Codice Civile art. 2266 - Rappresentanza della società.

Lorenzo Delli Priscoli
Francesca Rinaldi

Rappresentanza della società.

[I]. La società acquista diritti e assume obbligazioni per mezzo dei soci che ne hanno la rappresentanza e sta in giudizio nella persona dei medesimi.

[II]. In mancanza di diversa disposizione del contratto, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore [2257-2260] e si estende a tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale.

[III]. Le modificazioni e l'estinzione dei poteri di rappresentanza sono regolate dall'articolo 1396.

Inquadramento

Secondo l'art. 2266, comma 2 c.c., «la rappresentanza [della società] spetta a ciascun socio amministratore». Coordinando tale disposizione con il comma 1 dell'art. 2257 c.c. (il quale, a sua volta, dispone che «salvo diversa pattuizione, l'amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli altri») se ne deduce che, salvo diverse disposizioni dell'atto costitutivo o dello statuto, la rappresentanza sociale spetta in via alternativa a ogni singolo socio (Cass. I, n. 9927/2004). Se, invece, l'amministrazione è conferita solo ad alcuno dei soci «a questi soltanto compete il potere di rappresentanza» (Cass. I, n. 3719/1985).

La norma dettata dall'art. 2266 c.c. ha carattere dispositivo, e pertanto il contratto può naturalmente attribuire il potere di rappresentanza solo ad alcuni amministratori e anche ad uno soltanto di essi (Cass. I, n. 105/1973), ovvero ad un soggetto che non rivesta la qualità di socio (Cass. I, n. 3887/1996).

La correlazione posta dalla legge tra potere di amministrazione e potere di rappresentanza porta ad escludere che il potere di rappresentanza del socio amministratore si trasferisca al suo erede, poiché la morte del socio attribuisce agli eredi il diritto di ottenere la liquidazione della quota e quello (eventuale) di subentrare nella società, non anche quello di amministrare (Trib. Milano 5 marzo 1987).

Il contenuto e l'esercizio del potere di rappresentanza: a) rappresentanza disgiuntiva e congiuntiva.

Attesa la correlazione tra potere di amministrazione e potere di rappresentanza, in regime di amministrazione disgiuntiva ogni rappresentante può rappresentare la società disgiuntamente dagli altri, entro i limiti segnati dall'oggetto sociale (Cass. I, n. 21520/2004); se, per contro, il potere di amministrazione spetti congiuntamente a più soci, secondo le previsioni dell'art. 2258 c.c., anche l'esercizio del potere rappresentativo dovrà allora avvenire congiuntamente.

Il punto è pacifico in dottrina: Campobasso, 93; Di Sabato, 135; G. Ferri, 261.

Nello stesso senso in giurisprudenza si sono pronunciate implicitamente, Cass. I, n. 2673/1950 e App. Firenze 10 giugno 1960: con la prima di tali decisioni, si è statuito che la congiuntività del mandato deve intendersi stabilita nell'interesse della società che, pertanto, è l'unica legittimata a far valere il difetto di rappresentanza e a ratificare eventualmente l'operato del rappresentante; con la seconda si è rilevato, e la precisazione è di notevole interesse pratico, che la rappresentanza congiuntiva vale solo per il «compimento di operazioni» non opera, quindi, in ordine alla rappresentanza passiva.

Pertanto, quando non sia contestata la provenienza di un atto da uno dei soci, ancorché non individuato, l'atto deve ritenersi valido e idoneo a produrre i propri effetti: nella specie si è escluso che potesse essere considerato viziato da nullità per assoluta incertezza del requisito di cui all'art. 163 n. 2 c.p.c. l'atto di citazione contenente la denominazione della società che, pur non indicando la persona fisica che ne aveva la rappresentanza in giudizio, recava una leggibile sottoscrizione della procura alle liti (Cass. I, n. 9927/2004).

Nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento di beni immobili, la contemplatio domini, pur non richiedendo l'uso di formule sacramentali, deve risultare ad substantiam dallo stesso documento comprovante il contratto, restando irrilevante la conoscenza o l'affidamento, da parte del terzo contraente, in ordine all'esistenza del rapporto rappresentativo (Cass. I, n. 1959/2007).

Fermo restando che il potere rappresentativo si estende a tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale, il giudice è tenuto a verificare, caso per caso, tutti gli aspetti della vicenda, allo scopo di accertare, in concreto, se il comportamento tenuto da colui che abbia agito in nome e per conto della società possa avere o meno ingenerato nella controparte, considerate anche le modalità di svolgimento del rapporto, il ragionevole convincimento della sussistenza dei poteri di rappresentanza (Cass. n. 15883/2007).

