Codice Civile art. 2290 - Responsabilità del socio uscente o dei suoi eredi.

Lorenzo Delli Priscoli

Responsabilità del socio uscente o dei suoi eredi.

[I]. Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio [2284-2286], questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali [2267] fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento.

[II]. Lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato.

Inquadramento

 

Il disposto dell’art. 2290 c.c. stabilisce che sussiste in capo al socio o ai suoi eredi la responsabilità per le obbligazioni sociali esistenti fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento parziale del rapporto sociale.

La ratio alla base dell’art. 2290 c.c. consiste nella necessaria protezione dei terzi, nella specie, dei creditori sociali, il quali, al momento in cui è sorta l’obbligazione sociale, hanno fatto affidamento sulla consistenza del patrimonio della società (e dei soci) e, per tale ragione, la regola codicistica è stata estesa anche al caso – non contemplato dalla norma - della responsabilità del socio uscente che ha ceduto la propria partecipazione a terzi (Motti, 420).

La disciplina dell'opponibilità ai terzi dello scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, dettata dalla disposizione in epigrafe, riflette il sistema originario del codice che sottraeva la società semplice alla pubblicità legale, basata sull'iscrizione obbligatoria nel registro delle imprese, prevista per gli altri tipi di società, ivi comprese quelle in nome collettivo e in accomandita semplice (art. 2200 c.c.).

Successive riforme hanno, però, intaccato la coerenza di tale sistema, introducendo l'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese per le società semplici aventi ad oggetto l'attività di revisione contabile (art. 6, secondo comma, d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 88) e per quelle aventi ad oggetto l'esercizio di attività agraria (art. 2, d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228).

Appare, pertanto, evidente che per tali società (come, del resto, è stato espressamente chiarito dal legislatore mediante il richiamo dell'art. 2296 c.c.) l'opponibilità ai terzi è regolata dall'art. 2193 c.c., che disciplina gli effetti dell'iscrizione nel registro delle imprese. Il secondo comma dell'art. 2290 c.c. non ha tuttavia perso ogni valore, in quanto ad esso dovrà farsi capo per le società semplici che non esercitano attività agricole o di revisione contabile e per quelle che, pur avendo ad oggetto tali attività, non siano in concreto iscritte nel registro delle imprese (Campobasso, 245; Ferri, 671).

L'art. 2290, comma 2, c.c. dispone che lo scioglimento, per essere operante verso i terzi, deve essere portato a conoscenza di costoro con mezzi idonei. In mancanza, non è opponibile ai terzi che lo abbiano senza colpa ignorato. Essi, pertanto, non possono opporre l'ignoranza della nuova situazione giuridica, se ne siano comunque venuti a tempestiva conoscenza oppure se l'abbiano ignorata per propria colpa (Cass. I, n. 14962/2004).

Questo principio è stato ritenuto applicabile anche nel caso in cui dallo scioglimento del rapporto sociale derivi, come effetto ulteriore, lo scioglimento della società per il verificarsi della situazione prevista dall'art. 2272 n. 4, c.c. (Cass. I, n. 68/1958). E, naturalmente, oltre che nell'ipotesi di esclusione, anche in quella di recesso, con la conseguenza che il socio receduto dalla società di fatto che non abbia portato a conoscenza dei terzi il recesso, risponde dell'esecuzione dei contratti stipulati dalla società, anche per le obbligazioni che, trattandosi di contratti ad esecuzione continuata (nella specie locazione), nascano da essi successivamente al recesso, e tale responsabilità non viene meno nel caso di scioglimento della società per mancata ricostituzione della pluralità dei soci (Cass. I, n. 6987/2003).

