Codice Civile art. 230 bis - Impresa familiare (1) (2).[I]. Salvo che sia configurabile un diverso rapporto [2094, 2251 ss., 2549], il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato [36 Cost.]. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa. I familiari partecipanti alla impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi [316] 3. [II]. Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell'uomo [37 Cost.]. [III]. Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo [76 ss.]; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo 4. [IV]. Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell'azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice. [V]. In caso di divisione ereditaria [713 ss.] o di trasferimento dell'azienda [2556] i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sulla azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell'articolo 732. [VI]. Le comunioni tacite familiari nell'esercizio dell'agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme.
[1] Articolo inserito dall'art. 89 l. 19 maggio 1975, n. 151. [2] In materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, v. art. 21 d.lg. 9 aprile 2008, n. 81. [3] Sull'impresa familiare coltivatrice v. art. 48 l. 3 maggio 1982, n. 203. [4] La Corte cost. 25 luglio 2024, n. 148, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma nella parte in cui non prevede come familiare anche il «convivente di fatto» e come impresa familiare quella cui collabora anche il «convivente di fatto» e, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter c.c. InquadramentoIl capitalismo familiare è dominante nel contesto imprenditoriale italiano e l'istituto dell'impresa familiare, espressione del principio costituzionale di solidarietà e di eguaglianza, è stato inserito nel codice civile dall'art. 89 l. 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), all'art. 230-bis, che, all'epoca, esauriva l'omonima sesta sezione del capo sesto (“Del regime patrimoniale della famiglia”) del titolo sesto (“Del matrimonio”) del libro primo. L'attuale disciplina, nel suo nucleo originario, attinge all'art. 55, ult. comma, del testo di riforma approvato dalla Camera dei deputati nel 1971, poi rielaborato dal Senato, con l'aggiunta di una nuova sezione, ove sono disciplinati i rapporti tra i partecipanti all'impresa familiare stessa, e nel primo disegno riformatore doveva trovare collocazione in un articolo 2083-bis, dopo la piccola impresa. Ratio dell'istituto, connotato da interazione tra famiglia ed attività economica (artt. 29 e 41 Cost.), è quella di porre fine agli abusi ed allo sfruttamento del lavoro del familiare – tradizionalmente presunto gratuito, sia pure juris tantum, proprio in ragione del legame di parentela, affectionis vel benevolentiae causa – mediante il riconoscimento di un complesso di diritti patrimoniali e di poteri gestori: con la conseguenza che si deve considerare esclusa, ora, la gratuità per ragioni di solidarietà familiare, ed irrilevante, al riguardo, la mancata richiesta nel tempo di retribuzioni (Cass. I, n. 2138/1988). Le regole che governano l'impresa familiare – che è, di norma, ma non necessariamente, di piccole dimensioni: il piccolo imprenditore è identificato anche sulla base della prevalenza del lavoro personale e familiare (art. 2083 c.c.) – differiscono profondamente da quelle che regolano l'attività d'impresa; senza peraltro incidere sulla disciplina dell'attività imprenditoriale e sulle modalità di partecipazione dell'imprenditore ai traffici giuridici: in coerenza con la tutela differenziata che la Carta costituzionale accorda al lavoro, da un lato, ed all'iniziativa economica privata, dall'altro. In sede sistematica, l'art. 230-bis – che ha natura residuale (in carenza di rapporti negoziali alternativi: quali, tipicamente, il lavoro subordinato e la società di fatto), ma imperativa – completa la disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia. Natura giuridicaL’impresa familiare appartiene al solo titolare, anche nel caso in cui alcuni beni aziendali siano di proprietà di uno dei familiari: in ciò differenziandosi dall’impresa collettiva, come quella coltivatrice, la quale appartiene per quote, eguali