Qualora lo statuto distingua tra atti di ordinaria e atti di straordinaria amministrazione, deve ritenersi eccedente l'ordinaria amministrazione, in quanto estraneo all'oggetto sociale, l'atto dispositivo suscettibile di modificare la struttura dell'ente e perciò con tale oggetto contrastante, essendo esteriormente riconoscibile come non rivolto a realizzare gli scopi economici della società, perché da essi esorbitante (Cass. I, n. 8538/2004).

Segue: b) l'estensione dei poteri del rappresentante e il limite dell'oggetto sociale

Secondo quanto stabilito dall'art. 2266, comma 2, c.c., il potere di rappresentanza del socio amministratore, in mancanza di diversa disposizione del contratto, si estende a tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale.

Secondo la dottrina, l'oggetto sociale, rispetto alle società di persone e a quella semplice in particolare, costituisce il limite massimo del potere di rappresentanza degli organi sociali, opponibile ai terzi a prescindere da qualsiasi pubblicità (G. Ferri, 360; Di Sabato, 135; Campobasso, 94; Tassinari, 183): tale impostazione (che, privilegia l'interesse della società a non rimanere vincolata dall'attività compiuta in suo nome dagli amministratori infedeli) pone a carico del terzo che contratta con la società l'onere di verificare preventivamente l'estensione dell'oggetto sociale (così esplicitamente Di Sabato, 135).

La giurisprudenza è diversamente orientata. La Cassazione ha infatti statuito che l'estraneità all'oggetto sociale dell'atto compiuto dal rappresentante (nel caso di specie si trattava del rilascio di cambiali in relazione ad obbligazioni concernenti rapporti personali di uno dei soci con il prenditore e, come tali, sicuramente estranee all'oggetto sociale) non è opponibile al terzo, a meno che non si provi che egli sia a conoscenza dell'esorbitanza dell'operato del rappresentante dai suoi compiti gestionali (Cass. I, n. 6240/1991). E tale indirizzo interpretativo è stato ribadito dalla stessa Corte con una successiva sentenza, con la quale, pur riconoscendo l'inapplicabilità alle società di persone dell'art. 2384-bis (abrogato dall'art. 1, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6) il quale sanciva, rispetto alle società per azioni, l'inopponibilità ai terzi di buona fede dell'estraneità all'oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori in nome della società, ha tuttavia affermato che «la tutela dell'affidamento dei terzi impone [anche rispetto alle società di persone] una concezione più sfumata dei limiti ai poteri di rappresentanza degli amministratori derivanti dall'oggetto sociale» (Cass. I, n. 14084/2010).

Ha precisato ancora la Cassazione che le «limitazioni» ai poteri di rappresentanza degli amministratori, definiti in base all'oggetto sociale, non sono opponibili ai terzi, se non risultanti dal registro delle imprese a mente dell'art. 2298, comma 1, c.c., mentre lo sono quelle definite dal limite generale dell'oggetto sociale, risultante dal registro delle imprese unitamente all'atto costitutivo della società (Cass. I, n. 25409/2016).

Segue: c) i limiti pattizi e la loro opponibilità; gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione

Il principio sancito dall'art. 2266, secondo comma, c.c. è, comunque, derogabile ed è pertanto ammissibile che il potere di rappresentanza degli amministratori, così come configurato dal legislatore, sia più o meno incisivamente limitato nell'atto costitutivo (Campobasso, 93).

Tali limitazioni, costituendo una deroga al principio generale dettato dall'art. 2266 c.c., sono di stretta interpretazione e, come tali, non estensibili a tutte quelle attività che, sebbene finalizzate alla conclusione di atti richiedenti, per previsione dell'atto costitutivo, la partecipazione congiunta dei soci amministratori, abbiano una loro giuridica autonomia (Cass. I, n. 13146/2002, la quale, da tale premessa, ha dedotto che, ove l'atto costitutivo della società richieda la firma congiunta dei soci amministratori per gli atti di acquisto, detta previsione non preclude la legittimazione del singolo socio amministratore a presentare, nell'ambito del procedimento di espropriazione immobiliare, l'offerta dopo l'incanto di aumento del sesto ex art. 584 c.p.c., atteso che detta offerta, sebbene avente carattere di irrevocabilità, non determina un automatico trasferimento del bene in favore della società offerente, ma costituisce soltanto un atto, ad esso prodromico, inserito nel procedimento esecutivo come presupposto dei provvedimenti del giudice di assegnazione e di trasferimento del bene medesimo).

