Codice Civile art. 1117 quater - Tutela delle destinazioni d'uso (1).

Alberto Celeste

Tutela delle destinazioni d'uso (1).

[I]. In caso di attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possono diffidare l'esecutore e possono chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie. L'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136.

(1) Articolo inserito dall'art. 2, l. 11 dicembre 2012, n. 220. La modifica è entrata in vigore il 18 giugno 2013.

Inquadramento

Un'altra interessante new entry, introdotta dalla l. n. 220 del 2012 all'interno del tessuto della normativa condominiale, è rappresentata dall'art. 1117-quater c.c. (rubricato «tutela delle destinazioni d'uso»), il quale stabilisce che, nell'ipotesi di attività che incidono negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni, l'amministratore o i condomini, anche singolarmente, possano diffidare l'esecutore e, quindi, possano chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie, aggiungendo che l'assemblea decide in merito alla cessazione di tali attività con il quorum correlato alla metà del valore dell'edificio.

Il testo licenziato dal Senato nella seduta del 26 gennaio 2011 contemplava anche le attività contrarie alle destinazioni d'uso delle «unità immobiliari di proprietà individuale», scandendo, altresì, le particolari modalità di esercizio di tale tutela – sollecitazione da parte del condomino, diffida all'amministratore, convocazione dell'assemblea senza indugio, ordine di cessazione, rimessione in pristino e risarcimento dei danni, pagamento di una multa – ma, pure in questa versione ridotta, volta alla difesa delle sole parti comuni dell'edificio, ci si muove in un'ottica sicuramente più pregnante di quella delineata dall'art. 1102 c.c. (norma, quest'ultima, tutt'ora applicabile in materia condominiale, in forza dell'immutato rinvio di cui all'art. 1139 c.c.).

Dunque, l'attuale testo prevede solo l'ipotesi di «attività che incidono negativamente e in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni», stabilendo che «l'amministratore o i condomini, anche singolarmente» – non contemplando più, come prima, il conduttore – possano «diffidare l'esecutore» e, in caso di persistenza della violazione della suddetta destinazione nonostante la diffida, possano «chiedere la convocazione dell'assemblea per far cessare la violazione, anche mediante azioni giudiziarie».

Presupposti

I presupposti per l'operatività della suddetta norma, dunque, sono che l'attività – proveniente, di regola, da un condomino – «incida negativamente e in modo sostanziale» della destinazione d'uso delle parti comuni, intendendo riferirsi a condotte non saltuarie o episodiche, a pregiudizi non lievi, ma apprezzabili e percepibili, nonché ad un peggioramento rilevante, concreto ed effettivo, e non meramente potenziale (si pensi al parcheggio di una roulotte nella rampa di accesso ai garage, e non al gioco del pallone da parte dei bambini nel giardinetto condominiale).

Al contrario, la suddetta attività dovrebbe considerarsi permessa in quanto rientrante nelle facoltà del singolo ai sensi dell'art. 1102 c.c., che menziona, appunto, il duplice limite di non alterare la destinazione della cosa comune e di rispettare il pari uso degli altri condomini (su quest'ultimo, v., ex multis, Cass. II, n. 14107/2012; Cass. II, n. 13874/2010; Cass. II, n. 12873/2005).

L'adozione del vocabolo «sostanziale» sembra alludere al piano degli interessi, intendendo rafforzare la necessità che la valutazione da parte dell'assemblea prevista dall'art. 1117-quater c.c. riguardi proprio la compatibilità dell'iniziativa individuale con le «esigenze di interesse condominiale» espressamente menzionate dal precedente art. 1117-ter c.c. (al cui commento si rinvia).

In entrambe le ipotesi in esame, la deliberazione condominiale ha come finalità di valutare la conformità della modificazione della destinazione d'uso all'interesse condominiale: nel primo caso, in prospettiva ed in vista della programmata modificazione della destinazione d'uso, e, nel secondo, in funzione di controllo e di (eventuale) conservazione della modificazione già intervenuta.

