rispettive opere, tenendo in considerazione l'importanza dei lavori necessari per la normalizzazione del bene piuttosto che la natura delle cause del deterioramento. Talché la straordinarietà dell'intervento verrebbe a coincidere con la sostanza dello stesso intervento, che può rinnovare e sostituire parti anche strutturali dell'edificio, ma non modificare la destinazione d'uso delle stesse (Nicoletti, 149). Il carattere straordinario dell'attività compiuta dall'amministratore è determinato anche dall'entità dell'onere economico della medesima e conseguente alla particolarità e consistenza dell'intervento (Cass. II, n. 10865/2016). Nessun potere, dunque, in capo all'amministratore che, in ambito straordinario, assuma iniziative dirette, rispetto alle quali il problema più rilevante concerne il valore che l'atto assume nei confronti dei terzi in buona fede, i quali devono essere tutelati nei confronti del soggetto che abbia agito come rappresentante senza potere o in eccesso di potere e che, nella specie, ha assunto la stessa posizione del falsus procurator. La questione, che è stata esaminata con riferimento ai requisiti dell'amministratore previsti dall'art. 71-bis disp. att. c.c., con il quale ne condivide i presupposti ed al quale si rinvia, è strettamente collegata alla possibilità da parte dell'assemblea di ratificare il comportamento dell'amministratore. Si tratta, nella specie, di applicare analogicamente al condominio il dettato dell'art. 1399 c.c., concernente l'istituto della rappresentanza, per il quale il contratto concluso da colui che ha agito al di fuori dei propri poteri, può essere reso valido dall'interessato, con effetto retroattivo e salvo i diritti dei terzi, con l'osservanza delle forme prescritte per la sua conclusione. La ratifica può avvenire tramite una manifestazione esplicita di volontà di convalidare gli atti compiuti, oppure con un comportamento implicito, dal quale si desuma, in modo chiaro e non equivoco, che il condominio approvi l'azione del proprio rappresentante. Sul punto e sulla riferibilità al condominio degli atti compiuti dall'amministratore in assenza di potere, la Corte di cassazione ha affermato che l'iniziativa contrattuale dell'amministratore che, senza previa approvazione o successiva ratifica dell'assemblea, disponga l'esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria dell'edificio condominiale e conferisca, altresì, ad un professionista legale l'incarico di assistenza per la redazione del relativo contratto di appalto, non determina l'insorgenza di alcun obbligo di contribuzione dei condomini al riguardo. I poteri dell'amministratore del condominio e dell'assemblea sono delineati con precisione dagli artt. 1130 e 1335 c.c., che limitano le attribuzioni del primo all'ordinaria amministrazione, mentre riservano alla seconda le decisioni in materia di amministrazione straordinaria Per quanto concerne il terzo, invece, è stato ritenuto che questi non può invocare l'eventuale carattere urgente della prestazione commissionatagli dall'amministratore, valendo tale presupposto a fondare, ex art. 1135, ultimo comma, c.c., il diritto dell'amministratore al rimborso delle spese nell'ambito interno al rapporto di mandato (Cass. II, n. 20136/2017). La ratifica può intervenire anche successivamente nella forma di approvazione del consuntivo della spesa straordinaria e del relativo riparto, assunto con la necessaria maggioranza di legge, anche se in questa sede – di regola – l'assemblea provvede ad approvare l'erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e quelle relative ai servizi comuni essenziali (Cass. II, n. 4430/2017). L'assemblea, infatti, tardivamente può riconoscere vantaggiosa un'opera, anche se non preventivamente deliberata, con la conseguenza che non è configurabile la responsabilità dell'amministratore di condominio in carenza di potere, anche se vi sia stata una ratifica, anche parziale, dell'operato del falsus procurator (Trib. Ascoli Piceno 8 settembre 2004). Quanto agli effetti dell'atto compiuto da tale soggetto nei confronti del terzo in buona fede e privo di riconoscimento postumo da parte dell'assemblea, il danneggiato non si potrà rivalere nei confronti dei condomini per il pagamento dei crediti derivanti da opere eseguite in forza di detto atto. Naturalmente il terzo potrà fare valere i propri diritti nei confronti dell'amministratore, il quale sarà chiamato a rispondere in proprio (De Renzis, 577; Branca, 590). La rappresentanza processualeL'amministratore, in sede di contenzioso giudiziario, è investito della rappresentanza dei partecipanti al condominio, che rappresentano una collettività di persone che, da un lato, hanno interessi coincidenti per tutto ciò che riguarda i diritti, le parti ed i servizi comuni dell'edificio, mentre, dall'altro, sono titolari di posizioni soggettive autonome e, quindi, portatori di personali interessi che a volte possono essere in conflitto tanto con l'intera compagine, quanto con le varie posizioni nell'ambito del consesso condominiale. Il fondamento della rappresentanza va individuato in più componenti. In primo, luogo nell'art. 1131 c.c., che richiama espressamente l'art. 1130 c.c. che, profondamente modificato dalla legge di riforma, ha notevolmente ampliato i compiti delegati all'amministratore; poi nel regolamento di condominio e, da ultimo, nei maggiori poteri che gli siano stati conferiti, volta per volta, dall'assemblea. Maggiori poteri che, tuttavia, devono essere pur sempre inquadrati nell'ambito della gestione ed amministrazione dei beni comuni. La rappresentanza processuale non può essere conferita a soggetto diverso dall'amministratore. La questione, nel passato, ha formato oggetto di dibattito, ma l'orientamento definitivo è in linea con tale principio, che si basa sostanzialmente sulla natura inderogabile dell'art. 1131 c.c. che, nel testo letterale, non apre spazi per soluzioni diverse. Con risalente decisione, era stato affermato che la disposizione contenuta nell'art. 1131 c.c., in ordine ai poteri di rappresentanza, anche giudiziaria, dell'amministratore del condominio, non avesse carattere esclusivo e, pertanto, che l'assemblea dei condomini poteva conferire la propria rappresentanza processuale anche a persona diversa dall'amministratore, in quanto tra i poteri di gestione della cosa comune, riservati all'assemblea nella comproprietà edilizia, deve ritenersi compreso quello di conferire la procura a rappresentare in giudizio il condominio anche a singoli partecipanti alla comunione o a terzi (Cass. II, n. 1930/1982; Cass. II, 5220/1980). In senso totalmente difforme una successiva pronuncia dei giudici di legittimità, i quali avevano evidenziato il carattere inderogabile dell'art. 1131 c.c., con riferimento al potere di rappresentanza dell'amministratore nominato dall'assemblea dei condomini, nei limiti delle attribuzioni indicate dalla legge (art. 1130 c.c.) o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento o dall'assemblea. Contestualmente, le facoltà del singolo condomino erano state limitate ad un intervento nella lite solo ad adiuvandum, nella veste di portatore di un interesse proprio, e non come rappresentante del condominio ancorché delegato dall'assemblea condominiale (Cass. II, n. 3646/1989). Il primo indirizzo giurisprudenziale, peraltro, era stato contrastato dalla dottrina che aveva osservato che il potere di rappresentanza processuale si accompagna necessariamente ai poteri di gestione dell'amministratore previsti dall'art. 1130 c.c., con la conseguenza che se l'assemblea vuole conferire ad un terzo la rappresentanza processuale può farlo soltanto sottraendo previamente al medesimo una parte dei poteri di gestione, ma designando di fatto un altro amministratore (Branca, 1680). Unica ipotesi nella quale la rappresentanza del condominio può essere affidata a persona che non sia l'amministratore è il caso previsto dall'art. 65 disp. att. c.c., allorché in mancanza del rappresentante del condominio viene chiesta la nomina di un curatore speciale. Anche per l'aspetto giudiziario, disciplinato dall'art. 1131 c.c., il potere di rappresentanza sotto il profilo oggettivo non può che riguardare altro che la collettività, restando ad esso estranee le situazioni ed i correlati interessi di pertinenza dei singoli condomini, e si intende limitato a tutto ciò che concerne le parti ed i servizi comuni. Infatti, nelle azioni a tutela dei diritti esclusivi dei singoli condomini la legittimazione dell'amministratore trova il suo fondamento soltanto nel mandato a lui conferito da ciascuno dei partecipanti alla comunione, e non anche nel meccanismo deliberativo dell'assemblea condominiale – ad eccezione della (in tal caso equivalente) ipotesi di unanime deliberazione di tutti i condomini –, atteso che il potere di estendere il dominio spettante ai singoli condomini in forza degli atti di acquisto delle singole proprietà (nel caso di specie, domanda di rivendica proposta dall'amministratore per usucapione di un'area finitima al fabbricato) è del tutto estraneo al meccanismo deliberativo dell'assemblea condominiale e può essere conferito, pertanto, solo in virtù di un mandato speciale rilasciato da ciascuno dei condomini interessati (Cass. II, n. 11688/1999). La rappresentanza processuale non è legata alla persona dell'amministratore in carica, ma si trasferisce automaticamente in capo ad altro soggetto fisico, allorché in corso di causa si abbia un cambio di gestione. Qualora il condominio si sia costituito in giudizio in virtù di mandato conferito anche per il giudizio di appello, il mutamento in corso di causa della persona dell'amministratore che aveva rilasciato la procura alle liti non incide sul rapporto processuale, che è in ogni caso riferito, sia dal lato passivo, sia da quello attivo, al condominio, quale ente di gestione che opera in rappresentanza e nell'interesse dei condomini (Cass. II, n. 9282/2006), con conseguente infondatezza del ricorso per cassazione, avverso la pronuncia della Corte d’appello, in tema di difetto di procura conferita al difensore (Cass. II, n. 27302/2020, con nota di FRIVOLI, 2020). La regola della irrilevanza del mutamento dell'organo investito della rappresentanza processuale della persona giuridica, sulla regolarità del procedimento iniziato in forza di procura rilasciata dal precedente rappresentante, trova applicazione anche quando il mutamento avvenga dopo che la procura sia stata rilasciata, ma prima che il processo (o il grado del processo) sia attivato con il deposito in cancelleria o con la notificazione dell'atto (Cass. II, n. 7615/2023). Peraltro, la nomina di un nuovo amministratore in sostituzione del precedente dimissionario spiega efficacia nei confronti dei terzi, anche ai fini della rappresentanza processuale dell'ente, dal momento in cui sia adottata la relativa deliberazione dell'assemblea, nelle forme di cui all'art. 1129 c.c., senza che abbia rilievo la diversa data in cui sia stato sottoscritto il verbale di consegna della documentazione dal vecchio al nuovo amministratore (Cass. II, n. 14599/2012). Il processo e gli eventi attinenti alla persona dell'amministratoreIn materia condominiale si parla di rappresentanza volontaria e non legale, poiché la nomina dell'amministratore deriva direttamente dalla delibera assembleare e non per statuizione legislativa. La distinzione è rilevante ai fini dell'applicabilità o meno, anche in ambito condominiale, dell'istituto dell'interruzione del processo disciplinato dall'art. 299 c.p.c. Secondo la dottrina più recente, con l'introduzione della novella del 2012 risulta che sia stata introdotta una sorta di decadenza ope legis dell'amministratore, in quanto si è irrigidito il momento della cessazione dell'incarico nel senso che i c.d. poteri ad interim, sino alla nomina del nuovo rappresentane, sono limitati alle attività urgenti al fine di evitare pregiudizi agli interessi comuni (art. 1129 c.c.). Il tutto con l'evidente conseguenza che l'assemblea dei condomini si deve attivare, in relazione alle cadenze processuali della vicenda litigiosa che vede coinvolto il condominio, e nominare, se non il nuovo amministratore, persona che segua tale vicenda (Lazzaro, 481). L'art. 299 c.p.c. delimita l'ambito dell'istituto dell'interruzione alle ipotesi di morte o di perdita della capacità di stare in giudizio del rappresentante legale della parte, nonché alla cessazione di tale rappresentanza. Sul punto, la giurisprudenza, già in passato, aveva più volte affermato che la cessazione della rappresentanza prevista dall'art. 299 c.p.c., quale causa di interruzione del processo attiene esclusivamente alle ipotesi della rappresentanza legale, conferita come tale direttamente da una disposizione di legge e non è, perciò, riferibile alla rappresentanza volontaria nascente dal mandato (Cass. II, n. 3751/1971). Era stato, altresì, sottolineato che la costituzione in giudizio, per mezzo del mandatario rappresentante, non impedisce che la qualità di parte e la legittimazione primaria, sostanziale e processuale, spettino al mandante rappresentato con la conseguenza che l'estinzione del mandato, se fa venir meno la legittimazione secondaria del primo (nella specie: amministratore del condominio), non incide sulla posizione della parte nel processo, la quale continua ad essere costituita, né sulla validità ed efficacia della procura ad litem, originariamente conferita al difensore del mandatario (Cass. II, n. 423/1978). Tale orientamento è stato confermato successivamente da altre pronunce della Suprema Corte (Cass. II, n. 9628/1987), la quale ha, altresì, precisato che malgrado non sia prevista l'interruzione del processo nel caso di morte o di revoca dell'amministratore, un eventuale atto di riassunzione del giudizio ugualmente dichiarato interrotto deve essere, comunque, notificato presso il procuratore per esso costituito (Cass. II, n. 3464/2010). Dubbi erano stati espressi sul punto in dottrina, essendo stata ritenuta preferibile la tesi secondo la quale la morte dell'amministratore od il venir meno, per qualsiasi causa, dei suoi poteri rappresentativi determinassero l'interruzione del giudizio. A tale fine era stato richiamato il disposto dell'art. 65 disp. att. c.c. nella parte in cui si prevede che, in mancanza dell'amministratore, l'altra parte che intenda proseguire la lite contro i partecipanti al condominio può richiedere la nomina di un curatore speciale. Infatti, la previsione della prosecuzione della controversia nei confronti del curatore speciale non sembrava avere senso se il giudizio proseguiva ex se nei riguardi della collettività dei condomini (Crescenzi, 20). Sempre l'autore aveva ritenuto che il potere rappresentativo dell'amministratore viene meno, a maggior ragione, nell'ipotesi di revoca da parte dell'autorità giudiziaria. Nel giudizio pendente tra il condominio ed un terzo, anche se condomino, l'amministratore che asserisca di essere stato offeso da espressioni contenute nell'atto di citazione (ad. esempio impugnativa di delibera assembleare) per violazione dell'art. 89 c.p.c.non può intervenire, personalmente, nel giudizio stesso ai sensi dell'art. 105 c.p.c. Infatti, la domanda di cancellazione delle frasi sconvenienti e quella di eventuale risarcimento del danno non patrimoniale patito, svolta, in proprio dall'amministratore, il quale in tal caso assume la posizione di terzo, non può essere accolta. Secondo la giurisprudenza (Cass. III, n. 21696/2011) il rimedio di cui all'art. 89, comma 1, c.p.c. si consuma all'interno del processo, nel senso che è applicabile soltanto quando l'offensore e l'offeso siano parti in causa nel medesimo giudizio. Ciò in quanto, attraverso la formula negativa del divieto di usare espressioni sconvenienti e offensive, l'art. 89 cit. individua un requisito del comportamento processuale della parte e del suo difensore e il correlato potere del giudice di predisporre la cancellazione in pendenza dell'istruzione e, con la sentenza che decide la causa, di assegnare una somma a titolo risarcitorio. L'amministratore, tuttavia, può proporre la domanda de qua in un separato giudizio, perché la responsabilità conseguente ad affermazioni offensive contenute negli scritti difensivi di un giudizio civile deriva da un fatto illecitoex art. 2043 c.c. e permane anche quando non possa operare il meccanismo sanzionatorio dell'art. 89, comma 2, c.p.c. allorchè il giudice non possa - o non possa più - provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento (Cass. II, n. 36345/2022). Legittimazione dell'amministratore e suoi limitiLa legittimazione consiste nel potere dell'amministratore di partecipare alle azioni giudiziarie, attive e passive, per conto ed in nome dell'ente condominiale e richiede l'investitura dell'assemblea a seconda che l'oggetto della controversia rientri o meno nelle sue funzioni come individuate dall'art. 1130 c.c. Se l'atto di citazione passivo viene notificato all'amministratore “nella qualità” (nella specie: si trattava di richiesta saldo di pagamento per un contratto di appalto sottoscritto dal rappresentante dell'ente condominiale) e non al condominio in persona dell'amministratore pro-tempore, la notifica è ugualmente valida, in quanto è la legge (art. 1131 c.c.) che attribuisce a la rappresentanza dei partecipanti, la capacità di agire in giudizio e la legittimazione passiva nelle liti riguardanti il condominio (Cass. VI, n. 3676/2019). L'art. 1131 c.c. stabilisce che l'amministratore, dal lato attivo, può agire in giudizio contro i condomini ed i terzi, nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'art. 1130 c.c. o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento o dall'assemblea mentre, dal lato passivo può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio. Se la citazione od il provvedimento ha un contenuto che esorbita dai detti limiti l'amministratore è tenuto a darne, senza indugio, notizia all'assemblea dei condomini con previsione di potenziale sua revoca in caso di omessa comunicazione. La norma è rimasta invariata rispetto al passato con l'eccezione del fatto che il legislatore ha espressamente previsto che i limiti di legge per le sue attribuzioni sono quelli elencati dall'art. 1130 c.c. Modifica che è scaturita dalla necessità di comporre un contrasto interpretativo avente ad oggetto la precedente versione dell'art. 1131 c.c. che, privo della specifica indicata, aveva sollevato dubbi in merito alla circostanza se l'amministratore si dovesse in ogni caso munire di autorizzazione dell'assemblea o, comunque, di una successiva ratifica del proprio operato al fine di evitare una pronuncia di inammissibilità dell'atto di costituzione in giudizio o di quello di citazione. Il condominio degli edifici è caratterizzato dalla coesistenza di due organi che operano su piani differenti: l'assemblea, organo deliberante cui compete l'adozione di decisioni in materia di amministrazione dello stesso e l'amministratore, che riveste un ruolo di mero esecutore materiale delle deliberazioni adottate in seno all'assemblea ed i cui poteri sono derivati e subordinati alle decisioni di tale organo. L'art. 1131 c.c. deve essere interpretato alla luce dei principi generali, del ruolo e delle competenze dell'amministratore di condominio, nonché del diritto di dissenso dei condomini rispetto alle liti (art. 1132 c.c.). Va, infatti, considerato che rimettere all'amministratore, in modo del tutto generalizzato, il potere di agire in giudizio, di resistere ad una chiamata in causa, di impugnare un provvedimento in cui il condominio sia risultato soccombente, ovvero di chiamare in causa un terzo soggetto limiterebbe il diritto dei condomini di dissentire. Riconoscere, quindi, all'amministratore un così ampio potere potrebbe portare, nell'ipotesi di impugnativa di sentenza senza il consenso assembleare, all'ulteriore conseguenza, in caso di nuova soccombenza, di gravare il condominio di ulteriori spese processuali senza che lo stesso abbia assunto alcuna decisione al riguardo. Se è vero che la legittimazione passiva dell'amministratore, pur prevista per ogni controversia di carattere condominiale, rappresenta un mezzo procedimentale che bilancia l'esigenza di agevolare i terzi e la necessità di tempestiva (urgente) difesa (onde evitare decadenze e preclusioni) dei diritti inerenti le parti comuni dell'edificio, è altrettanto vero che lo stesso amministratore deve pur sempre agire nell'ambito delle proprie attribuzioni e rimettere la questione alla decisione discrezionale dell'assemblea allorché l'oggetto del giudizio sconfini dai suoi poteri. Sulla base di tali considerazioni è stato, pertanto, affermato che l'amministratore convenuto può anche autonomamente costituirsi in giudizio ovvero impugnare la sentenza sfavorevole, nel quadro generale di tutela (in via d'urgenza) di quell'interesse comune che integra la ratio della figura dell'amministratore di condominio e della legittimazione passiva generale, ma il suo operato deve essere ratificato dall'assemblea, titolare del relativo potere. La ratifica, che vale a sanare con effetti ex tunc l'operato dell'amministratore che abbia agito senza autorizzazione dell'assemblea, è necessaria sia per paralizzare la dedotta eccezione di inammissibilità della costituzione in giudizio o dell'impugnazione, sia per ottemperare al rilievo ufficioso del giudice che, in tal caso, dovrà assegnare, ex art. 182 c.p.c., un termine all'amministratore per provvedere (Cass. S.U., n. 18331/2010; Cass. II, n. 10865/2016; Cass. II, n. 2859/2014; Cass. II, 12972/2013). In conformità al principio espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ove un decreto ingiuntivo sia stato notificato al condominio in persona del nuovo amministratore con domanda di pagamento di crediti in favore dell'amministratore uscente , si esce dal perimetro delle attribuzioni proprie di cui all'art. 1130 c.c., per cui in caso di opposizione è necessaria l' autorizzazione assembleare ( Trib. Catania 7 ottobre 2024, n. 4715 ). La cosiddetta autorizzazione dell'assemblea a resistere in giudizio, ovvero il mandato dato all'amministratore per conferire la procura “ad litem” al difensore, non può valere che per il grado del giudizio in relazione al quale viene rilasciata, e quindi, se inerente alla costituzione nel giudizio di primo grado, non sana la mancanza della ulteriore preventiva autorizzazione assembleare concernente l'appello formulato dallo stesso amministratore avverso la sentenza di prime cure (Cass. II, n. 11200/2021). La ratifica assembleare perciò vanifica ogni avversa eccezione di inammissibilità, ovvero ottempera al rilievo ufficioso del giudice che abbia all'uopo assegnato il termine ex art. 182 c.p.c. per regolarizzare il difetto di rappresentanza (Cass. II, n. 12525/2018). Con particolare riferimento alla fattispecie trattata, è stato affermato che non rientra nei limiti di cui all'art. 1130 c.c. il giudizio monitorio instaurato avverso il condominio dal precedente amministratore, cessato dall'incarico, per ottenere il riconoscimento di compensi suppletivi concernenti l'attività svolta in relazione a lavori di manutenzione straordinaria. Pertanto, se l'amministratore si deve costituire in giudizio per conto del condominio in sede di opposizione al decreto ingiuntivo lo può fare solo se munito di autorizzazione, salvo eventuale ratifica del suo operato. Qualora vi sia contestazione sul soggetto processualmente legittimato nella persona dell'amministratore, l'onere della prova deve essere assolto dal rappresentante del condominio. Infatti, colui che agisce in giudizio in nome del condominio deve dare la prova, in caso di contestazione, della veste di amministratore e, quando la causa esorbita dai limiti di attribuzione stabiliti dall'art. 1130 c.c., di essere autorizzato a promuovere l'azione contro i singoli condomini o terzi. Tale onere probatorio è da ritenersi assolto con la produzione in giudizio della delibera dell'assemblea condominiale dalla quale risulti che egli è l'amministratore e che gli è stato conferito mandato a promuovere l'azione giudiziaria, mentre in caso di mancata contestazione, la persona fisica costituita in giudizio e che abbia rilasciato il mandato al difensore nella qualità di legale rappresentante dell'ente di gestione, non ha l'onere di dimostrare tale veste (Cass. II, n. 8520/2003). E' stato affermato che nessuna censura può essere mossa all'amministratore che non abbia allegato alla convocazione dell'assemblea o esibito in assemblea l'atto di citazione in opposizione a decreto ingiuntivo, poiché il comma 3 dell'art. 1131 c.c. impone all'amministratore di dare senza indugio notizia all'assemblea dei condomini nel solo caso in cui la citazione abbia un contenuto che esorbita dalle proprie attribuzioni (Trib. Sulmona 10 ottobre 2024, n. 229). Legittimazione e condominio parzialeIl condominio parziale si inserisce nell'ambito del condominio per effetto del disposto dell'art. 1123, comma 3, c.c. che regolamenta la ripartizione delle spese di manutenzione, poste a carico del gruppo di condomini che traggono diretta utilità dalle parti comuni dell'edificio ma che sono, contestualmente, poste a servizio di una porzione dello stesso (Giuggioli — Giorgetti, 327). Pur mancando una definizione di «condominio parziale» la ratio della norma richiamata è sufficiente per riconoscere in questa l'ipotesi di «condominio nel condominio». In questo senso la giurisprudenza, secondo la quale deve ritenersi legittimamente configurabile la fattispecie del condominio parziale ex lege tutte le volte in cui un bene risulti, per obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento in modo esclusivo di una parte soltanto dell'edificio in condominio, ovvero sia oggetto di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene (Cass. II, n. 23851/2010). La limitatezza della comproprietà del bene comune ad un gruppo di condomini non comporta un restringimento delle facoltà dell'amministratore o di una carenza dei suoi poteri di rappresentanza, perché il concetto di condominio non viene meno se la comunione è limitata ad un numero minore di soggetti che, in ogni caso, è ugualmente riferita all'amministrazione ed alla rappresentanza dell'amministratore (Terzago, 31). Sussiste la legittimazione dell'amministratore del condominio per le questioni inerenti al condominio parziale se non vi sia una disposizione contraria in questo senso e che può essere contenuta solo in un regolamento di natura contrattuale. In effetti l'esistenza di un unico amministratore è di per sé sufficiente a legittimare la rappresentanza dello stesso rispetto alle azioni concernenti qualsiasi cosa non già di proprietà comune, ma anche di proprietà ristretta. Infatti, se il ruolo (poteri/doveri) dell'amministratore non permanesse anche nell'ipotesi in cui il condominio è circoscritto soltanto ad un certo numero di proprietari, si dovrebbe giungere all'inaccettabile conseguenza per cui ogni qualvolta un titolo esclude la comproprietà condominiale di una cosa, verrebbe meno, limitatamente a detto bene, ogni potere, sostanziale o processuale, dell'amministratore (terzago, 32). A conferma di quanto osservato dalla dottrina si è espressa anche la giurisprudenza di merito, ad avviso della quale l'amministratore di condominio è legittimato passivo riguardo alle controversie afferenti a cose, impianti o servizi di appartenenza, per legge o titolo, anche ad alcuni solamente dei proprietari in condominio c.d. parziale, come unico rappresentante processuale, salva la restrizione degli effetti della sentenza, nell'ambito dei rapporti interni, ai condomini interessati (Trib. Milano 3 febbraio 2012; Trib. Roma 2 settembre 2010). Decisioni in linea con il precedente orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte (Cass. II, n. 15794/2002; Cass. II, n. 651/2000). Il principio della legittimazione dell'amministratore del condominio per le questioni attinenti al condominio parziale non è valido al contrario, in quanto l'ente ristretto non ha potere processuale nei confronti dell'intera compagine condominiale. La questione concerne la possibilità da parte del condominio parziale, rappresentato dall'amministratore, di impugnare una sentenza resa nei confronti del condominio nella sua unitarietà. Con decisione priva di precedenti in termini è stato affermato che il condominio parziale – situazione configurabile per la semplificazione dei rapporti gestori interni alla collettività condominiale, in ordine a determinati beni o servizi appartenenti soltanto ad alcuni condomini – è privo di legittimazione processuale in sostituzione dell'intero condominio in ordine all'impugnazione per cassazione di una sentenza di merito, che abbia visto quest'ultimo parte di una controversia volta al risarcimento dei danni occasionati dall'esecuzione di un appalto dal medesimo conferito, a nulla rilevando che amministratore del condominio parziale ricorrente sia la stessa persona fisica, investita di tale ufficio nel condominio dell'intero edificio. In applicazione dell'enunciato principio, la Corte suprema ha dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione, il ricorso per cassazione proposto dal condominio della scala «D» dell'edificio condominiale parte del giudizio di merito (Cass. II, n. 2363/2012). Secondo recente giurisprudenza di merito (Trib. Roma 8 maggio 2017), poi, si può parlare di condominio parziale anche in tema di supercondominio, allorché un bene strutturalmente unico (nella specie: terrazza) costituisca la copertura di sottostanti immobili, di proprietà di diversi soggetti e situati in differenti condominii (che pur abbiano in comune altre parti, quali tetto, lastrico, area di sedime, ecc.). Nella specie, è stato affermato che si configura un caso di supercondominio parziale e che gli amministratori dei due condominii sono privi di legittimazione passiva per le questioni che interessano solo alcuni condomini, mentre la legittimazione sussiste in capo all'amministratore unico, ovvero, in caso contrario a soggetto appositamente nominato ai sensi dell'art. 65 disp. att. c.c. La procura ad litemStrettamente collegato al tema della legittimazione dell'amministratore, attiva o passiva, è la questione se l'assemblea debba intervenire nella scelta del legale al quale conferire la procura alle liti. Sul punto, la giurisprudenza è costante avendo più volte affermato che l'amministratore di condominio, per conferire procura al difensore al fine di costituirsi in giudizio nelle cause che rientrano nell'ambito delle proprie attribuzioni, non necessita di alcuna autorizzazione assembleare che, ove anche intervenga, ha il significato di mero assenso alla scelta già validamente compiuta dall'amministratore medesimo (Cass. II, n. 12806/2019; Cass. VI, n. 853/2019; Cass. II, n. 10865/2016). La puntualizzazione della Suprema Corte nel senso qui indicato, tuttavia, sembrerebbe circoscrivere tale libertà di scelta ai soli giudizi che rientrano nell'ambito dei poteri riservati all'amministratore, lasciando un vuoto quanto ai giudizi il cui oggetto sia estraneo alle attribuzioni del rappresentante del condominio. Il distinguo operato dall’art. 1131 c.c. può essere mantenuto anche laddove l’amministratore sia egli stesso avvocato, e voglia procedere a conferire a sé stesso il mandato: ciò sarà autonomamente possibile nel caso delle attribuzioni ex art 1130 c.c. mentre, al contrario, richiederà la delibera assembleare nei casi che esorbitano l’ordinaria gestione (Trib. Nocera Inferiore 21 gennaio 2025, n. 211). Del resto in una risalente decisione (Cass. II, n. 6947/1992) il principio era stato già espresso nel senso che l’amministratore di un condominio, che sia anche abilitato all'esercizio della professione forense, può agire direttamente in giudizio ai sensi dell'art. 86 c.p.c., per l'esercizio delle facoltà conferitegli degli artt. 1130 e 1131 c.c., senza autorizzazioni, procure o deliberazioni di altri soggetti, ma nell'esplicazione delle attribuzioni inerenti alla specifica sua qualità. Ergo (ivi. Trib. Nocera Inferiore cit.) nei giudizi che hanno ad oggetto la riscossione di somme di denaro, ovvero controversie in materia di delibere assembleari deve ritenersi corretto l’operato dell’amministratore che abbia conferito a sé stesso il mandato, rientrandosi nell’ambito delle attribuzione ex art 1130 e 1131 c.c.. Per valere il contrario occorre che il contratto di mandato così formatosi sia stato impugnato, oppure ne sia stato richiesto l’annullamento per eventuale conflitto di interessi (ex art 1395 c.c.). La procura alle liti conferita dall'amministratore di condominio è poi valida anche se la persona fisica che la conferisce non indichi espressamente la qualità di rappresentante dei partecipanti ex artt. 1130 e 1131 c.c., purché tale qualità risulti dall'intestazione o anche dal contesto dell'atto cui inerisce, attesa la possibilità che nel conferimento della procura alle liti la spendita del nome assuma forme implicite (Cass.II, n. 7884/2021). Del tutto differente la fattispecie nella quale l'amministratore firmi un documento in nome e per conto del condominio, quale un assegno bancario. In questo caso vale il principio secondo il quale i requisiti per la valida assunzione di una obbligazione cambiaria in nome altrui sono, ai sensi dell'art. 11 del r. d. 14 dicembre 1933 n. 1669, non solo l'esistenza di una procura o di un potere "ex lege", ma anche l'apposizione della sottoscrizione con l'indicazione della qualità, ancorché senza l'uso di formule sacramentali e con le sole modalità idonee a rendere evidente ai terzi l'avvenuta assunzione dell'obbligazione per conto di altri (Cass. I, n. 10388/2012). In precedente decisione, tuttavia, il supremo giudice, da un lato, aveva evidenziato che la ratio dell'art. 1131, comma 2, c.c. è soltanto di quella di favorire il terzo il quale voglia iniziare un giudizio nei confronti del condominio, consentendogli di notificare la citazione al solo amministratore anziché citare tutti i condomini, mentre nulla, nella stessa norma, giustifica la conclusione secondo cui l'amministratore sarebbe anche legittimato a resistere in giudizio senza essere a tanto autorizzato dall'assemblea e, dall'altro, ha osservato che la c.d. autorizzazione dell'assemblea a resistere in giudizio in sostanza non è che un mandato all'amministratore a conferire la procura ad litem al difensore che la stessa assemblea ha il potere di nominare, onde, in definitiva, l'amministratore non svolge che una funzione di mero nuncius, tale autorizzazione non può valere che per il grado di giudizio in relazione al quale viene rilasciata (Cass. II, n. 22294/2004). Dall'esame comparato della richiamata giurisprudenza le conclusioni si possono sintetizzare nel senso che la scelta del legale del condominio viene, di norma, effettuata dall'amministratore (Cass. II, n. 29504/2023) anche se nulla vieta che l'assemblea possa essa stessa scegliere il nominativo dell'avvocato al quale affidare il mandato difensivo. Lo stesso può dirsi per l'incarico conferito ad un tecnico al fine di accertare i danni subiti dagli immobili. In entrambi i casi tali nomine rientrano nell'ordinaria attività dell'amministratore (App. Catanzaro 28 luglio 2022, n. 914). Qualora la ratifica da parte dell'assemblea non si limiti a confermare l'operato dell'amministratore, ma sia estesa anche alla convalida del mandato conferito dall'amministratore ad un legale, il nominativo di questo non potrà essere sostituito se non con ulteriore assenso dell'organo deliberante. Non solo. Se la detta ratifica indichi il nome di un legale diverso da quello che ha sottoscritto l'atto (nella specie, atto di appello), quest'ultimo dovrà essere considerato privo di procura alle liti. La mancanza di tale autorizzazione comporta l'inammissibilità dell'impugnazione (App. Milano 22 marzo 2017), senza che sia possibile concedere, per la regolarizzazione, il termine di cui all'art. 182 c.p.c., inapplicabile in sede processuale, il quale dispone che la procura al difensore può essere rilasciata in data posteriore alla notificazione dell'atto, purché anteriormente alla costituzione della parte rappresentata, e sempre che per l'atto di cui trattasi non sia richiesta dalla legge la procura speciale, come nel caso del ricorso per cassazione, restando conseguentemente esclusa, in tale ipotesi, la possibilità di sanatoria e ratifica (Cass. S.U., n. 13431/2014). La procura alle liti, se conferita «per ogni stato e grado del giudizio», è valida anche in sede di appello. Il principio vale sia nell'ipotesi in cui l'amministratore sia persona fisica, sia nel caso in cui la gestione del condominio sia stata affidata ad una società, come previsto dall'art. 71-bis, comma 3, disp. att. c.c. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, la procura conferita al difensore dall'amministratore di una società di capitali «per ogni stato e grado della causa» è valida anche per il giudizio di appello, e resta tale anche se l'amministratore, dopo il rilascio della stessa e prima della proposizione dell'impugnazione, sia cessato dalla carica, in conformità al principio secondo cui la sostituzione della persona titolare dell'organo avente il potere di rappresentare in giudizio la persona giuridica non è causa di estinzione dell'efficacia della procura alle liti, la quale continua ad operare a meno che non sia revocata dal nuovo rappresentante legale (Cass. II, n. 8821/2017; Cass. II, n. 11536/2014). Ulteriori profili specifici concernenti la tematica in esame sono stati oggetto di altrettante sentenze della Corte di Cassazione. La legittimazione ad agire dell'amministratore del condominio, che in caso di pretese concernenti l'esistenza, il contenuto o l'estensione dei diritti spettanti ai singoli condomini trova fondamento soltanto nel mandato da ciascuno di questi ultimi al medesimo conferito, in assenza di tale potere rappresentativo sostanziale comporta la mancata costituzione del rapporto processuale per difetto della legittimazione processuale (vizio a tale stregua rilevabile anche d'ufficio, pure in sede di legittimità) nonché la nullità della procura alle liti, di tutti gli atti compiuti, e della sentenza impugnata (Cass. II, n. 5862/2007; Cass. II, n. 8570/2005). L'amministratore di un condominio che sia anche abilitato all'esercizio della professione forense può agire direttamente in giudizio ai sensi dell'art. 86 c.p.c. per l'esercizio delle facoltà conferitegli dagli artt. 1130 e 1131 c.c. nell'esplicazione delle attribuzioni inerenti alla specificata sua qualità (nella specie, per la riscossione dei contributi condominiali), senza necessità di ulteriore procura (Cass. II, n. 6947/1992). Il difensore del condominio munito di procura speciale per il giudizio di merito, ancorché non abilitato al patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori, può proporre istanza di regolamento di competenza ove ciò non sia espressamente e inequivocabilmente escluso dal mandato alle liti, in quanto l'art. 47, comma 1, c.p.c. è norma speciale che prevale sull'art. 83, comma 4, c.p.c., il quale presume la procura speciale conferita per un solo grado del giudizio, senza che sia necessaria una successiva ratifica che, nella specie, sarebbe una delibera autorizzativa dell'assemblea (Cass, II, n. 28701/2013). È inammissibile il ricorso per cassazione ove la relativa procura speciale sia stata rilasciata al difensore da un soggetto nella propria qualità di rappresentante volontario del condominio ricorrente, ma nel testo del ricorso il condominio risulti agire in persona del proprio amministratore, e non già del rappresentante volontario di questi, ed emerga che il potere di rappresentanza sia stato conferito limitatamente agli atti del processo (Cass. II, n. 7888/1999). La legittimazione attiva: profili generaliL'art. 1131, comma 1, c.c., da un lato, indica i soggetti (condomini e terzi) nei confronti dei quali l'amministratore può promuovere un'azione giudiziaria e, dall'altro, sancisce i limiti entro i quali la rappresentanza processuale deve essere contenuta. La dottrina, antecedente all'entrata in vigore della l. n. 220 del 2012, era divisa tra varie interpretazioni del fondamento della rappresentanza attiva dell'amministratore che poteva derivare direttamente dalla legge; essere di natura volontaria, perché fondata sul mandato; rappresentare la conseguenza di un rapporto sui generis, oppure avere un carattere organico per effetto della qualificazione dell'amministratore come organo del condominio (Cusano, 277). I confini sono delineati dall'art. 1130, comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), c.c., che si riferiscono ad adempimenti di carattere meramente esecutivo (eseguire le deliberazioni assembleari); di controllo del rispetto delle regole preordinate alla vita condominiale (assicurare l'osservanza del regolamento condominiale); di impulso al regolare funzionamento della vita condominiale (convocazione dell'assemblea per l'approvazione del bilancio consuntivo); di garanzia, nei confronti di tutti i condomini, di un pari uso e godimento dei beni e servizi comuni (assicurando a tutti il pacifico godimento dei beni stessi); di esazione dei contributi condominiali (mediante l'erogazione delle spese comuni); di conservazione delle parti comuni dello stabile. Quanto all'art. 1129, comma 9, c.c., espressamente richiamato dall'art. 1130 c.c., la legittimazione attiva si estende alla riscossione forzosa delle somme dovute dai condomini, entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito è divenuto esigibile, nelle forme previste dall'art. 63 disp. att. c.c. e fatto salvo il diritto dell'assemblea di esonerarlo formalmente da tale incombente. Per tali argomenti si può parlare di una legittimazione attiva di carattere ordinario in quanto tutte le attività elencate formano un quadro complessivo unitario nel quale si rispecchia la gestione abituale del condominio. Là dove, invece, quando si esca da tale tracciato sarà il regolamento di condominio a fissare le ulteriori competenze dell'amministratore, oppure l'assemblea che volta per volta gli darà il mandato per agire in giudizio. La derogabilità dell'art. 1130 c.c., peraltro, deve essere interpretata tanto nel senso di poter caricare l'amministratore di compiti aggiuntivi, quanto in quello di privarlo di poteri che gli spettano per legge. Tanto è vero che la stessa giurisprudenza ha affermato che il regolamento condominiale (approvato per contratto o anche in virtù di deliberazione assembleare) può legittimamente sottrarre all'amministratore il potere di decidere autonomamente in ordine al compimento di eventuali atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, per conferirlo esclusivamente all'assemblea, subordinando alla deliberazione di questa l'esercizio da parte dell'amministratore della relativa azione giudiziaria, attesa la derogabilità da parte del regolamento condominiale, in favore dell'assemblea, della norma di cui all'art. 1130 c.c. sulle attribuzioni dell'amministratore, che ha carattere suppletivo e non imperativo (Cass. II, n. 8719/1997). Tuttavia pur a fronte di un così ampio potere discrezionale conferito all'assemblea dal regolamento di condominio l'organo deliberante non può che incontrare dei limiti, quantitativi e qualitativi. Secondo la dottrina, l'assemblea può intervenire solo su attribuzioni che riguardano le parti comuni, non le proprietà esclusive e neppure in merito alla soluzione di conflitti sorti tra i partecipanti al condominio. Pertanto l'amministratore di condominio è carente di legittimazione attiva, anche se autorizzato dall'assemblea, per tutte le azioni che spettano al singolo in relazione al proprio diritto di proprietà esclusiva. Inoltre l'assemblea può privare l'amministratore di talune attribuzioni ma non esautorarlo, perché ciò equivarrebbe a svuotare la figura del rappresentante del condominio nei suoi contenuti fondamentali, che sono quelli previsti anche dall'art. 1129 c.c., che è norma inderogabile (Nasini, 2017, 710). Pertanto, quanto al primo profilo, la legittimazione dell'amministratore derivante dall'art. 1130, comma1, n. 4), c.c. – a compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio – gli consente di promuovere azione di responsabilità, ai sensi dell'art. 1669 c.c. nei confronti del costruttore a tutela dell'edificio nella sua unitarietà, ma non di proporre, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, delle azioni risarcitorie per i danni subiti nelle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva (Cass. II, n. 217/2015; Cass. II, n. 22656/2010). Tale legittimazione, tuttavia, sussiste quando l'amministratore agisce quale procuratore dei singoli condomini, che gli hanno conferito mandato. In questo caso non vi è ragione d'imporre una forma solenne alla procura, quale la forma scritta, non operando nella fattispecie l'art. 1324 c.c. applicabile solo alla disciplina dei contratti per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale (Cass. II , n. 33416/2019). Ugualmente le azioni reali nei confronti dei terzi a difesa dei diritti dei condomini sulle parti comuni di un edificio tendono a statuizioni relative alla titolarità ed al contenuto dei diritti medesimi e, esulando dall'ambito degli atti meramente conservativi, non possono essere proposte dall'amministratore del condominio in quanto trattasi di azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui gli atti stessi si riferiscono. Pertanto, non rientra fra le attribuzioni dell'amministratore l'azione con cui i condomini di un edificio chiedano l'accertamento della contitolarità del diritto reale d'uso regolarmente costituito con atto pubblico dal venditore-costruttore su un'area di cui lo stesso costruttore-venditore si sia riservato la proprietà (Cass. II, n. 24764/2005). Anche la domanda diretta ad ottenere l' accertamento dell' esistenza di un diritto reale d'uso su un fondo di proprietà condominiale va proposta nei confronti di ciascuno dei condòmini, che soli possono disporre del diritto in questione (accrescendolo o riducendolo, con proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati), e non nei confronti dell'amministratore del condominio, il quale, carente del relativo potere di disporne, è perciò sfornito di l egitimatio ad causam , oltre che di legitimatio ad processum per difetto del potere di rappresentanza dei singoli partecipanti, esulando la controversia dalle attribuzioni conferitegli dagli artt. 1130 e 1131 c.c ( Cass. II, n. 12707/2024 ). Occorre, ancora, osservare che anche nell'ambito delle regolari attribuzioni dell'amministratore si possono verificare ipotesi che richiedono il preventivo assenso dell'assemblea per procedere all'azione giudiziaria, per cui l'eventuale carenza di legittimazione dovrà essere individuata con riferimento al caso concreto. Esecuzione delle delibere assembleariLe decisioni dell'assemblea sono immediatamente esecutive per legge ed una eventuale impugnazione non ne sospende l'esecutività, a meno che non vi sia un ordine dell'autorità giudiziaria in questo senso (art. 1137 c.c.). Non rientra nei compiti dell'amministratore valutare se una delibera sia legittima o meno, trattandosi di attività demandata ai giudici, ad eccezione del caso in cui la stessa sia evidentemente nulla. Tuttavia, poiché l'amministratore deve svolgere il proprio mandato con la diligenza del bonus pater familias, non vi è ragione per escludere, anche in fase di esecuzione della delibera assembleare, un comportamento prudente del medesimo soggetto il quale, anche a propria tutela, potrà controllare la correttezza formale del deliberato prima di agire in via giudiziale. È pertanto consigliabile che, una volta riscontrati eventuali vizi, l'amministratore convochi nuovamente l'assemblea per una nuova delibera. La legittimazione dell'amministratore all'azione esecutiva, rappresenta una fase successiva a quella concernente l'adempimento spontaneo al deliberato assembleare (c.d. fase stragiudiziale), in quanto l'amministratore procederà all'azione giudiziaria quando la delibera sia divenuta definitiva per mancata impugnativa della stessa. Non è, infatti, consigliabile instaurare immediatamente un procedimento esecutivo perché vi è sempre il pericolo che il giudice, chiamato a decidere sull'annullabilità o nullità della delibera, ne sospenda l'esecuzione. Dal combinato disposto degli artt. 1130 e 1131, comma 1, c.c., si evince – tra l'altro – che l'amministratore può agire in giudizio, senza che occorra un'apposita autorizzazione, solo nell'ambito delle attribuzioni conferitegli dalla legge e, propriamente, per l'esecuzione delle deliberazioni assembleari (n. 1 dell'art. citato), naturalmente in quanto adottate nei limiti dei poteri deliberativi dell'assemblea, e, quindi, senza pregiudicare o limitare i diritti dei singoli condomini su beni o porzioni immobiliari di loro esclusiva proprietà (Cass. II, n. 954/1977). È stata, pertanto, esclusa una propria ed autonoma legittimazione processuale attiva dell'amministratore nei confronti di un condomino, per vincere la sua opposizione all'esecuzione di una delibera assembleare, allorché la messa in atto della stessa interferisca gravemente nei diritti di uso e godimento della proprietà esclusiva dello stesso condomino (Cass. II, n. 278/1997: nella specie, con la delibera assembleare, era stata decisa la riapertura degli «sfiatatoi» delle colonne fecali condominiali, senza prevedere la necessità di ripristinare anche i precedenti manufatti in muratura che impedivano il propagarsi di cattivi odori alla proprietà esclusiva del condomino). La mancata esecuzione di una delibera assembleare, che può consistere non solo nel facere oggetto della delibera, ma anche nell'omettere oppure ritardare l'avvio dell'azione giudiziaria decisa dai condomini, è considerato grave irregolarità ai fini della revoca giudiziaria dell'amministratore (art. 1129, comma 12, n. 2, c.c.) con diritto del condominio, di ottenere il risarcimento del danno patito. Vi è anche da considerare l'eventualità di ricorrere all'art. 1105, comma 4, c.c. secondo cui, se la deliberazione adottata non viene eseguita, ciascun partecipante alla comunione può ricorrere all'autorità giudiziaria. In tale ipotesi la possibilità che si apre per i ricorrenti, che hanno avviato un procedimento di volontaria giurisdizione, sarebbe quella di chiedere al giudice delegato di nominare un «amministratore ad acta» che proceda all'azione giudiziaria deliberata e non promossa. Tale soluzione, pur se prevista dalle norme codicistiche, appare tuttavia di scarso rilievo poiché sembra evidente che una tale omissione in capo all'amministratore lede il rapporto fiduciario con il condominio il quale, ovviamente, dovrà preferire la strada di revocare il proprio rappresentante. Osservanza del regolamento di condominioLa rappresentanza dell'amministratore e la legitimatio ad litem si riferisce alle controversie che hanno ad oggetto la violazione delle clausole del regolamento, contrattuali o meramente regolamentari: queste ultime finalizzate a disciplinare le modalità d'uso delle cose comuni, ma non la misura del godimento delle stesse. Infatti, il regolamento di condominio, quali ne siano l'origine ed il procedimento di formazione e, quindi, anche quando abbia natura contrattuale, si configura, in relazione alla sua specifica funzione di costituire una sorta di statuto della collettività condominiale, come atto volto ad incidere con un complesso di norme giuridicamente vincolanti per tutti i componenti di detta collettività, su un rapporto plurisoggettivo concettualmente unico ed a porsi come fonte di obblighi e diritti non tanto per la collettività come tale quanto, soprattutto, per i singoli condomini (Cass. II, n. 12342/1995). Sono sottratte alla sfera di controllo dell'amministratore le clausole inserite negli atti di acquisto e che impegnano il condomino nei confronti di altro soggetto che sia estraneo al condominio. Mentre, se la violazione di norme regolamentari che incidono su diritti esclusivi abbia rilevanza concreta sugli interessi della collettività, sussiste la legittimazione dell'amministratore a promuovere un'azione (ordinaria o cautelare) che miri ad ottenere un provvedimento che tuteli il condominio. In questo senso la giurisprudenza, che ha appunto affermato che l'amministratore del condominio è legittimato a fare valere in giudizio, a norma degli artt. 1130 e 1131 c.c., le norme del regolamento condominiale, anche se si tratta di clausole che disciplinano l'uso delle parti del fabbricato di proprietà individuale, purché siano rivolte a tutelare l'interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all'abitabilità dell'intero edificio (Cass. II, n. 17493/2014; Cass. II, n. 8883/2005). Molte clausole regolamentari sono destinate a disciplinare l'uso della proprietà esclusiva, che deve rispettare interessi e diritti di cui tutti i condomini sono parimenti titolari. Ne consegue che l'amministratore è legittimato ad agire e a resistere in giudizio per: ottenere che un condomino non adibisca la propria unità immobiliare ad attività vietata dal regolamento condominiale contrattuale (nella specie, bar ristorante), senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare (Cass. II, n. 21562/2020; Cass.II, n. 8774/2020; Cass. II, n. 21841/2010); la rimozione di finestre aperte abusivamente, in contrasto con il regolamento, sulla facciata dello stabile condominiale, da taluni condomini, in quanto tale atto, essendo diretto a conservare il decoro architettonico dell'edificio contro ogni alterazione dell'estetica dello stesso, è finalizzato alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio (Cass. II, n. 14626/2010); fare cessare gli abusi posti in essere da un condomino (nella specie, consistenti nell'inosservanza degli orari stabiliti per lo scuotimento dalle finestre delle tovaglie e per la battitura dei tappeti) e, inoltre, ha la facoltà di irrogare a detto condomino una sanzione pecuniaria, qualora ciò sia previsto dal citato regolamento, ai sensi dell'art. 70 disp. att. c.c. (Cass. II, n. 14735/2006); le immissioni di odori molesti che si propagano per scale, androni e cortili e provenienti da un locale sito al piano terreno destinato, in violazione al regolamento contrattuale, a friggitoria (Cass. II, n. 2499/1983), ovvero situato al piano seminterrato ed utilizzato come sala da bello (Cass. II, n. 397/1989). In tema è stato, altresì, precisato che l'amministratore di condominio è legittimato a proporre ricorso d'urgenza di cui all'art. 700 c.p.c. per far cessare immissioni moleste solo qualora nel ricorso stesso venga prospettata la sussistenza di un pregiudizio incombente sul condominio in quanto tale, vale a dire sui beni di proprietà comune ex art. 1117 c.c. (Trib. Napoli 26 ottobre 1993). L'amministratore è, ancora, legittimato attivamente per conseguire, contro il singolo condomino ed il suo conduttore, pronuncia di sospensione e rimozione di nuova opera, realizzata in violazione delle prescrizioni del regolamento condominiale (Cass. II, n. 4767/1978); per far valere la norma regolamentare che vieti la detenzione di animali che possano turbare la quiete o l'igiene della collettività, mentre il semplice possesso di cani od altri animali non è sufficiente a far incorrere i condomini in questo divieto, essendo necessario accertare l'effettivo pregiudizio causato alla collettività dei condomini sotto il profilo della tranquillità e dell'igiene (Pret. Campobasso 12 maggio 1990; Trib. Milano 28 maggio 1990). Il principio enunciato (quanto alla seconda decisione esteso anche al continuo suono della batteria), valido per quanto concerne il disturbo dei condomini che superi la normale tollerabilità, deve in ogni caso essere collegato con la nuova previsione dell'art. 1138, comma 5, c.c., secondo il quale il regolamento di condominio non può vietare di possedere o detenere animali. Qualora i condomini, con il regolamento di condominio, abbiano disciplinato i loro rapporti reciproci in materia di immissioni con norma più rigorosa di quella dettata dall'art. 844 c.c., che ha carattere dispositivo, della liceità o meno della concreta immissione si deve giudicare non alla stregua del principio generale posto dalla legge, bensì del criterio di valutazione fissato nel regolamento. Nella specie, trattavasi dell'installazione di una tipografia nonostante che il regolamento facesse divieto di svolgere attività rumorose od emananti esalazioni nocive (Cass. II, n. 1195/1992). Con particolare riferimento alle violazioni di clausole regolamentari che impongano precisi divieti nell'ambito delle immissioni si precisa che la legittimazione attiva dell'amministratore sussiste tanto con riferimento alla proposizione di azione ordinaria, quanto di giudizio cautelare in via di urgenza, ai sensi dell'art. 700 c.p.c. La circostanza che l'amministratore abbia, nell'ambito delle proprie attribuzioni, ampio potere di rappresentanza attiva non esautora l'assemblea dalla propria prerogativa di organo decisionale del condominio, nel senso di impedirle di decidere di non procedere nei confronti del condomino che abbia violato la norma del regolamento. Pertanto, nel caso in cui l'assemblea tenti di risolvere in via stragiudiziale la questione inerente la violazione di norma regolamentare, non è configurabile la responsabilità dell'amministratore che abbia omesso di agire in giudizio contro i responsabili al fine di conseguire la riduzione in pristino dei luoghi, qualora il medesimo abbia investito delle specifiche questioni l'assemblea del condominio e la stessa abbia deliberato, sia pure a maggioranza, di tentare di risolvere in via extragiudiziale i contrasti insorti tra i vari comproprietari (Cass. II, n. 11688/1999). Per le immissioni aventi ad oggetto rumori molesti l'amministratore non è legittimato ad intervenire per le liti tra condomini, mentre se esiste una clausola del regolamento che viene violata l'amministratore è titolato a prendere posizione, sia nel caso in cui il divieto riguardi l'esercizio di determinate attività, sia quando la clausola regolamentare fissi, nell'arco della giornata, gli orari di riposo (Tarantino, 2019). La disciplina dell'uso delle cose comuniL'amministratore deve regolamentare l'utilizzo dei beni comuni assicurando che non ne venga effettuato un abuso in danno degli interessi collettivi ed individuali. Il fatto che il legislatore abbia specificato che il miglior godimento deve essere assicurato «a ciascuno dei condomini» non esclude che non debbano essere tutelati i diritti dell'intera compagine. Secondo parte della dottrina, tuttavia, il nuovo testo (versione 2013 del n. 2) dell'art. 1130 c.c., anziché riferirsi alla disciplina dell'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi nell'interesse comune in modo che ne sia assicurato il miglior godimento «a tutti i condomini», parla di miglior godimento a «ciascuno dei condomini». Si tratterebbe di una modifica lessicale, a prima vista marginale, ma che in realtà determinerebbe che l'utilità della gestione delle cose comuni si lega, tramite l'amministratore-mandatario, mediante imputazione degli effetti nella sfera giuridica del singolo condomino-mandante e non del gruppo. L'attenzione dell'amministratore sembrerebbe, quindi, rivolta verso l'obiettivo del godimento individuale del bene comune, e non già del simultaneo godimento da parte di tutti i partecipanti al condominio (Terzago, 377). Si parla anche di contesto «individualistico» ed «antiunitario» che richiama l'uso di ciascuno e di un solo condomino (Scarpa, 15). Di diverso avviso la previgente dottrina secondo la quale il potere dell'amministratore è esercitabile nei confronti della collettività ed anche con riferimento all'ipotesi in cui il pregiudizio derivante dall'abuso si riverberi solo nella sfera di alcuni dei partecipanti al condominio. In tale ipotesi, infatti, il rappresentante del condominio è chiamato, comunque, a chiedere la tutela di un interesse che è sempre comune, anche se limitato ad una parte dei condomini, poiché assicurare il godimento di pochi garantisce il miglior godimento di tutti (Crescenzi, 38; Nicoletti, 315). La disciplina del bene comune implica, in via primaria, un'attività di vigilanza e, poi, di accertamento a che il comportamento dei condomini, oggetto di contestazione, non sia sconfinato in atti che eccedano il normale uso del bene. Quando ciò si verifichi l'amministratore, dopo aver invitato e diffidato il soggetto a desistere dalla condotta illecita, potrà, senza la necessità di ricorrere ad un deliberato assembleare, agire in giudizio per ottenere un provvedimento che ponga fine alla situazione illegittima. La giurisprudenza della Suprema Corte, nell'affermare tale principio in remota sentenza non seguita da successive pronunce, aveva anche evidenziato la diversità del caso in cui il nocumento di uno o di alcuni soltanto dei condomini derivi da atti di godimento che uno dei partecipanti faccia delle cose di sua proprietà esclusiva. Nella fattispecie, infatti, essendo stato leso l'interesse di un singolo era stato ritenuto che non potesse essere presa in considerazione la disciplina dell'uso delle cose comuni, per cui solo il proprietario danneggiato poteva agire per far cessare il godimento illegittimo. Da ciò era stato ritenuto che per accertare le facoltà giudiziali dell'amministratore, quel che è decisivo è, dunque, che l'atto, della cui legittimità si controverte, incida, o non, sull'uso o sul godimento delle parti comuni, e non già il numero dei condomini cui sia arrecato pregiudizio con l'atto stesso (Cass. II, n. 943/1962). Nell'espletamento dell'attribuzione di cui all'art. 1131, n. 2), c.c. l'amministratore deve tenere in considerazione due ulteriori circostanze: da un lato, l'art. 1102 c.c., secondo il quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune nel rispetto del godimento della stessa da parte degli altri condomini, i quali non devono essere impediti di farne parimenti uso secondo il loro diritto e, dall'altro, il regolamento di condominio, che contiene clausole specifiche finalizzate a stabilire modalità e divieti nell'uso del bene comune. Il rappresentante del condominio, quindi, si deve attenere a tali prescrizioni, in quanto soggetto legittimato anche ad agire in giudizio per ottenere il rispetto delle clausole regolamentari. Così, ad esempio, l'amministratore che intenda agire in giudizio, in rappresentanza del condominio, per ristabilire la disciplina dell'uso di un bene ritenuto comune, non necessita ex art. 1131, comma 1, c.c., sotto il profilo della legittimazione attiva, di alcuna preventiva autorizzazione assembleare, atteso che tale disciplina rientra pienamente nell'ambito delle proprie attribuzioni già in base all'elencazione di cui all'art. 1130, n. 2), c.c.; nella fattispecie l'azione intrapresa dal condominio, non preceduta da delibera assembleare autorizzativa, era finalizzata a disciplinare l'uso di un'area esterna, ritenuta comune a tutti i partecipanti in base al regolamento condominiale ma utilizzata in via esclusiva ed in modo continuativo da un condomino per parcheggiare numerosi mezzi di sua proprietà. Il soggetto aveva, altresì, attratto tale superficie all'uso del condominio installando un cancello automatico e demolendo una porzione di muro di cinta della stessa (Trib. Genova 9 maggio 2012). Sempre da considerare, poi, che l'assemblea è titolare di un potere discrezionale in relazione alla opportunità o, comunque, possibilità di aprire contenziosi giudiziari nei confronti di condomini e/o terzi. Tale potere, se esercitato in modo non corretto, non produce effetti sulla persona dell'amministratore. Questi, infatti, non è personalmente responsabile per situazioni che si siano verificate non a causa di omissioni del medesimo nel corso della sua gestione condominiale ma per inerzia prolungata da parte dell'assemblea. A questo proposito è stato precisato che tra i poteri dell'amministratore del condominio non può ritenersi compreso, ai sensi dell'art. 1130, comma 1, n. 2), c.c. anche quello di vietare del tutto l'uso di beni od impianti comuni, tanto più nei casi in cui siffatto divieto si dovesse tradurre nell'impossibilità per i singoli condomini di godimento dei beni di proprietà esclusiva. Detto potere è essenzialmente finalizzato ad assicurare la parità del godimento dei beni comuni da parte di tutti i condomini, nel rispetto delle disposizioni del regolamento e delle deliberazioni dell'assemblea, della cui volontà l'amministratore è solo esecutore, ai sensi dell'art. 1130 c.c., comma 1, n. 1), c.c., senza tuttavia dovere anche rispondere, sul piano personale ex art. 6 l. n. 689/1981 dell'eventuale inerzia deliberativa della stessa (Cass. II, n. 6567/2006). L'attività giudiziaria dell'amministratore in relazione alla disciplina dell'uso delle cose comuni non deve essere interpretata in senso restrittivo, ma si estende ai comportamenti compiuti dal singolo nella proprietà esclusiva e che si riflettano in termini quantitativi e qualitativi sull'utilizzo del bene da parte degli altri partecipanti. Pertanto, l'azione contro il condomino per la rimozione di un'opera da questi eseguita che sia lesiva del godimento e del possesso degli altri condomini sulla cosa comune o comunque pregiudizievole della destinazione o dell'estetica della stessa, può essere esperita dall'amministratore del condominio, senza necessità di autorizzazioni assembleari, atteso che essa integra un atto conservativo (dello stato di fatto o) dei diritti inerenti alle cose oggetto di comproprietà, come tale rientrante nei limiti delle attribuzioni dell'amministratore previste dall'art. 1130 c.c. e che, ai sensi del successivo art. 1138, non risultano derogabili neppure in sede di regolamento di condominio (Cass. II, n. 6593/1986). L'amministratore può agire contro il condomino che, nel costruire un'opera nel cortile di sua proprietà esclusiva, abbia appoggiato la costruzione sul muro perimetrale, sopprimendo alcune aperture ed aprendone altre e pretendendo di utilizzare in via esclusiva e pregiudizievole l'accesso condominiale ai contatori. Per contro, l'amministratore è carente di legittimazione attiva se il condomino con lo stesso intervento abbia violato le distanze legali rispetto all'appartamento di altro condomino (Cass. II, n. 2987/1969). La fruizione dei servizi nell'interesse comuneL'attività dell'amministratore, che deve garantire che ciascun condomino possa beneficiare nel modo migliore dei servizi comuni, non è dissimile da quella concernente la disciplina dell'uso delle cose comuni, essendo medesima la ratio ispiratrice delle fattispecie che costituiscono l'oggetto dell'art. 1130, n. 2), c.c. Tra i servizi comuni assumono particolare rilevanza il servizio di riscaldamento centralizzato e di condizionamento, quello di ascensore ed il portierato poiché sono quelli che maggiormente hanno ricadute nell'ambito dei rapporti tra l'ente ed i condomini. Si è ritenuto che in tema di condominio, e con riferimento alle parti comuni dell'edificio, il termine «godimento» designa due differenti realtà: quella della utilizzazione obiettiva della res e quella del suo godimento soggettivo in senso proprio, intendendosi per la prima l'utilità prodotta in favore delle unità immobiliari dall'unione materiale o dalla destinazione funzionale delle cose, degli impianti e dei servizi e per la seconda, invece, l'uso delle parti e dei servizi comuni quale effetto dell'attività personale dei titolari dei piani o porzioni di piano (Mistò, 106). In materia di riscaldamento l'amministratore deve garantire che tutte le unità immobiliari raggiunte dall'impianto di riscaldamento godano di una uniformità di riscaldamento e che non vi siano stati, nei singoli immobili, interventi tali da comportare un evidente squilibrio nel funzionamento dell'impianto. È, quindi, preciso dovere dell'amministratore quello di operare in modo che le cose comuni non vengano danneggiate o deteriorate da alcuno e che i servizi possano funzionare con regolarità. Dopo un primo richiamo ai condomini l'amministratore, nell'ambito delle sue attribuzioni, può agire in via giudiziaria senza una preventiva delibera assembleare. Un dovere che si configura come un potere di vigilanza sulla eccessiva quantità di calore erogata in un appartamento in danno degli altri immobili, con il connesso potere di esigere (anche per via giudiziale) il ripristino, da parte del condomino che indebitamente abbia aumentato la superficie radiante, della situazione quo ante (Ferrari A. — Ferrari E., 48). L'amministratore, che si mantenga nei limiti previsti dal combinato disposto degli artt. 1130 e 1131 c.c., agisce correttamente e la susseguente presa d'atto dell'assemblea non si risolve in una vera e propria delibera, ma in una mera constatazione positiva dell'operato del rappresentante tenuto a provvedere a prescindere dalla volontà assembleare. La questione concernente l'azione intentata nei confronti del condomino non deve, pertanto, essere posta all'ordine del giorno, così come la relativa delibera non può essere oggetto di impugnativa (Trib. Milano 26 marzo 1992). Rientra nei predetti limiti anche l'attività finalizzata ad ottenere l'eliminazione di gravi difetti che riguardino la canna fumaria dell'impianto centralizzato e che impediscano il normale godimento dell'immobile di cui l'impianto di riscaldamento è parte integrante. Anche se l'azione è di carattere contrattuale, in quanto promossa nei confronti di soggetto che ha eseguito lavori sull'impianto medesimo, il rappresentante del condominio (al pari dei condomini) ne ha la piena legittimazione attiva (Cass. II, n. 1081/1995). Con riferimento al servizio di portierato si riconosce una capacità processuale dell'amministratore per ottenere il rilascio dell'alloggio da parte del dipendente. L'amministratore del condominio, ai sensi degli artt. 1130 e 1131 c.c., cui spetta la disciplina dell'esercizio del servizio comune di portierato, può, anche senza deliberazione dell'assemblea dei condomini, agire per il rilascio dell'immobile adibito ad alloggio del portiere, che sia deceduto, da parte del coniuge del medesimo, che detenga l'immobile senza titolo (Cass. II, n. 7162/1991); uguale potere spetta nei confronti del portiere licenziato, detentore dell'alloggio a titolo di integrazione della retribuzione, poiché la restituzione dipende dalla risoluzione di un rapporto obbligatorio assunto per la gestione del servizio comune per la cui prosecuzione il recupero dell'immobile è atto essenziale (Cass. II, n. 4780/1985). Molto diffuso il caso in cui con l'eliminazione del servizio di portierato vero e proprio, il condominio conceda in godimento al pulitore l'ex alloggio del portiere. Se l'uso dell'appartamento rappresenta una parte del corrispettivo per il servizio reso al condominio, cessato il rapporto di lavoro con il pulitore viene meno anche il suo diritto ad occupare l'immobile. Se, invece, con il dipendente sono stati sottoscritti due contratti separati, uno di lavoro e l'altro di locazione, quest'ultimo sarà assoggettato alla disciplina in materia di locazioni ad uso abitativo. In entrambe le ipotesi, comunque, l'amministratore nell'ambito delle proprie attribuzioni potrà agire in via giudiziaria per ottenere la restituzione dell'appartamento. Quando la restituzione dell'alloggio sia richiesta nei confronti degli eredi del portiere deceduto, ovvero di quest'ultimo se licenziato, non è necessario il litisconsorzio nei confronti degli altri condomini. Quanto al tipo di azione da promuovere si precisa che se il godimento dell'immobile è stato concesso come corrispettivo, anche parziale, di una prestazione d'opera dovrà essere richiesta, ai sensi dell'art. 659 c.p.c., intimazione di licenza o di sfratto con la contestuale citazione per convalida allorché il contratto sottostante venga a cessare per qualsiasi causa. Nell'ipotesi in cui, invece, sussistano due contratti separati (di pulizia e di locazione dell'alloggio) ove il dipendente si renda inadempiente verso il condominio (ad esempio nel pagamento dei canoni di affitto), l'amministratore procederà ad un'azione di un normale sfratto per morosità. Per garantire, poi, che ciascuno dei condomini goda pienamente ed in modo indisturbato del servizio di ascensore, l'amministratore è tenuto a fare cessare i casi di abuso ovvero di uso improprio del servizio. Prima con un richiamo e, poi, nei casi più gravi anche tramite via giudiziaria. Con una recente sentenza, ad esempio, è stata ritenuta valida la clausola del regolamento che prevede il divieto per i condomini di utilizzare l'ascensore in compagnia dei propri animali domestici, trattandosi di norma che non viola il disposto dell'art. 1138, comma 5, c.c. (introdotta dalla novella del 2012 secondo la quale il regolamento di condominio non può vietare di possedere o detenere animali) ma che è solo finalizzata a disciplinare l'uso delle parti comuni (Trib. Monza 28 marzo 2017). Nel condominio degli edifici trova applicazione, relativamente ai beni comuni, il principio, desumibile dall'art. 1102 c.c., che consente al singolo condomino di usare della cosa comune anche per un suo fine particolare, con conseguente possibilità di trarre dal bene una specifica utilità aggiuntiva rispetto a quelle generali ridondanti a favore degli altri condomini, con il solo limite che non ne derivi una lesione del pari diritto spettante a questi ultimi. Da tanto consegue che in difetto di specifiche limitazioni stabilite dal regolamento di condominio, l'uso dell'ascensore per il trasporto di materiale edilizio può essere legittimamente inibito al singolo condomino solo qualora venga concretamente e specificatamente accertato che esso risulti dannoso, sia compromettendo la buona conservazione delle strutture portanti e del relativo abitacolo, sia ostacolando la tempestiva e conveniente utilizzazione del servizio da parte degli altri condomini, in relazione alle frequenze giornaliere, alla durata e all'eventuale orario di esercizio del suddetto uso particolare, alle cautele adoperate per la custodia delle cose trasportate, tenendo conto di ogni altra circostanza rilevante per accertare le eventuali conseguenze pregiudizievoli che, in ciascun caso concreto, possono derivare del suddetto uso particolare dello