La previsione di limitazioni pattizie al potere di rappresentanza degli amministratori pone il problema della loro opponibilità ai terzi. Secondo la disciplina originaria del codice civile la società semplice, a differenza di quella in nome collettivo e in accomandita semplice, non era assoggettata ad un regime di pubblicità legale (cfr. art. 2251, nn. 1 e 2 c.c.). Si riteneva pertanto che, in tal caso, il problema dovesse essere risolto sulla base di quanto stabilito dall'art. 1396 c.c., cui del resto l'art. 2266 fa esplicito richiamo proprio ai fini dell'opponibilità delle modificazioni e dell'estinzione dei poteri di rappresentanza: di qui la conclusione che, mentre le limitazioni originarie erano sempre opponibili ai terzi (che hanno quindi l'onere di accertare se il socio che agisce in nome della società è effettivamente munito di poteri rappresentativi), le limitazioni successive (e, a maggior ragione, l'estinzione del potere di rappresentanza) dovessero invece essere portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei e, in caso contrario, fossero ad essi opponibili solo se la società avesse provato che essi ne erano a conoscenza (per tutti: Campobasso, 94).

Questi principî non sono stati abrogati. Tuttavia il sistema ha ormai perso coerenza, in quanto le società semplici che abbiano oggetto l'esercizio di attività agraria o di revisione contabile sono state assoggettate al sistema di pubblicità legale previsto per le società in nome collettivo e per quelle in accomandita semplice (cfr. art. 2251 c.c.). Questa innovazione, anche se non è stata accompagnata da una rivisitazione sistematica della disciplina delle società semplici porta a ritenere, pur nel silenzio del legislatore, che l'opponibilità delle limitazioni convenzionali al potere di rappresentanza sia disciplinata in dette ipotesi (non più dall'art. 1396 c.c., ma) dall'art. 2298 c.c., sempre che naturalmente la società sia effettivamente iscritta nel registro delle imprese: in caso contrario dovrà farsi capo all'art. 2297 c.c., al cui commento si rinvia.

Frequente è il ricorso, negli statuti delle società personali, a clausole che distinguono gli atti di ordinaria da quelli di straordinaria amministrazione, limitando in vario modo il potere rappresentativo dei singoli amministratori.

Secondo la Cassazione «la nozione di atto di ordinaria (o straordinaria) amministrazione non è unitaria» e, rispetto alle attività d'impresa, il criterio per individuare gli atti appartenenti all'una o all'altra categoria non può essere quello del carattere «conservativo», o meno, dell'operazione compiuta (valido, in via di massima, per l'amministrazione del patrimonio dell'incapace), «poiché trattasi di attività che, per il suo esercizio, necessariamente presuppone il compimento di atti di disposizione di beni, e cioè atti che, da tale punto di vista, non potrebbero mai essere considerati di ordinaria amministrazione» (Cass. I, n. 4856/1995). Secondo la Corte, la distinzione «va fondata, piuttosto, sulla relazione in cui l'atto si pone rispetto alla gestione normale (e quindi ordinaria) del tipo d'impresa di cui si tratta» e, in tale prospettiva, «mentre gli atti che modificano le strutture economico-organizzative dell'impresa sono da considerare certamente come di straordinaria amministrazione, la stipulazione di una clausola compromissoria, specie tenendo conto dell'esigenza di pervenire ad una sollecita definizione delle controversie, particolarmente avvertita nel mondo degli affari, non può per contro essere annoverato tra quelli eccedenti l'ordinaria amministrazione e deve quindi ritenersi che anche un amministratore, i cui poteri... siano stati limitati all'amministrazione ordinaria, sia a tal fine pienamente abilitato». In senso non difforme la stessa Corte si era già espressa (Cass. I, n. 9296/1992).

Muovendo da tali premesse, si è escluso che la stipulazione di una clausola compromissoria, malgrado la previsione dell'art. 807, terzo comma, c.p.c. si configuri, ai fini dell'applicazione della norma in epigrafe come atto eccedente l'ordinaria amministrazione (Cass. I, n. 10229/1997). E si è precisato che come atti di ordinaria amministrazione debbano essere considerati non solo gli atti «conservativi» (o di mero godimento), ma anche quelli «dispositivi», quando costituiscano il mezzo per la realizzazione degli scopi perseguiti dalla società e non siano quindi estranei all'oggetto sociale (Cass. I, n. 1817/2000).

