Codice Civile art. 2380 bis - Amministrazione della società 1.Amministrazione della società 1. [I]. La gestione dell'impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all'articolo 2086, secondo comma, e spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale. L'istituzione degli assetti di cui all'articolo 2086, secondo comma, spetta esclusivamente agli amministratori.2. [II]. L'amministrazione della società può essere affidata anche a non soci. [III]. Quando l'amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione. [IV]. Se lo statuto non stabilisce il numero degli amministratori, ma ne indica solamente un numero massimo e minimo, la determinazione spetta all'assemblea. [V]. Il consiglio di amministrazione sceglie tra i suoi componenti il presidente, se questi non è nominato dall'assemblea.
[1] Articolo sostituito dall' art. 1 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6. [2] Comma così sostituito dall'art. 377, comma 2, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14. Tale modifica, ai sensi dell'art. 389, comma 2, d.lgs. n. 14, cit., entra in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del presente decreto (16 marzo 2019). il testo del comma precedentemente alla sostituzione era il seguente: «La gestione dell'impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale». Il comma è stato, da ultimo modificato dall'art. 40, comma 2, d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 che ha aggiunto, infine, il seguente periodo: <<L'istituzione degli assetti di cui all'articolo 2086, secondo comma, spetta esclusivamente agli amministratori.>>. Ai sensi dell'art. 42, comma 1, del citato decreto la presente disposizione entra in vigore il 20 novembre 2020. InquadramentoLa riforma del 2003 ha portato a compimento un iter di progressiva traslazione dei poteri, all'interno della società per azioni, dall'assemblea agli amministratori. Questi, definiti mandatari temporanei (dei soci) dall'art. 121 del codice di commercio del 1882, sono divenuti, progressivamente, organi autonomi, dotati di poteri derivati direttamente dalla legge (nelle società personali permane, invece, il tradizionale riferimento al mandato: art. 2260 c.c.). In realtà, il rapporto di amministrazione non è mai stato considerato un vero mandato (anche se in origine si parlava di delega dell'assemblea all'amministratore), dal momento che non riguarda, istituzionalmente, singoli atti (pur se, naturalmente, li ricomprende: basti pensare ai contratti), bensì un'attività variegata e complessa, esercitata in inderogabile autonomia dall'assemblea, rappresentativa della proprietà della società. Nella disciplina vigente è configurabile uno spazio residuale per l'applicazione analogica delle regole del mandato solo al fine di sopperire a eventuali lacune normative. Costituisce novità della riforma l'affermazione, enunciata in termini univoci dal primo comma, della spettanza esclusiva agli amministratori della gestione, intesa come esecuzione degli atti necessari per l'attuazione dell'oggetto sociale, senza distinzione tra ordinaria e straordinaria amministrazione. Tale dicotomia, prevista dal codice civile in relazione ai beni degli incapaci (artt. 320,374 e 394 c.c.), non coincide, infatti, con quella applicabile in tema di determinazione dei poteri attribuiti agli amministratori della società, che vanno individuati, piuttosto, con riferimento agli atti che rientrano nell'oggetto sociale, qualunque sia la loro rilevanza economica e natura giuridica: e quindi se anche eccedano i limiti della c.d. ordinaria amministrazione. Con la conseguenza che, salve le limitazioni specificamente previste nello statuto sociale, devono ritenersi rientranti nella competenza dell'amministratore tutti gli atti che ineriscono alla gestione della società; mentre, sono da considerarsi eccedenti i suoi poteri quelli di disposizione o di alienazione, se suscettibili di modificare la struttura dell'ente, e perciò esorbitanti dall'oggetto sociale (Cass. n. 15152/2010, in Soc., 2010, 929, con nota di Fanti). Viene così esclusa dalla norma novellata, la possibilità che clausole statutarie riservino all'assemblea della s.p.a. la competenza decisionale su operazioni di gestione, pur se economicamente rilevanti, come l'acquisto o la cessione di aziende, o di rami d'azienda, o di partecipazioni importanti in altre società, ecc.: salvo il limite dei poteri dell'amministratore nei confronti di modifiche, anche indirette, dell'oggetto sociale, di competenza dell'assemblea straordinaria. L'enunciazione del dovere esclusivo di attuare l'oggetto sociale – che include anche quello di non omettere operazioni utili a tal fine – non comporta, però, che lo statuto non possa stabilire il coinvolgimento dell'assemblea, chiamandola a dare autorizzazioni per il compimento di determinati atti da parte degli amministratori: possibilità, anzi, espressamente prevista dall'art. 2364, comma 1, n. 5 c.c., con contestuale salvezza della responsabilità, in ogni caso, degli amministratori per gli atti compiuti. Il riferimento è senza dubbio, alla responsabilità verso la società; dato che quella verso i creditori non potrebbe mai, ritenersi esclusa da un'autorizzazione dell'assemblea, per opinione incontroversa in dottrina: onde, la disposizione vale a risolvere in senso negativo il problema, in precedenza controverso, se l'autorizzazione assembleare impedisca, poi, l'azione sociale di responsabilità. L'onnicomprensività delle funzioni gestorie affidate