ascensore (Cass. II, n. 2117/1982). Riscossione dei contributi ed erogazione delle speseL'amministratore è legittimato attivamente per proporre le azioni dirette alla riscossione dei contributi concernenti le spese ordinarie e straordinarie, già posti a carico dei condomini, i quali sono tenuti a versarli secondo le varie scadenze prefissate. Si tratta, in particolare, di una legittimazione che trova il suo diretto fondamento nei poteri/doveri attribuiti al rappresentante dall'art. 1130 c.c. e solo in questa fase per l'amministratore si profila il ruolo di esattore dei condomini La riscossione costituisce un momento successivo all'erogazione delle spese, che può avvenire senza autorizzazione dell'assemblea solo quando abbia ad oggetto la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio, oppure l'esercizio dei servizi comuni (riscaldamento centralizzato, ascensore, portierato, antenna centralizzata, ecc.). Da un lato, è stato rilevato che con l'approvazione del bilancio consuntivo si accertano le spese affrontate nell'anno di gestione nel loro preciso ammontare. Per altro verso si è evidenziato che il principio informatore del meccanismo condominiale è quello che deve consentire all'amministratore di avere a disposizione una provvista sufficiente che gli consenta di affrontare nell'anno le spese correnti, sia per la manutenzione ordinaria, sia per la gestione ed il funzionamento dei servizi comuni essenziali. In tale caso, pertanto, l'erogazione di queste spese supera la preventiva approvazione dell'assemblea dei condomini trattandosi di esborsi dovuti a scadenze fisse e ad essi l'amministratore provvede in base ai suoi poteri e non come esecutore delle delibere assembleari (Lazzaro, 487). Principio confermato dalla giurisprudenza, ad avviso della quale l'obbligo del condomino di pagare i contributi per le spese di manutenzione delle parti comuni dell'edificio deriva non dalla preventiva approvazione della spesa e dalla ripartizione della stessa, ma dalla concreta attuazione dell'attività di manutenzione e sorge quindi per effetto dell'attività gestionale concretamente compiuta e non per effetto dell'autorizzazione accordata all'amministrazione per il compimento di una determinata attività di gestione (Cass. II, n. 857/2000). Sulle spese di carattere straordinario, nelle quali sono comprese anche quelle concernenti le innovazioni disciplinate dall'art. 1120 c.c., l'amministratore non ha alcun potere dispositivo che, in forza del disposto dell'art. 1135, comma 2, c.c., è riservato all'assemblea ad eccezione dei casi di urgenza ed improrogabilità, nei quali la spesa può essere affrontata direttamente dall'amministratore ma con l'obbligo di riferirne all'assemblea nella prima riunione utile. Entrambi gli adempimenti rappresentano, per l'amministratore, un obbligo e non un potere rimesso alla sua discrezionalità, avendo gli stessi un solo obiettivo: la buona, regolare e corretta gestione dell'ente da parte del mandatario. Considerata la differenza sostanziale tra attività di riscossione e quella di erogazione la legittimazione processuale dell'amministratore concerne il momento della riscossione dei contributi condominiali. Le somme, destinate alle spese comuni e ripartite con delibera assembleare, infatti, devono essere tempestivamente recuperate per mettere l'amministrazione in grado di adempiere alla sua più specifica funzione di «disciplinare l'uso delle cose comuni e la prestazione (termine sostituito dalla proposta di riforma con il termine «fruizione») dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condòmini» (Di Matteo, 763). L'amministratore, da parte sua, per obbligare i partecipanti inadempienti al pagamento di detta quota dovrà procedere al recupero forzoso dei crediti esigibili, da attivare entro 180 giorni dalla chiusura del bilancio consuntivo, salvo il diritto dell'assemblea di dispensare il rappresentante dal procedere (art. 1129, comma 9, c.c.). È stato osservato che, anche se la legge non ne fa menzione, la richiesta monitoria può anche riguardare somme approvate con il bilancio preventivo e già oggetto di rateizzazione in corso al momento della presentazione del ricorso; che l'immediata esecutività del provvedimento monitorio consente al legale del condominio di notificare al condomino moroso contestualmente sia il titolo giuridico a fondamento dell'azione che l'atto precetto propedeutico all'azione esecutiva; che i termini di notifica del decreto ingiuntivo e di opposizione al medesimo sono soggetti alla sospensione (oggi solo il mese di agosto) per il periodo feriale e che l'azione di recupero forzato dei crediti non è soggetta al procedimento obbligatorio di mediazione. Il legale incaricato dall'amministratore potrà, inoltre, scegliere ancora di instaurare un procedimento in via ordinaria oppure ricorrere al procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss., c.p.c., finalizzato a definire e risolvere le questioni in tema di obbligo di corresponsione di somme di denaro liquide ed esigibili (Rota, 4). Sulla riscossione forzosa dei crediti condominiali la giurisprudenza è stata sempre concorde nel ritenere la piena legittimazione attiva dell'amministratore a chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo previsto dall'art. 63 disp. att. c.c. una volta che l'assemblea condominiale abbia deliberato sulla loro ripartizione, nonostante la mancanza dell'autorizzazione a stare in giudizio rilasciata dall'assemblea medesima e, poiché la fonte di tale potere discende dall'approvazione assembleare del piano di ripartizione, non v'è ragione di distinguere tra gli oneri condominiali relativi a spese ordinarie e quelli riguardanti le spese straordinarie (Cass. II, n. 27292/2005; Cass. II, n. 29/2000). Parimenti è conforme all’interpretazione più recente, ma ormai consolidata della Corte, la conclusione secondo cui l'amministratore di condominio, senza necessità di autorizzazione o ratifica dell'assemblea, può proporre opposizione avverso ildecreto ingiuntivo dallo stesso ottenuto (Cass. II, n. 4179/2023). Secondo la giurisprudenza di merito (Trib. Roma 24 maggio 2023, n. 8117), invece, l'amministratore non può proporre opposizione al precetto senza l'autorizzazione dell'assemblea. L'amministratore può, tuttavia, valutare l'opportunità di agire giudizialmente nei confronti dei condomini per la riscossione delle quote ancora dovute sulla scorta delle condotte abituali degli stessi, ossia in considerazione della circostanza che si tratti di condomini abitualmente solventi o meno, anche al fine di evitare l'inutile dispendio di attività giurisdizionale con conseguente possibile aggravio delle spese gravanti sul condominio stesso (Trib. Torino 31 luglio 2019, n. 1768). Altra cosa è concedere una rateizzazione del debito, trattandosi di determinazione rimessa alla piena discrezionalità dell'assemblea (Trib. Roma 13 settembre 2019, n. 17363). Inoltre, d eve essere respinta l'opposizione a decreto ingiuntivo nella quale sia contestata la legittimazione ad agire dell'amministratore di condominio, revocato da assemblea condominiale precedente al decreto suddetto, qualora l'assemblea non abbia provveduto alla nomina di un nuovo amministratore: in tale ipotesi, infatti, fino all'intervenuta nomina di nuovo amministratore, resta in carica quello precedente, al quale dunque deve essere riconosciuta legittimazione ad agire (Trib. Nocera Inferiore 13 marzo 2018). Nell'ipotesi di immobile condominiale oggetto di contratto di locazione l'amministratore, a nome e per conto del condominio, riscuote i canoni di locazione ed i contributi condominiali direttamente dal conduttore. In caso di inadempimento grave e persistente può promuovere, senza autorizzazione dell'assemblea, azione ingiuntiva nei confronti del debitore. Resta salvo, comunque, il diritto dell'assemblea di dispensare espressamente l'amministratore da tale obbligo, come previsto dall'art. 1129, comma 9, c.c. Per procedere allo sfratto per morosità, invece, l'amministratore deve ottenere l'assenso dell'assemblea, trattandosi di azione che non rientra nell'ambito dei suoi poteri, come determinati dall'art. 1130 c.c. In conseguenza dell'emergenza da COVID-19, una volta ottenuto lo sfratto per morosità o la licenza per finita locazione, gli adempimenti concernenti l'esecuzione del provvedimento giudiziario erano stati sospesi fino al 31 dicembre 2020, come previsto dal c.d. “Decreto rilancio” (art. 17 bis, d.l. 19 maggio 2020, n. 34 convertito nella l. 17 luglio 2020, n. 77). Atti conservativiL'entrata in vigore della l. n. 220/2012 ha modificato il testo dell'art. 1130, comma 1, n. 4), c.c., sostituendo l'originaria espressione «compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio» con «compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio». Tale modifica è stata interpretata come una semplificazione del testo normativo che andrebbe letta alla luce della giurisprudenza formatasi sulla portata dei poteri affidati dalla legge all'amministratore (Nasini 2017, 716). Gli atti conservativi, oggetto dell'art. 1130, comma 1, n. 4), c.c., non sono solo quelli materiali attraverso i quali si attende alla prevenzione, manutenzione ordinaria e conservazione del bene comune, ma comprendono anche le azioni giudiziarie che vengono promosse in funzione della salvaguardia delle parti comuni. Alla norma non si può attribuire un significato restrittivo, nel senso di limitare i poteri dell'amministratore alla richiesta di provvedimenti cautelari, da promuovere in via di urgenza al fine di riportare una situazione di fatto allo stato quo ante, ovvero di bloccare un comportamento lesivo da parte di un condomino o di un terzo, ma si estende a tutte le azioni giudiziarie, anche ordinarie, che hanno il fine di tutelare l'integrità delle parti comuni e dell'immobile nella sua unitarietà. L'azione conservativa non solo respinge ciò che danneggia o compromette all'istante le parti comuni dell'edificio, ma evita anche ciò che può più semplicemente favorire il temuto danneggiamento (Rizzi L. - Rizzi V., 369). L'attività che l'amministratore, a tale fine, deve compiere è di carattere giuridico e non materiale, poiché il rappresentante non può farsi giustizia da sé. Essa consiste nella legittimazione ad agire di propria iniziativa contro tutti i soggetti (terzi o condomini) che attentino all'integrità del bene comune (minacciato nella sua stabilità, sicurezza, decoro, ecc.) per preservare lo stesso contro molestie, turbamenti, interventi e quant'altro, ponendo in essere qualsiasi attività che raggiunga tale scopo (Terzago-Celeste, 181). Secondo recente decisione della Corte di Cassazione, conforme al precedente orientamento, l'art. 1130, n. 4), c.c., che attribuisce all'amministratore del condominio il potere di compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, deve interpretarsi estensivamente nel senso che oltre agli atti conservativi necessari ad evitare pregiudizi a questa o a quella parte comune, l'amministratore ha il potere-dovere di compiere analoghi atti per la salvaguardia dei diritti concernenti l'edificio condominiale unitariamente considerato (Cass. II, n. 2436/2018). In via generale, infatti, in materia di condominio negli edifici, spetta all'ente condominio di provvedere, mediante i suoi organi, alla manutenzione ed alla riparazione dei beni di proprietà comune (artt. 1122, 1130, 1133, 1134, 1135 c.c.). Ne consegue che l'ente condominio ha il diritto e l'obbligo di deliberare e di eseguire opere di riparazione e manutenzione a protezione delle proprietà comuni al fine di evitare danni alle proprietà esclusive dei condomini e dei terzi, e che, in mancanza della collaborazione dei condomini al riguardo, l'amministratore può agire in giudizio, in rappresentanza del condominio, per far valere tale diritto, sia in sede cautelare, ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c., che di merito ex art. 1131 c.c. (Cass. II, n. 3522/2003). La legitimatio ad causam e ad processum dell'amministratore del condominio, senza bisogno di alcuna autorizzazione, allorquando egli agisca a tutela di beni condominiali, sono poteri che gli vengono direttamente dalla legge, e precisamente dall'art. 1130, n. 4), c.c., che gli pone addirittura come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l'esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti (Cass. II, n. 6494/1986). Occupazione ed uso di aree comuni Le aree e le superfici che, per regolamento o per destinazione, risultino comuni non possono essere occupate in via stabile dai condomini o da terzi. Un tale comportamento contrasta, innanzi tutto, con l'art. 1102 c.c., che consente al condomino di utilizzare il bene comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il proprio diritto. Il partecipante, inoltre, non può estendere il suo diritto sulla cosa comune se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso. La legittimazione attiva dell'amministratore in questo ambito non solo si riferisce al dovere di disciplinare l'uso della cosa comune (art. 1130, comma 1, n. 2, c.c.), ma si configura anche con riferimento all'obbligo di compiere gli atti conservativi concernenti le parti comuni, la cui destinazione deve essere preservata sia materialmente che in via di fatto (art. 1130, comma 1, n. 4, c.c.). È stato affermato che in relazione alla denuncia da parte di un condominio dell'abusiva occupazione da parte del costruttore di una porzione di area (in uso) condominiale, mediante la costruzione di manufatto di proprietà esclusiva, sussiste la legittimazione dell'amministratore di condominio ad agire giudizialmente, ai sensi degli artt. 1130, comma 1, n. 4), e 1131 c.c., anche senza il mandato da parte dei condomini, con azione per il ripristino dei luoghi e il risarcimento del danno nei confronti dell'autore dell'opera denunciata e dell'acquirente della stessa (Cass. II, n. 16230/2011). Tale legittimazione sussiste, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea, con riferimento ad un giudizio per ottenere il rilascio di un bene condominiale anche mediante la richiesta di demolizione di opere, essendo il recupero del bene essenziale per l'ulteriore fruizione dello stesso bene da parte di tutti i condomini. (Cass. II, n. 1630/2020). L'amministratore è, altresì, attivamente legittimato – in base ad un'interpretazione estensiva dell'art. 1130, n. 4), c.c. – ad esercitare l'azione di reintegrazione nel possesso in relazione ad un'area di proprietà di terzi ma tuttavia destinata, con apposito vincolo urbanistico, ad un diritto di uso comune da parte dei condomini (nella specie, diritto di parcheggio in terreno adiacente a fabbricato condominiale); ciò poiché tale azione si collega al potere dell'amministratore di esercitare gli atti conservativi sui beni di proprietà comune del condominio (Cass. II, n. 16631/2007; Cass. II, n. 6190/2001). L'area esterna di un edificio condominiale, non oggetto di un'espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del condominio (ovvero, nel primo atto di trasferimento di un'unità immobiliare dell'originario proprietario ad altro soggetto, che possa perciò valere come titolo contrario alla presunzione di condominialità) va ritenuta parte comune, ai sensi dell'art. 1117 c.c. Da ciò consegue la legittimazione dell'amministratore di condominio ad esperire, riguardo ad essa, le azioni contro i singoli condomini o contro terzi dirette ad ottenere il ripristino dei luoghi ed il risarcimento dei danni, giacché rientranti nel novero degli "atti conservativi", al cui compimento l'amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130, n. 4, c.c. (Giur. cost.. Da ultimo Cass.VI, n. 18796/2020. Fattispecie relativa ad abusiva modificazione di area destinata a parcheggio tramite una recinzione ed una costruzione in calcestruzzo). Nel caso di presenza di attività commerciali situate in prossimità di un condominio (nella specie: attività di ristorazione i cui locali siano situati al piano terra del caseggiato) l'amministratore , che abbia notificato un esposto al Comando di Polizia, con allegata documentazione fotografica, per chiedere un intervento ai fini della liberazione del suolo occupato illegittimamente (tramite “dehors”) , è altresì autorizzato a presentare istanza di accesso ai documenti amministrativi del Comune e ad ottenerne copia. La vicinanza della struttura all'edificio, infatti, attribuisce al richiedente un interesse diretto a conoscere non solo la sanzione pecuniaria irrogata, ma anche quella amministrativa accessoria dell'obbligo di rimuovere le opere abusive allo scopo di valutare le ulteriori iniziative che lo stesso condominio potrà assumere ( Tar Lombardia, 26 aprile 2024, n. 1262. Nella stesso senso cfr. Tar Lazio 11 aprile 2024, n. 7068 con riferimento alla richiesta della documentazione (nella specie: titoli edilizi) rilasciata dal Comune per l' attività di supermercato , svolta al piano terra di un condominio). Senza necessità di una specifica deliberazione assembleare, l'amministratore del condominio ha, altresì, il potere di agire in giudizio, nei confronti dei singoli condomini e dei terzi, per compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni di un edificio, ivi compresa la richiesta delle necessarie misure cautelari, quale il ricorso all'art. 700 c.p.c. per impedire ai condomini l'uso della rampa garage e dell'autorimessa, dopo che i vigili del fuoco ne avevano accertato l'inidoneità all'uso per motivi di sicurezza. La Suprema Corte, inoltre, ha ribadito un principio pacifico secondo il quale la procura alle liti conferita dall'amministratore al legale è valida anche se non vi sia stata previa autorizzazione dell'assemblea (Cass. II, n. 24391/2008). Poiché l'uso del bene comune deve essere esercitato in modo conforme alla sua funzione e originaria destinazione, l'amministratore (ai sensi dell'art. 1130, n. 4, c.c.) non ha bisogno di autorizzazione dell'assemblea per agire nei confronti dei condomini, proprietari di locali sotterranei, che con l'escavazione del sottosuolo (bene comune, anche per la funzione di sostegno dell'edificio, in mancanza di titolo attributivo della proprietà esclusiva) abbiano ampliato ed unificato gli stessi (Cass. II, n. 13102/1997). Tale intervento, infatti, compiuto ad opera di un condomino e senza l'autorizzazione degli altri costituisce di per sé un'innovazione lesiva, in quanto priva i condomini medesimi dell'uso e del godimento di una parte comune dell'edificio (Cass. II, n. 4965/2010). L'amministratore del condominio è legittimato ad agire in giudizio, in assenza di deliberazione assembleare, nei confronti di soggetti terzi che abbiano allacciato gli scarichi dei loro immobili nella condotta fognaria dell'edificio condominiale. Nella fattispecie, infatti, l'azione rientra nell'ambito degli atti conservativi di cui all'art. 1130, n. 4), c.c. (Cass. II, n. 6494/1986). Rovina e difetti di cose immobili In ordine all'azione finalizzata alla rimozione di vizi e difetti da proporsi nei confronti del costruttore e venditore diretto, ovvero dell'appaltatore in conseguenza dell'esecuzione di un contratto di appalto in violazione della corrente regola d'arte, si è discusso se l'amministratore sia legittimato ad agire quando i difetti determinano la rovina od il pericolo di rovina, anche parziale, dell'edificio. La norma da prendere in considerazione è l'art. 1669 c.c. («rovina e difetti di cose immobili») che prevede una responsabilità dell'appaltatore nei confronti del committente allorché, negli edifici od altri beni immobili destinati per loro natura a lunga durata, nel corso di dieci anni dal compimento l'opera rovini in tutto o in parte, ovvero presenti pericolo di rovina o gravi difetti. La denunzia del committente deve essere fatta entro un anno dalla scoperta ed il suo diritto si prescrive in un anno dalla denunzia. L'art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest'ultimo (Cass. S.U., n.7756/2017; Cass. VI, n. 3674/2019). La decisione ha composto un contrasto giurisprudenziale tra un'interpretazione strettamente letterale della norma, dato dall'utilizzo del termine «gravi difetti di costruzione», là dove la parola «costruzione» era stata assimilata al risultato di un'attività edificatoria ex novo e, come tale, presupposto e limite per l'applicazione dell'art. 1669 citato (per tutte, v. Cass. II, n. 10658/2015) ed altra aperta ad un ampliamento del concetto di costruzione alle ipotesi di opere od interventi edilizi che siano effettuate su di un edificio già esistente, quando si venga a determinare, comunque, una situazione di rovina o pericolo di rovina, oppure gravi vizi nell'esecuzione dei detti lavori, allorché questi incidano sugli elementi essenziali dell'immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale (Cass. II, n. 22553/2015). Mentre è stato evidenziato che la responsabilità ex art. 1669 c.c. viene decodificata dalla giurisprudenza come responsabilità extracontrattuale, e quindi come ipotesi speciale della fattispecie generale regolata dall'art. 2043 c.c., con applicabilità, pertanto, dell'art. 2058 c.c. e della alternatività, a scelta del creditore, del risarcimento in forma specifica o per equivalente, consentendosi solo ove si sia optato per il primo la successiva emendatio in risarcimento per equivalente, senza che ciò costituisca domanda nuova, mentre costituirebbe domanda nuova l'ipotesi inversa, nel caso in cui parte ricorrente abbia agito con autonoma azione ex art. 700 c.p.c. per il risarcimento in forma specifica (Trib. Ariano Irpino 26 gennaio 2010). L'amministratore si deve attivare in ogni sede a tutela delle parti comuni per adempiere all'obbligo previsto direttamente dalla legge. Tale attività comprende anche quella propedeutica di denuncia nel rispetto dei termini di decadenza, nonché la strumentale proposizione di accertamento tecnico preventivo (Pignatelli, 533). A conferma la giurisprudenza, secondo la quale la legittimazione dell'amministratore, anche senza autorizzazione dell'assemblea, si estende pure alla proponibilità del procedimento di accertamento tecnico preventivo finalizzato ad acquisire tempestivamente elementi di fatto sullo stato dei luoghi o sulla condizione e qualità di cose, da utilizzare successivamente nel giudizio di merito introdotto con la domanda ex art. 1669 citato, posto che tale accertamento è strumentale all'esercizio stesso dell'azione di responsabilità anzidetta (Cass. II, n. 23693/2009). Il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti previsto, a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e tale termine può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (Cass. VI, n. 3674/2019, con nota di Accoti, 2019). Sulla controversa questione se l'amministratore sia abilitato ad agire ai sensi dell'art. 1669 c.c. a tutela del condominio e delle parti di proprietà esclusiva è stato opportunamente osservato che il più delle volte al giudizio promosso dall'amministratore partecipano anche i singoli condomini «esclusivamente danneggiati», così come sono più che frequenti i casi nei quali l'eliminazione dei danni richieda necessariamente un intervento non solo sulle parti comuni ma anche su quelle di pertinenza del singolo condomino. In tali ipotesi, pertanto, il risarcimento riconosciuto – sia esso in forma specifica o per equivalente – sarà finalizzato a ripristinare unitariamente le parti danneggiate dell'edificio. Mentre la distinzione tra le due situazioni permane qualora i fatti posti a base della richiesta di risarcimento abbia per oggetto danni che possono essere riparati in modo autonomo e non interdipendente rispetto a quelli occorsi alle parti comuni. Ed è questo è il caso in cui i singoli condomini dovranno conferire mandato specifico all'amministratore (Pignatelli, 533). Per costante orientamento della Suprema Corte, la legittimazione dell'amministratore derivante dall'art. 1130, comma 1, n. 4), c.c. – a compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio – gli consente di promuovere azione di responsabilità, ai sensi dell'art. 1669 c.c. nei confronti del costruttore a tutela dell'edificio nella sua unitarietà, ma non di proporre, in difetto di mandato rappresentativo dei singoli condomini, delle azioni risarcitorie per i danni subiti nelle unità immobiliari di loro proprietà esclusiva (Cass. II, n. 22656/2010; Cass. II, n. 22886/2010). Principio ribadito anche successivamente, là dove è stato affermato che la giurisprudenza della Corte ha progressivamente ampliato l'interpretazione dell'art. 1130, n. 4), c.c. fino ad affermare la legittimazione dell'amministratore del condominio a promuovere l'azione di cui all'art. 1669 c.c., a tutela indifferenziata dell'edificio nella sua unitarietà, in un contesto nel quale i pregiudizi derivino da vizi afferenti le parti comuni dell'immobile, ancorché interessanti di riflesso anche quelle costituenti proprietà esclusiva di condomini (Cass. II, n. 8512/2015). Nella fattispecie, infatti, si verte in una ipotesi di causa comune di danno che abilita alternativamente l'amministratore del condominio ed i singoli condomini ad agire per il risarcimento, senza che possa farsi distinzione tra parti comuni e singoli appartamenti o parte di essi soltanto (Cass. II, 5613/1996). A precisazione di tale principio era stato, ad esempio, affermato che l'umidità conseguente ad inadeguata coibentazione delle strutture perimetrali di un edificio, può integrare, ove sia compromessa l'abitabilità e il godimento del bene, grave difetto dell'edificio ai fini della responsabilità del costruttore ex art. 1669 c.c. Tuttavia, qualora il fenomeno sia causa di danni a singoli condomini, nei confronti di costoro è responsabile in via autonoma ex art. 2051 c.c. il condominio, che è tenuto, quale custode, ad eliminare le caratteristiche lesive insite nella cosa propria (Cass. II, n. 3753/1999). Altro aspetto da considerare sono i limiti oggettivi della legittimazione in relazione all'azione promossa dal condominio nei confronti dell'appaltatore. Sul punto, con risalente decisione, era stato affermato che l'amministratore, in forza dell'art. 1130, n. 4), c.c. può, senza autorizzazione assembleare, promuovere sia l'azione di danno temuto, sia quella di cui all'art. 1669 c.c. al fine di ottenere il risarcimento del danno cagionato alle parti comuni dell'edificio nel caso di rovina di questo o gravi vizi di costruzione che ne mettano in pericolo la sicurezza, senza trovare deroga per il caso in cui le opere di rifacimento dell'edificio siano state già eseguite a cura dello stesso amministratore ex art. 1669 c.c. (Cass. II, n. 152/1985), ovvero quelle da eseguire per la rimessione in pristino (Cass. II, n. 1154/1974). La giurisprudenza, però, aveva in precedenza puntualizzato che la legittimazione dell'amministratore, quale è prevista dall'art. 1130 c.c. per gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, non si estende oltre i limiti delle domande dirette al ripristino delle parti comuni nel loro normale stato e non comprende, quindi, la domanda di risarcimento dei danni conseguenti al deprezzamento delle parti comuni, dell'immobile che, non essendo diretta alla conservazione dell'immobile, resta nella esclusiva disponibilità dei singoli condomini (Cass. II, n. 4679/1992). Il tutto con ulteriore antecedente precisazione secondo la quale per danni di questo tipo, consistenti appunto nella svalutazione dell'immobile considerato nella sua unitarietà, configurandosi una responsabilità contrattuale del costruttore, in ordine a vizi e deficienze riguardanti anche le parti ed i servizi comuni, la legittimazione all'azione spetta non già all'amministratore ma ai singoli condomini interessati, i quali sono tenuti a conferire un mandato specifico al rappresentante del condominio (Cass. II, n. 2907/1966). Difformità e vizi dell'opera Del tutto differente è la fattispecie contemplata dagli artt. 1667 e 1668 c.c. Trattasi di ipotesi molto comune in ambito condominiale che si verifica allorché vengano effettuati, sulle parti comuni dell'edificio, lavori edili non eseguiti a regola d'arte. In questo caso, anche se il contratto di appalto viene sottoscritto dall'amministratore a nome e per conto del condominio, sarà quest'ultimo che, con riferimento al tipo di interventi da porre in essere, con la corretta maggioranza assembleare (semplice, se si tratti di interventi di limitata importanza, qualificata, quando si tratti di opere straordinarie di rilevante entità economica), dovrà approvare le opere ed individuare la ditta appaltatrice. L'appaltatore è tenuto a garantire l'opera da difformità e vizi, con l'eccezione del caso in cui il committente/condominio abbia accettato la stessa e le difformità o i vizi erano conosciuti o riconoscibili, purché, in questo caso, non taciuti dall'appaltatore. La denunzia all'appaltatore delle discordanze, rispetto a quanto contrattualmente previsto, e dei difetti deve essere formulata a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla scoperta, a meno che l'appaltatore non li abbia riconosciuti o occultati. Secondo la giurisprudenza in ambito condominiale, il termine di decadenza in capo all'amministratore per promuovere l'azione di cui all'art. 1667 c.c. coincide con l'effettiva e piena conoscenza, da parte dello stesso, dei gravi vizi acquisita a seguito di perizia tecnica e non da generiche segnalazioni dei condomini date in assemblea circa altrettanto generiche. La disposizione dell'art. 1667 c.c., infatti, laddove stabilisce che «il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all'appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta», deve intendersi nel senso che il termine decadenziale decorre dal momento in cui il committente ha avuto in ogni modo consapevolezza di ciò che prima gli era occulto, senza la necessità di un riscontro tecnico rispetto alle evidenze già emerse. Tale conoscenza può ritenersi, comunque, acquisita anche senza la necessità di una verifica tecnica dei vizi stessi, secondo l'accertamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato, come nel caso di specie nei quali era emerso attraverso i verbali assembleari che i condomini erano a conoscenza dei vizi ben tre anni prima rispetto all'avvio della relazione (Cass. II, n. 26233/2013). L'azione contro l'appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell'opera ed il committente, convenuto in giudizio per il pagamento del prezzo può sempre far valere la garanzia, purché la denunzia in questione sia stata fatta entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi due anni dalla consegna (art. 1167 c.c.). La norma è stata interpretata nel senso che il committente/condominio non può far valere, neppure in via riconvenzionale, la garanzia de qua quando siano decorsi due anni dalla consegna dell'opera, senza che vi sia stata alcuna denunzia dei vizi nei termini, o senza che l'appaltatore abbia in alcun modo riconosciuto le difformità ed i vizi stessi (Terzago, 707). Il committente/condominio può chiedere: l'eliminazione di difformità e vizi a spese dell'appaltatore; la diminuzione proporzionale del prezzo dell'appalto, salvo il risarcimento del danno in caso di colpa dell'appaltatore ovvero la risoluzione del contratto allorché vizi e difformità siano tali da rendere l'opera inadatta alla sua destinazione (art. 1168 c.c.). Le norme richiamate, dettate in materia di appalto, si applicano anche al settore condominiale ma con diversa valenza rispetto a quanto stabilito nell'art. 1669 c.c. e con particolare riferimento alla questione se l'amministratore sia legittimato attivamente, senza autorizzazione assembleare, ad agire in giudizio nei confronti dell'appaltatore per fare valere i diritti del condominio. È stato osservato, infatti, che in tema di responsabilità dell'appaltatore, le disposizioni dell'art. 1669 c.c. tendono essenzialmente a disciplinare le conseguenze dannose dei vizi costruttivi che incidono negativamente in maniera profonda sugli elementi essenziali di struttura e di funzionalità dell'opera, influendo sulla sua solidità, efficienza e durata, mentre quelle dell'art. 1667 c.c. riguardano l'ipotesi in cui la costruzione non corrisponda alle caratteristiche del progetto e del contratto di appalto, ovvero sia stata eseguita senza il rispetto delle regole della tecnica (Cass. II, n. 3002/2001). Le azioni cautelariGli atti conservativi di cui all'art. 1130 c.c. non sono solo i provvedimenti cautelari in senso stretto, ma anche tutti quegli atti che mirano all'integrità delle parti comuni, con la conseguenza che l'amministratore può agire senza autorizzazione dell'assemblea non solo per proporre l'azione di danno temuto, ma anche per porre in essere tutti quegli atti che mirano a tutelare l'integrità del bene comune (Nasini 2011, 403). L'amministratore è legittimato ad agire a tutela delle parti comuni con le azioni di carattere cautelare disciplinate dagli artt. 1171 e 1172 c.c. anche in via di urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c. Si rientra nell'ambito applicativo dell'art. 1171 c.c. (denuncia di nuova opera) allorché il condominio – nella veste di proprietario, titolare di un altro diritto reale di godimento o, più semplicemente possessore – abbia ragione di ritenere che da una nuova opera (che non deve essere terminata e dal cui inizio deve essere trascorso meno di un anno), intrapresa da altri sul proprio come sull'altrui fondo, stia per derivare un danno alla cosa che forma oggetto del proprio diritto o possesso. L'amministratore del condominio, quindi, può agire in giudizio in rappresentanza dei partecipanti, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea, per conseguire, contro il singolo condomino ed il suo conduttore, pronuncia di sospensione e rimozione di nuova opera, realizzata in violazione delle prescrizioni del regolamento condominiale (Cass. II, n. 4767/1978). Si configura, invece, la fattispecie del danno temuto (art. 1172 c.c.) allorché gli stessi soggetti di cui al precedente articolo abbiano ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa «sovrasti» il pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l'oggetto del proprio diritto o possesso. Il condominio negli edifici, inteso quale organismo delegato alla gestione collettiva delle parti comuni dell'edificio, è custode delle suddette, sicché qualora la situazione dannosa sia potenzialmente produttiva di danni, il condominio è anche obbligato a rimuovere ex art. 1172 c.c. le cause del danno stesso (Cass. II, n. 12211/2003). In via generale, ed il principio non può che valere anche in ambito condominiale, il criterio discretivo tra denuncia di nuova opera e denuncia di danno temuto risiede soltanto nel diverso modo in cui l'attività umana ha determinato l'insorgere del pericolo e nella conseguente diversità del rimedio da adottare. La prima, infatti, postula un facere, cioè la messa in esecuzione di un quid, nel proprio o nell'altrui fondo, capace di arrecare pregiudizio al bene oggetto della proprietà o del possesso del denunciante, e prevede come rimedio l'inibizione di tale attività intrapresa o la subordinazione della sua prosecuzione all'adozione di determinate cautele; la seconda postula, invece, un non facere, ossia l'inosservanza dell'obbligo di rimuovere una situazione di un edificio, di un albero o di qualsiasi altra cosa, comportante pericolo di un danno grave e prossimo per il bene in proprietà o in possesso del denunciante, e prevede come rimedio l'ordine, a chi abbia la piena disponibilità della cosa costituente pericolo, di eseguire quanto necessario per la rimozione della causa di quest'ultimo (Cass. II, n. 2897/1987). La denuncia di nuova opera può essere proposta anche con riferimento ad opere, che pur se non immediatamente lesive, siano suscettibili di essere ritenute fonte di un futuro danno in forza dei caratteri obiettivi che esse potranno assumere se condotte a termine. Condizione dell'azione di nuova opera, pertanto, non deve necessariamente identificarsi in un danno certo o già verificatosi, ma può anche riconoscersi nel ragionevole pericolo che il danno si verifichi in conseguenza della situazione determinatasi per effetto dell'opera portata a compimento (giurisprudenza costante, v., di recente, Cass. II, n. 21491/2012). Poiché gli atti conservativi si estendono anche alle azioni a tutela dello stato di godimento della cosa comune, purchè non importino una possibile disposizione della stessa, l'azione finalizzata alla tutela e conservazione delle parti comuni consistente nella tutela del decoro architettonico dell'edificio rientra in tale paradigma (Cass. II, n. 4711/2022). In questi casi, malgrado sia pacifico che l'amministratore può e deve agire in via cautelativa senza la necessità di autorizzazione dell'assemblea, è opportuno che questi, prima di promuovere un'azione giudiziaria, diffidi il soggetto interessato dal proseguire nell'attività potenzialmente lesiva. La piena legittimazione attiva riconosciuta al rappresentante del condominio, infatti, non lo dovrebbe esentare dall'effettuare ogni tentativo per una composizione stragiudiziale della controversia. Occorre premettere che, in materia di condominio negli edifici, spetta all'ente condominio