Più in generale si è precisato che il rilascio di una fideiussione a garanzia delle esposizioni bancarie di una diversa società non può essere ritenuto estraneo all'oggetto sociale della società garante se le due società operano «in modo affiancato e coordinato» (Cass. I, n. 8472/1998).

In materia, va registrata anche la pronuncia con la quale si è deciso che un atto negoziale (nella specie, si trattava del rilascio di una garanzia fideiussoria per debiti di terzi) compiuto da una società in nome collettivo con la volontà concorde ed unanime di tutti i soci è atto riferibile direttamente alla società, nella totalità delle persone fisiche che la compongono, ed è perciò valido e vincolante, siccome espressione di volontà di un soggetto dotato di capacità giuridica generale, non limitata al solo oggetto sociale, indipendentemente dalla sua corrispondenza ad uno degli oggetti, diretti o strumentali, della società (Trib. Genova 13 ottobre 1988).

Sempre in argomento si è poi deciso che la promessa al terzo della possibilità di costruire su un'area, tramite l'assicurazione del futuro rilascio di licenza o concessione edilizia, può configurare un atto rientrante nei poteri degli amministratori di una società, secondo la previsione degli artt. 2298 e 2384, ove risulti rivolta a realizzare gli scopi economici della società medesima e configuri mezzo per la esplicazione della relativa attività (Cass. I, n. 3524/1983).

L'atto eccedente i poteri del legale rappresentante è inefficace nei confronti della società che è tuttavia l'unica legittimata a farne valere l'inefficacia (App. Torino 1° febbraio 1985; in senso parzialmente diverso v. tuttavia Trib. Genova 10 dicembre 1986, che ha riconosciuto la legittimazione ai soci che non abbiano concorso alla formazione dell'atto ultra vires).

Segue: d) la nomina di procuratori

L'attribuzione, nell'atto costitutivo del potere di rappresentanza ad un solo dei soci non impedisce a quest'ultimo, qualora dall'atto costitutivo stesso non risultino limiti, di conferire ad altro socio o ad un terzo un mandato con rappresentanza della società, in ordine a determinate operazioni utili allo svolgimento dell'attività sociale (Cass. I, n. 18/1982; si veda pure, al riguardo, Cass. n. 8966/2010, non massimata). Ma è stata reputata nulla la procura institoria conferita dall'amministratore di una società di persone che attribuisca al preposto il potere di compiere tutti gli atti relativi all'amministrazione senza che il preponente possa interferire o opporsi alle sue operazioni (Trib. Milano 22 dicembre 1983).

La rappresentanza processuale

Con specifico riferimento alla rappresentanza processuale si è statuito che:

- in regime di amministrazione disgiuntiva, anche la rappresentanza processuale spetta al socio amministratore in quanto tale (Cass. I, n. 7404/1992);

- in mancanza di diversa disposizione contrattuale il regime della rappresentanza negoziale vale anche per quella processuale (Cass.S.U., n. 790/1965).

E, più in dettaglio, che:

- deve considerarsi regolarmente instaurato il contraddittorio tutte le volte in cui, indipendentemente dalla formale citazione a mezzo del legale rappresentante, abbiano agito o risultino personalmente convenuti in giudizio tutti i soci (Cass. I, n. 13438/2003);

- la citazione della società di fatto è validamente effettuata con la notificazione dell'atto ad uno solo dei soci (Cass. I, n. 7404/1992); nello stesso senso, da ultimo, Cass. I, n. 14365/2021).

- nell'ipotesi in cui la notifica del ricorso per cassazione proposto contro una società di fatto (o irregolare) fra due persone, sia eseguita mediante consegna di una sola copia al procuratore costituito della medesima (ancorché in giudizio in persona dei suoi due titolari), il contraddittorio deve ritenersi regolarmente instaurato, non essendo tale ipotesi equiparabile a quella (nella quale la notifica è invece inesistente) di consegna di una sola copia al procuratore di più parti ed essendo ammissibile (artt. 2266 e 2297) per detta società – pur priva di personalità giuridica – una rappresentanza, anche processuale, unitaria (Cass. I, n. 1376/1993);

- la legittimazione a stare in giudizio in nome e per conto di una società di persone può essere delegata ad un terzo da ciascun socio, che è legale rappresentante della società medesima, ove manchi una specifica limitazione di tale potere (Cass. I, n. 5031/1990);

- ciascun socio di una società di fatto, in quanto munito disgiuntamente del potere di rappresentare la società medesima, può essere chiamato a prestare giuramento suppletorio o decisorio, con riferimento a fatti dei quali sia autore o coautore, e con la piena efficacia probatoria di cui all'art. 2738, senza che si renda necessario il contemporaneo ed univoco giuramento degli altri soci (indipendentemente dalla circostanza che siano o meno anch'essi presenti in causa) (Cass. I, n. 2375/1985).