A seguito delle riforme che hanno assoggettato le società semplici all'obbligo di iscrizione nel registro delle imprese anche ai fini e agli effetti dell'art. 2193 c.c., deve ritenersi che l'ambito di applicazione della norma in esame è ristretto alle società semplici che non esercitino attività agricole o di revisione contabile o che, pur avendo ad oggetto tali attività, non siano in concreto iscritte nel registro delle imprese (arg. ex art. 2297 c.c.). Si è quindi ribadito:

- che la cessazione per qualsiasi causa (e, quindi, anche per intervenuta cessione della quota) dell'appartenenza del socio di una società di persone alla compagine sociale, cui non sia stata data pubblicità ai sensi dell'art. 2290 c.c., non è opponibile ai terzi, poiché essa non produce i suoi effetti al di fuori dell'ambito societario (Cass. I, n. 19304/2006);

- che, in via generale, il socio di una società personale che abbia ceduto la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui lo scioglimento non sia stato portato a conoscenza dei terzi (Cass. I, n. 2215/2006).

Si è poi precisato che il regime di cui agli artt. 2290 e 2300 c.c., in forza del quale il socio di una società in nome collettivo che ceda la propria quota risponde, nei confronti dei terzi, delle obbligazioni sociali sorte fino al momento in cui la cessione sia stata iscritta nel registro delle imprese o fino al momento (anteriore) in cui il terzo sia venuto a conoscenza della medesima, è di generale applicazione, non riscontrandosi alcuna disposizione di legge che ne circoscriva la portata al campo delle obbligazioni di origine negoziale con esclusione di quelle che trovano la loro fonte nella legge, quale, nella specie, l'obbligazione di versamento dei contributi previdenziali all'INPS. Ne consegue che deve ritenersi inopponibile all'istituto previdenziale la scrittura privata di cessione della quota sociale da parte di un socio, posto che la responsabilità solidale dei soci per debiti derivanti dall'attività sociale prescinde dai rapporti interni dei soci stessi, e lo scioglimento del rapporto sociale, valido tra le parti, è inefficace nei confronti dei terzi (Cass. I, n. 8649/2010); nello stesso senso Cass. III, n. 17969/2021).

Opponibilità ai terzi della causa di scioglimento: a) morte del socio

Se lo scioglimento deriva dalla morte del socio tale evento, secondo la Cassazione, è di per sé opponibile ai terzi, anche in assenza delle condizioni stabilite dal comma 2 dell'art. 2290 c.c. (Cass. I, n. 2987/1978, con la quale si è deciso che gli eredi «non avendo la qualità di soci, non assumono la responsabilità e gli oneri relativi al rapporto sociale al quale sono rimasti estranei e, non potendo avere diretta conoscenza delle attività della società posteriori alla morte del de cuius, non può loro addebitarsi di non aver notificato ai terzi un evento anteriore all'obbligazione assunta dalla società, a mezzo dei soci superstiti, verso costoro»).

Segue: b) cessione della partecipazione sociale

Secondo la Cassazione, lo scioglimento del singolo rapporto sociale per alienazione della partecipazione del socio, di cui non sia stata data adeguata pubblicità, ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c. mediante iscrizione nel registro delle imprese, è inopponibile ai terzi, producendo i suoi effetti solo in ambito societario, e, come tale, non preclude l'estensione del fallimento al socio stesso, ex art. 147 l. fall., malgrado l'essere avvenuta la vendita della quota oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, atteso che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento deve considerarsi ancora in essere (Cass. I, n. 1046/2015).

Lo scioglimento del singolo rapporto sociale per alienazione della partecipazione del socio, di cui non sia stata data adeguata pubblicità ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c., mediante iscrizione nel registro delle imprese, è inopponibile ai terzi, producendo i suoi effetti solo in ambito societario, né preclude l'estensione del fallimento al socio stesso, ex art. 147 l.fall., malgrado l'essere avvenuta la vendita della quota oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, atteso che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento deve considerarsi ancora in essere (Cass. I, n. 19797/2015).

Si è ritenuto che la cessione volontaria della quota di società in nome collettivo – implicando la volontà di dismettere la partecipazione ceduta, con il complesso delle posizioni connesse e, dunque, di uscire dal novero dei soci – quando non rimanga nel limitato ambito del rapporto inter partes, ma trovi il consenso unanime occorrente per la variazione della compagine sociale con il subingresso del cessionario al cedente, equivale a recesso del socio cedente, il quale resta perciò responsabile solo delle obbligazioni sociali sorte prima del perfezionarsi del recesso, sempre che sia resa opponibile ai terzi nei modi prescritti dall'ordinamento (Cass. I, n. 5479/1999).