di provvedere, mediante i suoi organi, alla manutenzione e alla riparazione dei beni di proprietà comune (artt. 1122, 1130, 1133, 1134, 1135 c.c.). Da ciò consegue che l'ente condominio ha il diritto e l'obbligo di deliberare e di eseguire opere di riparazione e manutenzione a protezione delle proprietà comuni al fine di evitare danni alle proprietà esclusive dei condomini e dei terzi, e che, in mancanza della collaborazione dei condomini al riguardo, l'amministratore può agire in giudizio, in rappresentanza del condominio, per far valere tale diritto, sia in sede cautelare, che di merito (Cass. II, n. 3522/2003; Cass. II, n. 24391/2008). Rientrano nell'ambito delle azioni cautelari, promuovibili direttamente dall'amministratore: quella promossa nei confronti di un condomino che effettui sul lastrico solare una costruzione che, causando un sovraccarico, pregiudichi la stabilità dell'edificio. In tale occasione l'amministratore potrà chiedere anche il risarcimento del danno causato alle parti comuni ma limitatamente alle spese occorrenti per la remissione in pristino delle cose nello stato quo ante (Cass. II, n. 4679/1992); quando l'azione miri a fermare le escavazioni operate nel sottosuolo per ampliare locali sottostanti di proprietà esclusiva (Cass. II, n. 152/1985), oppure per demolire una sopraelevazione che pregiudichi la statica dell'edificio (Cass. II, n. 1068/1968). Inoltre, il potere-dovere di «compiere atti conservativi», riconosciuto all'amministratore di condominio ex artt. 1130 e 1131 c.c. si riflette, sul piano processuale, nella facoltà di chiedere non soltanto le necessarie misure cautelari (avuto riguardo a tutti gli atti diretti a conservare l'esistenza delle parti comuni), ma anche il risarcimento dei danni, qualora l'istanza appaia connessa con la conservazione dei diritti sulle parti comuni, e risulti consequenziale all'impedimento frapposto alla tempestiva esecuzione di quanto legittimamente richiesto, senza che assuma rilievo, in contrario, né la circostanza che la vertenza sia stata introdotta con ricorso ex art. 700 c.p.c., né che il ricorso stesso sia stato presentato da un precedente amministratore privo dell'autorizzazione dell'assemblea dei condomini (Cass. II, n. 10474/1998). Nel merito, è stato ritenuto che qualora l'omessa manutenzione del terrazzo, in proprietà esclusiva di condomino, danneggi, per infiltrazione di acqua, il vano del proprietario sottostante, anche con pericolo per la stabilità dell'edificio condominiale e il proprietario del terrazzo rifiuti l'accesso all'impresa incaricata delle riparazioni dal condominio, questo può utilmente esperire l'azione di danno temuto, ma non può richiedere, in via di urgenza, l'accesso al fondo del condomino, ex artt. 843 c.c. e 700 c.p.c., in quanto tale possibilità è data solo per costruire o riparare un muro o altra opera propria del vicino o comune (Trib. Roma 5 luglio 2001). Nell'ipotesi del supercondominio, la legittimazione degli amministratori di ciascun condominio per gli atti conservativi, riconosciuta dagli artt. 1130 e 1131 c.c., si riflette, sul piano processuale, nella facoltà di richiedere le necessarie misure cautelari soltanto per i beni comuni all'edificio rispettivamente amministrato, non anche per quelli facenti parte del supercondominio, che, quale accorpamento di due o più singoli condominii per la gestione di beni comuni, deve essere gestito attraverso le decisioni dei propri organi, e, cioè, l'assemblea composta dai proprietari degli appartamenti che concorrono a formarlo e l'amministratore del supercondominio (Cass. II, n. 19558/2013). Ne consegue che, qualora quest'ultimo amministratore non sia nominato, la rappresentanza processuale passiva compete, in via alternativa, ad un curatore speciale scelto ex art. 65 disp. att. c.c. o al titolare di un mandato "ad hoc" conferito dai comproprietari ovvero, in mancanza, a tutti i titolari delle porzioni esclusive ubicate nei singoli edifici (Trib. Roma 10 giugno 2024, n. 9962). Giova tornare sulla identificazione del c.d. supercondominio che viene ad esistere, secondo un orientamento giurisprudenziale recepito dalla l. n. 220/2012, allorché più edifici abbiano materialmente in comune beni, impianti o servizi, come ricompresi nell'ambito dell'art. 1117 c.c. (viale d'ingresso, locali per la portineria, alloggio del portiere, parcheggi, impianto centralizzato di riscaldamento), tutti collegati da un vincolo di accessorietà necessaria a ciascuno dei fabbricati. In questa situazione composita devono sussistere due tabelle millesimali: una relativa al supercondominio (per la ripartizione tra i singoli condomini delle spese inerenti ai beni e servizi super-condominiali) ed una interna ad ogni edificio. Anche se di norma il complesso è gestito da più amministratori (uno per il supercondominio e gli altri per gli edifici che lo compongono), nulla vieta – perché la legge non lo esclude – che l'amministratore sia unico per le distinte entità, anche se le stesse mantengono una piena autonomia gestionale. In tale ipotesi è stato chiarito che l'amministratore unico è legittimato attivo e passivo, ma nella qualità di amministratore del supercondominio o del condominio singolo a secondo se l'atto di amministrazione riguarda il condominio singolo o il supercondominio (Cass. II, n. 15262/2018). La corretta decisione della Corte potrebbe essere integrata da una specificazione: ovvero che l'amministratore, sia da un punto di vista attivo, che passivo, venga sempre indicato nella sua effettiva qualità. Una generica indicazione dell'amministratore (come ad esempio; amministratore pro-tempore) porterebbe, infatti, ad eccezioni processuali in merito all'identificazione del soggetto effettivamente legittimato. Le c.d. «azioni di nunciazione», esperibili ai sensi degli artt. 1171 e 1172 c.c., possono essere promosse dal condominio anche nei confronti della pubblica amministrazione, allorché si determinino delle situazioni che rientrano nell'ambito delle norme stesse. In questo caso, infatti, la pubblica amministrazione assume il normale ruolo di terzo, rispetto al quale il condominio, nella persona del proprio rappresentante, adotta tutte le misure per conservare le parti comuni dell'edificio. Con riguardo all'azione di nunciazione, proposta dal condominio di un edificio nei confronti del Comune, in relazione al pregiudizio alla stabilità del fabbricato derivante dalle vibrazioni prodotte dagli automezzi di pubblico trasporto urbano, deve essere affermata la giurisdizione del giudice ordinario, ove si verta in tema non d'impugnazione di atti o provvedimenti amministrativi, ma di tutela del diritto dominicale, nei rapporti di vicinato, contro immissioni eccedenti la normale tollerabilità (art. 844 c.c.), mentre non rileva, al fine di detta giurisdizione, il tipo della pronuncia cautelare richiesta (Cass. S.U., n. 4510/1991). Le azioni possessorieNell'ambito delle generali attribuzioni dell'amministratore, quali quelle delineate dagli artt. 1130 e 1131 c.c., l'amministratore è pienamente legittimato ad esperire le azioni a tutela del possesso indipendentemente dall'autorizzazione dell'assemblea. Ciò vale, quindi, tanto per l'azione di reintegrazione, quanto per quella di manutenzione che sono, per definizione, finalizzate al recupero od al mantenimento del godimento della cosa, sottratto illecitamente o molestato dal terzo. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione (Cass. II, n. 369/1982) la quale ha, altresì, precisato che l'amministratore del condominio ha, tra gli altri, anche il compito di compiere gli atti conservativi – tra i quali rientrano anche le azioni possessorie – dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio e, nell'ambito di detta attribuzione, ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio, sia contro i condomini che contro i terzi, con la conseguenza che, allorché si verta in tema di conservazione dei diritti condominiali attinenti alle parti comuni dell'edificio – ed anche se la controversia riguardi l'uso o il godimento della cosa comune – l'amministratore può agire in giudizio anche in difetto di una deliberazione assembleare, poiché tale potere inerisce alla sua qualità, restando irrilevante accertare se l'assemblea con la quale egli sia stato eventualmente autorizzato a promuovere l'azione sia stata o meno validamente costituita (Cass. II, n. 4117/1990). Due sono le azioni tipiche a tutela del possesso per le quali è stata riconosciuta la legittimazione attiva dell'amministratore. L'azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.), finalizzata a restituire il possesso della cosa a chi ne sia stato spogliato in modo violento od occulto, deve essere esercitata entro l'anno dal sofferto spoglio. Ove, poi, questo sia stato clandestino il termine decorre dalla scoperta dello spoglio. In merito alla nozione di clandestinità è stato affermato che la violenza, quale presupposto dell'azione di spoglio ex art. 1168 c.c., implica che lo spoglio venga commesso con atti arbitrari, i quali contro la volontà espressa o tacita del possessore tolgano a questo il possesso o gliene impediscano l'esercizio, con la consapevolezza, da parte di chi commette lo spoglio, di agire proprio per privare il possessore della cosa posseduta (c.d. animus spoliandi). La clandestinità va riferita, invece, allo stato di ignoranza di chi subisce lo spoglio, il quale deve essersi trovato nell'impossibilità di avere conoscenza del fatto costituente spoglio nel momento in cui questo viene posto in essere (Cass. II, n. 11453/2000). Sulla proponibilità dell'azione di reintegrazione da parte dell'amministratore anche in assenza di qualsivoglia autorizzazione da parte dell'assemblea la giurisprudenza è costante (Cass. II, n. 7063/2002; Cass. II, n. 6190/2001). L'azione di reintegrazione può essere promossa anche da un condomino nei confronti della collettività allorché l'amministratore, in base ad autorizzazione o delibera assembleare compia un atto di impossessamento violento o clandestino. In tale circostanza l'amministratore deve essere considerato autore materiale dello spoglio, mentre autore morale dello stesso è la collettività condominiale rappresentata dall'assemblea, per cui l'azione possessoria può essere proposta nei confronti di entrambi i soggetti (Cass. II, n. 7621/2002). L'azione di manutenzione (art. 1170 c.c.) è esperibile da chi sia molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale immobiliare o di un'universalità di mobili e deve essere promossa entro un anno dalla turbativa, a condizione che il possesso duri da oltre un anno in modo continuo e non interrotto e non sia stato acquistato violentemente o clandestinamente. Per contro, in caso di possesso acquistato con violenza o in modo clandestino, l'azione è esperibile solo dopo un anno dalla cessazione del comportamento illegittimo. La molestia può essere sia di fatto che di diritto. La prima si esplica mediante un'attività materiale che incida su di uno stato di fatto attuale. Con la seconda la turbativa concerne un'opposizione all'altrui possesso, la quale, pur senza determinare un mutamento obiettivo e concreto nello stato di fatto, si risolva in una menomazione del potere del possessore (Cass. II, n. 4415/1989). Si è precisato che in materia possessoria, la tutela preferenziale è accordata alla situazione di fatto (ius possessionis) anche quando concerna esclusivamente le relative modalità di estrinsecazione, sicché, in ipotesi di comproprietà di un immobile (nella specie: viale di accesso ad un fabbricato), la modifica delle modalità di svolgimento del possesso o il proposito di modificarle manifestato da taluni comproprietari (nella specie: mediante apposizione, all'inizio del viale, di un cancello apribile con chiave nella disponibilità di tutti gli utenti) integra turbativa del possesso del condomino dissenziente, ai fini dell'azione di manutenzione, senza che i primi possano invocare a sostegno della legittimità del loro operato la titolarità della maggioranza delle quote di comproprietà (Cass. II, n. 3396/1984). In ambito condominiale, i condomini sono compossessori dei beni comuni, talché il comportamento di uno di essi, che configuri una turbativa nel godimento del bene da parte della collettività, rientra nell'ambito applicativo dell'art. 1170 c.c. È stato pertanto affermato che nel compossesso, costituisce atto di turbativa, tutelabile con l'azione di manutenzione, qualsiasi comportamento che ponga in essere una innovazione della cosa comune comportante una modificazione delle concrete modalità di utilizzazione del bene, tale da limitare, in misura apprezzabile, le facoltà del suo godimento (Cass. II, n. 22227/2006: fattispecie relativa alla delimitazione di un'area comune destinata al parcheggio di autoveicoli, tracciando una linea bianca ed apponendo un cordolo di cemento che ostacolava il libero godimento del bene dell'altro compossessore). E sempre sullo stesso argomento la Corte di Cassazione aveva affermato che la modifica delle modalità d'esercizio del possesso da parte di uno dei comproprietari di un bene immobile integra una turbativa dei condomini dissenzienti ai fini dell'azione di manutenzione, senza che possa utilmente opporsi l'eccezione feci sed iure feci, quando la modifica operata sia in contrasto con l'esercizio attuale e limiti i poteri corrispondenti ai diritti spettanti sulla cosa comune. Pertanto, allorquando la cosa comune sia costituita da un piano cantinato destinato ad autorimessa, commette molestia il condomino che ne muti lo stato di fatto alterando precedenti facoltà di utilizzazione da parte degli altri, quanto a percorrenza areazione, illuminazione, facilità di manovra: Cass. II, n. 4909/1998: (nella specie, chiudendo a muratura lo spazio assegnato per il parcheggio). L'azione di manutenzione può essere promossa non solo dal condominio nei confronti del singolo partecipante, ma anche nei confronti dei terzi. In tema di distanze nelle costruzioni, nel caso di trasformazione del tetto in terrazzo, munito di riparo o ringhiera, che venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale rispetto all'altrui fondo, il comodo affaccio esercitabile su di questo costituisce turbativa del possesso del vicino. Tale possesso è reclamabile con l'azione di manutenzione ed alla predetta turbativa è possibile porre rimedio con l'esecuzione di opere idonee, secondo l'insindacabile apprezzamento del giudice di merito in quanto sorretto da coerente motivazione, ad evitare l'affaccio a distanza inferiore a quella legale (Cass. II, n. 11201/2008). Per quanto concerne il tema di impianti di reti di comunicazione elettronica, il collegamento di terzi estranei al condominio, attuato in assenza di autorizzazione assembleare, integra gli estremi di una molestia del possesso che legittima il ricorso del condominio alla tutela manutentiva nei confronti della società che, attuando il collegamento all'impianto, ha limitato il pieno e legittimo possesso del condominio (Trib. Roma 11 giugno 2004). L'azione possessoria nei confronti del condominio può essere promossa anche dal conduttore di un appartamento. In particolare il giudice di merito aveva ritenuto che integra gli estremi dello spoglio (e non una semplice molestia) e legittima l'esercizio dell'azione di reintegra nel possesso da parte del conduttore di appartamento sito in edificio munito di impianto centralizzato di riscaldamento il distacco da siffatto impianto delle tubazioni sottostanti il citato appartamento operato dall'amministratore del condominio, con conseguente interruzione dell'erogazione di energia termica, solo allorquando l'intervento spogliativo, consistito nella manomissione dell'impianto, sia stato effettuato su una parte dell'impianto medesimo di proprietà esclusiva del singolo condomino e, quindi, di pertinenza del conduttore istante (Pret. Busto Arsizio-Gallarate 10 maggio 1994). Cenni sui profili processualiIl procedimento secondo il quale si promuovono le azioni di danno temuto e denuncia di nuova opera si svolge in due fasi. La prima fase è di natura cautelare e con essa il condominio e per esso il proprio amministratore mira ad ottenere un provvedimento provvisorio a tutela delle parti comuni dell'edificio (nella versione antecedente all'entrata in vigore della riforma – si ribadisce – degli interessi sulle parti comuni) che sono minacciate da interventi altrui nuovi o preesistenti. Il termine «parti», da un punto di vista logico, non può che essere interpretato in senso ampio, poiché in esso dovrebbero essere compresi anche i servizi di natura condominiale, che possono ugualmente essere soggetti a pericolo per l'attività posta in essere dai condomini. Ad essa segue, di norma, una seconda e distinta fase di merito, destinata ad accertare il fondamento della tutela richiesta e che si conclude con un provvedimento decisorio definitivo vertente sull'effettiva titolarità della situazione soggettiva oggetto dell'azione sulla sussistenza della tutela invocata. Il giudizio seguirà le normali vie processuali determinate, per tutti i procedimenti cautelari, dagli artt. 669 ss. c.p.c. In particolare e per quanto di interesse si evidenzia che nel caso in cui il ricorrente/condominio veda accolto il proprio ricorso, l'art. 669-octies c.p.c. (aggiunto con modificazioni dalla l. n. 80/2005) ha attenuato il c.d. vincolo di strumentalità necessario tra la fase cautelare e la fase di merito, per effetto del quale – prima dell'entrata in vigore della modifica del 2005 – il provvedimento emesso in sede cautelare perdeva efficacia se, nel termine perentorio di sessanta giorni dal deposito dello stesso, non veniva avviata la fase a cognizione ordinaria. Oggi, invece, tale necessaria prosecuzione nel merito viene confermata solo per alcuni provvedimenti cautelari, mentre per la rimanente parte (tra i quali, quelli emessi a seguito di denuncia di nuova opera, danno temuto) si esclude il necessario passaggio alla fase di merito, che diviene solo eventuale ed è quindi lasciato alla libera scelta della parte laddove essa intenda richiedere la riforma del provvedimento stesso. L'incidenza di tale modifica in ambito condominiale è importante, poiché se è vero che l'amministratore di condominio può promuovere il giudizio ai sensi degli artt. 1171 e 1172 c.c. anche in assenza di delibera assembleare, è altrettanto vero che una volta ottenuto il provvedimento de quo (che potrebbe essere non del tutto satisfattivo), a fronte della discrezionalità della fase di merito, la legittimazione attiva del rappresentante sarà notevolmente attenuata e la decisione dovrà essere rimessa alla volontà assembleare. Per le domande di reintegrazione e di manutenzione del possesso, sempre proponibili tramite ricorso al giudice competente ai sensi dell'art. 21 c.p.c., si deve fare riferimento agli artt. 703,704 e 705 c.p.c. Il procedimento si svolge secondo quanto disposto dagli artt. 669-bis ss. c.p.c., in quanto compatibili. Contro l'ordinanza che accoglie o respinge la domanda il soccombente può proporre reclamo nel termine perentorio di giorni quindici ai sensi dell'art. 669-terdecies c.p.c. (rubricato reclamo contro i provvedimenti cautelari) avanti al Collegio (del quale non può far parte il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato), che provvederà entro venti giorni dal deposito del ricorso con ordinanza non impugnabile, con la quale conferma, modifica o revoca il precedente provvedimento del giudice unico. Il termine decorre dalla pronuncia in udienza dell'ordinanza, ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore. Il reclamo non sospende l'esecuzione del provvedimento (art. 669-terdecies, ultimo comma, c.p.c.), tuttavia il presidente del collegio investito del reclamo può, ove per motivi sopravvenuti si configuri grave danno, disporre con ordinanza non impugnabile la sospensione dell'esecuzione o subordinarla alla prestazione di idonea cauzione. La legittimazione attiva nelle azioni realiL'amministratore, privo di autorizzazione assembleare, non è autonomamente legittimato, ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c., ad esperire azioni reali, nei confronti di terzi o degli stessi condomini, che abbiano ad oggetto controversie in tema di proprietà ovvero di altri diritti reali, pur se riguardanti le cose comuni. Nella specie, infatti si tratta di controversie che, pur rientrando nella materia condominiale, per essere attinenti a diritti inerenti alle cose comuni, non implicano esplicazione di alcuna delle attribuzioni specifiche dell'incaricato dell'assemblea, come indicate nell'art. 1130 c.c. (Bucci — Nicoletti — Redivo, 76I; Cusano, 277; De Tilla, 305). Le azioni aventi contenuto reale, infatti, qualora tale facoltà non sia stata riconosciuta all'amministratore dal regolamento o dall'assemblea, non rientrano nell'ambito dei c.d. atti conservativi dei diritti comuni, in quanto rivolte a statuizioni concernenti la titolarità ed il contenuto dei diritti medesimi (Cass. II, n. 20453/2016; Cass. II, n. 40/2015; Cass. II, n. 15547/2005). Pertanto, il rappresentante legale dell'ente è privo dei poteri autonomi che gli consentano di incaricare un avvocato di difendere il condominio, così ribadendo la necessità di operatività del meccanismo assembleare per giudizi quali le azioni di rivendica. L'amministratore di condominio può esperire l'azione di rivendicazione di cui all'art.103 l. fall. diretta ad ottenere, contro la procedura di liquidazione giudiziale, statuizioni relative alla titolarità ed alla restituzione di parti comuni, sia pure, trattandosi di azione che esula dal novero degli atti meramente conservativi (al cui compimento l'amministratore è autonomamente legittimato ex art. 1130 n. 4 c.c.), previa necessaria autorizzazione dell'assemblea, ex art. 1131 co. 1, c.c., adottata con la maggioranza qualificata di cui all'art. 1136, co. 4, dello stesso codice . Tuttavia, se l'amministratore di condominio abbia proposto l'azione di rivendicazione delle cose comuni senza la preventiva necessaria autorizzazione dell'assemblea, quest'ultima può comunque ratificarne l'operato e sanare retroattivamente la costituzione processuale, dovendo a tal fine il giudice assegnare il termine ex art. 182 c.p.c. per regolarizzare il difetto di rappresentanza (Cass. II, n. 18003/2024). In materia di risarcimento danni l'azione di cui all'art. 1669 c.c., intesa a rimuovere i gravi difetti dì costruzione, nel caso in cui questi riguardino l'intero edificio condominiale e i singoli appartamenti, vertendo in una ipotesi di causa comune di danno, abilita alternativamente l'amministratore del condominio ed i singoli condomini ad agire per il risarcimento, senza che possa farsi distinzione tra parti comuni e singoli appartamenti o parte di essi soltanto (Cass.II, n. 2346/2018confermata da Cass. II, n. 18028/2020). Sussiste la legittimazione dell'amministratore a proporre l'azione di natura extracontrattuale ex art. 1669 c.c.intesa a rimuovere i gravi difetti di costruzione, nel caso in cui questi, col determinare un'alterazione che incida negativamente ed in modo considerevole sul godimento dell'immobile, riguardino l'intero edificio condominiale e i singoli appartamenti, vertendosi in una ipotesi di causa comune di danno che abilita alternativamente l'amministratore del condominio e i singoli condomini ad agire per il risarcimento, senza che possa farsi distinzione tra parti comuni e singoli appartamenti o parte di essi soltanto (Cass., II, n. 7875/2021. Nella specie: accertata mancanza di potere fono-isolante di pareti divisorie, solai e facciata). Mentre la legittimazione diretta dell'amministratore permane per tutti i giudizi riguardanti gli atti per i quali l'art. 1134 c.c. gli attribuisce un potere esclusivo ed autonomo e, in specie, agli atti meramente conservativi, in quanto tesi a garantire e conservare a tutti i partecipanti al condominio l'esistenza ed il diritto all'utilizzazione delle parti comuni (Cass. II, n. 1553/2005). L'azione di rivendica, infatti, anche se avente ad oggetto parti comuni dell'edificio in condominio tende ad ottenere una decisione che stabilisce la titolarità ed il contenuto di un diritto e, come tale non può essere ritenuta compresa negli atti conservativi disciplinati dall'art. 1130, n. 4), c.c. Per questo motivo l'amministratore non può agire, senza essere stato autorizzato dall'assemblea, per il riconoscimento dei diritti dei condomini su un locale, proponendo, sostanzialmente, un'azione di rivendica dell'immobile nei confronti del terzo che assume di averlo validamente acquistato, contestandone la natura di bene condominiale come rimedio conservativo, rientrante nei normali poteri dell'amministratore (Cass. II, n. 840/1998). Considerato, ancora, che l'amministratore del condominio non è legittimato a proporre azioni reali di riduzione in pristino nei confronti dei singoli condomini contro la volontà dell'assemblea, in caso di violazione da parte di singoli proprietari delle norme del regolamento condominiale prevedenti limiti alle innovazioni nelle proprietà individuali (nella specie recepiti come servitù reciproche nei singoli contratti di acquisto), non è configurabile la responsabilità dell'amministratore che abbia omesso di agire in giudizio contro i responsabili al fine di conseguire la riduzione in pristino, qualora il medesimo abbia investito delle specifiche questioni l'assemblea del condominio e la stessa abbia deliberato, sia pure a maggioranza, di tentare di risolvere in via extragiudiziale i contrasti insorti tra i vari comproprietari (Cass. II, n. 11688/1999). Sulla base dello stesso principio valgano altre pronunce della Corte che escludono la legittimazione attiva dell'amministratore nel caso di domanda riconvenzionale di accertamento dell'acquisto per usucapione da parte del condominio di un bene rivendicato un terzo. Nella specie i giudici di legittimità avevano precisato che il fondamento della legittimazione del rappresentante va individuato nel mandato ad esso conferito da ciascuno dei partecipanti e non dal meccanismo assembleare, con eccezione di delibera positiva assunta con l'unanimità dei consensi (Cass. II, n. 8246/1997). Esorbita, poi, dalle attribuzioni dell'amministratore la domanda diretta all'accertamento della estensione della proprietà comune, mediante declaratoria di appartenenza al condominio di un'area adiacente al fabbricato condominiale, siccome acquistata per usucapione, implicando non solo l'accrescimento del diritto di comproprietà, ma anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati. In tal caso, l'autorizzazione all'azione non deve essere concessa tramite delibera assembleare, ma tramite mandato speciale rilasciato da ciascun condomino (Cass. II, n. 21826/2013). Successivamente il principio è stato ribadito con riferimento all'azione avente ad oggetto la declaratoria di esistenza di servitù di passaggio su fondo limitrofo (Cass. II, n. 12678/2014). Richiedono, ancora, il mandato dell'assemblea le azioni aventi ad oggetto: la denunzia della violazione delle distanze legali tra le costruzioni (Cass. S.U., n. 10615/1996); l'actio confessoria servitutis in favore del condominio e nei confronti di un terzo (Cass. II, n. 9573/1997); l'actio negatoria servitutis (Cass. II, n. 12557/1992). Per le distanze legali, evidenziata la caratterizzazione dell'ente di gestione condominiale quale organizzazione preposta per la conservazione delle parti comuni dell'edificio e per garantire il funzionamento dei servizi di interesse collettivo, l'attività dell'amministratore è connaturata a questo tipo di attività ed alla realizzazione dei conseguenti scopi. Si esclude, quindi, che l'amministratore possa dare inizio, a nome e per conto del condominio dallo stesso gestito, a procedimenti che perseguano risultati che non sono riconducibili a tali finalità. Con la conseguenza che laddove si controverta in merito all'esistenza ed al contenuto del diritto dominicale, anche sulle parti comuni, l'amministratore, di regola, non potrà rendersi promotore del relativo giudizio la cui legittimazione spetta ai condomini. Ovviamente con l'eccezione di delibera assembleare o di clausola di un regolamento che abiliti l'amministratore a tale tipologia di giudizi (Tedeschi, 2019). Tutela del decoro architettonicoDel decoro architettonico sono state date varie definizioni. Tutte concordano nell'affermare che è un bene di natura condominiale e, come tale, deve essere trattato, conservato e tutelato. Esso si configura come qualità propria di ciascun edificio, considerato nell'aspetto esteriore ed unitario, con una valenza di carattere economico/patrimoniale che produce effetti tanto sulle unità esclusive, quanto sull'intero edificio. È un bene di consistenza immateriale che costituisce la risultante della complessiva conformazione esteriore del fabbricato ed è riconducibile ai beni in situazione di condominio necessario ai sensi dell'art. 1117, n. 1), c.c. (Petrolati — Rinzivillo, 23; Terzago, 171). Il decoro architettonico è sinonimo di armonia, inteso come l'insieme intonato di linee e strutture ornamentali (Vincenti, 288). Conformemente ad una dottrina pressoché unanime nel definire la nozione e natura del decoro architettonico la giurisprudenza, nel corso degli anni, si è costantemente espressa negli stessi termini. In tema di condominio degli edifici, il decoro architettonico – allorché possa individuarsi nel fabbricato una linea armonica, sia pure estremamente semplice, che ne caratterizzi la fisionomia – è un bene comune il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare. Pertanto, una volta accertato che le modifiche non hanno una valenza ripristinatoria o migliorativa dell'originaria fisionomia, ma alterano quest'ultima sensibilmente, non ha alcuna rilevanza l'accertamento – del tutto opinabile – del risultato estetico della modifica, che deve ritenersi non consentita quand'anche nel suo complesso possa apparire a taluno gradevole (Cass. II, n. 17398/2004). Ed ancora si è affermato, in modo più diretto, che per «decoro architettonico» deve intendersi l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità; pertanto, nessuna influenza, ai fini della tutela prevista dall'art. 1120 c.c., può essere attribuita al grado di visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di osservazione dell'edificio, ovvero alla presenza di altre pregresse modifiche non autorizzate (Cass. II, n. 851/2007; Cass. II, n. 1718/2016). Confermati tali principi, la Corte (Cass. II, n. 22156/2018) ha formulato due precisazioni. Con la prima è stato affermato che il giudizio relativo all’impatto sull’aspetto architettonico richiede anche una verifica dell’esistenza di un danno economico valutabile; con la seconda si è evidenziato che la superfetazione (nella specie: installazione di veranda su terrazzo esclusivo in sopraelevazione) deve produrre una chiara sensazione di disarmonia da considerarsi rilevante anche se la fisionomia dello stabile risulti già in parte lesa da preesistenti interventi di modifica, salvo il caso in cui l’edificio, per le modalità costruttive o le modificazioni apportate, non si trovi in uno stato di tale degrado complessivo da rendere ininfluente allo sguardo ogni ulteriore intervento. Ai fini della tutela dell'edificio nella sua unitarietà deve essere considerata non solo la parte esterna, costituita dalle facciate dello stesso, ma anche la parte posta alla sommità dello stesso ove, spesso, vengono inseriti nuovi corpi di fabbrica, costituenti sopraelevazioni e che, pur rappresentando esplicazione di un diritto legalmente riconosciuto (art. 1127 c.c.), possono alterare l'intero complesso edilizio. A questo proposito, è stato affermato che nel condominio di edifici, le nozioni di aspetto architettonico ex art. 1127 c.c. e di decoro architettonico ex art. 1120 c.c., pur differenti, sono strettamente complementari e non possono prescindere l'una dall'altra, sicché anche l'intervento edificatorio in sopraelevazione deve rispettare lo stile del fabbricato, senza recare una rilevante disarmonia al complesso preesistente, sì da pregiudicarne l'originaria fisionomia ed alterarne le linee impresse dal progettista (Cass. II, n. 17350/2016). L'aspetto architettonico sarebbe quello che risulta da un'istantanea visione d'insieme del fabbricato, per cui una sopraelevazione di quest'ultimo non può non essere rilevante e registrabile da qualunque osservatore. Per contro, il decoro architettonico è colto da un'osservazione più attenta, in grado di apprendere mutamenti anche molto meno palesi, ma di valutarli con riferimento ad altri parametri (Terzago, 176). Ai fini della tutela giudiziaria di tale bene occorre separare due posizioni: da un lato quella che conferisce all'amministratore la legittimazione ad agire in giudizio allorché il condomino, avvalendosi del diritto riconosciutogli, prima dall'art. 1102 c.c. (uso delle cose comuni) e, poi, dall'art. 1122 c.c. (opere su parti di proprietà o uso individuale), esegua nelle parti normalmente destinate all'uso comune, al medesimo attribuite in proprietà esclusiva o destinate all'uso individuale, interventi che rechino danno al decoro architettonico e, dall'altro, quando sia la collettività a procedere ad innovazioni in violazione, per tale profilo, dell'art. 1120, ultimo comma, c.c. In questa sede va presa in considerazione la prima situazione, poiché l'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c. deve compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio, tra i quali rientrano, per costante giurisprudenza, tutte le azioni finalizzate a tutelare l'integrità dei beni di proprietà comune. È stato, pertanto, affermato che, ai sensi degli artt. 1130, comma 1, n. 4), e 1131 c.c., l'amministratore del condominio è legittimato, senza necessità di una specifica deliberazione assembleare, ad instaurare un giudizio per la rimozione di finestre aperte abusivamente, in contrasto con il regolamento, sulla facciata dello stabile condominiale, da taluni condomini, in quanto tale atto, essendo diretto a conservare il decoro architettonico dell'edificio contro ogni alterazione dell'estetica dello stesso, è finalizzato alla conservazione dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio (Cass. II, n. 14626/2010). In via del tutto generale, a norma degli artt. 1130 e 1131 c.c., l'amministratore del condominio ha il potere di agire in giudizio, sia contro i terzi, sia contro gli stessi condomini, per tutelare l'integrità dei beni di proprietà comune e, quindi, anche per salvaguardare il decoro architettonico della facciata dell'edificio (Cass. II, n. 7677/1986; Cass. II, n. 7069/1995). Stesso potere autonomo è riservato al rappresentante del condominio che instauri il giudizio per la demolizione della sopraelevazione dell'ultimo piano dell'edificio, costruita dal condomino in violazione delle prescrizioni e delle cautele fissate dalle norme speciali antisismiche, ovvero alterando l'estetica della facciata dell'edificio, perché tale atto, diretto a conservare l'esistenza delle parti comuni condominiali, rientra negli atti conservativi dei diritti, che, ai sensi dell'art. 1130, n. 4, c.c. (Cass. S.U., n. 1552/1986; Cass. II, n. 13611/2000). Azione di usucapioneL'essenza del giudizio di usucapione non è la difesa del bene comune ma l'incremento della sua consistenza, mediante la declaratoria di appartenenza all'ente di un quid novum e nel rispetto dei limiti, delle condizioni e dei presupposti che sono stati indicati negli artt. 1158 ss. c.c. In estrema sintesi: possesso continuato (per i tempi di legge), ininterrotto, pacifico ed indisturbato utilizzo del bene da parte di chi se ne dichiara possessore. Principio, questo, che vale anche nel caso in cui sia un singolo condomino ad agire per l'attribuzione di un bene comune in proprietà esclusiva. Secondo la Suprema Corte, i beni condominiali possono essere acquistati in proprietà esclusiva per usucapione; a tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall'uso del bene comune, né che essi siano stati tolleranti per amore del buon vicinato, bensì occorre dimostrare di aver goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un'inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus per il tempo utile ad usucapire; il possesso animo domini, operando la presunzione prevista dall'art. 1141 c.c., può essere acquisito anche a seguito di atto traslativo della proprietà dichiarato successivamente invalido (Cass. II, n. 26061/2016). L'azione di usucapione non rientra nell'ambito applicativo dell'art. 1130 c.c. e, quindi, l'amministratore è privo di legittimazione attiva autonoma. Legittimazione che non gli può essere conferita dall'assemblea, neppure con deliberazione assunta a maggioranza qualificata. In tema di condominio negli edifici, la proposizione di una domanda diretta non alla difesa della proprietà comune, ma alla sua estensione mediante declaratoria di appartenenza al condominio di un'area adiacente al fabbricato condominiale, siccome acquistata per usucapione, implicando non solo l'accrescimento del diritto di comproprietà, ma anche la proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati, esorbita dai poteri