o diverse, a più persone, come pure dalla società, con la quale è incompatibile (Cass. I, n. 24560/2015). La costituzione del rapporto all’interno dell’impresa non può essere automatica; e cioè, senza il concorso della volontà degli interessati; al contrario, deve sempre risultare da comportamenti concludenti, e cioè da fatti volontari dai quali si possa desumere l’esistenza della fattispecie: ben potendo l’imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all’impresa, opponendosi all’esercizio di attività lavorativa nell’ambito di essa (Cass. S.U., n. 89/1995). L’istituto non ha origine negoziale e non richiede, quindi, un atto costitutivo; l’impresa familiare trae origine dal “fatto” del lavoro dei familiari (Cass., sez. lav., 4650/1992); pertanto, non è soggetta neppure a pubblicità. L’eventuale contratto, se non costitutivo di rapporti diversi (lavoro subordinato, società), riveste pertanto mera efficacia documentaria. Nell’impresa familiare vi è la parificazione del lavoro prestato nell’impresa e nella famiglia, quale titolo acquisitivo del diritto di partecipazione; e naturalmente vi è parificazione del lavoro dell’uomo e della donna. La coabitazione non è un presupposto dell’impresa familiare, da tenere distinta dall’azienda coniugale gestita da entrambi i coniugi e costituita dopo il matrimonio (art. 177, primo comma, lett. d), che presuppone il regime di comunione legale. I soggettiL'elencazione, contenuta al terzo comma, dei soggetti che possono partecipare all'impresa familiare – coniuge, parenti entro il terzo grado (inclusi i figli adottivi e naturali) ed affini entro il secondo – è tassativa. I vincoli di parentela e affinità vanno correlati all'imprenditore titolare. La l. 20 maggio 2016, n. 76 ha esteso la disciplina dell'impresa familiare all'unione civile tra persone dello stesso sesso, in virtù del rinvio di cui all'art. 1, comma 13. Se ne deve escludere, però, l'applicazione in favore dei parenti della parte dello stesso sesso, non sorgendo vincoli di affinità dall'unione civile. Il regolamento economico è dominato dal vincolo affettivo, e la casistica giudiziaria riguarda, per lo più, controversie originate da crisi del rapporto familiare. La ritenuta natura eccezionale dell'articolo 230-bis ha impedito l'estensione della disciplina alla famiglia di fatto, nonostante la riconosciuta natura di formazione sociale di rilevanza costituzionale (Cass. II, n. 22405/2004). L'introduzione dell'art. 230-ter ad opera dell'art. 1, comma 46, l. 20 maggio 2016, n. 76 ha colmato, in parte qua, il vuoto di tutela normativo. È opinione incontroversa che la norma in esame abbia natura imperativa, inderogabile da eventuali patti di contenuto meno favorevole ai familiari; e che il suo ambito di applicazione ricomprenda sia l'impresa commerciale, sia quella agricola: con esclusione, per contro, delle professioni libere (pure assimilate, ad altri fini, alle imprese dalla legislazione europea). In virtù della ritenuta natura individuale, il concorso dei familiari nella gestione ha mera rilevanza interna; e la cessazione dell'impresa è decisa dal solo imprenditore titolare. Non v'è alcuna formalizzazione delle decisioni gestorie; e neppure un regime pubblicitario, in contrasto con il formalismo proprio del diritto di famiglia. Nei confronti dei terzi sono irrilevanti, pertanto, le decisioni dei familiari; ed il loro mancato rispetto, da parte dell'imprenditore, darà luogo solo al risarcimento del danno, ma non pure a tutela reale, visto che egli non agisce in rappresentanza dei familiari: onde, non v'è spazio neppure per l'applicazione della disciplina del conflitto di interessi. I familiari non sono comproprietari dei beni aziendali acquistati. La partecipazione all'impresa familiare può cessare per recesso volontario del familiare; oppure, ope legis, in conseguenza del venir meno della parentela (ad es., per disconoscimento di figlio), o dello stato di coniuge, per dichiarazione di nullità del matrimonio o per divorzio: eventi, che producono anche il venir meno dello stato di affinità (che invece non cessa per morte, anche senza prole, del coniuge da cui deriva: art. 78, comma 3, c.c.). È irrilevante il regime patrimoniale fra