A ben vedere, il capoverso utilizza per due volte il verbo «possono», quasi a rimarcare la facoltatività dell'iniziativa in capo al singolo partecipante ed all'amministratore, ma è incerto se trattasi di poteri alternativi esercitabili da parte dell'uno oppure dell'altro, o se si possa ammettere la possibilità di un loro utilizzo concorrente.

È opportuno analizzare partitamente tali facoltà.

Reazione del condomino

Per quanto concerne il condomino, la previsione appare superflua, salvo aver precisato che l'iniziativa spetta al partecipante – probabilmente, quello maggiormente leso dall'attività che incidono negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni – «anche singolarmente», ossia la possibilità di diffidare (in maniera ferma e risoluta) il contravventore e, in caso di inottemperanza all'invito a desistere dalla condotta illecita (ed a rimettere in pristino la situazione alterata), di sollecitare l'amministratore affinchè quest'ultimo convochi l'assemblea per adottare le opportune decisioni.

L'inadempimento, da parte dell'amministratore, dell'obbligo di convocare l'assemblea lo espone alla revoca giudiziariaex art. 1129, comma 12, n. 1, c.c., come «omessa convocazione dell'assemblea ... negli altri casi stabiliti dalla legge».

In altri termini, la norma in commento legittima l'iniziativa di ciascun condomino, indipendentemente dalla sua caratura millesimale (De Tilla, 235; Pezzani, 1568), volta, da un lato, ad avvertire l'esecutore in ordine all'illecito in atto e, dall'altro, in caso di inosservanza di quest'ultimo, a farsi promotore, per il tramite dell'amministratore, del coinvolgimento del supremo organo gestorio sulla questione, laddove l'art. 66, comma 1, disp. att. c.c. (testo invariato) subordina quest'ultima evenienza alla sussistenza di determinati requisiti, ossia quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio.

Ad ogni buon conto, in ordine al riconoscimento delle «azioni giudiziarie» promuovibili dal singolo, il disposto si rivela in linea con la giurisprudenza di vertice, secondo la quale il diritto di ciascun condomino investe la cosa comune nella sua interezza – sia pur con il limite del concorrente diritto altrui – sicché anche un solo condomino può proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza, peraltro, che si renda necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti (v., ex multis,Cass.S.U., n. 25454/2013; Cass. II, n. 10478/1998; Cass. II, n. 13064/1995; Cass. II, n. 6119/1994).

In proposito, si è puntualizzato (Cass. II, n. 18485/2010) che, in tema di condominio, ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l'intera cosa comune (e non una frazione della stessa), è legittimato ad agire o resistere in giudizio, anche senza il consenso degli altri, per la sua tutela nei confronti dei terzi o di un singolo condomino; pertanto, le azioni a difesa o a vantaggio della cosa comune possono essere esperite dai singoli condomini senza che sia necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti alla comunione; in particolare, nel giudizio instaurato a tutela della proprietà comune per l'eliminazione di opere abusive compiute da alcuni condomini – e non per l'accertamento della natura condominiale di alcuni specifici beni – non è necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri comproprietari, dovendo i singoli convenuti rispondere autonomamente dell'addebitato abuso e potendo ciascuno dei condomini agire individualmente a tutela del bene comune.

Sembra, però, che, in forza della legittimazione «concorrente» riconosciuta in capo al condomino, quest'ultimo possa agire comunque in giudizio, ossia anche a fronte di una deliberazione che, direttamente o indirettamente, non stabilisca la «cessazione» dell'attività modificativa; in quest'ottica, la suddetta deliberazione non sarebbe per lui vincolante, e il magistrato non dovrebbe tener conto, a fronte di una condotta contra legem, dell'opinione della maggioranza dei condomini al riguardo (v. anche dopo).

Legittimazione dell'amministratore

Parimenti, l'amministratore può diffidare il condomino contravventore e, in difetto di desistenza da parte di quest'ultimo, convocare l'assemblea al riguardo; anche qui il riferimento ad eventuali «azioni giudiziarie» sembra ultroneo, non rinvenendosi altra chance per l'amministratore, che non può ovviamente farsi giustizia da sé (concretandosi, altrimenti, in un esercizio arbitrario delle proprie ragioni), di far cessare il comportamento del trasgressore se non quello di ricorrere al magistrato.