deliberativi dell'assemblea e dai poteri di rappresentanza dell'amministratore, il quale può esercitare la relativa azione solo in virtù di un mandato speciale rilasciato da ciascun condomino (Cass. II, n. 21826/2013). Più precisamente si è affermato che la legittimazione ad agire dell'amministratore del condominio nel caso di azioni reali concernenti l'esistenza, il contenuto o l'estensione dei diritti spettanti ai singoli condomini in virtù dei rispettivi acquisti – diritti che restano nell'esclusiva disponibilità dei titolari – può trovare fondamento soltanto nel mandato conferito all'amministratore da ciascuno dei partecipanti e non nel meccanismo deliberativo dell'assemblea condominiale, ad eccezione delle equivalenti ipotesi di una unanime positiva deliberazione di tutti i condomini. Fattispecie concernente la domanda riconvenzionale di accertamento dell'acquisto per usucapione da parte del condominio di un bene rivendicato da un terzo (Cass. II, n. 8246/1997). L'autorizzazione all'azione può, in ogni caso, essere conferita anche in sede assembleare purché con il voto di tutti i partecipanti al condominio. In caso contrario il potere rappresentativo dell'amministratore è privo di riconoscimento e l'azione eventualmente promossa determina la mancata costituzione del rapporto processuale e, prima ancora, il difetto della rappresentanza sostanziale. Trattasi di vizio rilevabile anche d'ufficio, pure in sede di legittimità, che comporta la nullità della procura alle liti, di tutti gli atti compiuti e della sentenza (Cass. II, n. 5862/2007). Il condominio può, a sua volta, essere soggetto passivo di una domanda riconvenzionale di usucapione promossa da un condomino. In questo caso, nell'ipotesi in cui il condominio agisca in giudizio nei confronti di un condomino per ottenere la restituzione di uno spazio ovvero di un locale di proprietà comune e questi, a sua volta, proponga un'eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, non si configura un'ipotesi di litisconsorzio necessario in relazione ai restanti condomini (che sussiste, invece, in caso di domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva del bene), risolvendosi detta eccezione, pur di ampliamento del thema decidendum, in un accertamento incidenter tantum, destinato ad avere efficacia solo tra le parti (Cass. II, n. 14765/2012). Con riferimento, invece, a domanda riconvenzionale, è stato ritenuto che ove alcuni condomini, convenuti per l'accertamento della proprietà comune di un bene da loro detenuto o posseduto, propongano una domanda riconvenzionale di accertamento della loro proprietà esclusiva (in base a titoli a per usucapione), il giudice è tenuto a disporre l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri condomini, litisconsorti necessari in detto giudizio, talchè la mancata integrazione per inattività delle parti, comporta l'estinzione integrale del giudizio e non un'estinzione limitata alla sola domanda riconvenzionale (Cass. II, n. 19385/2009). Decisione che si inserisce nel più ampio quadro delle azioni aventi ad oggetto, in ambito condominiale, l'accertamento della proprietà di un bene che non può essere effettuato se non nei confronti di tutti i soggetti a vantaggio o verso i quali esso è destinato ad operare, secondo l'effetto di giudicato richiesto con la domanda, ove quest'ultima sia proposta da alcuni condomini per far dichiarare la natura comune di un bene nell'ambito di un edificio condominiale, talchè il giudizio deve svolgersi nei confronti di tutti gli altri partecipanti al condominio stesso, i quali, nel caso di esito della lite favorevole agli attori, non potrebbero altrimenti né giovarsi del giudicato, né restare terzi non proprietari rispetto al convenuto (Cass. II, n. 6607/2012). Con altra sentenza (Cass. II, n. 15547/2005), la questione inerente al litisconsorzio necessario era stata affrontata in riferimento alla fase di appello nel senso di affermare che la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei litisconsorti pretermessi deve essere valutata non secundum eventum litis, ma al momento in cui essa sorge, con la conseguenza che sussiste il litisconsorzio necessario nei confronti di tutti i condomini quando nel giudizio promosso da alcuni di loro per l'accertamento della natura comune di un bene i convenuti, costituendosi in giudizio,abbiano chiesto in via riconvenzionale di esserne dichiarati proprietari esclusivi a titolo derivativo o, in subordine, a titolo originario, in virtù di usucapione abbreviata. Nella specie, la sentenza impugnata, nell'accogliere la domanda proposta dagli attori, aveva respinto quella riconvenzionale formulata in via principale dai convenuti con riferimento all'accertamento dell'acquisto della proprietà esclusiva a titolo derivativo, dichiarando la nullità del giudizio per la mancata integrazione del contraddittorio in relazione alla domanda riconvenzionale proposta in via subordinata. La Corte Suprema, nel cassare la decisione, aveva statuito che la Corte d'Appello avrebbe dovuto rimettere l'intera causa al giudice di primo grado per la decisione, previa integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, giacché la necessità della loro partecipazione al giudizio doveva essere valutata con riguardo al momento in cui i convenuti, costituendosi in giudizio, avevano proposto entrambe le domande riconvenzionali. Equa riparazione e legittimazione dell'amministratorePer frenare i ricorsi che venivano presentati in sede europea al fine di ottenere un risarcimento per i danni, patrimoniali e non patrimoniali, conseguenti alla durata abnorme dei giudizi, la l. n. 89/2001 (e successive modifiche) con l'art. 2, comma 1, ha stabilito che chi ha subito un danno, patrimoniale e non, per effetto della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine di una ragionevole durata del processo, ha diritto ad un'equa riparazione. La norma investe anche i giudizi in cui è parte in causa il condominio e, in questo caso, si è posto il problema di chi sia legittimato ad avanzare tale richiesta: se il condominio, in persona dell'amministratore oppure i singoli condomini. Per un profilo generale, si è ritenuto che l'uso del pronome indefinito «chi» non operi alcuna distinzione, ai fini della legittimazione attiva, tra persona fisica o giuridica, assumendo rilevanza che la stessa, nel giudizio, abbia assunto la veste di parte sostanziale e formale ed abbia sofferto un danno a causa dell'irragionevole durata del giudizio (nella specie si parla di iustitia protracta). Estendendosi tale diritto anche agli eredi delle parti, i loro aventi causa, i singoli soci associati anche se nel processo si siano costituiti in persona del legale rappresentante del soggetto collettivo, quale una persona giuridica (Tamburro, 254). Sul punto, infatti, la stessa giurisprudenza di legittimità aveva dichiarato che in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2 della l. 24 marzo 2001, n. 89, anche per le persone giuridiche e i soggetti collettivi il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo, è, non diversamente da quanto avviene per gli individui persone fisiche, conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri; sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell'accertamento della violazione – una volta accertata e determinata l'entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che l'altra parte non dimostri che sussistono, nel caso concreto, circostanze particolari, le quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subìto dal ricorrente. Fattispecie in tema di danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo subìto da un condominio (Cass. II, n. 3396/2005). Il condominio, di cui neppure la legge di riforma del 2012 ha dato una definizione, continua ad essere un ente privo di personalità giuridica la cui rappresentanza, sostanziale e processuale, è affidata all'amministratore nominato dall'assemblea dei partecipanti. Questa assenza di determinazione giuridica dell'ente ha determinato un contrasto in merito all'individuazione del soggetto legittimato ad agire per far valere il diritto sancito dalla citata legge del 2001. È stato affermato che il diritto all'equo indennizzo per un processo intentato dal condominio non spetti ad esso, ma ai condomini titolari uti singuli del diritto al risarcimento per avere essi stessi subito il relativo danno e per essere i destinatari degli effetti della sentenza. Il fatto, poi, che essi si siano costituiti in giudizio come «condominio» in persona dell'amministratore è rilevante solo ai fini dell'accertamento della violazione (Tamburro, 256). Tale interpretazione ha trovato conforto in una corrente giurisprudenziale che aveva affermato: che l'amministratore del condominio non è legittimato, senza autorizzazione dell'assemblea, ad intraprendere azioni non conservative, quale quella volta ad ottenere l'equa riparazione del danno per violazione del termine ragionevole di durata del processo, ai sensi della l. n. 89 del 2001 (Cass. II, n. 25981/2009); che il diritto all'equo indennizzo per la irragionevole durata di un processo non spetta all'ente condominiale, che è preposto unicamente alla gestione della cosa comune, atteso che l'eventuale patema d'animo conseguente alla pendenza del processo incide unicamente sui condomini che quindi sono titolari uti singuli del diritto al risarcimento (Cass. II, n. 22558/2009; App. Ancona 18 gennaio 2013; in senso contrario, App. Lecce 16 marzo 2011). Il contrasto giurisprudenziale, tuttavia, è stato composto dalle Sezioni Unite della Cassazione che hanno affermato che in caso di violazione del termine ragionevole del processo, qualora il giudizio sia stato promosso dal condominio, sebbene a tutela di diritti connessi alla partecipazione di singoli condomini, ma senza che costoro siano stati parte in causa, la legittimazione ad agire per l'equa riparazione spetta esclusivamente al condominio, quale autonomo soggetto giuridico, in persona dell'amministratore, autorizzato dall'assemblea dei condomini (Cass. S.U., n. 19663/2014; Cass. II, n. 5426/2016). Sempre per tale decisione, inoltre, la legittimazione attiva dell'amministratore è ammessa solo in presenza di mandato assembleare. E’ stato, altresì, precisato che la portata della decisione della Sezioni Unite deve essere circoscritta alla peculiare situazione giuridica che ne costituisce l’oggetto, ovvero a quel diritto all’equa riparazione regolato dalle disposizioni sovranazionali prima ancora che da quelle nazionali di impronta applicativa (Cass. S.U., n. 10934/2019). È stato rilevato che la portata della decisione, nella quale si afferma il principio che il condomino può essere considerato parte del giudizio solo se vi intervenga e non anche quando sia rappresentato dall'amministratore, è stata «marginalizzata» dalla successiva giurisprudenza, che le ha implicitamente attribuito una portata settoriale e, perciò, non generalizzabile, come se fosse frutto di esigenze pratiche legate alla contingenza e non espressiva di un principio generale (Scarpa, 409). Fortemente critico altro autore (Tamburro, 257), che ha visto nella sentenza del giudice massimo una vera e propria forzatura interpretativa del tessuto normativo condominiale e della ratio del legislatore, il quale se avesse voluto riconoscere il condominio come persona giuridica lo avrebbe fatto in modo chiaro. Attività urbanistica ed ediliziaIn materia urbanistica, posto che alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi al condono edilizio possono provvedere non solo i soggetti legittimati a chiedere il permesso di costruire ma anche, salvo rivalsa nei confronti del proprietario, ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima, a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario, con conseguente inapplicabilità dell'istituto laddove l'abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni in assenza di prova circa la volontà degli altri comproprietari, è privo di legittimazione a richiedere il titolo edilizio chi lo faccia senza una previa manifestazione autorizzatoria dei comproprietari (Cons. St., n. 4818/2014). Sussiste, invece, la legittimazione attiva dell'amministratore il quale, senza autorizzazione dell'assemblea, abbia impugnato un provvedimento amministrativo quando l'azione miri a tutelare gli interessi e le ragioni del condominio (Cons. St. n. 8123/2020). Dato per certo che il condominio è responsabile per l'esecuzione di lavori edilizi su parti comuni e privi di titolo , una volta applicata la sanzione demolitoria , l'orientamento giurisprudenziale ( Tar. Lombardia II, n. 2302/2016 ), secondo il quale il condominio, mero ente di gestione privo di personalità giuridica, non può essere destinatario di provvedimenti sanzionatori per abusi edilizi perpetrati in tale ambito, sarebbe stato superato in quanto contrario al chiaro tenore letterale dell' art. 1131, comma 2, c.c. La norma, infatti, assicura la legittimazione passiva dell'amministratore del condominio per tutto ciò che concerne le parti comuni dell'edificio condominiale, con la conseguenza che del tutto legittimamente , ove un abuso edilizio concerna dette aree, l'amministrazione comunale può (e deve) notificare gli eventuali provvedimenti di disciplina edilizia all'amministratore condominiale mentre, laddove detti abusi riguardino aree non di proprietà comune dei condomini, le misure ripristinatorie devono essere ingiunte ai singoli condomini ( T.A.R. Roma-Lazio, II, n. 1923/2025 . Tarantino, 2025) È stato altresì affermato che in un condominio, mentre la proprietà delle cose comuni va riferita pro quota ai singoli partecipanti, la loro gestione è riferibile al condominio stesso in qualità di centro d'imputazione di interessi, ossia come figura organizzativa che si colloca nel vasto spazio che separa le persone fisiche dalle persone giuridiche; pertanto il condominio, nella persona dell'amministratore nell'esercizio dei poteri conferitigli dall'assemblea, è legittimato, al pari di ciascun condomino, ad impugnare le previsioni urbanistiche lesive della proprietà comune (Cons. St. n. 3933/2014; Cons. St. n. 361/2013). Si può inquadrare nella fattispecie anche l'attività posta in essere dal proprietario dell'ultimo piano o del lastrico solare esclusivo che, esercitando il diritto a sopralevare riconosciutogli dall'art. 1127 c.c., innalzi un nuovo piano od una nuova fabbrica. Una volta accertato che siano stati rispettati i limiti imposti dal legislatore (sicurezza e statica dell'edificio, aspetto architettonico e riduzione non eccessiva di aria e luce per i piani sottostanti) si pone il problema se l'amministratore sia legittimato ad agire per conto dei condomini ai fini di determinare ed ottenere il pagamento dell'indennità di sopraelevazione, che è diritto spettante a ciascun condomino. La domanda di determinazione dell'indennità di sopraelevazione, attendendo non ad un'azione svolta nell'interesse del condominio ed a tutela dei beni comuni, bensì al fine di far valere diritti individuali dei singoli condomini, deve intendersi spiegata soltanto per conto di quei partecipanti all'assemblea che hanno conferito all'amministratore un mandato ampio ed illimitato (Cass. II, n. 24327/2011). La legittimazione passiva tra vecchia e nuova giurisprudenzaLa legittimazione dell'amministratore riguarda la possibilità di essere convenuto in giudizio in qualunque azione concernente le parti comuni del condominio. La norma non è stata toccata dalla riforma del 2012 e, pertanto, non ha risentito di quella precisazione introdotta dal legislatore il quale, nel comma 1 dell'art. 1131 c.c., ha prescritto che l'amministratore può agire in giudizio sia contro i condomini che contro i terzi, nei limiti delle attribuzioni «stabilite dall'art. 1130». L'espressione parti comuni, contenuta nell'art. 1131, comma 2, c.c., è stata interpretata in senso estensivo, nel senso che l'amministratore è legittimato a stare in giudizio in tutte le controversie, concernenti cose e servizi comuni, che abbiano per oggetto la tutela di un interesse comune, anche se questo sia in opposizione all'interesse del singolo condomino (Cass. II, n. 7359/1996; Cass. II, n. 8198/1990), tanto è vero che tale legittimazione sussiste anche nei confronti della domanda, proposta in via riconvenzionale, con cui un condomino chiede di essere dichiarato proprietario esclusivo di un bene che, in base all'art. 1117 c.c., dovrebbe considerarsi di proprietà comune (Cass. II, n. 26681/2006). Ancora più specifica risalente decisione che aveva individuato il limite della legittimazione processuale passiva dell'amministratore del condominio (nonché dei cosiddetti complessi residenziali ad esso assimilabili per la destinazione all'uso e servizio comune dei beni di edifici contigui), costituito, a norma dell'art. 1131 c.c., dall'inerenza delle azioni proposte alle parti comuni dell'edificio, deve essere inteso in senso estensivo, così da comprendere nel concetto di parti comuni tutte le parti materiali comunque destinate all'uso comune dei condomini, anche se ubicate all'esterno dello stabile condominiale; ne consegue che la legittimazione passiva ad processum dell'amministratore ricorre ogni qual volta sia in gioco l'interesse comune dei partecipanti alla comunione, cioè un interesse che costoro possono vantare solo in quanto tali, in antitesi con l'interesse individuale di un singolo condomino, ovvero di un terzo estraneo alla comunione (Cass. II, n. 23940/2019; Cass. II, n. 22911/2018; Cass. II, n. 145/1985). Per lungo tempo gli interpreti, in dottrina ed in giurisprudenza, sono stati concordi nell'affermare che la rappresentanza processuale dell'amministratore dal lato passivo, proprio per come era stata delineata dal codice civile, avesse un carattere generale ed abbracciasse ogni tipo di azione, derivando direttamente dalla legge e rendendo marginale l'autorizzazione assembleare. La maggiore estensione della legittimazione passiva, rispetto a quella attiva, trovava la sua giustificazione nell'esigenza di semplificare i rapporti processuali tra il condominio ed i terzi o eventuali condomini che intendessero avviare un giudizio nei confronti dello stesso condominio. L'unico limite che l'amministratore poteva incontrare era costituito dal fatto che la controversia doveva riguardare le parti comuni dell'edificio, essendo pacifico che una lite avente ad oggetto gli interessi privati dei singoli condomini, la domanda doveva essere proposta nei confronti di questi ultimi. Si era, infatti, parlato di non necessità del deliberato assembleare; di irrilevanza della distinzione tra controversie inerenti a questioni riconducibili nell'ambito delle funzioni istituzionali dell'amministratore ed azioni che, invece, esorbitano dal complesso dei poteri-doveri previsti in via generale dall'art. 1130 c.c.; di un complesso di prerogative ed attribuzioni che non potevano essere limitate neppure da un regolamento condominiale (anche se adottato con il consenso unanime dei condomini), fino al punto di condividere l'impostazione giurisprudenziale secondo la quale neppure una delibera contraria poteva impedire all'amministratore di resistere in giudizio (Crescenzi, 55; De Renzis, 591; Branca, 596). Tra tutte le sentenze conformi nel senso sopra indicato si segnala che la stessa Corte aveva sempre affermato che i poteri dell'amministratore condominiale di rappresentare in giudizio l'ente condominiale non incontrano, nelle liti passive, limite alcuno nelle controversie che riguardano le parti comuni, in ordine alle quali egli ha istituzionalmente la rappresentanza del condominio in tutti i rapporti esterni. E seppure è previsto l'obbligo di comunicare al più presto all'assemblea dei condomini l'esistenza di un giudizio avente un oggetto estraneo alle attribuzioni dell'amministratore, al fine di integrarne i poteri – ove l'organo sovrano ne ravvisi l'opportunità – in relazione alle necessità della controversia, esso non comporta limitazioni alla legittimazione passiva dell'amministratore stesso, potendo solo costituire fonte di responsabilità nei confronti del condominio (Cass. II, n. 14384/2004; Cass. II, n. 1337/1983; Cass. II, n. 1337/1981). Se l'azione giudiziaria riguarda il risarcimento dei danni causato ad altro soggetto l'amministratore , pur essendo titolare di una rappresentanza passiva generale, deve in ogni caso riferire all'assemblea in merito all'intervenuta iniziativa giudiziale contro la compagine condominiale. Tuttavia, una volta accertata la mancata comunicazione della pendenza di una lite da parte dell'amministratore revocato, grava sul condominio l'onere di dimostrare che nel caso in cui i condomini fossero venuti a conoscenza del contenzioso in essere avrebbero intrapreso una diversa strategia difensiva, che li avrebbe tenuti indenni dalla condanna al risarcimento dei danni nei confronti della controparte ( App . Roma 30 maggio 2023, n . 3912 ). In questo quadro, si è inserita la nota sentenza della Suprema Corte (Cass. S.U., n. 18331/2010) che ha affermato che la ratio dell'art. 1131, comma 2, c.c. va individuata in due elementi: la necessità di bilanciare l'interesse dei terzi (ad avere una sola controparte e non tanti contraddittori quanti sono i condomini), da un lato, e quella di consentire una tempestiva e uniforme difesa da parte del condominio chiamato in causa, dall'altra. L'amministratore, che è organo esecutivo, rispetto all'assemblea che è organo decisionale, si può sempre costituire in giudizio, senza autorizzazione dell'assemblea, anche quando la lite esorbiti dalle sue attribuzioni, ma in questo caso deve ottenere dal consesso dei partecipanti la ratifica del proprio operato al fine di paralizzare la dedotta eccezione di inammissibilità della costituzione in giudizio o dell'impugnazione, nonché per ottemperare al rilievo ufficioso del giudice che, in tal caso dovrà assegnare un termine ex art. 182 c.p.c. per provvedere. La regolarizzazione ai sensi dell'art. 182 c.p.c. può operare in qualsiasi fase e grado del giudizio, con effetti ex tunc (Cass. VI, n. 5448/2022). Va a questo proposito rammentato che, nel caso opposto in cui l'attore sia stato il condominio e l'amministratore sia privo di autorizzazione dell'assemblea, la ratifica di questa sarà necessaria per evitare che la domanda sia dichiarata improcedibile. Impugnativa delle delibere assembleari Per le controversie nascenti dall'impugnazione delle delibere assembleari la legittimazione passiva è, ovviamente, in capo all'amministratore. Tuttavia la questione deve essere trattata caso per caso, poiché è sempre riservato all'assemblea il diritto di valutare se sia conveniente o meno per il condominio costituirsi in giudizio o restare contumace. Ciò vale non solo con riferimento al giudizio di primo grado, ma anche per le successive fasi di appello e di cassazione e sempre con la distinzione tra affari che rientrano o meno nelle normali attribuzioni dell'amministratore indicate nell'art. 1130 c.c. Da ciò consegue che non è ammissibile il gravame avanzato dall'ex amministratore condominiale, intervenuto adesivamente alle posizioni del condominio (nel senso di richiedere il rigetto della declaratoria di invalidità della delibera invece pretesa dall’attore), avverso la sentenza che abbia visto soccombente il condominio stesso (Cass. VI, n. 24806/2022). Revisione giudiziale delle tabelle millesimali La riforma ha innovato l'art. 69, commi 2 e 3, disp. att. c.c., stabilendo che può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio, in persona dell'amministratore, quando la domanda abbia ad oggetto la modifica delle tabelle allegate al regolamento di condominio. Il rappresentante deve, senza indugio, dare comunicazione della lite pendente all'assemblea e rimane sottoposto al rischio di revoca e di eventuale risarcimento danni in caso di inottemperanza all'obbligo. Con riferimento al previgente sistema legislativo era prevalentemente esclusa la legittimazione passiva dell'amministratore per la domanda di revisione delle tabelle millesimali, allegate ad un regolamento di condominio avente natura contrattuale, dovendo la stessa essere proposta in contraddittorio di tutti i condomini, riguardando la modifica dei diritti riconosciuti ai singoli da tale regolamento (Cass. II, n. 22464/2014; Cass. II, n. 14951/2008). Mentre l'impugnazione della delibera dell'assemblea condominiale di approvazione di nuove tabelle millesimali, fondata non già sull'errore iniziale delle tabelle originarie o sulla sopravvenuta sproporzione dei valori del prospetto, ma su vizi dell'atto assembleare, va proposta nei confronti dell'amministratore del condominio e non nei confronti dei singoli condomini, indipendentemente dal contenuto della stessa delibera impugnata (Cass. II, n. 11757/2012). Sussiste la competenza gestoria dell'assemblea in ordine all'approvazione delle tabelle millesimali, che consenta la distribuzione proporzionale delle spese in applicazione aritmetica dei criteri legali. Da ciò consegue che nell'eventuale controversia, avente ad oggetto l'impugnativa di dette tabelle, la legittimazione passiva dell'amministratore rientra nelle attribuzioni del medesimo stabilite dall'art. 1130 c.c. e nei correlati poteri rappresentativi processuali , senza alcuna necessità del litisconsorzio di tutti i condomini (Cass. II, n. 6735/2020). Una volta affermato il fondamentoassembleare, e non unanimistico, dell'approvazione delle tabelle, alcuna limitazione può sussistere in relazione alla legittimazione dal lato passivo dell'amministratore per qualsiasi azione, ai sensi dell'art. 1131, comma 2, c.c., volta alla determinazione giudiziale o alla revisione di una tabella millesimale che consenta la distribuzione proporzionale delle spese in applicazione aritmetica dei criteri legali (Cass. II, n. 2635/2021;Cass. VI, n. 5453/2022). Sulla nuova formulazione dell'art. 69 sono stati formulati pareri discordanti. Secondo un primo commento a caldo della Riforma, la novella legislativa sarebbe un risultato di compromesso, dal momento che la scelta di optare per la legittimazione passiva del solo amministratore sarebbe dovuta solo al fatto di bypassare tutte le difficoltà conseguenti all'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti al condominio (Celeste-Scarpa, 247). Valutazione in parte condivisa da altra dottrina, ad avviso della quale la soluzione compromissoria dovrebbe essere valida solo se ci si riferisce allo stretto senso letterale della norma (effetti indicati dall'art. 68 disp. att. c.c., tabelle millesimali contenute in un regolamento assembleare - deliberativo). Mentre non può essere accettata quando si tratti di rivedere tabelle millesimali contenute in un regolamento contrattuale, oppure che risultino dagli atti di acquisto, in quanto queste ultime incidono sui diritti reali di ciascun condomino (Del Chicca, 23). Resta da considerare il fatto che l'art. 69 comma 2, disp. att. c.c., nell'individuare il soggetto destinatario dell'atto di citazione, ha testualmente utilizzato il verbo «può», riferito alla chiamata in giudizio del solo amministratore, nella veste di rappresentante legale dei condomini. Ciò a conferma che trattasi di scelta discrezionale dell'attore il quale, volendo, può evocare in giudizio tutti i condomini, con l'accortezza di non omettere nessuno perché, in tale ipotesi, dovrà essere integrato il contraddittorio nei confronti dei non presenti. I principi qui richiamati in materia di legittimazione passiva dell'amministratore non possono che valere anche nel caso del supercondominio, ai sensi dell'art. 1117-bis c.c., per cui dovrà essere evocato in giudizio l'amministratore unico o, in sua assenza, il curatore speciale nominato ex art. 65 disp. att. c.c. Infatti, nell'ipotesi del supercondominio, la legittimazione degli amministratori di ciascun condominio per gli atti conservativi, riconosciuta dagli artt. 1130 e 1131 c.c., si riflette, sul piano processuale, nella facoltà di richiedere le necessarie misure cautelari soltanto per i beni comuni all'edificio rispettivamente amministrato, non anche per quelli facenti parte del supercondominio, che, quale accorpamento di due o più singoli condominii per la gestione di beni comuni, deve essere gestito attraverso le decisioni dei propri organi, e, cioè, l'assemblea composta dai proprietari degli appartamenti che concorrono a formarlo e l'amministratore del supercondominio (Cass. II, n. 19558/2013). In questa ottica, quindi, la notifica di un decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento di oneri inerenti al supercondominio non può essere indirizzata all’amministratore del singolo condominio ma titolari passivi sono i super-condomini (Trib. Padova 23 maggio 2024, n. 1020, con nota NICOLETTI, 2025). Mentre è stato evidenziato che nessun potere in tale ambito è riconosciuto ai rappresentanti dell'assemblea dei singoli condominii, come previsto dall'art. 67, comma 3, disp. att. c.c. (Del Chicca, 24). Questi, infatti, sono titolari di attribuzioni assai limitate, che riguardano solo la nomina dell'amministratore e la gestione ordinaria nella quale, ovviamente, non può rientrare la domanda di revisione delle tabelle millesimali per la quale è necessaria apposita autorizzazione assembleare. Scioglimento del condominio La nozione di scioglimento del condominio viene mutuata direttamente dall'art. 61, comma 1, disp. att. c.c., secondo il quale la divisibilità di un complesso di edifici in più condominii separati ed autonomi è possibile allorché un edificio o un gruppo di edifici, appartenenti per piani o porzioni di piano a proprietari diversi, si possa dividere in parti che abbiano le caratteristiche di edifici autonomi. La nozione di autonomia non può che essere intesa da un punto di vista strutturale e non gestionale od amministrativa, nel senso che un edificio si deve poter amministrare indipendentemente dalla compagine nella quale è inserito. Ciò significa che il termine “edificio” deve essere riferito ad una costruzione con una propria autonomia fisica e che gli consenta una vita indipendente. Qualora la decisione non venga assunta in sede assembleare ma giudiziale (a, comma 2) la competenza spetta al Tribunale del luogo ove è situato l'edificio (art. 23 c.p.c.) e ciò sia nel caso in cui si ritenga applicabile l'art. 12 stesso codice – che, in relazione alle azioni di divisione, stabilisce che il valore della controversia va determinato con riguardo a quello della massa attiva da dividersi – sia che si faccia riferimento ai criteri generali in materia di competenza per valore. La legittimazione attiva è riconosciuta in capo ai condomini, ovvero a quei condomini che intendono staccare l'edificio dalla compagine condominiale. Differente, invece, il discorso concernente la legittimazione passiva. La rappresentanza attribuita all'amministratore del condominio dall'art. 1131, comma 2, c.c. rispetto a qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio non si estende alla domanda con cui un condomino chieda di accertare, nei confronti del condominio, la proprietà esclusiva di un bene. Tale domanda, inerendo all'estensione del diritto dei singoli, deve svolgersi nei confronti di tutti i condomini, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico ed inscindibile su cui deve statuire la richiesta di pronuncia giudiziale (Cass. II, n. 20612/2017. Sulla stessa linea si era posta Cass. II, n. 1460/2008, proprio con riferimento all'azione di scioglimento di condominio). Sulla base di tale principio di carattere generale va rilevato che l'effetto prodotto dallo scioglimento del condominio è la perdita del diritto di proprietà su talune cose, servizi ed impianti da parte di alcuni partecipanti al condominio originario, la cui quota si accresce a quella degli altri con conseguente modificazione proporzionale del diritto di godimento sulle cose comuni e del correlativo obbligo di partecipazione alle spese. Da ciò consegue che l'amministratore del condominio, non essendo titolare del diritto, è privo di legittimazione passiva, né può trarre il potere di rappresentanza dal mandato conferitogli dall'assemblea per resistere al giudizio di scioglimento del condominio, non potendo l'assemblea disporre a maggioranza del diritto in questione se non nel caso in cui ritenga di approvare la richiesta di scioglimento ai sensi dell'art. 61, comma 2, disp. att. c.c. (Trib. Roma 31 ottobre 2018). La qualità di litisconsorti necessari di tutti i condomini rispetto alla domanda di scioglimento della comunione, agli effetti dell'art. 784 c.p.c., norma speciale rispetto all'art. 1131, comma 2, c.c., permane in ogni grado del processo, indipendentemente dall'attività e dal comportamento di ciascuna parte. Pertanto, se, in fase di appello, l'appellante non abbia provveduto alla citazione di uno o più comunisti, il giudice di secondo grado deve ordinare l'integrazione del contraddittorio in forza dell'art. 331 c.p.c., ancorché in primo grado il giudice abbia accertato la proprietà esclusiva per intervenuta usucapione di alcuni beni di cui si richiedeva la divisione (Cass. II, n. 14654/2013). L'art. 784 c.p.c. è norma speciale rispetto all'art. 1131, comma 2, c.c. e, pertanto, malgrado quest'ultima disposizione conferisca all'amministratore di condominio la legittimazione passiva per qualunque azione, se un condomino chiede lo scioglimento della comunione su un bene comune e la conseguente modifica dell'uso di esso, è necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, onde tutelare più intensamente le loro ragioni nella trasformazione delle rispettive facoltà di godimento (Cass. II, n. 4655/1998). Azioni di accertamento di proprietà di un bene In merito ad azioni di accertamento della proprietà di un bene, la Suprema Corte ha affermato che, spetta all'amministratore la legittimazione passiva per qualunque azione abbia ad oggetto parti comuni dello stabile condominiale, sicché, ove un condomino od un terzo propongano una domanda avente ad oggetto l'accertamento della proprietà esclusiva di un bene non espressamente contemplato nell'elencazione di cui all'art. 1117 c.c., l'individuazione della sua natura, ai fini della sussistenza, o meno, di detta legittimazione, deve avvenire tenendo conto che la richiamata disposizione contiene un'elencazione non tassativa, ma solo esemplificativa, delle cose comuni, essendo tali, salvo risulti diversamente dal titolo, anche quelle aventi un'oggettiva e concreta destinazione al servizio comune di tutte o di una parte soltanto delle unità immobiliari di proprietà individuale (Cass. II, n. 133/2017). Pertanto, ove un condomino chieda che l'accertamento della proprietà esclusiva di parte del sottotetto, viene meno la legittimazione passiva dell'amministratore, dovendo la causa, riguardante l'estensione del diritto dei singoli in dipendenza dei rispettivi acquisti, svolgersi nei confronti di tutti i condomini; nell'ipotesi in cui la suddetta controversia venga proposta e decisa solo nei confronti dell'amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio deve essere rilevata d'ufficio anche in sede di legittimità (Cass. II, n. 10828/2001). Vi è, altresì, carenza di legittimazione passiva dell'amministratore nel caso in cui il condomino rivendichi il suo esclusivo diritto di proprietà su di un box, facente parte del fabbricato condominiale, con conseguente condanna del condominio al rilascio ed allo sgombero dello stesso. Nella specie, trattasi di azione reale che non diviene personale – come ritenuto dal giudice del gravame – per il solo fatto che il condomino abbia chiesto anche la condanna a restituire l'immobile (Cass. II, n. 26208/2019). Ed ancora esula dai limiti della legittimazione passiva dell'amministratore la domanda volta ad ottenere l'accertamento, in capo ad un singolo, della proprietà esclusiva su di un bene altrimenti comune, ex art. 1117 c.c., giacché tale domanda impone il litisconsorzio necessario di tutti i condomini; ne consegue che, nel giudizio di impugnazione avverso una delibera assembleare, ex art. 1137 c.c., in cui la legittimazione passiva spetta all'amministratore, l'allegazione, ad opera del ricorrente, della proprietà esclusiva del bene su cui detta delibera abbia inciso (nella specie, l'area cortilizia antistante il fabbricato, oggetto di assegnazione assembleare quale spazio a parcheggio per le autovetture dei condomini), può formare oggetto di un accertamento meramente incidentale, funzionale alla decisione della sola causa sulla validità dell'atto collegiale ma privo di efficacia di giudicato in ordine all'estensione dei diritti reali dei singoli (Cass. II, n. 20612/2017). In pratica l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti al condominio o alla comunione presuppone che sia formulata una domanda, in via principale o riconvenzionale, idonea a mettere in discussione la comproprietà di una determinata porzione dell'edificio o di un'area ottenendo, sul punto, una pronuncia avente efficacia di giudicato. Ove, invece, la questione dell'appartenenza, o meno, di un bene immobile ad un condominio, ovvero della sussistenza della titolarità comune o individuale di una porzione dell'edificio, in quanto inerente all'esistenza