coniugi, la cui separazione personale non determina, invece, l'automatica cessazione dell'impresa familiare, dal momento che, come detto, la coabitazione non è un presupposto dell'impresa familiare (Cass., sez. lav., 5741/1991). L’entrata in vigore della l. 20 maggio 2016, n. 76, che formalmente applica all’unione civile le norme del codice in tema di impresa familiare, mediante il richiamo espresso, contenuto nell’art. 1, comma 13, alle disposizioni di cui alla sezione VI del capo 6 del titolo 6 del libro primo del codice civile, ha lasciato però irrisolto il problema dell’estensione soggettiva agli affini dell’imprenditore, visto che dall’unione civile non discende, formalmente, un rapporto di affinità e che l’interpretazione analogica è esclusa dal carattere tassativo del richiamo alle norme codicistiche di cui all’art. 1, comma 20, l. cit. Sotto altro profilo, la natura inderogabile dell’art. 230-bis ha indotto parte della dottrina a ritenere invocabile la disciplina dell’impresa familiare quando si accerti che il ricorso a diversi schemi negoziali o l’interposizione di un diaframma societario rivelino una volontà elusiva dell’imprenditore, volta ad attribuire al congiunto un trattamento deteriore rispetto a quello disposto dalla norma.
Impresa familiare e societàMolto dibattuta è stata, in passato, la natura individuale o associativa dell'istituto; con incertezze ermeneutiche, originate dalla mancata previsione testuale dell'esercizio in forma societaria di un'impresa familiare ed opinioni contrastanti sull'estensibilità della disciplina anche ad attività continuative di lavoro svolte dal parente o affine in favore di un soggetto separatamente partecipe di una società con altri familiari, o perfino con terzi estranei all'aggregato familiare (in senso positivo Cass. n. 19116/2004 e in dottrina, Oppo, Impresa familiare, in Commentario dir. it. fam., a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, II, Padova, 1992, 490; Prosperi, Impresa familiare, in Comm. Schlesinger, Milano, 2006,42; Balestra, Attività di impresa e rapporti familiari, Padova, 2009, 548; Menghini, Il lavoro familiare della giurisprudenza: questioni chiuse ed ancora aperte, in Lav. e giur., 2015,221. Contra, per l'inestensibilità analogica, Cass., sez. lav., n. 11881/2003; Quadri, Impresa familiare e prestazioni di lavoro, Napoli, 2012, 49; Scotti, Dalla Corte di cassazione un'occasione per tornare a riflettere sulla compatibilità tra impresa familiare forme collettive di impresa, in Corr. giur. 2015, 1249). A composizione del contrasto, le S.U., con sentenza n. 23676/2014, pur escludendo la natura eccezionale dell'art. 230-bis, hanno ribadito il carattere individuale dell'impresa familiare e la conseguente incompatibilità con la disciplina della società di persone – e a fortiori di capitali – valorizzando sia l'improprietà tecnica della qualificazione del socio come imprenditore, sia l'inammissibilità della partecipazione familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, con modalità diverse da quelle stabilite, in materia societaria, da norme di natura imperativa (in senso conforme, Cass., sez. lav., n. 20552/2015; Cass. I, n. 24560/2015). Dalla natura individuale dell'impresa discende che la gestione ordinaria spetta solo al titolare , unico legittimato anche processuale; che dei debiti risponde solo l'imprenditore con i beni personali; che i poteri partecipativi dei familiari rivestono mera rilevanza interna. Ricadute di tale inquadramento sono l'irrilevanza verso i terzi di eventuali violazioni del relativo diritto e l'insussistenza di alcuna responsabilità solidale dei partecipanti per le obbligazioni contratte e a fortiori dell'esposizione a fallimento in estensione, in caso di insolvenza dell'imprenditore (art. 147 l. fall.), ora liquidazione giudiziale. Eventuali prestazioni lavorative prestate in favore di un familiare che sia socio, con altri familiari o con terzi, di una società possono trovare tutela a titolo di arricchimento senza causa, ex art. 2041 (Cass. S.U., n. 23676/2014, cit.). L'attività lavorativa del familiarePer poter configurare nell'attività di uno dei coniugi una concreta collaborazione all'impresa suddetta non è sufficiente