Con specifico riferimento alla rappresentanza processuale si è poi statuito che la trasformazione di una società da un tipo ad un altro previsto dalla legge, ancorché connotato di personalità giuridica, non si traduce nell'estinzione di un soggetto e nella correlativa creazione di uno nuovo in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale comporta soltanto una variazione di assetto e di struttura organizzativa senza incidere sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all'originaria organizzazione societaria. Pertanto, la circostanza che nell'atto introduttivo del giudizio sia stata indicata come parte istante la società anteriore alla trasformazione è ininfluente, purché non induca incertezza sull'identificazione della parte impugnante e l'impugnazione sia stata proposta da procuratore munito di jus postulandi per averne avuto il relativo potere dal legale rappresentante all'epoca abilitato a rilasciare la procura in nome e per conto della società (Cass. I, n. 13467/2011).

Il tratto costitutivo del fenomeno rappresentativo può essere individuato nella distinzione soggettiva tra il piano della titolarità dei diritti e quello dell'esercizio dei conseguenti poteri, vale a dire tra la posizione di colui che esercita un potere corrispondente a quello che sarebbe astrattamente incluso nel diritto soggettivo (il rappresentante) e la posizione di chi conserva la titolarità del diritto senza esercitarne il relativo potere, ma recependo soltanto gli «effetti» conseguenti al suo esercizio (il rappresentato). Ne deriva che il meccanismo rappresentativo esprime una deroga alla regola generale – valida, anzitutto, per le persone fisiche legalmente capaci – secondo cui alla titolarità dei diritti consegue la possibilità di esercizio dei poteri che sono inclusi nelle singole posizioni soggettive. D'altra parte, la costruzione di un «sistema» nel quale si determina una sostituzione soggettiva tra il titolare del diritto ed il soggetto legittimato ad agire per il compimento di un atto dispositivo risponde ad una fondamentale esigenza di funzionalità delle attività negoziali, un'esigenza da valutare esclusivamente con riguardo allo specifico interesse delle parti alla realizzazione dell'operazione economica (Gaboardi, 786).

La spendita del nome: a) generalità

Ovviamente affinché l'attività di ogni singolo socio possa imputarsi alla società occorre che questi agisca spendendone esplicitamente il nome ovvero in una situazione tale da ingenerare nella controparte il ragionevole affidamento di agire proprio come socio (Cass. I, n. 3903/2000).

In caso contrario, il negozio concluso spiega effetti solo nei confronti del rappresentante ancorché riguardi interessi o beni comuni (Cass. I, n. 5271/1985).

Il requisito della spendita del nome della società di fatto o degli altri soci, necessario perché l'obbligazione contratta dal singolo socio possa qualificarsi «sociale», sì da implicare la responsabilità solidale di tutti i soci (art. 2267 c.c.), non richiede l'uso di formule sacramentali e può evincersi anche dalle circostanze e dalle modalità con cui l'obbligazione stessa è stata assunta, ove idonee ad evidenziarne la riferibilità alla comune attività economica dei soci medesimi (Cass. I, n. 3710/1980).

Tuttavia, allorché il contratto abbia ad oggetto il trasferimento di beni immobili, la contemplatio domini, pur non richiedendo l'uso di formule sacramentali, deve risultare ad substantiam dallo stesso documento contrattuale, restando irrilevante la conoscenza o l'affidamento creato nel terzo contraente circa l'esistenza del rapporto sociale interno e dei poteri di rappresentanza reciproca che esso comporta (Cass. I, n. 936/1984).

In ogni caso, l'apposizione della firma del legale rappresentante di una società sotto il timbro che reca la ragione sociale di quest'ultima, o a fianco del medesimo, costituisce mezzo congruo ad evidenziare che l'atto è compiuto nell'esercizio del potere di rappresentanza e a giustificarne la riferibilità alla società (Cass. I, n. 6240/1991).