del rapporto di condominialità ex art. 1117 c.c., formi oggetto di un accertamento meramente incidentale, privo (in assenza di esplicita domanda di una delle parti ai sensi dell'art. 34 c.p.c.) di efficacia di giudicato in ordine all'estensione dei diritti reali dei singoli, il giudizio si può svolgere nei confronti dell'amministratore del condominio, senza la partecipazione, quali legittimati passivi, di tutti i condomini in una situazione di litisconsorzio necessario (Cass. II, n. 27957/2023). Ancora in relazione a controversia avente ad oggetto spazi comuni, l'amministratore del condominio è passivamente legittimato a stare in giudizio nella controversia promossa dal singolo condomino per l'annullamento di una delibera assembleare di attribuzione dei posti auto su uno spazio comune, senza necessità che, al relativo giudizio, partecipino i condomini, i quali hanno soltanto la facoltà di intervenire (Cass. II, n. 16228/2006). Al contrario, rispetto alla domanda diretta ad accertare o a dichiarare estinto un vincolo di destinazione (nella specie, a portineria) gravante su un bene di proprietà esclusiva a vantaggio della proprietà condominiale, ovvero anche rispetto ad una azione confessoria o negatoria di servitù, trattandosi di lite concernente interessi comuni dei condomini, che non incide sul diritto di condominio (accrescendolo o riducendolo, con proporzionale assunzione degli obblighi e degli oneri ad esso correlati), sussiste la legittimazione dell'amministratore del condominio ai sensi dell'art. 1131 c.c., la quale deroga alla disciplina valida per le altre ipotesi di pluralità di soggetti passivi, soccorrendo all'esigenza di rendere più agevole ai terzi la costituzione in giudizio del condominio, senza la necessità di promuovere il litisconsorzio passivo nei confronti dei condomini (Cass. VI, n. 30302/2022). Qualora, poi, l'amministratore di un condominio sia stato convenuto in giudizio da un condomino che agisca in rivendica di un bene comune (il cortile condominiale e costruzione sovrastante), sussiste carenza di legittimazione passiva del medesimo, poiché nella specie oggetto della lite non è la salvaguardia di un interesse comune ma l'accertamento della proprietà del bene comune o di parte di esso. In questo caso, quindi, la domanda va proposta nei confronti di tutti i condomini ed il difetto di legittimazione ad processum va rilevato d'ufficio costituendo un presupposto della costituzione del rapporto processuale (Trib. Milano 4 giugno 2001). Pagamento somme Per la domanda volta a conseguire l'ordine di comunicare al creditore non soddisfatto i dati dei condomini morosi, ai sensi dell'art. 63, comma 1, disp. att. c.c., deve essere rivolta nei confronti dell'amministratore, mentre non sussiste al riguardo la legittimazione passiva del condominio (Trib. Napoli 5 settembre 2016). Mentre, sussiste la legittimazione passiva dell'amministratore, senza alcun limite, nel giudizio per opposizione a decreto ingiuntivo anche se l'attore o opponente, in via riconvenzionale, proponga domanda di accertamento della proprietà di una parte dell'edificio (Cass. II, n. 25634/2014). Legittimazione che sussiste anche quando la domanda riconvenzionale proposta dall’amministratore abbia per oggetto l’inadempimento in esecuzione di un contratto di appalto, a condizione che la domanda trovi il suo fondamento nello stesso contratto di appalto che ha generato il decreto ingiuntivo (Trib. Treviso 11 dicembre 2018; Cass. II., n. 24302/2017). Ed ancora in ordine a pagamento delle spese condominiali, qualora l'amministratore condominiale sia evocato in giudizio da uno dei condomini per la ripetizione di contributi che si assumono non dovuti lo stesso agisce nei limiti delle attribuzioni di cui all'art. 1130 c.c. laddove chieda – in via riconvenzionale – la condanna del condomino attore al pagamento di contributi condominiali; in una tale evenienza, quindi, detto amministratore non solo può agire attivamente in giudizio, a prescindere da una previa delibera dell'assemblea ma a seguito del rigetto della domanda da parte del primo giudice, può proporre impugnazione innanzi alla corte di appello (Cass. II, n. 10369/2008). In tema di rimborso di somme anticipate dall'amministratore cessato dall'incarico per la gestione condominiale, è passivamente legittimato il condominio legalmente rappresentato dal nuovo amministratore sia, cumulativamente, nei confronti di ogni singolo condomino, la cui obbligazione di rimborsare all'amministratore mandatario le anticipazioni da questo fatte nell'esecuzione dell'incarico deve considerarsi sorta nel momento stesso in cui avviene l'anticipazione e per effetto di essa e non può considerarsi estinta dalla nomina del nuovo amministratore, che amplia la legittimazione processuale passiva, senza eliminare quelle originali, sostanziali e processuali (Trib. Torino 29 gennaio 2016). Azioni relative alle servitù In tema di accertamento di una servitù di passaggio su porzioni di proprietà individuale all'interno di edificio in condominio, la domanda giudiziale va proposta nei confronti dei proprietari delle singole porzioni e di tutti i condomini (Cass. II, n. 13101/2011). L'art. 1131 c.c., infatti, deve essere inteso nel senso che il potere rappresentativo che spetta all'amministratore di condominio si riflette nella facoltà di agire e di resistere in giudizio unicamente per la tutela dei diritti sui beni comuni, rimanendone escluse le azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni stessi, e, cioè, sulla estensione del relativo diritto di condominio, affare che rientra nella disponibilità esclusiva dei condomini. In tal modo, si assicura anche la regolare corrispondenza tra le attribuzioni dispositive dell'amministratore e dell'assemblea e la legittimazione a far valere nel processo le rispettive posizioni dominicali (Cass. II, n. 19566/2020). Invece, sussiste la legittimazione passiva dell'amministratore di condominio, con riguardo ad azioni negatorie e confessorie di servitù, anche nel caso in cui sia domandata la rimozione di opere comuni o (come nella specie) la eliminazione di ostacoli che impediscano o turbino l'esercizio della servitù medesima, non rendendosi necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei condomini (Cass. II, n. 22911/2018; Cass. II, n.919/2004). Lo stesso deve valere per la domanda di accertamento di una servitù a carico delle parti comuni, che correttamente è indirizzata nei confronti del condominio in persona dell'amministratore, tanto più nel caso in cui la stessa sia stata formulata in via riconvenzionale dal convenuto nei confronti dell'amministratore che aveva agito in negatoria servitutis sulla base di specifico mandato conferitogli dall'assemblea dei condomini (Cass. II, n. 13695/2003). Nello stesso senso è stato affermato che deve essere esclusa la necessità di integrazione del contraddittorio in un giudizio per la costituzione della servitù di passaggio coattivo, instaurato da un comproprietario del fondo dominante, sia perché ogni partecipante alla comunione può chiedere la costituzione di detta servitù a favore del fondo intercluso, sia per il principio dell'indivisibilità della servitù, dato che una volta riconosciute le condizioni per l'imposizione della servitù stessa, questa deve intendersi costituita attivamente e passivamente a favore ed a carico dei rispettivi fondi, con effetti che, concretandosi in una qualitas fundi, non possono essere circoscritti al solo condomino che richiese di ottenere il passaggio. Peraltro, l’amministratore del condominio ha pieno diritto –ed anzi, è espressamente obbligato dalla legge (cfr. artt. 1130 ed 1131 c.c.)– a compiere tutti gli atti conservativi dei beni e dei diritti comuni. Inoltre, va ribadito, con specifico riferimento alle azioni a difesa dei diritti spettanti all’intera compagine condominiale, che poiché il diritto di ciascun condomino investe la cosa comune nella sua interezza sia pure con il limite del concorrente diritto degli altri condomini, anche un solo condomino può promuovere le azioni reali a difesa della proprietà comune senza che sia necessario integrare il contradditorio nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione. Pertanto tali azioni possono essere deliberate anche a maggioranza dall'assemblea dei condomini la quale può conferire all'amministratore o ad altri il potere di agire nel comune interesse (Cass. II, n. 21506/2024). Altre fattispecie L'amministratore di condominio è legittimato passivo riguardo alle controversie afferenti a cose, impianti o servizi di appartenenza, per legge o titolo, anche ad alcuni solamente dei proprietari in condominio c.d. parziale, come unico rappresentante processuale, salva la restrizione degli effetti della sentenza, nell'ambito dei rapporti interni, ai condomini interessati (Trib. Milano, 3 febbraio 2012). Poiché il regolamento di condominio c.d. contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune, la cui azione di nullità non esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell'amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. VI, n. 20007/2022; Cass. VI, n. 6656/2021). In materia di condominio di edifici, la legittimazione passiva nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti dal cedimento di strutture condominiali spetta al condominio, in persona dell'amministratore quale rappresentante di tutti i condomini obbligati – e non già al singolo condomino che può essere chiamato in giudizio a titolo personale soltanto ove frapponga impedimenti all'esecuzione dei lavori di manutenzione o ripristino, ovvero allorché i danni derivino da difetto di conservazione o di manutenzione a lui imputabili in via esclusiva – poiché la responsabilità delineata dall'art. 2053 c.c. si fonda sulla proprietà del bene, la cui rovina è cagione del danno, e va imputata a chi abbia la possibilità di ovviare ad un vizio di costruzione o di provvedere alla manutenzione del bene, ossia – per le strutture condominiali – al condominio (Cass. II, n. 18168/2014). Inoltre, il potere - dovere di "compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio", attribuito all'amministratore di condominio dall'art. 1130, n. 4, c.c., implica in capo allo stesso la correlata autonoma legittimazione processuale attiva e passiva, ex art. 1131 c.c., in ordine alle controversie in materia di risarcimento dei danni, qualora l'istanza appaia connessa o conseguenziale, appunto, alla conservazione delle cose comuni. Tale potere deriva direttamente dalla legge e non può soffrire limitazioni né per volontà dell'amministratore, né per deliberazione della assemblea (Cass. II, n. 20072/2021). Ne deriva che la clausola contenuta in un regolamento condominiale (ancorché deliberato per mutuo accordo tra tutti gli originari condomini), secondo cui l'autorizzazione a stare in giudizio debba essere deliberata dall'assemblea, semmai a maggioranza qualificata, non ha efficacia giuridica, poiché il quarto comma dell'art 1138 c.c. prevede che le norme regolamentari non possono derogare alle disposizioni ivi menzionate, fra le quali è appunto compresa quella di cui all'art 1131 citato (Cass. II, n. 2127/2021). Sussiste il difetto di legittimazione passiva dell’amministratore in ordine alla domanda proposta da un condomino volta all’accertamento della violazione di un articolo del regolamento di condominio, consistente nell’immissione di arbusti e fogliame provenienti da altre unità immobiliari sul terrazzo di proprietà esclusiva, con correlata domanda di indennizzo. Sebbene l’amministratore, in base all’art. 1130, comma 1, c.c., sia tenuto a curare l’osservanza del regolamento di condominio e ad agire in giudizio per ottenere la cessazione degli abusi posti in essere da un condomino, questo non significa affatto che, al contrario, sussista la legittimazione passiva del condominio, rappresentato in giudizio dall’amministratore ai sensi dell’art. 1131, comma 2, c.c., in ordine alla pretesa del singolo rivolta ad accertare le violazioni regolamentari perpetrate da altri partecipanti ed ad ottenere una conseguente condanna risarcitoria dal condominio stesso. Né dall’omesso adempimento dell’obbligo dell’amministratore di curare l’osservanza del regolamento di condominio ex art. 1130, comma 1, c.c. ridonda alcuna automatica responsabilità ricadente nella sfera giuridica dell’intero condominio. L’amministratore, piuttosto, è responsabile nei confronti dei condomini per i danni cagionati dalla sua negligenza, dal cattivo uso dei poteri e, in genere, da qualsivoglia inadempimento degli obblighi legali o regolamentari (Cass., VI, n. 35315/2021). L'amministratore condominiale è passivamente legittimato a stare in giudizio nella controversia avente ad oggetto la pretesa illegittimità dell'avvenuta soppressione del servizio di portierato, trattandosi di lite concernente un servizio comune, come tale, rientrante nell'ambito delle sue attribuzioni rispetto alla quale sono legittimati ad intervenire anche i singoli condomini (Cass. II, n. 8139/2004). La legittimazione ad litem del condominoSe sia configurabile un autonomo potere di agire del singolo condomino è questione direttamente collegata alla qualificazione del condominio quale ente di gestione, privo di una personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti. Il rapporto intercorrente tra amministratore e condomini, oramai consacrato dalle stesse norme del codice civile come un mandato con rappresentanza, da un lato non priva i condomini del diritto di agire a tutela dell'integrità delle parti e dei servizi comuni e, dall'altro esclude che la legittimazione passiva del primo abbia carattere obbligatorio ed unico. La questione si pone con riferimento sia alla legittimazione dal lato attivo, che da quello passivo. La giurisprudenza sul punto ha mantenuto sempre un orientamento costante ed ha affermato che il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti: il che, in sostanza, comporta che ogni condomino, qualora l'amministratore non agisca in tal senso a nome del condominio, possa benissimo sostituirsi a lui nella tutela dei diritti comuni connessi alla sua partecipazione al condominio: pertanto, qualora vi sia inerzia dell'amministratore a proporre una causa a tutela di interessi del condominio, in attuazione delle delibere dell'assemblea che perseguano finalità di gestione di un servizio comune che, in quanto tali, incidono indirettamente anche sull'interesse esclusivo di uno o più condòmini, a questi ultimi è consentito avviare il giudizio autonomamente (Cass. II, n. 16562/2015). In forza del riconoscimento di tale diritto in capo al condomino si è parlato (Cass. II, n. 18028/2010; Trib. Cagliari 16 gennaio 2013) del principio della c.d. rappresentanza reciproca e della legittimazione sostitutiva – in base al quale il partecipante può agire a tutela dei diritti comuni nei confronti dei terzi. Principio che non può essere invocato qualora il condomino, nel chiedere il rimborso anche delle spese anticipate dagli altri comproprietari rimasti estranei al giudizio, agisca non a tutela di un bene comune, bensì per far valere l'interesse personale alla reintegrazione del proprio patrimonio individuale; in tal caso il condomino non è legittimato ad agire in giudizio né ad interporre impugnazione per conto e nell'interesse dei condomini estranei al giudizio. È stato, peraltro, evidenziato che il principio della legittimazione sostitutiva è stato adattato dalla comunione ordinaria al condominio edilizio, trascurando la specialità della legittimazione processuale dell'amministratore ex art. 1131 c.c. (Cass. II, n. 27101/2017). Il condomino esercita tale potere, che lo legittima ad agire od a resistere in giudizio per la tutela della cosa comune nei confronti dei terzi o di un singolo condomino, per essere titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l'intera res communis (e non una sua frazione). Egli, pertanto, non è soggetto al consenso degli altri partecipanti (Cass. II, n. 1650/2015). Peraltro, pur ribadito il principio consolidato che il condominio sia un ente di gestione sprovvisto di personalità giuridica, nel caso di polizza stipulata dal condominio in persona dell'amministratore è escluso che ciascun condomino possa sostituirsi all'amministratore stesso ed agire, nel proprio interesse, nei riguardi dell'assicuratore; la rappresentanza spetta, infatti, comunque all'amministratore ed il singolo condomino non può considerarsi singolarmente legittimato a rappresentare l'ente di gestione, contraente della polizza nell'interesse di tutti i partecipanti al condominio (Cass. II, n. 4245/2009). Diversamente è ammesso che un condomino, nel proprio interesse, chieda la risoluzione di un contratto di appalto anche se agisca in giudizio come proprietario e non come condomino. Ha, infatti, affermato la Corte di Cassazione che la qualità di condomino è inscindibilmente legata a quella di titolare di proprietà esclusiva di parte dell'edificio (Cass. II, n. 12803/2019). In tema di abusi edilizi qualora una delibera condominiale attivamente determini un illecito edilizio consentendo, attraverso l'autorizzazione a collegarsi ai servizi privati comuni (acqua, luce, gas ecc.), la trasformazione dei locali sottotetti in vani abitabili, in violazione delle norme contenute nello strumento urbanistico in vigore, simile delibera ha sostanzialmente un contenuto illecito, e come tale è affetta da nullità assoluta per illiceità dell'oggetto; in tal caso, la delibera condominiale non può considerarsi valida neppure per effetto di successivo condono edilizio, perché, in base ai principi che regolano la successione di leggi nel tempo, la sua illiceità va verificata con riferimento alle norme edilizie in vigore nel momento della sua approvazione; la nullità della delibera condominiale per illiceità dell'oggetto può essere fatta valere, in ogni tempo, da chiunque vi ha interesse e, pertanto, anche dal condomino che deduca pregiudizio per il bene comune o esclusivo, ancorché si sia valso della sanatoria edilizia (Cass. II, n. 16641/2007). Se gli abusi edilizi rilevati, con ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, sono realizzati su parti di proprietà esclusiva, l'ordine di ripristino non può essere rivolto all'amministratore pro tempore, in quanto non qualificabile come responsabile dell'abuso. Ma anche se gli abusi risultino realizzati su parti comuni , la stessa ordinanza non può avere come destinatario l'amministratore, atteso che le parti comuni dell'edificio non sono di proprietà dell'ente condominio, ma dei singoli. Ne consegue che la misura volta a colpire tale abuso deve essere indirizzata esclusivamente nei confronti dei singoli condomini in quanto unici com-proprietari delle stesse (Tar. Sicilia, Catania, n. 3130/2022). Il singolo condomino può avvalersi direttamente della garanzia assicurativa per i danni che la rottura di impianti comuni abbia cagionato all'immobile di una proprietà esclusiva pur in presenza di una coesistenza degli interessi rappresentati dall'amministratore condominiale, e di una sua concorrente e alternativa legittimazione a pretendere l'indennità: in capo al condominio contraente e al singolo condominio, per quanto riguarda il danno alla unità immobiliare del condomino derivante dalla rottura dell'impianto di riscaldamento; ne deriva una forma di solidarietà attiva nell'esercizio del credito al pagamento dell'indennizzo per i danni all'immobile di proprietà individuale, che esclude la eventualità di una duplicazione del debito inerente alla prestazione assicurativa (App. Milano 12 novembre 2004). Peraltro è inammissibile l'azione del singolo condomino, nei confronti dell'amministratore, diretta ad ottenerne la condanna a porre in essere atti conservativi ed al risarcimento del danno. Il contratto di mandato sorge tra l'amministratore ed il condominio, per cui il singolo condomino non è legittimato ad agire, in sede contenziosa, per lo scioglimento del rapporto e, di conseguenza, per sopperire all'inerzia dell'amministratore nel compimento di atti di ordinaria amministrazione non potendo, il giudice, sostituirsi alla volontà dei condòmini ed agli organi del condominio (Trib. Napoli 2 febbraio 2018).In tema di appalto e di azione ai sensi dell'art. 1669 c.c., il condomino è legittimato ad agire, nei confronti dell'appaltatore, a titolo di risarcimento danni per fare valere i difetti delle opere di ristrutturazione edilizia ovvero interventi manutentivi di lunga durata effettuati su di un edificio in condominio ma che abbiano prodotto danni su proprietà esclusiva (Cass. VI, n. 1423/2019). In tema di impugnazione di delibera assemblear e la legittimazione ad agire manca tutte le volte in cui dalla stessa prospettazione della domanda emerga che l'attore non è un condomino e la relativa carenza può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e può essere rilevata anche dal giudice. Nel contratto di leasing finanziario l'utilizzatore è privo di tale legittimazione anche se sia stato autorizzato all'azione dal proprietario/concedente, poiché, alla stregua della lettera di cui all'art. 81 c.p.c., fuori dai casi espressamente previsti dalla legge di sostituzione processuale o di rappresentanza, nessuno può fare valere in giudizio un diritto altrui in nome proprio (Cass.VI, n. 19608/2020). In tema di opposizione al decreto ingiuntivo emesso nei confronti del condominio i condomini non sono legittimati all'azione. La giurisprudenza della Corte ha più volte affermato che nel giudizio in questione oggetto della domanda è un credito vantato dell'ingiungente nei confronti dell'ingiunto, con la conseguenza che, dal punto di vista soggettivo, le parti del processo possono essere esclusivamente colui che ha proposto la domanda e colui contro cui tale domanda è diretta. Una regola che non trova eccezione riguardo al condominio. E', infatti, orientamento costante che nelle controversie condominiali, la legittimazione ad agire può essere riconosciuta ai singoli condomini solo nel caso in cui la lite investa il diritto degli stessi sulle parti comuni dell'edificio, nei cui confronti il condomino vanta la posizione di proprietario pro quota e, quindi, è titolare di una autonoma situazione giuridica soggettiva distinta dal condominio, inteso come soggetto unitario, e dagli altri partecipanti. Diversamente, quando la controversia abbia ad oggetto posizioni di natura obbligatoria volte a soddisfare esigenze della collettività condominiale, la legittimazione spetterebbe solo all'amministratore, mentre il condomino potrebbe svolgere solo un intervento adesivo dipendente. Rileva la cassazione che in questo quadro si è posta la questione se, in caso di inerzia del condominio, un eventuale opposizione al decreto ingiuntivo condominiale possa trovare risposta positiva, considerando che l'interesse diretto ed immediato del condomino all'opposizione discenderebbe dal fatto che il decreto ingiuntivo non opposto acquista natura di titolo esecutivo pro quota nei confronti del singolo condomino. La Corte, tuttavia, ha escluso tale possibilità richiamando un recente arresto della stessa Corte (Cass. II, n. 5811/2022), la quale ha riconosciuto al condomino al quale sia stato intimato il pagamento di una somma di denaro in base ad un decreto ingiuntivo non opposto ottenuto nei confronti del condominio, la disponibilità dei rimedi dell'opposizione a precetto e dell'opposizione tardiva al decreto (Cass. II, n. 7053/2024). Per effetto delle attribuzioni di cui all’art. 1130, comma 1, n. 4, c.c. ( atti di conservazione delle parti comuni dell’edificio condominiale) l’amministratore può proporre querela nei confronti di un soggetto estraneo che si sia introdotto abusivamente nell’androne di un condominio. Questo anche indipendentemente da uno specifico investimento da parte dell’assemblea dei condomini, poiché tali poteri-doveri debbono ritenersi estesi a tutte le attività finalizzate a garantire l’esistenza, la pienezza e l'integrità dei diritti dei condomini sulle parti comuni. Ciò non toglie che il singolo condomino, che gode del diritto reale di comproprietà tipico dell’istituto della comunione sulle parti comuni sia anch’esso legittimato, in via concorrente o surrogatoria rispetto all’amministratore di condominio, a sporgere una valida querela in relazione a un reato commesso in offesa del patrimonio comune di un edificio in condominio. Infatti, il condomino viene considerato persona offesa dal reato lesivo dell’interesse penalmente protetto dall’art. 614 c.p., poiché il diritto all’inviolabilità del domicilio rappresenta una delle forme di estrinsecazione dell’insindacabile diritto alla tutela della dignità e della sfera privata, applicabile anche alle parti comuni di un edificio che siano state violate da un estraneo (Cass. pen., V, n. 21862/2024). Diritto del condomino di impugnare la sentenzaSe il condomino sia legittimato ad impugnare la sentenza emessa nei confronti del condominio rappresentato dall'amministratore ed avente ad oggetto l'annullamento di una delibera assembleare è questione strettamente correlata alla posizione ed al rapporto di questi nei confronti dell'ente condominiale e, dal punto di vista giurisprudenziale, sembra non avere ancora trovato una soluzione definitiva. Infatti, la seconda sezione della Corte di Cassazione (Cass. II, n. 27101/2017) ha trasmesso gli atti al primo presidente, per l'eventuale assegnazione alle sezioni unite, della questione di massima di particolare importanza concernente la legittimazione processuale del singolo condomino (non costituitosi autonomamente) all'impugnazione della sentenza di primo o di secondo grado resa nei confronti del condominio, anche alla luce del principio sancito dalle Sezioni Unite (Cass. S.U., n.19663/2014), secondo cui il singolo condomino deve essere considerato parte solo se intervenga nel processo, e non, invece, già qualora sia rappresentato dall'amministratore. A riprova dell'aperto contrasto giurisprudenziale in senso favorevole è stato affermato che non sussistono impedimenti a che i singoli condomini, non solo intervengano nel giudizio in cui tale difesa sia stata assunta dall'amministratore, ma anche si avvalgano, in via autonoma, dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti del condominio rappresentato dall'amministratore, non spiegando influenza alcuna, in contrario, la circostanza della mancata impugnazione di tale sentenza da parte dell'amministratore (Cass. II, n. 10717/2011; Cass. II, n. 11882/2002). Infatti, se è vero che, in via generale, la legittimazione ad appellare deve essere riconosciuta soltanto ai soggetti che siano stati parti nel giudizio di primo grado e che siano rimasti soccombenti, i condomini, che devono essere considerati non terzi ma parti originarie, possono anche ricorrere all'autorità giudiziaria autonomamente, sia nel caso di inerzia dell'amministratore, a norma dell'art. 1105 c.c., applicabile anche al condominio per il rinvio posto dall'art. 1139 c.c., sia allorquando gli altri condomini non intendano agire o resistere in giudizio. A tal fine, quindi, possono esperire i mezzi di impugnazione necessari ad evitare gli effetti sfavorevoli della pronuncia resa nei confronti dell'amministratore. La posizione di non terzo del condomino, il quale si identifica come parte del giudizio, gli consentirebbe di intervenire anche nel giudizio di rinvio, malgrado questo sia considerato come giudizio «chiuso», non solo per l'oggetto, ma anche per i soggetti, a sostegno del condominio, rappresentato dall'amministratore, in controversia con altri condomini per la tutela dei diritti della collettività (Cass. II, n. 14809/2014). Così come la sentenza pronunciata nei confronti del condominio, in persona del suo amministratore, non è impugnabile con l'opposizione ordinaria ex art. 404, comma 1, c.p.c. dai singoli condomini, non essendo questi ultimi terzi titolari di un diritto autonomo rispetto alla situazione giuridica affermata con tale decisione, la quale fa stato anche nei loro confronti, benché non intervenuti in giudizio, atteso che il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei condomini (Cass. II, n. 4436/2017). Ad ulteriore conferma del fatto che il condomino è legittimato ad impugnare la sentenza resa nei confronti del condominio, si pone la circostanza che la notifica della sentenza all'amministratore è idonea a fare decorrere il termine breve per l'impugnazione rispetto ai condomini, non costituiti nel giudizio di primo grado (Cass. II, n. 177/2012). Tutto questo si traduce, quindi, nella possibilità, per i singoli partecipanti di impugnare personalmente, anche in cassazione, la sentenza sfavorevole emessa nei confronti della collettività condominiale ove non vi provveda l'amministratore; in tali casi, tuttavia, il gravame deve essere notificato anche all'amministratore, persistendo la legittimazione del condominio a stare in giudizio nella medesima veste assunta nei pregressi gradi, in rappresentanza di quei partecipanti che non hanno assunto individualmente l'iniziativa di ricorrere in cassazione (Cass. II, n. 3900/2010). Sono intervenute sul punto le Sezioni Unite della Corte di cassazione le quali hanno precisato che, anche a seguito della riforma contenuta nella l, n. 220/2012,che ha escluso il conferimento al condominio di un'autonoma personalità giuridica con conseguenti diritti sui beni comuni, è la natura dei diritti contesi la ragione di fondo della sussistenza della facoltà dei singoli di affiancarsi o surrogarsi all'amministratore nella difesa in giudizio dei diritti vantati su tali beni. Pertanto, allorquando si sia in presenza di cause introdotte da un terzo o da un condòmino che riguardino diritti afferenti al regime della proprietà e ai diritti realirelativi a parti comuni del fabbricato, e che incidano sui diritti vantati dal singolo su di un bene comune, non può negarsi la legittimazione alternativa individuale. In caso contrario, quando si esuli da tale ambito la legittimazione passiva spetta al condominio, con conseguente diniego di legittimazione attiva del condòmino a proporre appello avverso la sentenza che abbia pronunciato la condanna del condominio (Cass., S.U., n. 10934/2019. Per il merito cfr. Trib. Cosenza 3 gennaio 2022. Fattispecie concernente l'azione promossa da un condomino che aveva provveduto alla riparazione di una condotta fognaria comune, anticipando le spese ai sensi dell'art. 1134 c.c. Condannato il condominio al risarcimento, un condomino - non partecipante al giudizio di primo grado - proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale). Nei giudizi relativi all’impugnazione delle deliberazioni assembleari, ove non si tratti di azioni relative alla tutela o all’esercizio dei diritti reali su parti o servizi comuni bensì di controversia in tema di ripartizione di spese per le cose e per i servizi comuni, sussiste la legittimazione passiva esclusiva dell’amministratore nella qualità e non dei singoli proprietari – i quali devono intendersi rappresentati “ex mandato” dal suo amministratore proprio per la peculiare natura del condominio quale ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi componenti (Cass. VI, n. 35576/2021). Quindi, il potere di impugnazione del singolo condomino va riconosciuto nelle controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche nelle azioni personali, ma se incidenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ciascun partecipante, mentre non trova applicazione relativamente alle controversie che, avendo a oggetto non diritti su un servizio comune ma la sua gestione, sono intese a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale o l’esazione delle somme dovute in relazione a tale gestione da ciascun condomino nelle quali non v’è correlazione immediata con l’interesse esclusivo d’uno o più condomini (App. Campobasso 16/09/2022, n. 228 con nota Tosatti, 2022). Nell'ipotesi di supercondominio, inoltre, ciascun condomino, proprietario di alcuna delle unità immobiliari ubicate nei diversi edifici che lo compongono, è legittimato ad agire per la tutela delle parti comuni degli stessi ed a partecipare alla relativa assemblea, con la conseguenza che le disposizioni dell'art. 1136 c.c., in tema di formazione e calcolo delle maggioranze, si applicano considerando gli elementi reale e personale del medesimo supercondominio, rispettivamente configurati da tutte le porzioni comprese nel complesso e da tutti i rispettivi titolari. Fattispecie concernente il riconoscimento della legittimazione del singolo condomino ad impugnare la sentenza inerente all'apposizione di cancelli su area antistante e comune agli edifici del supercondominio (Cass. n. 4340/2013). A questo indirizzo prevalentemente favorevole si è opposto un orientamento modestamente contrario ed in alcuni casi caratterizzato da sentenze di segno opposto. È stato, infatti, affermato che nel condominio di edifici, il noto principio che riconosce ai singoli condomini il potere di agire a difesa di diritti connessi alla detta partecipazione e di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore del condominio e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunziata nei confronti del condominio, non trova applicazione relativamente alle controversie aventi ad oggetto l'impugnazione di deliberazioni della assemblea condominiale che, come quella relativa alla nomina dell'amministratore, perseguono finalità di gestione di un servizio comune e tendono a soddisfare esigenze soltanto collettive, senza attinenza diretta all'interesse esclusivo di uno o più partecipanti; ne consegue che in tali controversie la legittimazione ad agire, e quindi ad impugnare, spetta in via esclusiva all'amministratore, con esclusione della possibilità di impugnazione da parte del singolo condomino (Cass. II, n. 19223/2011; Cass. II, n. 6480/1998; Cass. 8257/1997; Cass. II, n. 2393/1994). In senso contrario, più recente decisione secondo la quale tale diritto spetta anche quando la delibera controversa persegua finalità di gestione di un servizio comune ed incida sull'interesse esclusivo del condomino in via indiretta, essendo privo di un appagante fondamento normativo il distinguere tra incidenza immediata oppure mediata sulla sfera patrimoniale del singolo, derivante della caducazione di una decisione sulla gestione della cosa comune, al fine di identificare i soggetti legittimati alla relativa impugnativa, nell'inerzia del condominio (Cass. II, n. 16562/2015). Si ricorda ancora che il singolo condomino, che non abbia partecipato al giudizio promosso nei confronti dell'amministratore ed avente ad oggetto l'obbligo di altro condomino di contribuire alle spese relative alla tubatura comune di adduzione del gas, non ha legittimazione ad impugnare la relativa sentenza (Cass. II, n. 9213/2005). Intervento in causa del condominoAltra questione è quella che concerne la sussistenza del diritto del condomino di intervenire in un giudizio pendente per effetto del dettato dell'art. 105 c.p.c., ai sensi del quale un soggetto si può inserire in un procedimento già incardinato fra le altre parti acquistando, a sua volta, la posizione di parte. La norma, rubricata «intervento volontario», proprio perché l'ingresso nel processo è determinato dalla libera scelta dell'interveniente, contempla due ipotesi. Da un lato, la possibilità del soggetto (nel nostro caso, il condomino) di intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel giudizio (comma 1) e, dall'altro, di sostenere le ragioni di alcuna delle parti quando vi sia un interesse personale (comma 2). La disposizione, che ha carattere generale e che è diretta a disciplinare l'intervento in causa di un «terzo» diverso dalle parti del giudizio, ha posto un problema di sua applicabilità in ambito condominiale, tenendo conto del fatto che il condominio è considerato ente di gestione privo di personalità giuridica con un rappresentante, l'amministratore, che agisce in nome e per conto dei condomini per far valere diritti ed interessi della collettività. La giurisprudenza – come accennato nel punto che precede – è concorde nel riconoscere in capo al condomino il diritto di intervenire in un giudizio in cui si sia costituito l'amministratore per conto del condominio (Cass. II, n. 10717/2011; Cass. II, 11882/2002; Cass. II, n. 5101/1986). E va ribadito che la Corte, già in passato e con decisione, poi, più volte confermata, aveva precisato che in ragione della peculiare natura del condominio, concepito dal sistema come ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi componenti, nonché del dato che costoro devono intendersi rappresentati ex mandato dall'amministratore della collettività condominiale, l'iniziativa giudiziaria intrapresa dal rappresentante del condominio a tutela di un diritto comune dei condomini non priva i medesimi del potere di agire personalmente a difesa di quel diritto nell'esercizio di una forma di rappresentanza reciproca, atta ad attribuire a ciascuno una legittimazione sostitutiva scaturente dal fatto che ogni singolo non può tutelare il diritto proprio senza necessariamente, e contemporaneamente, difendere l'analoga posizione subiettiva di tutti gli