Segue: c) socio occulto

È dubbio se la disciplina dettata dall'art. 2290 c.c., a tutela dei creditori sociali che hanno fatto affidamento sulla responsabilità sussidiaria del socio (Cass. I, n. 508/1991), sia applicabile anche al socio occulto, il cui rapporto sociale non è esteriorizzato.

In un primo tempo la giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, si era pronunciata per l'applicabilità della norma in esame, statuendo che il socio, ancorché occulto, rispondeva delle obbligazioni sociali sorte dopo il recesso se questo non era stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei (Cass. I, n. 2668/1972). Ma in epoca successiva la Cassazione ha mutato il proprio orientamento ed ha stabilito che, quando il socio è e rimane occulto, la mancata esteriorizzazione del vincolo sociale non consente l'affidamento da parte dei terzi; e da tale premessa ha dedotto che non è applicabile al socio occulto receduto il combinato disposto dell'art. 2290, comma 2, con gli artt. 2315 e 2293 c.c. e, conseguentemente, neanche l'art. 147, comma 2, l. fall. (Cass. I, n. 508/1991).

In questo senso è orientata anche la dottrina: per tutti, Bigiavi, 461; Cottino, 237.

Il Giudice delle leggi ha dichiarato manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3, comma 1, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147 l. fall., nella parte non prevede alcun limite temporale, decorrente dalla dichiarazione di fallimento della società, per la dichiarazione di fallimento del socio occulto illimitatamente responsabile (Corte cost., ord. n. 36/2003; Corte cost., ord. n. 321/2002).

In seguito, la S.C. ha chiarito (Cass. I, n. 22270/2017; Cass. I, n. 5520/2017; Cass. I, n. 269/2017; Cass.. I, n. 15488/2013) che, secondo il disposto dell'articolo 147 l. fall. risultante dalla riforma del 2006-2007, il termine annuale per la dichiarazione di fallimento previsto al comma 2 di tale disposizione riguarda unicamente i soci illimitatamente responsabili di società regolare e non, invece, il socio occulto che risulti dopo la dichiarazione di un imprenditore individuale. Invero, in tal modo il legislatore ha dato attuazione ai principî affermati dalla Corte costituzionale con le ordinanze n. 321 del 2002 e n. 36 del 2003: non possono in alcun modo essere poste a raffronto, ai fini dell'applicabilità del termine annuale entro cui può essere dichiarato il fallimento personale del socio illimitatamente responsabile di una società personale, due situazioni fra loro del tutto diverse, quali sono quella del socio receduto da una società regolarmente costituita e registrata, nel rispetto delle forme di pubblicità prescritte dalla legge, e quella del socio occulto.

Fallimento

Se il recesso è opponibile ai terzi il socio uscente o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali «fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento» (art. 2290, comma 1, c.c.). E questa responsabilità può esporre il socio receduto o escluso e gli eredi del socio defunto al fallimento a norma dell'art. 147, comma 2, l. fall., sempre che naturalmente la società, per la natura dell'attività esercitata sia assoggettabile a fallimento. Eventualità quest'ultima che non può naturalmente verificarsi rispetto alla società semplice, ma solo per quella in nome collettivo e in accomandita semplice (arg. exartt. 2249 e 2221 c.c.). La Corte Costituzionale – dopo avere in un primo tempo, dichiarato l'infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 147 l. fall. (sollevati in riferimento all'art. 3, comma 1, Cost., nell'assunto che tale disposizione non prevedesse che la sentenza dichiarativa del socio illimitatamente responsabile può essere pronunciata solo entro un periodo predeterminato, così come previsto per l'imprenditore individuale) osservando che il citato art. 147 l. fall. doveva essere interpretato nel senso che il fallimento del socio poteva essere dichiarato solo entro gli stessi limiti temporali previsti dagli artt. 10 e 11 l. fall. per l'imprenditore individuale e, quindi, entro un anno dallo scioglimento del rapporto sociale (Corte cost. n. 66/1999) – investita nuovamente della questione e prendendo atto delle persistenti incertezze interpretative suscitate dalla norma in esame, ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale «nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata» (Corte cost. n. 319/2000). La questione, pertanto, è da intendersi ormai definitivamente chiarita (Cass. I, n. 10268/2004), nonché superata, mediante l'adeguamento normativo dell'art. 147 l. fall. attuato dalla riforma di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che, sostituendo la menzionata disposizione, al comma 2 ha espressamente previsto il limite, per il fallimento dei soci a responsabilità illimitata, di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata, se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati.