In precedenza, nessuno dubitava che rientrasse nelle attribuzioni dell'amministratore il potere di «disciplinare l'uso delle cose comuni ... in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condomini» (Mirenda, 380) ai sensi dell'art. 1130, n. 2), c.c., nonché di «compiere gli conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio» (Cimatti, 29), in forza dell'artt. 1130, n. 4), c.c. anche mediante azioni cautelari e d'urgenza.

Anche la giurisprudenza era concorde nel ritenere che, ai sensi degli artt. 1130, comma 1, n. 4), e 1131 c.c., l'amministratore del condominio fosse legittimato, senza necessità di una specifica deliberazione assembleare, ad agire in giudizio, nei confronti dei singoli condomini e dei terzi, per compiere atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni di un edificio, ivi compresa la richiesta delle necessarie misure cautelari (Cass. II, n. 24391/2008: nella specie, si era respinto il ricorso contro la sentenza di merito che aveva ritenuto valida la procura alle liti conferita dall'amministratore di condominio ad un avvocato, senza previa autorizzazione dell'assemblea, affinché proponesse un ricorso ai sensi dell'art. 700 c.p.c. per impedire ai condomini l'uso della rampa del garage e dell'autorimessa, dopo che i vigili del fuoco ne avevano accertato l'inidoneità all'uso per motivi di sicurezza; cui addeCass. II, n. 21826/2013; Cass. II, n. 16631/2007; Cass. II, n. 7063/2002; Cass. II, n. 13611/2000).

Necessità del passaggio assembleare

Appare penalizzante la previsione, contenuta nel comma 1 in fine del citato art. 1117-quater c.c., secondo la quale «l'assemblea delibera in merito alla cessazione di tali attività con la maggioranza prevista dal secondo comma dell'articolo 1136» (ossia con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell'edificio).

Invero, la giurisprudenza ha ripetutamente chiarito che tale decisione rientra, di regola, negli affari di ordinaria amministrazione, tanto più che potrebbe trattarsi semplicemente di far osservare una disposizione del regolamento di condominio che contempli una determinata destinazione d'uso della cosa comune, per la quale addirittura l'amministratore può agire in giudizio, senza bisogno di alcuna autorizzazione assembleare, rientrando, tra i suoi compiti come delineati dall'art. 1130, n. 1), c.c., anche quello di «curare l'osservanza del regolamento di condominio» (v., di recente, Cass. II, n. 1451/2014; Cass. II, n. 13689/2011, che ha fatto rientrare nei poteri dell'amministratore, anche ai sensi dell'art. 1133 c.c., l'invito ad un condomino, mediante lettera raccomandata con determinazione di un termine per l'adempimento, al rispetto del divieto regolamentare; Cass. II, n. 21841/2010; Cass. II, n. 14735/2006, la quale ha ricompreso nelle facoltà del medesimo amministratore anche quella di irrogare sanzioni pecuniarie ex art. 70 disp. att. c.c. ai condomini responsabili delle violazioni del regolamento, se quest'ultimo ne preveda la possibilità).

Può opinarsi, al riguardo, che la necessità del «passaggio assembleare» e, quindi, l'impossibilità per l'amministratore di agire direttamente in giudizio, siano giustificati per il fatto che trattasi di attività che incidono «negativamente ed in modo sostanziale» sulle destinazioni d'uso delle parti comuni dell'edificio, nella speranza che, accertato il disturbo pregiudizievole alla maggioranza dei condomini, il condomino autore della violazione possa convincersi a porre rimedio, evitando un'azione giudiziaria nei suoi confronti; laddove, invece, si concretizzino in attività saltuarie o poco pregiudizievoli – si pensi al semplice gioco del pallone nel cortile comune – non c'è bisogno che l'assemblea deliberi in merito alla cessazione, anche se sarebbe logico pensare il contrario, ossia che, quando la condotta è più grave e il trasgressore rimanga inerte, è consentito all'amministratore di rivolgersi sùbito e direttamente al magistrato, mentre, allorché è più lieve, ci si possa permettere il lusso di invocare il parere dell'assemblea.