altri. Consequenzialmente, è da ritenere che il condomino che «interviene» personalmente nel processo istituito dall'amministrazione del condominio per far valere diritti della corporazione condominiale non è un terzo che si intromette in una vertenza in corso fra estranei, ma è una delle parti originarie determinatasi a far valere direttamente le ragioni in precedenza azionate per il tramite di un rappresentante (Cass. II, n. 826/1997). Sull'ordinanza di rinvio alle Sezioni Unite della Corte in ragione dei dubbi espressi sull' ammissibilità di un ricorso incidentale tardivo depositato da condomino non parte dei precedenti giudizi di merito, i giudici di legittimità, con articolata motivazione che ripercorre lo stato della giurisprudenza, hanno rilevato come l'impostazione tradizionale, che valorizza l'assenza di personalità giuridica del condominio e la sua limitata facoltà di agire e resistere in giudizio tramite l'amministratore nell'ambito dei poteri conferitigli dalla legge e dall'assemblea, porti ad attribuire ai singoli condomini la legittimazione ad agire per la tutela dei diritti comuni e di quelli personali. La giurisprudenza anche successiva ad altra pronuncia delle stesse Sezioni Unite (n. 19663/2014) ha continuato a ritenere che nelle controversie aventi ad oggetto un diritto comune, l'esistenza di un organo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, né di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore. Un orientamento che, salvi i poteri di rappresentanza dell'amministratore di cui all'art. 1131 c.c., trova il suo perdurante ancoraggio nella natura degli interessi in gioco nelle cause, quali i diritti dei singoli sulle parti comuni o sui propri beni facenti parte del condominio (Cass. S.U., n. 10934/2019 ; Cass. II, n. 12626/2021). Per tale aspetto e sulla base di queste premesse, è stato rilevato che non è ravvisabile alcun termine per l'intervento del condomino, né sono identificabili limiti ai conseguenti poteri da riconoscere al condomino interveniente che, invece, sono propri del terzo, come disposto dall'art. 268 c.p.c. e, in grado di appello, dall'art. 344 c.p.c. (Celeste-Scarpa, 152). Dubbi sono stati avanzati, in passato, da parte della dottrina in merito alla possibilità di intervento in causa del condomino, poiché l'istituto definito dall'art. 105 c.p.c., nel suo complesso, riguarda essenzialmente la partecipazione al processo di soggetto diverso dalle parti originarie. Il condomino, invece, come ribadito più volte dalla giurisprudenza, è già parte del processo per il tramite del suo rappresentante. Da qui deriverebbe che mentre l'amministratore, rappresentante volontario e non legale perché nominato dall'assemblea, è parte formale nel processo (vista la natura del condominio, trattato come ente privo di personalità giuridica), il condomino ne è parte in senso sostanziale. Nella specie, quindi, la costituzione nel processo del condomino rappresenterebbe non tanto un'ipotesi di intervento, in senso tecnico, quanto piuttosto sarebbe assimilabile alla costituzione della parte in sostituzione del suo rappresentante (Crescenzi, 74). Sulla terziarietà del soggetto legittimato all'intervento in causa va registrata altra decisione della Suprema Corte (Cass. II, n. 16665/2017) che, pur se in materia diversa da quella condominiale (nella specie, successoria) ha dettato un principio che potrebbe essere applicato, in via analogica anche al condomino. Ha affermato, infatti, la Suprema Corte che la legittimazione ad intervenire presuppone la terzietà dell'interveniente rispetto alle parti già presenti nel processo ed il potere di intervenire si consuma proprio con l'acquisizione (successiva) della qualità di parte in seguito all'atto di intervento. La predetta legittimazione non può dunque riconoscersi alle persone già presenti nel processo per avere precedentemente acquistato la qualità di parte, sia che si tratti di parti in senso sostanziale (v., tra le altre, Cass. II, n. 826/1997, che ha escluso la legittimazione ad intervenire dei singoli condomini, in quanto parti sostanziali originarie, nel processo iniziato dall'amministratore di condominio a tutela di un diritto comune) sia che si tratti di parti in senso formale (v., tra le altre, Cass. II, n. 2993/1998, che ha escluso la legittimazione all'intervento, in proprio, nel giudizio di appello di colui che aveva agito in primo grado quale rappresentante di una delle parti). C'è da ritenere, quindi, che anche tale decisione abbia influito sul rinvio degli atti al primo presidente della Corte per vedere se ci siano i presupposti per una decisione delle Sezioni Unite sul punto. Il litisconsorzio necessarioAnche al condominio si deve applicare l'art. 102 c.p.c. che definisce il litisconsorzio necessario come la situazione che impone la presenza in giudizio, dal punto di vista attivo o passivo, di più parti quando la sentenza debba essere pronunciata nei confronti di tutte. Mancando una delle parti necessarie il giudice deve ordinare l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio dal medesimo stabilito. Il problema, quindi, per quanto di interesse va esaminato sia con riferimento al profilo dell'esercizio dell'azione, che riguardo alla legittimazione passiva, chiedendosi se debbano essere evocati in giudizio tutti i condomini e, in caso di risposta positiva, se l'azione sia esercitabile nei confronti del solo amministratore. Il contrasto giurisprudenziale che si è formato nel corso degli anni intorno alla questione è stato risolto dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. S.U., n. 25454/2013) le quali hanno affermato che per stabilire se ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario, occorre considerare non le causae petendi (cioè le astratte configurazioni dei rapporti), bensì i petita delle domande giudiziali proposte (da intendersi come gli effetti che si intendono conseguire). Di conseguenza, non sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario ove il condomino attore, invocando che una particella sia condominiale, chieda la condanna di altro condomino convenuto alla demolizione delle opere di delimitazione realizzate sulla particella da questi, il quale si limiti a resistere alla domanda, senza svolgere domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva della particella. Questa sentenza, peraltro, era stata preceduta da altre pronunce di legittimità che avevano operato, sempre nell'ambito delle controversie di cui trattasi ed ai fini della sussistenza del litisconsorzio necessario, un distinguo tra eccezione e domanda riconvenzionale. Aveva infatti affermato la Suprema Corte che, in tema di condominio negli edifici, ove un condomino, convenuto da un altro condomino che vanti il diritto di usare una cosa comune (nella specie, impianto di ascensore), proponga un'eccezione riconvenzionale di proprietà esclusiva al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, non si configura un'ipotesi di litisconsorzio necessario dei restanti condomini, che si verificherebbe, invece, ove egli proponesse, ai sensi degli art. 34 e 36 c.p.c., una domanda riconvenzionale diretta a conseguire la dichiarazione di proprietà esclusiva del bene, con effetti di giudicato estesi a tutti i condomini (Cass. II, n. 4624/2013). Parimenti ove un condomino, convenuto con azione di riduzione in pristino di uno spazio di proprietà comune, proponga un'eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, non si configura un'ipotesi di litisconsorzio necessario in relazione ai restanti condomini, sussistente, invece, in caso di domanda riconvenzionale di riconoscimento della proprietà esclusiva del bene, risolvendosi detta eccezione, che pur amplia il thema decidendum, in un accertamento incidenter tantum, destinato ad esplicare efficacia soltanto fra le parti (Cass. II, n. 14765/2012). Diversamente – come già osservato – ove alcuni condomini, convenuti per l'accertamento della proprietà comune di un bene, propongano domanda riconvenzionale di accertamento della proprietà esclusiva, in base ai titoli o per intervenuta usucapione, deve essere disposta l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, configurandosi un'ipotesi di litisconsorzio necessario, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico e inscindibile; ne consegue che, qualora nessuna delle parti provveda all'integrazione del contraddittorio, l'eccezione di estinzione sollevata dal convenuto, ancorché limitata alla sola domanda riconvenzionale, investe necessariamente l'intero rapporto processuale, e comporta l'estinzione totale del processo (Cass. II, n. 19385/2009). Ipotesi di sussistenza del litisconsorzio necessario Tra le più rilevanti decisioni della giurisprudenza corrente si evidenzia che sussiste l'ipotesi di litisconsorzio necessario per una domanda volta ad ottenere l'accertamento, in capo ad un singolo, della proprietà esclusiva su di un bene altrimenti comune, ex art. 1117 c.c. (Cass. II, n. 20612/2017). Il litisconsorzio, invece, non sussiste quando il condomino, convenuto dall'amministratore con azione di rilascio di uno spazio asseritamente di proprietà comune, proponga un'eccezione riconvenzionale di usucapione al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria (Cass. II, n. 789/2020;Cass. II, n. 26208/2019). Inoltre qualora un condomino, convenuto dall'amministratore per il rilascio di uno spazio di proprietà comune occupato sine titulo, agisca in via riconvenzionale per ottenere l'accertamento della proprietà esclusiva su tale bene, il contraddittorio va esteso a tutti i condomini, incidendo la contro domanda sull'estensione dei diritti dei singoli (Cass. II, n. 24889/2018. Fattispecie avente ad oggetto spazi condominiali destinati alla manovra delle automobili). In questo caso la domanda riconvenzionale (proposta ai sensi degli artt. 34 e 36 c.p.c.), diretta conseguire la dichiarazione di esclusività del bene, fa venire meno la legittimazione passiva dell'amministratore, poiché ove il giudizio venisse deciso nei confronti del solo rappresentante del condominio, ovvero di alcuni dei partecipanti al medesimo, il contraddittorio non si potrebbe ritenere validamente instaurato (Cass.II, n. 25497/2021). Ed ancora nell'ipotesi di azione a tutela del decoro architettonico dell'edificio in condominio, riconducibile all'art. 1122 c.c., quando l'azione stessa sia diretta alla riduzione in pristino e riguardi un immobile comune a più persone. In tal caso sussiste una causa inscindibile per ragioni sostanziali, comportante litisconsorzio necessario tra tutti i comproprietari medesimi, incidendo la condanna all'abbattimento sull'esistenza dell'oggetto della comproprietà spettante a persone estranee al processo. La mancata citazione di uno dei litisconsorti necessari costituisce vizio rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo, e perciò anche nel giudizio di legittimità, se risultante dagli atti e non preclusa dal giudicato sulla questione (Cass. II, n. 4193/2017). In tema di condominio, l'impugnazione di una delibera assembleare ad opera di una pluralità di condomini determina, tra gli stessi, una situazione di litisconsorzio processuale, fondato sulla necessità di evitare eventuali giudicati contrastanti in merito alla legittimità della deliberazione medesima; sicché, ove la sentenza che ha deciso su tale impugnativa sia stata appellata soltanto da alcuni dei detti condomini, l'esito dell'impugnazione si estende anche a quelli che, tra gli originari litisconsorti, non l'abbiano proposta, ancorché la decisione concerna – stante la cessazione della materia del contendere – le sole spese di lite, trattandosi di capo accessorio che condivide il carattere di inscindibilità della causa principale (Cass.VI, n. 19608/2020; Cass. II, n. 22370/2017; Cass. II, n. 2859/2016). Il litisconsorzio necessario passivo sussiste nel caso di un'actio negatoria servitutis solo se, appartenendo il fondo servente pro indiviso a più proprietari, sia diretta anche ad una modificazione della cosa comune (Cass. VI, n. 6622/ 2016;Cass. II, n. 2170/2013). In senso conforme anche la giurisprudenza di merito (App. Bari 13 marzo 2018) secondo la quale l'azione di un condomino diretta alla demolizione, al ripristino o, comunque, alla modificazione dello stato di fatto di elementi di proprietà condominiale (nella specie: accertamento del diritto dell'attore di servitù di aria e di veduta attraverso un muro condominiale, nonchè ripristino di tale servitù, con conseguente condanna ad un facere positivo) deve essere proposta non nei confronti del condominio ma di tutti i condomini, in quanto destinatari della pronuncia richiesta. Qualora l'azione avente ad oggetto la servitù di passaggio in un supercondominio il potere processuale degli amministratori dei singoli condomìni si ferma ai beni comuni del singolo edificio amministrato e non si può estendere agli altri beni facenti parte del complesso immobiliare, che deve essere gestito in modo autonomo, tramite le delibere assembleari e l'amministratore del supercondominio stesso. Mancando tale organo la rappresentanza passiva processuale compete, in via alternativa, o al curatore speciale ai sensi dell'art. 65 disp. att. c.c., oppure a tutti i titolari delle porzioni esclusive ubicate nei singoli edifici (Cass. II, n. 2279/2019). La qualità di litisconsorti necessari di tutti i condomini rispetto alla domanda di scioglimento della comunione, agli effetti dell'art. 784 c.p.c., permane in ogni grado del processo, indipendentemente dall'attività e dal comportamento di ciascuna parte; ne consegue che, se, in fase di appello, l'appellante non abbia provveduto alla citazione di uno o più comunisti, il giudice di secondo grado deve ordinare l'integrazione del contraddittorio in forza dell'art. 331 c.p.c., ancorché in primo grado il giudice abbia accertato la proprietà esclusiva per intervenuta usucapione di alcuni beni di cui si richiedeva la divisione (Cass. II, n. 14654/2013). È stato, ancora, ritenuto che la gronda del tetto di uno stabile condominiale costituisce bene comune, in quanto, essendo parte integrante del tetto e svolgendo una funzione necessaria all'uso comune, ricade tra i beni che l'art. 1117, n. 1), c.c. include espressamente tra le parti comuni dell'edificio; ne consegue che l'azione del condomino diretta alla demolizione della stessa, perché abusivamente eseguita da altro condomino, va proposta nei confronti di tutti i partecipanti del condominio, quali litisconsorti necessari (Cass. II, n. 11109/2007). Il regolamento di condominio c.d. contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l'azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell'amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. II, n. 12850/2008; Cass. II, n. 4920/2006). La sentenza che dichiari la nullità di clausole del regolamento di condominio "contrattuale", accogliendo la domanda proposta nei confronti dell'amministratore di condominio, privo al riguardo di legittimazione passiva, non può, perciò, essere appellata da uno o da alcuni singoli condomini, non essendo comunque idonea a fare stato nei confronti degli stessi (Cass. II, n. 4436/2017), seppure costoro siano, per quanto detto, gli effettivi titolari (dal lato attivo o passivo) del rapporto sostanziale dedotto in giudizio. Tutto ciò alla stregua del principio generale che la legittimazione all'impugnazione, in genere, spetta, fatta eccezione per l'opposizione di terzo, solo a chi abbia formalmente assunto la qualità di parte nel precedente grado di giudizio conclusosi con la sentenza impugnata, poiché con l'impugnazione non si esercita un'azione, ma un potere processuale che può essere riconosciuto solo a chi abbia partecipato al precedente grado di giudizio (giur. costante. Da ultimo Cass. n. 6656/2021). Inoltre, qualora sia chiesta la risoluzione per inadempimento di una transazione con pluralità di parti, avente ad oggetto i beni comuni dell'edificio condominiale e il diritto d'uso di ciascun condomino, sorge la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i contraenti, giacché – configurando il negozio de quo un accordo unico plurisoggettivo e non un insieme di distinti ed autonomi accordi – il rapporto dedotto in giudizio, per la sua unicità, non può essere risolto nei confronti di alcuni e rimanere vincolante ed efficace per gli altri (Cass. II, n. 3105/2005). Nell'ipotesi di appartamento in edificio condominiale ed oggetto di locazione, qualora sia stato violato il divieto contenuto nel regolamento contrattuale di destinare i singoli locali di proprietà esclusiva dell'edificio condominiale a determinati usi, il condominio può richiedere la cessazione della destinazione abusiva sia al conduttore che al proprietario locatore; peraltro, solo nell'ipotesi di richiesta nei confronti del conduttore, si verifica una situazione di litisconsorzio necessario con il proprietario; tale situazione non si verifica invece nell'ipotesi in cui convenuto in giudizio sia soltanto il proprietario del locale e non anche il conduttore dello stesso, nei confronti del quale non vi sia stata pertanto richiesta di cessazione immediata dell'uso cui è adibito il negozio (Cass. II, n. 16240/2003). Nel giudizio avente ad oggetto la domanda di accertamento dell'esistenza di un «ente di gestione autonomo» ovvero di un «condominio autonomo» inerente ad una unità immobiliare costituita da un piano interrato destinato ad autorimesse, sul quale insistono plurimi edifici, costituiti in differenti condomini, questi ultimi condomini devono ritenersi litisconsorti necessari, in quanto la controversia involge l'accertamento della loro estensione «verticale», ovvero della eventuale limitazione dei medesimi alle sole porzioni di edificio poste fuori terra; pertanto, la mancata partecipazione degli stessi al giudizio comporta la nullità del medesimo, con conseguente annullamento delle sentenze di primo e di secondo grado e rimessione della parti davanti al primo giudice (Cass. II, n. 6328/2003). Il litisconsorzio necessario di tutti i condomini è obbligatorio quando la domanda sia diretta ad accertare l'esistenza del supercondominio, ovvero di un rapporto plurisoggettivo tra i partecipanti delle varie palazzine (Trib. Udine 18 maggio 2018, con nota di Amendolagine, 2019). Quando il litisconsorzio non è necessario Un primo rilievo riguarda l'insussistenza del litisconsorzio necessario per le controversie aventi ad oggetto la revisione dei valori proporzionali espressi nella tabella millesimale allegata al regolamento di condominio, poiché con la novella del 2012, può essere convenuto in giudizio unicamente il condominio in persona dell'amministratore. Fermo restando il dubbio interpretativo sul verbo «può» utilizzato dal legislatore e che, quanto al convenuto, potrebbe fare pensare ad una scelta discrezionale lasciata al condomino impugnante. Con recente decisione, la Suprema Corte ha affermato che l'amministratore di condominio è passivamente legittimato, ex art. 1131, comma 2, c.c., rispetto ad ogni azione volta alla determinazione giudiziale di tabelle millesimali che ripartiscano le spese in applicazione aritmetica dei criteri legali giacché, rientrando l'approvazione di tali tabelle nella competenza gestoria dell'assemblea, si versa in presenza di controversia riconducibile alle attribuzioni riconosciute allo stesso amministratore dall'art. 1130 c.c. ed ai correlati poteri rappresentativi processuali, senza alcuna necessità di litisconsorzio di tutti i condomini (Cass. II, n. 19651/2017). Si tratta, nella specie, di una conseguenza diretta di quanto affermato in precedenza dalla stessa Corte (Cass. S.U., n. 18477/2010) la quale aveva chiarito che le tabelle millesimali non devono essere approvate con il consenso unanime dei condomini, essendo a tale scopo sufficiente la maggioranza qualificata dell'art. 1136, comma 2, c.c. e negando, quindi, il loro fondamento unanimistico talché alcuna limitazione, dal lato passivo, può essere posta nei confronti dell'amministratore in relazione alla determinazione delle tabelle oggetto del principio qui esposto. Più specificatamente (App. Venezia 13 aprile 2023, n. 863) , secondo le modifiche introdotte dalla legge n. 220/2012 all'art. 69, comma 2, c.c., l'amministratore di condominio è passivamente legittimato, ex art. 1131, comma 2, c.c., rispetto ad ogni azione volta alla revisione o determinazione giudiziale di tabelle millesimali che ripartiscano le spese in applicazione aritmetica dei criteri legali giacché, rientrando l'approvazione di tali tabelle nella competenza gestoria dell'assemblea, si versa in presenza di controversia riconducibile alle attribuzioni riconosciute allo stesso amministratore dall'art. 1130 c.c. ed ai correlati poteri rappresentativi processuali, senza alcuna necessità di litisconsorzio di tutti i condomini (Cass. VI-2, n. 5453/2022;Cass. II, n. 2635/2021). Il litisconsorzio di tutti i condomini si impone, invece, ove si intenda conseguire la revisione di tabelle millesimali che non rivestano una funzione meramente ricognitiva dei valori e dei criteri stabiliti dalla legge, e da cui risulti espressamente che si sia inteso derogare al regime legale di ripartizione delle spese, ovvero approvare quella "diversa convenzione", di cui all'art. 1123, comma 1, c.c., la quale è espressione di autonomia negoziale (Cass. II, n. 6735/2020). Tra tutte da segnalare che: in tema di condominio negli edifici, va confermato il principio di diritto secondo cui, qualora un condomino agisca per l'accertamento della natura condominiale di un bene, non occorre integrare il contraddittorio nei riguardi degli altri condomini, se il convenuto eccepisca la proprietà esclusiva, senza formulare, tuttavia, un'apposita domanda riconvenzionale e, quindi, senza mettere in discussione – con finalità di ampliare il tema del decidere ed ottenere una pronuncia avente efficacia di giudicato – la comproprietà degli altri soggetti (Cass. II, n. 6334/2015); nella controversia promossa da alcuni condomini per l'accertamento dell'inopponibilità nei loro confronti del regolamento condominiale, redatto dal costruttore in epoca successiva all'acquisto delle rispettive unità immobiliari, deve escludersi l'integrazione necessaria del contraddittorio nei confronti dei restanti condomini, poiché la domanda è riconducibile alle azioni meramente accertative, che non comportano modifiche della situazione giuridica dipendente dal diritto controverso (Cass. II, n. 23224/2013); l'actio negatoria servitutis dà luogo a litisconsorzio necessario passivo solo se, appartenendo il fondo servente pro indiviso a più proprietari, sia diretta anche ad una modificazione della cosa comune, laddove la possibilità che la modifica o la demolizione della res di proprietà del solo convenuto incida, in sede esecutiva, sulla sfera giuridica di soggetti terzi, richiedendone la necessaria cooperazione, non impone l'integrazione del contraddittorio nei confronti di questi ultimi; ne consegue che non sussiste il litisconsorzio necessario di tutti i partecipanti al condominio in ordine alla domanda proposta da un condomino al fine di ottenere la rimozione dal proprio appartamento delle tubazioni di scarico delle acque provenienti dalla soprastante unità abitativa di proprietà individuale (Cass. II, n. 2170/2013); in tema di rapporti condominiali, nel giudizio instaurato a tutela della proprietà comune per l'eliminazione di opere abusive compiute da alcuni condomini, non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri comproprietari, dovendo i singoli convenuti rispondere autonomamente dell'addebitato abuso e potendo ciascuno dei condomini agire individualmente a tutela del bene comune (Cass. II, n. 19329/2009); qualora uno dei condomini, ritenendo, contra legem, una porzione dell'edificio condominiale di sua proprietà abbia eseguito in questa delle opere e alcuni dei condomini, assumendo che trattavasi di aree condominiali abbiano chiesto la rimessione in pristino con demolizione delle opere abusivamente realizzate, nel giudizio così instaurato non deve disporsi l'integrazione del contraddittorio anche nei confronti degli altri condomini (Cass. II, n. 7779/2005); è di natura dichiarativa ed esclude qualunque applicazione delle norme sul litisconsorzio l'azione di accertamento delle modalità di utilizzo, da parte di un condomino, del pluviale di scarico delle acque meteoriche, di proprietà comune, attraverso la costruzione di una tubazione di raccordo tra la grondaia ed il pluviale, inserita anch'essa nel muro perimetrale pure di proprietà comune, nonché l'obbligo di altro condomino, quale proprietario o comproprietario di altro appartamento sito nell'edificio condominiale, e direttamente coinvolto dall'attraversamento, nel muro perimetrale, della tubazione, di consentire tale utilizzazione (Cass. II, n. 3258/2004); le violazioni di norme generali sulla proprietà e sul condominio, ovvero la violazione del regolamento condominiale, poste in essere dai singoli condomini con attività ed iniziative indipendenti (anche se analoghe) e che arrechino separati vantaggi agli immobili dei trasgressori violando i diritti degli altri condomini, pongono in essere rapporti giuridici distinti tra gli autori degli illeciti, da un lato, e il condominio o gli altri condomini dall'altro, i quali, ove dedotti in un medesimo giudizio, danno luogo pur sempre a cause scindibili, non sussistendo un rapporto unico e indivisibile, tale che il giudice non possa conoscere utilmente della posizione di uno separatamente dalla posizione degli altri; ne consegue che, in un procedimento iniziato e proseguito in appello solo da alcuni condomini nei confronti dei supposti autori dei fatti lesivi, non è necessario integrare il contraddittorio nel caso in cui solo alcuni dei predetti convenuti, rimasti soccombenti in appello, propongano ricorso in cassazione, poiché, in ragione della richiamata autonomia dei rapporti, non si versa in una ipotesi di litisconsorzio necessario (Cass. II, n. 2493/2004); il divieto assoluto previsto dal regolamento condominiale di innovazioni e modificazioni costituisce un diritto di servitù a vantaggio delle altre singole unità immobiliari e la reciprocità dei vincoli di tal genere collega singolarmente, in senso verticale, ognuno di coloro che ne beneficiano con ognuno di coloro che ne sono gravati, costituendo dei rapporti distinti anche se connessi; pertanto, in un procedimento iniziato da alcuni condomini per l'accertamento giudiziale di tale divieto, non sussiste l'obbligo di integrazione del contraddittorio in quanto trattasi di ipotesi di litisconsorzio facoltativo e le eventuali decisioni divergenti (positive per alcuni e negative per altri), adottate in procedimenti separati o in gradi diversi dello stesso, non danno luogo a pronunce inutiliter datae, né comportano un contrasto di giudicati, stanti i limiti soggettivi della loro efficacia stabiliti dall'art. 2909 c.c. (Cass. II, n. 3435/2003). La capacità a testimoniare del condominoIn via del tutto generale non possono essere assunti come testimoni i soggetti aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (art. 246 c.p.c.): interesse che deve essere personale e concreto e che potrebbe essere fatto valere in via diretta tramite un intervento nel giudizio pendente. Riportando la norma in ambito condominiale si può dedurre che – come ritenuto dalla costante giurisprudenza – il condomino è incapace a testimoniare. Egli, infatti, non è terzo rispetto al procedimento, ma ne è parte originaria sostanziale (come più volte affermato dai giudici di legittimità), là dove l'amministratore, in considerazione della natura del condominio, è rappresentante formale dello stesso. L'incapacità del condomino in questo senso è stata più volte ribadita dalla giurisprudenza che ha definito insanabile l'incapacità del singolo condomino a testimoniare nelle cause relative al condominio. Questo, invero, si risolve – siccome mero ente di gestione – negli stessi condomini ed è perciò evidente la possibilità, concreta e non solo potenziale, che ogni eventuale condanna al pagamento sia azionabile immediatamente, costituendo essa titolo diretto nei confronti di ciascuno di questi (Cass. II, n. 12911/2012) contro i singoli condomini (Cass. II, n. 17199/2015). Sulla stessa linea precedenti decisioni nelle quali era stato affermato che, nella lite promossa da un condomino nei confronti del condominio in relazione alla ripartizione delle spese sostenute per l'utilizzazione della cosa comune, i singoli condomini, potendo assumere la qualità di parti, sono incapaci di testimoniare (Cass. II, n. 17925/2007). La Corte, tra l'altro, aveva espressamente giudicato isolato e superato il precedente giurisprudenziale secondo il quale, a contrariis nelle cause relative ai rapporti condominiali, il singolo condominio, il quale non rivesta la qualità di amministratore in carica, può essere sentito come teste, secondo una regola generalmente valida in tutte le cause relative a rapporti sociali ed interni ad enti collettivi, là dove il teste, indipendentemente dagli effetti processuali della sua deposizione che risulti favorevole ad una elle parti piuttosto che all'altra, non può dirsi portatore di un concreto interesse personale a partecipare al giudizio, sia pure soltanto ad adiuvandum (Cass. II, n. 12379/1992). Ed ancora è stato ritenuto che la controversia promossa dall'amministratore di condominio, al quale spetta, come mandatario dei condomini, la rappresentanza degli stessi, per la riscossione dei contributi dovuti da ciascun condomino per l'utilizzazione delle cose o dei servizi comuni, configura una lite fra condomini, nella quale questi, in quanto parti, sono incapaci di testimoniare (Cass. II, n. 6483/1997). Nel merito e con recente decisione altro giudice si è uniformato all'orientamento della Corte (Trib. Bologna 9 gennaio 2018). A fronte del lineare e compatto orientamento giurisprudenziale è stato affermato che il singolo condomino resta incapace a testimoniare nel giudizio corrente tra il condominio ed altro condomino o un terzo non perché ogni condomino è automaticamente parte di quel processo, in quanto costituito per il tramite dell'amministratore, ma perché comunque, di regola, portatore di un interesse giuridico, personale, concreto che ne legittimerebbe l'intervento in causa, dando pertanto luogo all'incompatibilità prevista dall'art. 246 c.p.c. (Scarpa, 435). La competenza futura del Giudice di Pace
La competenza del giudice di Pace, disciplinata dall’art. 7 c.p.c., è di natura mista: valore e materia. Per effetto del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, a decorrere dal 28 febbraio 2023, il valore della controversia entro il quale contenere la competenza del giudice di pace è di euro diecimila (in precedenza era di cinquemila). La nuova norma si applica per i procedimenti instaurati successivamente alla data indicata, restando le precedenti controversie sottoposte al regime legislativo all’epoca vigente. Resta , comunque, ferma la competenza funzionale di altro giudice se legislativamente stabilito. Dal 31 ottobre 2021, inoltre, la soglia del valore della controversia per la quale il giudice di pace decide secondo equità si è elevata a 2.500,00 euro. Una notevole rivoluzione, infine, si avrà a partire dal 31 ottobre 2025, allorchè la competenza per valore sarà portata a 30.000,00 euro, mentre quella funzionale o per materia subirà una trasformazione radicale. Per quanto concerne, in particolare, il condominio, il Giudice di pace sarà competente per le controversie di cui all’intero settore, come definite ai sensi dell’art. 71-quater, disp.att.c.c. Non sono mancati notevoli dubbi della dottrina in merito al raggiungimento di uno degli obiettivi che il legislatore si sarebbe posto: la riorganizzazione, sotto il profilo della competenza, dell’ufficio del giudice di pace da considerare nel futuro come il giudice naturale per le controversie condominialiTra le varie disfunzioni evidenziate da rilevare vi era quella concernente l'impugnativa della deliberazione assembleare, che in futuro dovrà essere affidata alla competenza del giudice di pace, e la sua sospensiva che, invece, dovrà essere proposta ( sia che questo avvenga ante causam, sia nel corso di una lite pendente) davanti al Tribunale, stante il chiaro disposto di cui agli artt. 669-ter, comma 2, e 669-quater, comma 3, c.p.c. E proprio con riferimento a tale situazione è stato osservato come la soluzione legislativa si riveli antieconomica, perché due giudici si occuperebbero di una medesima vicenda, che può essere tranquillamente gestita da uno solo, cioè quello onorario, mentre il giudice togato, investito dell'inibitoria, è tenuto pur sempre ad esaminare l'intera causa, sia pure in via di delibazione sommaria per la verifica dei presupposti (fumus boni iuris e periculum in mora) per la concessione del provvedimento cautelare. Per altro verso la nuova normativa si rivelerebbe anche incoerente, poiché è solo il giudice del merito della causa che, più di ogni altro, è in grado di valutare la necessità o l'opportunità della tutela anticipatoria, mentre il provvedimento di sospensione da parte del Tribunale è destinato inevitabilmente ad essere assorbito (in senso positivo o negativo) dalla sentenza finale del Giudice di Pace (Celeste, 657). Ugualmente critica altra dottrina sul punto, che prevede il passaggio al Giudice di Pace della competenza per i procedimenti di volontaria giurisdizione, in considerazione della diversa complessità degli stessi (nomina e revoca dell'amministratore da parte dell'autorità giudiziaria), che dovrebbe piuttosto determinare una differente ripartizione di competenza tra Giudice di Pace (nel primo caso) e Tribunale (nel secondo), mentre allorché si parli di applicare le norme previste per la comunione al condominio (art. 1105 c.c.) la disciplina tra i due istituti dovrebbe essere resa omogenea (Scalettaris, 173; De Santis, 249). Detto questo per le cause condominiali la competenza viaggia su tre direttrici: territoriale, per materia e per valore ed impegna tanto il Giudice di Pace quanto il Tribunale. Competenza territorialeLa competenza territoriale è di carattere esclusivo e trova la sua fonte nell'art. 23 c.p.c. come parzialmente innovato dalla l. n. 220 del 2012 che, per le cause tra condomini, ovvero tra condomini e condominio, ha stabilito che sia competente il giudice del luogo dove si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi precisando, al comma 2, che la norma trova applicazione anche dopo lo scioglimento del condominio, a condizione che la domanda sia stata proposta entro il biennio dalla divisione. La modifica introdotta dal legislatore nel 2012 non ha potuto fare altro che recepire l'orientamento espresso sul punto dalla Corte di Cassazione, nella sua massima formazione, la quale aveva affermato che l'art. 23 c.p.c., che introduce un foro speciale esclusivo per le controversie tra condomini, stabilendo che per esse è competente il giudice del luogo in cui si trova l'immobile condominiale, trova applicazione anche alle liti tra condomino ed amministratore in ordine al pagamento dei contributi per l'utilizzazione delle cose comuni, agendo l'amministratore, nell'attività di riscossione, nella sua veste di mandatario con rappresentanza dei singoli condomini (Cass. S.U., n. 20076/2006). Quindi, non un'interpretazione restrittiva della norma, da coordinare con l'art. 21 c.p.c. (che già prevede il foro speciale per le cause relative a diritti reali immobiliari e per le cause societarie), ma estensibile a qualunque controversia che insorga nell'ambito condominiale per ragioni afferenti al condominio, senza distinguere tra rapporti giuridici attinenti alla proprietà, all'uso e godimento delle cose comuni o al pagamento dei contributi condominiali, quand'anche veda contrapposto un singolo partecipante a tutti gli altri, ciascuno dei quali è singolarmente rappresentato dall'amministratore. In relazione alla decisione del massimo giudice di legittimità è stato osservato che il presupposto per l'applicabilità del citato art. 23 c.p.c. andava individuato nel fatto che tanto l'attore, quanto il convenuto avessero la qualità di condomino in relazione ai «beni comuni» o alla «maggior parte di essi» che si trovavano nel luogo ove andava incardinato il giudizio, ma anche che le controversie che insorgevano tra l'amministratore del condominio ed il singolo condomino, in ordine all'attività di gestione della cosa comune, dovevano essere considerate alla stregua delle liti tra condomini e, quindi, regolate, quanto all'individuazione della competenza per territorio del giudice destinato a conoscerne, dalla disposizione dell'art. 23 c.p.c. (Celeste, 212). Altro autore ha evidenziato quanto sia poco realistica la previsione di beni comuni che si trovino in luoghi diversi (Scalettaris, 433). Il principio espresso dalle Sezioni Unite della cassazione è stato ribadito, prima, affermando che in materia di cause condominiali, il foro speciale esclusivo di cui all'art. 23 c.p.c., che prevede la competenza per territorio del giudice del luogo in cui si trovano i beni comuni, trova applicazione anche per liti tra il condominio ed il singolo condomino (Cass. II, n. 11008/2011) e, poi, nel senso che il foro di cui all'art. 23 costituisce foro speciale rispetto al foro generale e costituisce un foro esclusivo, insuscettibile di deroga in favore di fori alternativi rimessi alla scelta dell'attore in base a diversi criteri territoriali di collegamento, onde le controversie de quibus devono proporsi, necessariamente, davanti al giudice del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi (Cass. II, n. 9071/2014). Tuttavia, vi è stato modo di precisare che il foro speciale esclusivo del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi, previsto dall'art. 23 c.p.c. per le cause tra condomini, può essere validamente derogato in presenza di un accordo tra le parti sul punto, come ad esempio nel caso in cui il regolamento condominiale preveda un foro convenzionale per le controversie relative al regolamento stesso (Cass. II, n. 17130/2015) , che è l'atto di autoorganizzazione a contenuto tipico normativo approvato dall'assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell'art. 1136 c.c. e che contiene, tra le altre, le norme circa l'uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione (Cass.I I, n. 1068/2022). Ancora più illuminante altra pronuncia dei giudici di legittimità i quali hanno affermato che la sfera di applicazione dell'art. 23 c.p.c., che prevede per le cause tra condomini il foro speciale esclusivo del giudice del luogo in cui si trova l'immobile condominiale, non è limitata alle liti tra singoli condomini attinenti ai rapporti giuridici derivanti dalla proprietà delle parti comuni dell'edificio o dall'uso e godimento delle stesse, ma comprende qualsiasi controversia possa insorgere nell'ambito condominiale per ragioni afferenti al condominio, inclusa la causa promossa da un condomino per ottenere la condanna di un altro condomino al risarcimento del danno da infiltrazioni idriche provenienti dall'appartamento sovrastante, come pure la domanda con cui il condomino convenuto tenda a riversare sul condominio ogni responsabilità, sul presupposto della provenienza del danno da parti comuni dell'edificio (Cass. II, n. 180/2015). La legislazione ha risolto, ai fini della determinazione del foro di competenza territoriale, il problema che si pone quando parte di un giudizio di natura condominiale sia un magistrato nella veste di attore, di convenuto o di interveniente. Per tali soggetti l'art. 30-bis, comma 1, c.p.c., introdotto dall'art. 9 della l. 2 dicembre 1998, n. 420, aveva stabilito che in tali casi il giudizio non si potesse svolgere nel distretto di Corte d'Appello dove il magistrato esercita le sue funzioni, ma dovesse essere affidato ad altro giudice, ugualmente competente per materia ma con sede nel capoluogo del distretto di Corte d'Appello determinato ai sensi dell'art. 11 c.p.p. Tale norma, il cui intento era quello di garantire l'imparzialità del giudice, è stata tuttavia svuotata del suo contenuto per effetto di plurime decisioni della Corte Costituzionale la quale, in un primo momento, aveva dichiarato incostituzionale l'art. 30-bis c.p.c., nella parte in cui non escludeva che la speciale regola di competenza per territorio che esso prevede trovi applicazione, in deroga ai normali criteri di competenza, di cui all'art. 26 c.p.c., ai processi di esecuzione forzata promossi da o contro magistrati in servizio nel distretto di corte d'appello comprendente l'ufficio giudiziario che sarebbe stato competente in applicazione di quei criteri (Corte cost., n. 444/2002). Quindi, sempre lo stesso organo costituzionale aveva dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 30-bis, comma 1, c.p.c., nella parte in cui prevedeva che le cause in cui sono comunque parti magistrati – che, in base alle disposizioni del codice di procedura civile, sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni – sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, avente sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'art. 11 c.p.p., ad eccezione della parte relativa alle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato, di cui sia parte un magistrato, nei termini di cui all'art. 11 c.p.p.