il solo fatto dell'adempimento di doveri istituzionalmente connessi al matrimonio ex art. 143, terzo comma – come quello di contribuire, in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro, professionale e casalingo, ai bisogni della famiglia e di provvedere alle esigenze della prole – ma occorre qualcosa di più: e cioè, la connessione funzionale del lavoro familiare con l'attività imprenditoriale, che ne deve risultare avvantaggiata (Cass., sez. lav., n. 9025/1991). L'apporto deve anche rispondere al requisito della continuità, che equivale alla professionalità dell'imprenditore ed esclude la saltuarietà. Non si esige, però, l'esclusività (potrebbe essere una prestazione part-time), né l'assiduità della presenza (Cass., sez. lav., n. 13849/2002). In quest'ottica, perfino la frequenza ad un corso universitario di laurea è stato ritenuto rilevante ai fini dell'impresa familiare di farmacia (Cass., sez. lav., 901/2000); mentre, sono irrilevanti le incompatibilità lavorative per dipendenti pubblici e professionisti. Nel caso di attività lavorativa svolta da uno dei familiari considerati dall'art. 230-bis la circostanza che il prestatore non abbia partecipato né a decisioni sulla vita dell'impresa familiare né alla divisione degli utili relativi è indicativa della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato solo se conseguente ad una espressa pattuizione delle parti volta ad inquadrare in tale rapporto la detta attività, potendo altrimenti considerarsi come mera violazione della norma (Cass., sez. lav., n. 1211/1989). I diritti del familiareIl familiare che presti in modo continuativo la sua attività gode di diritti patrimoniali e di diritti amministrativi. I diritti patrimoniali Tra i diritti patrimoniali del soggetto che presti in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare – senza distinzione di genere come precisa il secondo comma – vi è innanzitutto il diritto al mantenimento: commisurato alla condizione patrimoniale della famiglia, piuttosto che alla redditività dell'impresa, e diverso dagli alimenti, che presuppongono lo stato di bisogno e si limitano a quanto necessario per le primarie esigenze vitali. Non è cumulabile con il mantenimento eventualmente già riconosciuto ex art. 143 al coniuge; ex art. 147 ai figli; ex art. 156, al coniuge separato: avendo, in sostanza, il medesimo contenuto. La seconda voce patrimoniale riguarda gli utili. Non tutti, peraltro, devono essere redistribuiti tra i familiari, dal momento che in parte dipendono dal capitale investito, dal lavoro di terzi dipendenti e costituiscono il profitto dell'imprenditore, soggetto al rischio d'impresa, a differenza dei familiari. Gli utili e gli incrementi, a differenza del mantenimento, sono ragguagliati al lavoro prestato e sono esigibili solo dopo la cessazione dell'impresa. Il loro impiego, nonché la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi, sono decisi, a maggioranza, dai familiari, indipendentemente dalla quantità e qualità del lavoro prestato: e ciò comporta un'influenza diretta sulla gestione da parte di chi non è contitolare dell'impresa. Secondo l'art. 3 l. 17 febbraio 1985, n. 17 (cd. Visentini ter), i redditi delle imprese familiari di cui all'art. 230-bis, limitatamente al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione annuale dell'imprenditore, possono essere imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. Non c'è comunione legale sui beni acquistati con gli utili, bensì solo un diritto di credito; così come sugli incrementi aziendali, fra i quali rientra anche l'avviamento. In seguito alla cessazione del rapporto viene liquidata la quota degli utili e degli incrementi in funzione del lavoro prestato. Il trasferimento della quota, consentito in favore solo di altri familiari e a condizione del consenso unanime di tutti, potrebbe dar luogo all'ingresso di un altro familiare che prima non partecipava, di fatto, all'impresa. Il familiare partecipe dell'impresa ha diritto ad una quota di distribuzione degli utili, e non ad una retribuzione corrispettiva, adeguata (art. 36 Cost.). Le controversie, previa mediazione tra lavoratore e datore di lavoro (e non mediazione familiare), sono di competenza