Per quanto riguarda, poi, le società di fatto, non occorre che le manifestazioni esteriori, atte a rivelare ai terzi l'agire del socio in nome della società, assurgano alla spendita del nome dell'altro o degli altri soci, essendo sufficiente che il comportamento di chi agisce per la società sia tale da rendere palesi al terzo il vincolo sociale e l'esplicazione dell'attività nell'interesse comune, e inequivoca la riferibilità del negozio alla società stessa (Cass. I, n. 1843/1986), ed è comunque sufficiente che il comportamento univoco di chi agisce per la società si manifesti verso i terzi in modo tale da generare in essi, secondo i criteri correnti nella vita degli affari, il ragionevole convincimento di una attività spiegata quale socio della società e nell'interesse della stessa, unico soggetto del negozio posto in essere (Cass. I, n. 4412/1978). Anche perché quando il soggetto, abilitato ad agire in nome di un ente (sia esso persona giuridica, sia organizzazione con autonomia patrimoniale), abbia compiuto, senza dichiarare la sua qualità di rappresentante, un atto che rientra nella sfera di attività dell'ente medesimo, sussiste una presunzione che l'atto sia stato compiuto nell'ambito di quella abilitazione, e quindi con efficacia nella sfera dei rapporti giuridici dell'ente, che può essere vinta solo dall'accertamento che in quel comportamento si sia estrinsecata un'attività del tutto estranea alla sfera giuridica dell'ente e propria dell'agente (Cass. I, n. 4133/1977).

Peraltro, ai fini della (necessaria) spendita del nome non è necessario che il rappresentante usi formule sacramentali, essendo sufficiente che dalle modalità e dalle circostanze in cui ha svolto l'attività negoziale e dalla struttura e dall'oggetto del negozio, sia possibile desumere l'inerenza dell'atto all'impresa sociale, sì da poter escludere che esso sia stato compiuto dal socio in nome proprio (Cass. I, n. 21520/2004).

Secondo la Cassazione, ove il rappresentante di una società di persone non spenda il nome di questa, il negozio concluso spiega effetto solo nei suoi confronti anche se abbia ad oggetto interessi o beni comuni; ove, peraltro, il contratto (quale, nella specie, quello di cessione di azienda) richieda la forma scritta ad probationem, la contemplatio domini, pur non richiedendo l'uso formale di formule sacramentali, deve risultare dallo stesso documento negoziale, restando irrilevante la conoscenza o l'affidamento creato nel terzo contraente circa l'esistenza del rapporto sociale interno e dei poteri di rappresentanza reciproca che essa comporta (Cass. I, n. 25104/2013).

Segue: b) acquisto di beni mobili e immobili

Con specifico riferimento all'acquisto di beni, si è poi deciso che l'acquisto di beni mobili (nella specie, un'azienda mobiliare) da parte del socio amministratore di una società in nome collettivo irregolare, che abbia agito nell'interesse della società ma senza palesare all'esterno la sua qualità di socio, va riferito alla società a norma dell'art. 1706, comma 1, c.c. che contempla gli acquisti mobiliari del mandatario (Cass. I, n. 2935/1980).

Se invece si tratta di beni immobili (o di beni mobili iscritti in pubblici registri), sarà applicabile il secondo comma dello stesso art. 1706 c.c., per cui, se non v'è stata spendita del nome della società, il bene è invece acquisito dal socio, il quale sarà obbligato a ritrasferire l'immobile alla società (Cass. I, n. 6497/1980) ancorché un mandato ad acquistare non risulti da atto scritto, stante che il socio amministratore – e tale è nella società semplice, salvo diversa pattuizione, ciascuno dei soci – ha, rispetto agli altri soci (artt. 1706,2257,2260 c.c.), la veste di mandatario ex lege (Cass. I, n. 1349/1990).

Difetto di rappresentanza

L'estraneità rispetto all'oggetto sociale dell'atto compiuto dal rappresentante può essere eccepita solo dalla società o, tutt'al più, dai soci che non hanno agito. Lo stesso principio, secondo la Cassazione, vale per ogni altro vizio del potere rappresentativo (Cass. I, n. 1979/1970).

Bibliografia

G.F. Campobasso, Diritto commerciale, II, Diritto della società (a cura di M. Campobasso), II, Torino, 2017; Di Sabato, Diritto delle società, Milano, 2011; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale, a cura di Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2016; Gaboardi, La rappresentanza processuale della società, in Riv. soc. 2014, 784; Tassinari, L'abuso di rappresentanza nella società in nome collettivo irregolare, in Giur. comm. 1993, II, 180.

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