(Corte cost., n. 147/2004). Da ultimo, i giudici di legittimità, sulla base dei precedenti pronunciamenti della Corte costituzionale hanno ritenuto che, per effetto della sentenza della Corte cost. n. 147/2004, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 30-bis, comma 1, c.p.c., lo spostamento della competenza nei giudizi civili in cui sia parte un magistrato è configurabile solo nelle azioni civili concernenti le restituzioni e il risarcimento del danno da reato; pertanto, le opposizioni ad ordinanza ingiunzione, anche se proposte da un magistrato, seguono le ordinarie disposizioni regolative della competenza territoriale, dovendosi escludere, sulla base della motivazione della sentenza della corte costituzionale, qualsiasi assimilazione analogica tra tali giudizi e quelli penali o quelli aventi ad oggetto il risarcimento del danno da reato (Cass. II, n. 19996/2007;Trib. Roma 23 ottobre 2018). Altra questione concerne la controversia tra condominio ed amministratore, quando questi agisca in giudizio per fare valere un proprio diritto. È stato affermato che l'art. 23 c.p.c. non si applica nell'ipotesi in cui l'amministratore del condominio – nella specie, nominato giudiziariamente – agisca per il conseguimento del compenso liquidatogli dal giudice, e, cioè, per la tutela di un proprio interesse personale e non in rappresentanza di condomini nei confronti di altri condomini, senza che possa, in contrario, spiegare influenza la circostanza che l'attività svolta dall'amministratore stesso sia disciplinata dalle norme sul mandato, atteso che non tutte le azioni proposte dal predetto rivestono, di per ciò solo, natura condominiale (come appunto nel caso in cui vengano richieste somme a lui esclusivamente destinate). Ne consegue che, esclusa l'applicabilità della norma di cui all'art. 23 c.p.c., l'individuazione del giudice competente per territorio va compiuta, trattandosi di vertenza avente ad oggetto una somma di danaro, ai sensi del precedente art. 20 stesso codice (Cass. II, n. 5235/2000). A questo riguardo, però, andrebbe considerato che se l'amministratore svolge attività con carattere professionale a queste ultime controversie si dovrebbero applicare le regole fissate dal codice del consumo (Scalettaris, 433). Non sussiste alcun problema in merito alla competenza territoriale nel procedimento di mediazione, istituto propedeutico al contenzioso giudiziario, poiché l'art. 71-quater, disp. att. c.c., che è finalizzato alla composizione stragiudiziale e bonaria della lite, ha stabilito, al di là di ogni ragionevole dubbio, che la relativa domanda deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso l'organismo ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale il condominio è situato. In tema di competenza territoriale concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, che riguardano la nomina e la revoca dell'amministratore da parte dell'autorità giudiziaria (art. 1129, commi 1 e 11, c.c.), la nomina del curatore speciale (art. 65 disp. att. c.c.) e l'applicabilità al settore condominiale dell'art. 1105 c.c. (secondo il quale quando non si prendano i provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune o non si formi la maggioranza, ovvero se la deliberazione adottata non sia eseguita, ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria, che provvede in camera di consiglio e può anche nominare un amministratore), non sorgono problemi di sorta in relazione alla piena applicabilità dell'art. 23 c.p.c. È stato osservato che sul punto occorre tenere conto, da un lato, il citato art. 23 c.p.c., secondo cui «per le cause tra condomini» è competente il giudice del luogo dove si trovano i beni comuni (o la maggior parte di essi) e, dall'altro lato, l'art. 28 c.p.c., secondo cui è inderogabile la competenza territoriale concernente i «procedimenti in camera di consiglio» (come, appunto, quelli contemplati dagli artt. 1105 e 1129 c.c.). È stato, a questo proposito, precisato che, anche se il riferimento al concetto di «causa», contenuto nell'art. 23 c.p.c., si attaglia ad ipotesi di giurisdizione contenziosa, lo stesso richiamo ai previsti procedimenti camerali operato dal successivo art. 28 induce a ritenere l'operatività delle disposizioni sulla competenza anche in materia di volontaria giurisdizione; del resto, tale soluzione appare aderente alla complessiva logica del sistema normativo, che tende ad individuare il giudice territorialmente competente in tema di «volontaria», in funzione del luogo ove ha il domicilio o la sede il soggetto, il cui interesse viene in rilievo nell'ambito del relativo procedimento. Ulteriore elemento a favore è stato individuato nella nuova formulazione dell'art. 38, comma 1, c.p.c., secondo il quale l'incompetenza per territorio deve essere eccepita, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta e deve indicare il giudice competente, mentre il giudice adito la può rilevare d'ufficio non oltre la «prima udienza di trattazione» (comma 3). Il tutto con il ragionevole dubbio che il momento preclusivo della rilevabilità della competenza, cui fa riferimento il disposto di cui sopra, non sembra agevolmente individuabile nei procedimenti camerali de quibus, nei quali non si ha una vera e propria prima «udienza di trattazione» (Crescenzi, 257). Una decisione di livello europeo ha determinato quale sia il giudice territorialmente competente per le controversie in materia di pagamento delle spese condominiali allorché l’amministratore di un condominio, sito in uno Stato europeo, intenti un’azione giudiziaria dinanzi al Tribunale distrettuale di quello Stato ove è situato l’immobile, nei confronti di condomini, proprietari di unità immobiliare sita nell’edificio condominiale ma domiciliati in altro Stato. Secondo tale decisione la delibera dell’assemblea condominiale rientra nella materia contrattuale e deve essere considerata come un contratto di prestazione di servizi in cambio di un corrispettivo (pagamento oneri condominiali) con conseguente competenza giurisdizionale dell’autorità del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio, in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto (Corte di Giustizia UE, 8 maggio 2019, causa C 25/18, con nota Petrelli, 2019). Competenza per materiaAl di là di quelle che saranno le nuove competenze del giudice onorario, al momento in ambito condominiale l'art. 7 c.p.c. stabilisce una competenza esclusiva ed inderogabile del Giudice di Pace che non è toccata dal valore della controversia e che viene determinata automaticamente in ragione dell'oggetto della controversia. Una volta, infatti, che sia stato individuato che l'oggetto rientra nell'ambito delle controversie che devono essere trattate dal Giudice di Pace, l'esame del valore della causa è superfluo. La norma, quindi, non è suscettibile di alcuna interpretazione in considerazione del chiaro dettato legislativo, anche se problemi interpretativi si sono posti con riferimento alla nozione di misura è modalità d'uso dei servizi di condominio di case (art. 7, n. 3, c.p.c.). Qualora l’autorità amministrativa (nella specie: il Sindaco) emetta un provvedimento di carattere amministrativo, quale un atto di diffida ad assumere i provvedimenti necessari per evitare i pericoli per l’incolumità dei cittadini, in relazione ad accertati distacchi di intonaco dal muro sulla via pubblica, profilando la possibilità che, in caso di inerzia da parte del condominio, sarà la stessa P.A. ad adottare le misure necessarie con spese a carico del destinatario, si entra nel campo della giurisdizione. La Corte di cassazione a sezioni unite (Cass. S.U., n. 31753/2019) ha affermato che quando la contestazione del provvedimento amministrativo da parte del condominio sia rivolta al modus operandi della P.A., deducendo in giudizio una pretesa, che ha natura di interesse legittimo e che non mette in dubbio il potere dell’ente locale di adottare tale provvedimento ma l’esercizio del medesimo potere, la giurisdizione spetta al Tribunale amministrativo. Tanto più che il Sindaco, quale ufficiale di Governo, è tenuto ad adottare, con atto motivato, i provvedimenti, anche contingenti ed urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di eliminare i gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 54, comma 4). E rispetto a tali atti sussiste, per legge, la giurisdizione del giudice amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 133, comma 1, lett. q). Messa a dimora di alberi e siepi Il giudice onorario è competente per le liti aventi ad oggetto il rispetto delle distanze legali in materia di messa a dimora di alberi e siepi(artt. 7, comma 3, n. 1, c.p.c. e 892 ss. c.c.). La violazione dell'art. 892 c.c., disposizione di portata generale, dà diritto al vicino di esigere, secondo il disposto dell'art. 894 c.c., che gli alberi e le siepi nate o piantate in violazione della norma siano estirpate, è pienamente applicabile alla materia condominiale, talché il diritto ivi tutelato si configura con riferimento alle parti comuni dello stabile con la conseguente estensibilità al possessore, all'enfiteuta, al superficiario ed all'usufruttuario. Tutto ciò in quanto tale diritto si sostanzia in una facoltà inerente al diritto di proprietà, come tale imprescrittibile, a meno che il proprietario del fondo non abbia acquistato regolarmente (per contratto, per destinazione del pater familias od usucapione) la servitù di tenere gli alberi a distanza inferiore. Nel caso in cui un condomino chieda il risarcimento dei danni ed, innanzitutto, l'eliminazione totale o parziale di alberi che, piantati a distanza ravvicinata l'uno dall'altro in un'aiuola comune, con le loro chiome a ridosso del proprio alloggio impediscano l'ingresso a questo dell'aria e della luce, tale questione deve essere risolta non soltanto alla stregua dell'art. 892 c.c., occorrendo invece indagare se la mancata manutenzione degli alberi, anche se piantati alla distanza legale, non costituisca un comportamento negligente del condominio, idoneo a cagionare ingiusto danno ed a violare il principio per il quale l'uso delle parti comuni non deve mai risolversi in pregiudizio di alcun condomino (Cass. II, n. 9829/1992: decisione adottata con riferimento a fattispecie antecedente all'entrata in vigore della riforma del 1990, concernente la figura del Giudice di Pace). Ai fini specifici dell'usucapione del diritto a tenere alberi a distanza dal confine inferiore a quella di legge, il termine decorre dalla data del piantamento, perché è da tale momento che ha inizio la situazione di fatto idonea a determinare, nel concorso delle altre circostanze richieste, l'acquisto del diritto per decorso del tempo. (Cass. II, n. 21855/2007). Tra le controversie più comuni legate a questo problema si segnalano, ad esempio, quelle che potrebbero nascere dai dissesti causati dalle radici degli alberi che, propagandosi orizzontalmente nel sottosuolo ed invadendo l'altrui fondo, potrebbero incontrare le tubazioni dell'acqua, della luce e/o del gas, avvilupparsi ad esse procurandone la rottura, estendersi sotto i pavimenti causandone il sollevamento fino ad avere – nei casi più gravi – effetti sulla stabilità di un immobile edificato in prossimità del confine. Ed ancora, più semplicemente, si ricordano le altre questioni che possono derivare alla diminuzione dell'aria, della luce e del panorama. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, il Giudice di Pace è competente a trattare anche le controversie aventi ad oggetto la tutela dalla invasione di alberi e/o siepi che abbiano uno sviluppo abnorme in altezza. Deve essere, quindi, presentata al giudice onorario la domanda volta ad ottenere la recisione di una siepe di alloro esistente nella proprietà del vicino a ridosso del muro di confine per la parte in cui essa superi in verticale, l'altezza del muro, trattandosi di domanda riconducibile alla previsione dell'art. 892, ultimo comma c.c., diversamente dalla domanda volta alla recisione dei rami protesi in orizzontale, invadenti l'altrui proprietà (regolata dall'art. 896 c.c.), rientrante nella competenza del giudice unico di tribunale (Cass. II, n. 32/2006; Cass. II, n. 859/2000). Malgrado la comune ratio delle due disposizioni di legge, individuabile nell'esigenza di impedire che il proprietario di un fondo, nel procedere alla messa a dimora di alberi o siepi, determini, con qualsivoglia comportamento, una situazione potenzialmente dannosa per il fondo contiguo, va considerato che la competenza del Giudice di Pace, in materia condominiale, non può essere estesa alle controversie che interessano il condominio sotto il profilo del diritto di proprietà, ovvero a quelle che sono connesse con l'art. 896 c.c. Il Giudice di Pace può decidere solo per le controversie promosse in via ordinaria mentre, qualora sussistano i presupposti per una azione cautelare (azione di manutenzione ex art. 1170 c.c., procedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c., azione di danno temuto ex art. 1172 c.c.) la relativa competenza è demandata al Tribunale, come previsto dal combinato disposto degli artt. 669-ter, comma 2 e 669-quater, comma 3, c.p.c. Misura e modalità d'uso dei servizi di condomini di case La differenza tra la nozione di misura e di modalità d'uso dei servizi comuni è oramai pacificamente acquisita dalla giurisprudenza costante. Per modalità d'uso si intende il modo più conveniente ed opportuno di godimento dei beni e dei servizi collettivi, mentre la misura d'uso coincide con il limite quantitativo della fruizione del bene nel tempo e nello spazio. Le cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi del condominio, di competenza del Giudice di Pace, sono sia quelle che riguardano le riduzioni o limitazioni quantitative del diritto di godimento dei singoli condomini sulle cose comuni, sia quelle che concernono i limiti qualitativi di esercizio delle facoltà comprese nel diritto di comunione, in proporzione delle rispettive quote, mentre sono assoggettate alle ordinarie regole della competenza per valore quelle aventi ad oggetto la contestazione della titolarità del diritto di comproprietà sulle cose comuni. In applicazione del principio, in sede di regolamento, la Corte ha riconosciuto la competenza del Giudice di Pace nell'azione proposta da un condomino al fine di contestare la legittimità dell'individuazione assembleare del posto auto ad esso assegnato senza tenere conto dell'eccessiva difficoltà di accesso ed uscita dallo stesso (Cass. II, n. 3937/2008; Cass. II, n. 4256/2006; Cass. II, n.11861/2005). Diversamente, la controversia che riguardi i limiti di esercizio del diritto del condomino sulla sua proprietà esclusiva, derivanti da una clausola del regolamento condominiale, non rientra tra le cause relative alla misura ed alle modalità d'uso dei servizi di condominio, di competenza del Giudice di Pace, che attengono alle riduzioni quantitative del diritto di godimento dei singoli condomini sulle parti comuni e ai limiti qualitativi di esercizio delle facoltà comprese nel diritto di comunione in proporzione alle rispettive quote (Cass. II, n. 23297/2014). Le controversie innanzi elencate sono quelle sorte tra condòmini o tra il condominio ed il condomino, ma è noto che alla comunità condominiale, a volte, partecipano persone che usano le parti o servizi comuni ad altro titolo in quanto, ad esempio, conduttori di unità immobiliari facenti parte dell'edificio condominiale. In questo caso si è posto il problema se la competenza per materia in oggetto del Giudice di Pace si estenda anche alle controversie che possano sorgere con o tra le predette persone (Tamburro, 259). La risposta affermativa viene dalla giurisprudenza che con risalente decisione ha affermato che la competenza del Giudice di Pace (prima Conciliatore) sulle cause relative alle modalità di uso dei servizi e dei beni condominiali si estende non solo alle controversie tra i condomini o tra il condominio ed il condomino, ma anche alle liti che interessano soggetti diversi dai partecipanti alla comunità condominiale, legittimati, per altro titolo (quale, ad esempio, la locazione di unità immobiliari dell'edificio), all'uso delle parti o dei servizi comuni (Cass. II, n. 7295/1995). Detto questo ed a titolo meramente esemplificativo si può tranquillamente individuare quale siano le fattispecie più comuni per le quali il Giudice di Pace è competente per materia. Vi è da premettere che in tema di impugnazione di deliberazione assembleare, il riparto di competenza deve avvenire in base al principio contenutistico, ossia con riguardo al tema specifico del deliberato assembleare di cui l'attore si duole; ne consegue che è devoluta alla competenza per materia del giudice di pace – in quanto attinente alle modalità di uso dei servizi condominiali, ai sensi dell'art. 7, comma 4, n. 2), c.p.c. – la controversia relativa alle modalità di custodia della chiave di accesso al lastrico solare, a nulla rilevando che l'attore abbia dedotto, come fondamentale motivo di censura, la mancata inclusione di tale oggetto nell'ordine del giorno dell'assemblea condominiale (Cass. II, n.7074/2011). Sono, ancora, devolute alla competenza del giudice onorario le controversie aventi ad oggetto: l'installazione di apertura automatica del portone di ingresso dello stabile mediante citofoni sistemati nelle singole unità immobiliari, nonché l'adozione dell'uso della chiave per l'utilizzo dell'ascensore (Cass. II, 4256/2006); l'orario di chiusura del portone dell'edificio condominiale (Cass. II, n. 10892/98); le contestazioni in merito alla legittimità dell'individuazione assembleare del posto auto assegnato al condomino senza tenere conto dell'eccessiva difficoltà di accesso ed uscita dallo stesso (Cass. II, n. 3937/2008); la modalità di uso dell'area comune destinata a parcheggio dei veicoli dei condomini, quando una delibera assembleare abbia consentito ad un solo condomino di parcheggiarvi due vetture (Cass. II, n. 11861/2005; Cass. II, n. 772/1997); la possibilità di utilizzare i muri condominiali per assicurare cavi elettrici, installare sui muri stessi o su tetti o su terrazze pure comuni centraline elettroniche ed antenne TV. In tal caso, infatti, gli interventi rappresentano una modalità di uso di detti beni, per cui la controversia nella quale si discuta della legittimità o meno di tale forma di utilizzazione, perché contraria ad una espressa esclusione posta dal regolamento condominiale o da una deliberazione assembleare ovvero perché incompatibile con l'esercizio da parte degli altri condomini di loro concorrenti alla facoltà della stessa natura sul medesimo bene, concerne non il diritto di comproprietà o il diritto di esercitarne in generale le relative facoltà, ma soltanto il limite qualitativo o quantitativo a seconda della contestazione sollevata della particolare facoltà di utilizzare in tal guisa i beni comuni e rientra, pertanto, nella competenza per materia del Giudice di Pace ai sensi dell'art. 7 c.p.c. (Cass. II, n. 14527/2001). Non si può parlare di competenza per materia senza riportare l'attenzione sull'art. 1102 c.c. La norma, in virtù dell'espresso richiamo contenuto nell'art. 1139 c.c., pur se relativa alla comunione è pacificamente applicabile anche al condominio degli edifici, poiché consente ai condomini di servirsi della cosa comune entro i limiti fondamentali dalla stessa indicati: mantenimento della destinazione d'uso e contenimento quantitativo e qualitativo dell'uso in modo da garantire ai partecipanti un pari utilizzo del bene comune secondo il proprio diritto. In merito alla nozione di pari uso la giurisprudenza ha correlato due principi fondamentali: la pariteticità e l'utilizzazione che gli altri condomini potrebbero fare in concreto dello stesso bene comune. Ne consegue che al condomino è vietato, da un lato, alterare (nel senso di modificare e trasformare) la destinazione della cosa stessa e, dall'altro, impedire (nel senso di ostacolare e/o interrompere) l'utilizzazione della res communis da parte dell'intera compagine condominiale (ovvero anche solo di alcuni condomini). Il tutto fino all'estrema evenienza di attrarre il bene o parte di esso nell'orbita della propria disponibilità esclusiva, sottraendolo alla possibilità dell'altrui godimento. La nozione di pari uso della cosa comune non va intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, dovendo ritenersi conferita dalla legge a ciascun partecipante alla comunione la facoltà di trarre dalla cosa comune la più intensa utilizzazione, a condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione. Ne consegue che, qualora sia prevedibile che gli altri partecipanti alla comunione non faranno un pari uso della cosa comune, la modifica apportata alla stessa dal condomino deve ritenersi legittima, dal momento che in una materia in cui è prevista la massima espansione dell'uso il limite al godimento di ciascuno dei condomini è dato dagli interessi altrui, i quali pertanto costituiscono impedimento alla modifica solo se sia ragionevole prevedere che i loro titolari possano voler accrescere il pari uso cui hanno diritto (Cass. II, n. 8808/2003). Le immissioni che superino la normale tollerabilità Per effetto dell'art. 7, comma 3, n. 3), c.p.c., il Giudice di Pace è competente a conoscere delle cause relative a rapporti tra proprietari o detentori di immobili adibiti a civile abitazione in materia di immissioni di qualsivoglia genere (fumo, calore, esalazioni, rumori e quant'altro) a condizione che superino la normale tollerabilità. La materia, in via generale, è disciplinata dall'art. 844 c.c. che è pacificamente applicabile in ambito condominiale ed interessa sia i rapporti diretti tra i condomini (nel qual caso l'amministratore di condominio non avrà alcuna legittimazione attiva per intervenire giudizialmente per fare cessare la turbativa) sia quelli che coinvolgono la proprietà individuale con la cosa comune. Il divieto posto a carico del condomino di non recare danno, nella parte di sua esclusiva proprietà ai beni comuni, non ha per oggetto solo le opere materiali ma si riferisce a qualunque tipo di attività che, pur avendo la loro sede nella proprietà esclusiva, siano tali da esercitare un'influenza dannosa oltre i confini della stessa (Rizzi L.-Rizzi V., 499). Per il profilo meramente processuale (per la parte sostanziale delle immissioni si rinvia all'analisi dell'art. 1130 c.c.) del giudizio incardinato dinanzi al Giudice di Pace, si osserva che, di norma, la produzione di immissioni si configura come situazione di carattere urgente, per cui l'azione esperibile dal condominio si avvia con il deposito di un ricorso d'urgenza ex art. 700 c.p.c. da presentarsi, per effetto del disposto dell'art. 669-terc.p.c., dinanzi al Tribunale e non al Giudice di Pace. L'eventuale (per effetto dell'art. 669-octies c.p.c.) successiva fase di merito, invece, dovrà essere promossa dinanzi a quest'ultimo. Se, poi, il giudizio sia stato promosso in via ordinaria dinanzi al Giudice di Pace, e si verifichino in corso di causa fatti che richiedano l'emissione di un provvedimento urgente, il ricorso ex art. 700, andrà sempre depositato al Tribunale, competente per i giudizi cautelari ai sensi dell'art. 669-quater c.p.c., mentre la causa di merito seguirà la sua strada. Soggetto passivo dell'azione è, a seconda dei casi, il condominio o il proprietario esclusivo dell'immobile dal quale provengono le immissioni. Qualora rumori, fumi ed odori, di entità superiore alla normale tollerabilità, siano presenti in un appartamento locato il conduttore, molestato nel godimento della porzione immobiliare può agire nei confronti del proprietario, se le immissioni siano determinate da parti strutturali dell'immobile, ovvero direttamente nei confronti del condominio se siano interessate componenti dei beni comuni. Per valutare il superamento della normale tollerabilità non si può prescindere dalle normali modalità di utilizzo degli immobili e dal livello di rumorosità della zona. Il limite di tollerabilità, infatti, non è mai assoluto ma relativo in ragione della situazione ambientale; varia da luogo a luogo a seconda delle caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia della fascia rumorosa costante della zona sulla quale si inseriscono i rumori ritenuti abnormi (Cass. II, n. 28201/2018). Considerato che, nelle controversie condominiali, sono comprese non solo quelle nelle quali una delle due parti sia rappresentata dal condominio, ma anche quelle che possano insorgere tra i condomini, assume rilevanza anche il caso in cui, in ipotesi di immissioni, il soggetto danneggiato evochi in giudizio solo il proprietario e non anche il conduttore o, comunque, solo quest'ultimo. La fattispecie è ricorrente, soprattutto con riferimento all'esercizio di attività commerciali. La Corte di Cassazione ha affermato che non sempre il proprietario può essere ritenuto responsabile di tali eventi ed ha ritenuto che la domanda volta ad ottenere il risarcimento del pregiudizio di natura personale subìto in conseguenza di immissioni illegittime va proposta nei confronti del soggetto individuato dal criterio di imputazione della responsabilità, che può essere l'autore (morale o materiale) del fatto illecito, allorché il criterio di imputazione sia la colpa o il dolo, ovvero il custode della cosa, qualora detto criterio si identifichi nel rapporto di custodia ex art. 2051 c.c. (Cass. II, n. 11125/2015: nella specie, si è ritenuto che la responsabilità dei ricorrenti non potesse fondarsi sul solo presupposto che essi fossero i proprietari del locale adibito a ristorante dal quale provenivano le immissioni intollerabili, dovendosi invece accertare se essi avessero effettivamente concorso alla realizzazione del fatto dannoso quali autori o coautori assieme al conduttore titolare dell'attività). In argomento, anche se con riferimento a fattispecie intercorsa tra due condomini, è stato rilevato – con valenza di carattere generale – che il danno alla salute non può ritenersi sussistente in re ipsa. Infatti, l'assenza di un danno biologico documentato, peraltro, non osta al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, allorchè siano stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno dell'abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (Cass. II, n. 21554/2018; Cass. S.U., n. 2611/2017). Da quanto rilevato emerge che il condominio può assumere anche la veste di danneggiato, per cui la legittimazione all'azione spetta all'amministratore il quale, per il combinato disposto degli artt. 1130 e 1131, può agire in giudizio verso il responsabile anche senza apposita delibera assembleare, essendo tenuto a compiere tutti gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dello stabile. Lo stesso discorso vale nel caso di chiamata in causa del condominio, fermo restando che l'amministratore è tenuto a dare immediata comunicazione all'assemblea del giudizio in corso e dell'ampliamento dell'azione verso il chiamato. Anche in tema di immissioni vale il principio sancito dall'art. 81 c.p.c. secondo il quale nessuno può fare valere in giudizio un diritto altrui in nome proprio salvo i casi espressamente previsti dalla legge. Quindi, se l'amministratore può agire direttamente solo per tutelare la collettività da immissioni nocive, vi è uno spazio residuale nel quale l'azione è ammessa anche in favore dei diritti del singolo condomino. Questo avviene quando sia stato conferito specifico mandato all'amministratore dai diretti interessati, oppure allorché vi sia stata una delibera unanime dei condomini in questo senso (Trib. Trani 29 giugno 2020, n. 1012 con nota Izzo, 2020). Competenza per valoreL'ultimo profilo che interessa la competenza riservata al Giudice di Pace in ambito condominiale è contenuto nell'art. 7, comma 1, c.p.c. il quale, per ogni tipo di controversia, pone il limite di conoscenza della lite nell'importo di euro cinquemila. La norma deve essere integrata con il successivo art. 10 c.p.c. che indica i criteri che determinano il valore della causa. Nessun problema se il condominio deve recuperare un credito condominiale (di norma tramite procedimento monitorio, ex artt. 633 ss. c.p.c.), perché il testo dell'art. 7 citato è pacifico anche se, come stabilito dall'art. 10 c.p.c.al credito devono essere sommati gli interessi maturati prima della domanda. Quindi, nel caso si trattasse di morosità il calcolo degli interessi, potrebbe spostare la competenza dal Giudice di Pace al Tribunale. Ai fini della determinazione del valore della causa, infatti, deve tenersi conto, a norma dell'art. 10 c.p.c., non solo del debito principale, ma anche degli interessi «scaduti», dovendo intendersi per tali quelli maturati prima della notificazione dell'atto introduttivo del giudizio di primo grado (Cass. II, n. 738/2002). Quanto alla domanda e conseguente liquidazione degli interessi è stato precisato che la disposizione normativa (introdotta dal c.d. decreto Orlando con decorrenza dall'11 dicembre 2014) di cui all'art. 1284, comma 4, c.c., in virtù della quale, se le parti non ne hanno determinato la misura, gli interessi legali, a decorrere dall'introduzione di un giudizio di cognizione, sono dovuti nella misura prevista dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, trova applicazione anche quando la domanda giudiziale di pagamento è introdotta con il deposito del ricorso per decreto ingiuntivo. Una interpretazione restrittiva della disposizione richiamata, infatti, contrasta con la scelta del legislatore per cui la decorrenza degli interessi moratori sulla somma ingiunta vanno calcolati dalla notifica del decreto ingiuntivo. Il che significa che il condominio, come qualsiasi altro creditore, nell'introduzione della fase monitoria può chiedere solo gli interessi a tasso legale (Trib. Milano 13 febbraio 2015). Del tutto differente la questione concernente il giudizio di impugnativa di delibere assembleari avente ad oggetto non soltanto il rendiconto condominiale ed il relativo riparto, ma anche il preventivo, pur sempre con l'allegata ripartizione. Il problema, infatti, riguarda se per determinare la competenza del Giudice di Pace o del Tribunale si debba fare riferimento all'entità della quota contestata, oppure al valore dell'intera delibera. Esiste, sul punto, un contrasto giurisprudenziale che meriterebbe una pronuncia dirimente delle Sezioni Unite della Corte Suprema. Secondo un primo indirizzo, se il condomino agisce per far valere l'inesistenza del suo obbligo di pagamento in relazione all'invalidità della delibera, che in tal modo viene contestata nella sua globalità, la competenza si determina in base al valore dell'intera spesa; mentre se il condomino deduce semplicemente l'insussistenza del proprio obbligo di contribuzione, il valore della causa viene determinato dall'importo contestato (v., per tutte, Cass. II, n. 1201/2010; Cass. II, n. 23559/2007; Cass. II, n. 6617/2004; Cass. II, n. 971/2001). Successivamente, la Corte ha mutato orientamento, affermando più volte che ai fini della determinazione della competenza per valore in relazione ad una controversia avente ad oggetto il riparto di una spesa approvata dall'assemblea di condominio, anche se il condomino agisce per sentir dichiarare l'inesistenza del suo obbligo di pagamento sull'assunto dell'invalidità della deliberazione assembleare, bisogna far riferimento all'importo contestato relativamente alla sua singola obbligazione e non all'intero ammontare risultante dal riparto approvato dall'assemblea, poiché, in generale, allo scopo dell'individuazione della competenza, occorre porre riguardo al thema decidendum, invece che al quid disputandum, per cui l'accertamento di un rapporto che costituisce la causa petendi della domanda, in quanto attiene a questione pregiudiziale della quale il giudice può conoscere in via incidentale, non influisce sull'interpretazione e qualificazione dell'oggetto della domanda principale e, conseguentemente, sul valore della causa Ex multis: Cass. VI-2, n. 21227/2018. Da ultimo si deve ravvisare un ulteriore revirement della giurisprudenza sul punto. E' stato, infatti, affermato che la domanda di impugnazione di delibera assembleare introdotta dal singolo condomino, anche ai fini della stima del valore della causa, non può intendersi ristretta all'accertamento della validità del rapporto parziale che lega l'attore al condominio e dunque al solo importo contestato, ma si estende necessariamente alla validità dell'intera deliberazione e dunque all'intero ammontare della spesa, giacché l'effetto caducatorio dell'impugnata deliberazione dell'assemblea condominiale, derivante dalla sentenza con la quale ne viene dichiarata la nullità o l'annullamento, opera nei confronti di tutti i condomini, anche se non abbiano partecipato direttamente al giudizio promosso da uno o da alcuni di loro (Cass. II, n. 9068/2022; Cass. II, n. 19250/2021). 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