del giudice del lavoro (e cioè, del tribunale, dopo l'istituzione del giudice unico, a decorrere dal 2 giugno 1999), rientrando nella previsione dell'art. 409 n. 3 c.p.c. Si è pure ritenuto inclusa nella competenza per materia del giudice del lavoro, ex art. 409 c.p.c., la domanda di attribuzione di beni acquistati con i proventi dell'impresa (App. Firenze 3 gennaio 2022, n. 854). Sul credito per utili ed incrementi dell'impresa familiare, condizionato dai risultati raggiunti dall'azienda e proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, decorrono rivalutazione ed interessi ai sensi dell'art. 429 c.p.c., in ragione della riconducibilità del rapporto a quelli di cui al n. 3, a partire, di regola, dalla data di cessazione dell'impresa medesima o della collaborazione del singolo partecipante: salvo diverso patto relativo alla distribuzione periodica degli utili, il cui onere della prova grava sul partecipante che ne affermi l'esistenza (Cass., sez. lav., 5224/2016; Cass., sez. lav., 17057/2008; Cass., sez. lav., 11921/1999). La giurisprudenza più recente ha chiarito che la determinazione della partecipazione agli utili ed agli incrementi del familiare deve essere effettuata in relazione al valore complessivo dell'impresa, qualunque ne sia stata la causa: senza scorporare quindi la componente riferibile a fattori estranei all'attività prestata dal familiare partecipante; così come, all'opposto, il verificarsi di fattori di decremento della produttività dell'impresa si riverbera automaticamente sulla concreta liquidazione della quota del partecipante (Cass., sez. lav., n. 1401/2021). Non del tutto collimante, nello stabilire un nesso tra la collaborazione del familiare e l'incremento di produttività, appare, al riguardo, la decisione App. Roma, 14 gennaio 2022, n. 4293, secondo cui, ai fini del riconoscimento dell'istituto residuale dell'impresa familiare, è necessario che sia fornita la prova dello svolgimento da parte del familiare di un'attività di lavoro continuativa – e cioè, non saltuaria, ma regolare e costante, anche se non necessariamente a tempo pieno – e dell'accrescimento di produttività dell'impresa procurato dal lavoro del partecipante. Non si è ritenuta rilevante, invece, la partecipazione all'impresa familiare del congiunto che abbia offerto contributi finanziari e consulenze occasionali, senza prestare attività lavorativa continuativa per l'impresa (Cass., sez. lav., n. 11533/2020). In ordine alla partecipazione ai beni acquistati con gli utili aziendali, si è esclusa alcuna presunzione che l'immobile acquistato da parte di un familiare partecipante, in nome proprio, durante il periodo di esistenza dell'impresa, sia riferibile agli utili dell'attività nell'ambito dell'impresa (Cass., sez. lav., n. 32698/2018). I diritti amministrativi I partecipanti decidono a maggioranza numerica, con voto capitario, le scelte gestionali più rilevanti, sulla destinazione degli utili e degli incrementi, sulle decisioni che eccedono l’ordinaria amministrazione, sulla cessazione dell’impresa; ma tale potere non ha effetto verso i terzi ed ove la decisione sia disattesa, i familiari hanno solo diritto al risarcimento dell’eventuale danno, ma non pure a tutela reale, impugnatoria degli atti difformi dell’imprenditore. Non vi è un regime di pubblicità legale per le decisioni dei familiari. Si è sollevato il dubbio se l’imprenditore resti estraneo alle predette votazioni, in quanto configurato come destinatario delle decisioni dei familiari: ma in contrario si osserva che tale interpretazione ridurrebbe i poteri di colui che è l’unico titolare dell’impresa: più ancora che in un’eventuale società, in cui egli godrebbe del diritto di voto. La successione nell'impresa familiareNon si dà luogo alla liquidazione della quota ex art. 2284 in caso di morte dell'imprenditore, il cui patrimonio costituisce un unico asse ereditario, salvi gli eventuali diritti di credito maturati dai partecipanti. Il quarto comma esclude l'ingresso nell'impresa di soggetti estranei (che non siano dipendenti), che ne snaturerebbe la natura familiare. Il trasferimento del diritto di partecipazione è possibile unicamente in favore di un familiare e solo con il consenso