Possibili scenari.

Sull'eventuale azione giudiziaria, la norma de qua stabilisce che «l'assemblea delibera in merito», correndosi il rischio concreto che l'assemblea, con la maggioranza correlata alla metà del valore dell'edificio, avalli la condotta (asseritamente abusiva o, comunque, contra ius) del singolo che incide negativamente ed in modo sostanziale sulle destinazioni d'uso delle parti comuni dell'edificio.

In tal modo, si finisce, di fatto, per mutare quella destinazione d'uso delle stesse parti che, in forza del disposto del precedente art. 1117-ter c.c., era possibile approvare, da parte della medesima compagine condominiale, soltanto con la maggioranza dei quattro quinti del valore dell'edificio e con un iter assembleare assai rigoroso (affissione non meno di trenta giorni, avviso preventivo di venti giorni, indicazioni delle parti oggetto della modificazione, ecc.).

Lo stesso succede ora per l'applicazione delle sanzioni in caso di violazione del regolamento: in precedenza, la giurisprudenza era pacifica – v. supra – nel senso di ricomprendere nelle facoltà del medesimo amministratore anche quella di irrogare sanzioni pecuniarie ex art. 70 disp. att. c.c. ai condomini responsabili delle violazioni del regolamento, se quest'ultimo ne preveda la possibilità, mentre, attualmente, il c.d. decreto destinazione Italia, convertito nella l. n. 9 del 2014, ha stabilito che l'irrogazione della sanzione è possibile soltanto qualora ci sia una previa autorizzazione dell'assemblea e, per giunta, per il (non agevole) quorum della metà del valore dell'edificio.

Poniamo il caso in cui l'assemblea vada deserta (ipotesi frequente), o non si formi il quorum della metà del valore dell'edificio (non agevolmente raggiungibile), ed ecco che, sia pure indirettamente, si rischia di avallare la condotta del condomino trasgressore alle prescrizioni del regolamento; addirittura, la maggioranza superiore a 500 millesimi potrebbe sancirne la legittimità, qualora non autorizzasse ex professo l'amministratore ad applicare la sanzione al condomino inadempiente,

Tornando alla nostra fattispecie – in buona sostanza – mediante l'iniziativa eversiva del singolo, complice la maggioranza assembleare, si realizza lo stesso risultato (ossia, la modificazione della destinazione d'uso delle parti comuni dell'edificio) che, difficilmente, la stessa assemblea riuscirebbe a raggiungere.

Di certo, un'eventuale decisione negativa farebbe venire meno la legittimazione processuale attiva di quell'amministratore che abbia optato, di sua iniziativa, per la via giudiziaria, ma non quella del condomino, che rimane concorrente, secondo il noto principio secondo il quale, nel condominio di edifici, che costituisce un ente di gestione, l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, né quindi del potere di intervenire nel giudizio in cui tale difesa sia stata legittimamente assunta dall'amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunciata nei confronti dell'amministratore stesso che vi abbia fatto acquiescenza (v., ex plurimis, Cass. II, n. 6480/1998; Cass. II, n. 8257/1997; Cass. II, n. 2393/1994).

In concreto, non sembra che l'art. 1117-quater c.c. abbia configurato una sorta di filtro assembleare per il condomino, nel senso che, per l'azione di quest'ultimo, sia pregiudiziale la valutazione della maggioranza condominiale in ordine all'incidenza pregiudizievole sulla destinazione d'uso delle parti comuni; l'eventuale deliberazione positiva, fallito ogni tentativo di risoluzione bonaria della vicenda, autorizza sicuramente l'amministratore ad agire giudizialmente, ma quella negativa – o parimenti il mancato raggiungimento del prescritto quorum – non preclude al singolo di rivolgersi al magistrato per far cessare l'attività asseritamente molesta messa in atto dall'esecutore (già sordo a qualsiasi monito).