Ha precisato la Cassazione che nel concordato preventivo proposto da società con soci illimitatamente responsabili, l'omologazione della proposta non estende i suoi effetti remissori, ai sensi dell'art. 184, secondo comma, l. fall., anche in favore del socio che, avendo prestato fidejussione per debiti della società ed a favore di un terzo creditore di questa, successivamente non rivesta più la predetta qualità al momento della citata omologa, dovendo allora l'ex socio, cui non si applica l'art. 10 l. fall., essere considerato, ai fini del concorso, alla stregua di un terzo garante; ne conseguono, da un lato, l'irrilevanza dell'accertamento dell'epoca della perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile rispetto all'apertura del concordato e, dall'altro, nei confronti del creditore sociale, la responsabilità piena di tale ex socio, in virtù dell'obbligazione fidejussoria assunta, poiché debito proprio, del tutto distinto da quelli sociali (Cass. I, n. 29863/2011).

Ai fini della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile di società di persone, l'accomandante che abbia violato il divieto previsto dall'art. 2320 c.c. assume uno status equiparabile a quello dell'accomandatario occulto. Ne consegue che, per il principio di certezza delle situazioni giuridiche, il termine annuale ex art. 147 l. fall. non decorre dalla data del recesso, né da quella della dichiarazione di fallimento della società, che non scioglie il vincolo tra i soci, ma dal giorno in cui lo scioglimento del rapporto sociale con il socio sia portato a conoscenza dei creditori con idonee forme di pubblicità (Cass. I, n. 4112/2015).

Recesso

Il recesso del socio di società di persone, di cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c., non è opponibile ai terzi, non producendo esso i suoi effetti al di fuori dell'ambito societario; conseguentemente, il recesso non adeguatamente pubblicizzato non è idoneo ad escludere l'estensione del fallimento al socio ai sensi dell'art. 147 l. fall., né assume rilievo il fatto che il recesso sia avvenuto oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento è ancora in atto. In particolare, non costituisce mezzo idoneo a portare il predetto recesso a conoscenza dei terzi il mero mutamento della ragione sociale della società di persone, con la eliminazione da essa del nome del socio receduto, potendo tale mutamento giustificarsi con altre ragioni (Cass. I, n. 4865/2010).

Nelle società di persone a tempo indeterminato, la dichiarazione di recesso del socio è un negozio giuridico unilaterale recettizio, che produce i suoi effetti nel momento in cui viene portato a conoscenza della società, a differenza del caso in cui la società abbia una scadenza prefissata, ove l'uscita di uno dei soci dalla compagine sociale determina una modifica del contratto sociale che necessita del consenso di tutti i soci. Nella prima ipotesi non è esclusa, peraltro, la facoltà di revoca del recesso da parte del socio, in quanto la prevalenza del rapporto volontaristico-collaborativo fra i soci comporta che una diversa comune volontà possa essere espressa, almeno fino a che non si sia proceduto alla liquidazione della quota del socio uscente mediante la revoca della precedente volontà di scioglimento del singolo rapporto sociale, sempre che sussista la concorde volontà di tutti i soci in tal senso (Cass. I, n. 20544/2009).

Bibliografia

Bigiavi, Il recesso del socio occulto, in Riv. dir. civ. 1958, II, 461; G.F. Campobasso, Diritto commerciale, II, Diritto della società, a cura di M. Campobasso, II, Torino, 2017; Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1994; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, a cura di Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2016; Motti, sub art. 2290, in Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, a cura di Santosuosso, Torino, 2014, 421ss.

 

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