di tutti partecipi. Il rapporto di impresa familiare è molto più personalizzato del rapporto di lavoro, in virtù dell'affectio familiaris: onde, il mutamento del titolare comporta l'estinzione dell'impresa familiare, non trovando applicazione l'art. 2112. Non vi è, infatti, continuazione obbligatoria del rapporto di lavoro subordinato con il nuovo titolare, a meno che questo non sia stato costituito già da epoca anteriore. La prelazioneAd ogni familiare, anche se ha svolto in famiglia la propria attività lavorativa, è riconosciuto, dal quinto comma, il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di alienazione inter vivos dell'azienda. L'imprenditore resta libero di alienare l'azienda, anche senza il consenso dei partecipanti, ma questi devono essere preferiti al terzo estraneo. La prelazione è applicabile in caso di trasferimento anche di un ramo d'azienda; ma non di un singolo bene, salvo che non identifichi, in sostanza, l'azienda: come ad es. il fondo di un'azienda agricola, la cui cessione separata sia suscettibile di cagionarne la disgregazione. È dubbio se sussista solo per atti di disposizione a titolo oneroso, come previsto dagli artt. 8, primo comma, l. n. 590/1965 (Disposizioni per lo sviluppo della proprietà coltivatrice) e 38, primo comma, l. n. 392/1978 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani); mentre, appare ammissibile nel caso di vendita forzata dell'azienda, non essendo riprodotto il divieto di cui all'art. 8 sopra citato, in tema di prelazione agraria. È sufficiente, ai fini dell'operatività della prelazione di cui all'art. 230-bis, comma 5, c.c., una volta accertata la partecipazione all'attività, che vi sia stato un trasferimento d'azienda affinché il familiare partecipe possa essere messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto: risultando del tutto ininfluente che la cessione avvenga mediante conferimento in una società di persone, di cui il titolare dell'azienda stessa conservi un ruolo dominante, quale socio illimitatamente responsabile ed amministratore, poiché la norma tutela il familiare estromesso e non colui che sia stato incluso nella vicenda traslativa, senza che rilevi il requisito dell'estraneità di cui all'art. 732 c.c., norma richiamata dall'art. 230-bis solo “in quanto compatibile” (Cass., sez. lav., n. 10147/2017). Non vi sarebbe, invece, prelazione nella successione mortis causa (Oppo; in senso contrario, Graziani, in Tratt. Dir. priv., diretto da Rescigno, 548 in n. 3); e nemmeno, stando alla lettera della disposizione, nel trasferimento di un diritto di godimento a titolo di affitto. È pure da escludere la prelazione in caso di transazione o permuta, qualora le controprestazioni siano infungibili. Viene richiamato l'art. 732, e quindi la prelazione deve essere esercitata entro il termine di due mesi dalla comunicazione dell'atto dispositivo. La presenza attiva del familiare alle trattative di vendita fa venir meno l'obbligo della notificazione della proposta di alienazione (Trib. Roma 1 febbraio 1994, in Foro it. 1994, 1, 3559). Il diritto di prelazione è inapplicabile al patto di famiglia (Musolino, Il diritto di prelazione nell'impresa familiare, in Riv. not. 2010,105). L'esercizio della prelazione importa la successione nei contratti, crediti, nonché nei debiti risultanti da scritture contabili, ex artt. 2558-2560; e si deve ritenere, anche l'esposizione a fallimento del familiare acquirente dell'azienda, diventato imprenditore ad ogni effetto. Il riscattoPer l'esercizio della prelazione è necessaria la denuntiatio del trasferimento da parte dell'imprenditore. In caso di omissione, è dubbio se il diritto del familiare prelazionario sia assistito anche da tutela reale mediante retratto, di natura potestativa. Il quinto comma non lo prevede, infatti, espressamente, accanto alla prelazione, in caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda; ma lo si ritiene desumibile, oltre che dalla sua natura legale, dalla contestuale relatio, sia pure entro i limiti di compatibilità, all'art. 732, in tema di comunione ereditaria: norma, che lo attribuisce, invece, al prelazionario pretermesso, abilitato ad esercitarlo verso l'acquirente ed i successivi aventi