Nulla esclude che quest'ultimo, oltre a non adeguarsi alle diffide (del condomino o dell'amministratore) ed a rimanere insensibile ai richiami all'ordine (da parte dell'assemblea), impugni addirittura l'eventuale deliberazione, sostenendo che il consesso assembleare avrebbe errato nel ritenere lesiva la sua condotta, ma è ovvio che così si espone ad una probabile domanda riconvenzionale del condominio, che invochi un giudizio sull'operato indisciplinato del singolo e, conseguentemente, un ordine di inibizione.

Comunque, anche se non più previsto espressamente – essendo stato soppresso il relativo emendamento nella versione definitiva dell'articolo in commento – non è ovviamente esclusa la possibilità, sia per il condomino sia per l'amministratore, di ricorrere al giudice per ottenere un provvedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c., sempre che ne ricorrano i presupposti del pregiudizio imminente ed irreparabile connesso alla condotta del trasgressore, come non è escluso che il giudice, ordinando la cessazione dell'attività, condanni il responsabile alla riduzione nello status quo ante ed all'eventuale risarcimento dei danni.

Esigenze di interesse condominiale

Sembrano, dunque, confermati i due momenti centrali della Riforma del 2013: per un verso, il rilievo delle esigenze di interesse condominiale e, per altro verso, il ruolo dell'assemblea (Amagliani, 1112).

Le prime hanno carattere composito e non possono considerarsi una sommatoria dell'interesse dei singoli condomini, né essere confinate su un piano meramente patrimoniale; piuttosto, deve essere ricercato volta per volta un delicato equilibrio tra istanze collettive e posizioni individuali che, però, non vanno sistematicamente sacrificate.

A sua volta, l'assemblea si vede attribuita il ruolo, rispettivamente, di artefice ed interprete ultimo delle suddette esigenze di interesse condominiale, che la destinazione d'uso (o la sua modificazione) è chiamata a realizzare.

Ciò lo si evince chiaramente dall'art. 1117-ter c.c., ma anche indirettamente dall'art. 1117-quater c.c. (al cui commento si rinvia): d'altronde, solo in questa prospettiva può spiegarsi la necessità di una deliberazione assembleare – provocata dall'impulso del singolo condomino o dell'amministratore – per contrastare l'iniziativa del singolo «esecutore» che abbia posto in essere attività che tendano non solo ad impedire la realizzazione di esigenze di interesse condominiale, ma ne propongano una declinazione diversa da quella affermatasi in virtù della deliberazione modificativa presa ai sensi del precedente art. 1117-ter.

Così, si rimette alla maggioranza una valutazione il cui esito, ove si risolva in termini di incidenza negativa e sostanziale sulla pregressa destinazione d'uso della parte comune e, quindi, di contrasto con la soddisfazione di esigenze di interesse condominiale, è tale da giustificarne la richiesta, anche tramite azione giudiziaria, di cessazione.

E si giustifica anche la possibilità che la stessa assemblea decida, invece, di non perseguire l'iniziativa dell'esecutore, perché sarà ancora una volta la considerazione dell'interesse condominiale a condurre ad un giudizio di compatibilità con quello del comportamento del singolo.

Pertanto, in entrambe le ipotesi, le esigenze di interesse condominiale, passate al vaglio ex ante e ex post del consesso assembleare, fungono da parametro per giudicare, rispettivamente, la procedibilità e la legittimità della modificazione della destinazione d'uso.

Bibliografia

Amagliani, La riforma del condominio negli edifici ed il rilievo delle destinazioni d'uso, in Rass. dir. civ. 2015, 1112; Cimatti, Il potere-dovere dell'amministratore per la salvaguardia dei beni comuni, in Immobili & diritto 2009, fasc. 5, 29; De Tilla, Le azioni giudiziarie che il singolo condomino può proporre per la tutela del bene comune, in Rass. loc. 1994, 235; Mirenda, I poteri dell'amministratore in ordine all'uso delle parti comuni, in Rass. loc. 2000, 380; Pezzani, Azioni a tutela della proprietà comune e litisconsorzio necessario tra comproprietari, in Riv. dir. proc. 2014, 1568.

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