causa. Oggetto di critica, in parte della dottrina, quale intralcio alla circolazione delle aziende, il diritto di riscatto è stato negato in ragione della mancanza di pubblicità legale dell'impresa familiare, che porrebbe a rischio l'affidamento dei terzi acquirenti (che non è, peraltro, un principio di ordine pubblico). Il richiamo all'art. 732 non vale, inoltre, a risolvere il problema applicativo dell'identificazione del termine per il suo esercizio, ove non vi sia stata la previa comunicazione dell'alienante, vista l'inconferenza, nella fattispecie dell'impresa familiare, del criterio dettato da tale norma in tema di cessione della quota di eredità (“finché dura lo stato di comunione ereditaria”).
La ricerca dell'equipollente ha trovato una risposta giurisprudenziale nella data di liquidazione della quota degli utili e degli incrementi patrimoniali dovuti al familiare a seguito della cessazione del suo rapporto con l'impresa familiare (Cass., sez. lav., n. 17639/2016; Cass., sez. lav., n. 27475/2008). Resta il fatto che la carenza di pubblicità legale dell'impresa familiare rende senza dubbio rischioso l'acquisto di un'azienda, dal momento che l'acquirente non è in grado di rendersi conto dell'esistenza di una partecipazione familiare; tanto più, se consistente in lavoro domestico, privo, per sua natura, di visibilità esterna. Non si potrebbe addurre neppure l'esempio della prelazione con diritto di riscatto prevista a vantaggio del coltivatore diretto, in caso di vendita del fondo (art. 8, legge 26 maggio 1965, n. 590) – pur priva, anch'essa, di pubblicità legale - perché in quel caso sarebbe più agevolmente percepibile la presenza in loco di un avente diritto, coltivatore. D'altra parte, non si vede quale altro significato pratico attribuire al richiamo all'art. 732 c.p.c., che non sia l'esercizio del retratto; e la riserva di compatibilità potrebbe attenere proprio al termine ivi indicato per l'esercizio del diritto stesso. La comunione tacita familiareLa comunione tacita familiare, di origine antichissima e regolata dagli usi, in cui elemento essenziale era l'attività lavorativa, a differenza che nella comunione di godimento, è caratterizzata dalla mancata divisione ereditaria o dalla ricostituzione del patrimonio già diviso e da una presunzione di gratuità del lavoro del familiare. L'art. 2140, che la prevedeva, appunto, nell'ambito dell'economia agricola, è stato abrogato dalla l. 19 maggio 1975, n. 151, legato com'era ad una concezione patriarcale antitetica al nuovo diritto di famiglia. Il suo contenuto è stato peraltro trasfuso nell'ultimo comma della norma in esame, con l'importante precisazione che gli usi non debbono contrastare la nuova disciplina. Non è ravvisabile in essa una struttura piramidale e, a differenza dell'impresa familiare, ha natura collettiva. Sotto il profilo processuale si è poi considerata mutatio libelli e non mera riqualificazione giuridica il passaggio dalla prospettazione di una comunione tacita familiare (art. 2140 c.c., abrogato) all'accertamento di diritti scaturenti dall'attività nell'impresa familiare, ex art. 230-bis (Cass., sez. lav., n. 5832/2021). BibliografiaAlbanese, Famiglia e impresa dopo la legge n. 76 del 2016 su unioni civili e convivenze, in Contr. impr. n. 4, 1 ottobre 2019, 1586; Esposito, Impresa familiare, trasferimento di azienda e diritto di prelazione, in Corr. giur., 2017, 215; Genovese, I confini attuali dell’azienda coniugale, in Contr. impr. 2018, 522; Ghidoni, Unione civile e impresa familiare: la disarmonia di una mera estensione normativa, in Fam. e dir., 2017, 701; Giordano, Sulla tutela del lavoro ‘nella’ famiglia: spunti per una lettura unitaria dell’impresa familiare tra diritto sostanziale e processo, in Dir. fam. e pers., 2016, 341; Papadimitriu, Incompatibilità della disciplina societaria con quella dell’impresa familiare, in Riv. dott. comm., 2015, 451; Sciarrino, Convivenza, conflitti e trapasso generazionale, in Dir. fam. e pers., 2019, 784; Tola, Impresa civile e convivenze, in Riv. dir. civ., 2019, 705; Tola, L’impresa familiare. Attualità ed evoluzione dell’istituto nella prospettiva della mediazione, in La Nuova giur. civ. comm., n. 3, 1 marzo 2016, 471. |