all'amministratore, che impersona l'imprenditore societario, implica un'esigenza di specializzazione del ruolo, tanto più necessaria in chi deve istituzionalmente perseguire l'interesse altrui . Se fossero i soci a decidere direttamente gli atti di gestione, non ne risponderebbero, stante il principio di irresponsabilità dell'assemblea, posto che la responsabilità deliberativa appare ammessa solo nella s.r.l. (art. 2476, comma 7 c.c.). Alla luce di questa cornice normativa, appare ormai tramontata la concezione tradizionale che vedeva nell'assemblea l'organo centrale e sovrano della società, espressione del principio democratico di formazione della volontà sociale. Il previgente art. 2364, comma 1, contemplava, infatti, al n. 4, il potere deliberativo dell'assemblea “sugli altri oggetti attinenti alla gestione della società riservati alla sua competenza dall'atto costitutivo, o sottoposti al suo esame degli amministratori”; anche se la prevalente dottrina riteneva che l'esecuzione delle decisioni gestorie assunte dall'assemblea spettasse inderogabilmente agli amministratori, cui competeva, pertanto, un apprezzamento discrezionale, esteso fino alla disapplicazione delle delibere ritenute invalide: addirittura doverosa in caso di nullità (Cass. I, n. 6278/1990). Nella nuova disciplina, l'assemblea perde, invece, ogni competenza gestoria, conservando un potere deliberativo su autorizzazioni eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori (art. 2364, comma 1, n. 5 c.c.), o previste dalla legge su singole operazioni (art. 2361, comma 2 c.c.). Resta il dubbio se un'operazione degli amministratori difforme dall'eventuale deliberazione autorizzativa sia egualmente efficace, salva la responsabilità interna nei confronti della società. Quel che appare certo, alla luce dell'inequivoco dettato normativo, è l'illegittimità di un eventuale regime assembleare di gestione che comprima o annulli la sfera di competenza ex lege dell'amministratore; anche a prescindere dall'inopponibilità ai terzi dei limiti convenzionali dei suoi poteri (art. 2384 c.c.). Secondo parte della dottrina, peraltro, talune operazioni atipiche, definite di interesse primordiale, che incidano profondamente sulla struttura e organizzazione dell'impresa, rientrano nella competenza implicita dell'assemblea: onde, si ritiene tuttora possibile agli amministratori di sottoporre spontaneamente decisioni gestorie all'esame dell'assemblea, nonostante il chiaro intento del legislatore della riforma di comprimerne il ruolo ed il rischio di creare una zona grigia in cui non sia sempre agevole individuare le responsabilità per i danni eventualmente derivati. La scelta dell'amministratore di una società di assoggettare una determinata opzione amministrativa alla volontà dell'assemblea non fa venire meno, comunque, il carattere deliberativo della determinazione assembleare: cosicché non può ritenersi che l'ipotetico potere dell'amministratore di disattenderne le indicazioni – in quanto non vincolanti – precluda l'impugnazione della deliberazione ai soci di minoranza, che abbiano l'interesse a farne accertare l'invalidità, o l'abusività dell'opzione amministrativa che ne costituisce il contenuto (Cass. I, n. 8867/2014). Una recente giurisprudenza di merito sembra concordare con l'opinione che esclude dalla competenza dell'organo amministrativo tutte le operazioni che, anziché limitarsi a dare attuazione all'oggetto sociale, ne comportino una modificazione sostanziale. Alla base del convincimento viene richiamato l'art. 2361 c.c. che al secondo comma rimette all'assemblea decisioni che comportino una modificazione significativa del rischio. Si tratterebbe di un principio generale del diritto societario, valido per qualsiasi tipo di società (Trib. Roma 1 aprile 2019, in Foro it., 2019, 1, 2559, con nota di Capizzi). In dottrina, si riscontra un contrasto tra chi ritiene la possibilità di ricavare in via interpretativa competenze implicite dell'assemblea, in relazione ai cosiddetti diritti primordiali, e chi invece nega questa riserva implicita di competenza, limitandosi a configurare un obbligo degli amministratori di informare l'assemblea, ai fini di una delibera non vincolante, e quindi non autorizzativa in senso stretto. L'attività dell'amministratore, a differenza di quella dei sindaci, non è riconducibile alla prestazione d'opera intellettuale di cui all'art. 2230 c.c., dal momento che non si esaurisce nell'esplicazione di cognizioni tecniche o scientifiche, ma configura la gestione dell'impresa collettiva, con ampi compiti di organizzazione dei fattori della produzione al fine del perseguimento dell'oggetto della società (Cass. I, n. 2542/1983. E la sua competenza è, come detto, generale, a differenza della competenza speciale dell'assemblea. Natura giuridica del rapporto di amministrazioneAi sensi del secondo comma, è regola nella s.p.a. l'amministrazione affidata a non soci; laddove, nella s.r.l. è eccezione, su base statutaria (art. 2475, comma 1). Prima della riforma si riteneva che le persone giuridiche non potessero essere nominate amministratori: questo, perché la persona fisica che svolgeva poi in concreto le funzioni era nominata da un ente diverso dall'assemblea. Appigli normativi per la rimeditazione del problema sono dati dall'art. 5 d.lgs. n. 240/1991 (Norme per l'applicazione del regolamento n. 85/2137/CEE relativo all'istituzione di un Gruppo europeo di interesse economico – GEIE) – che ammette la nomina come amministratore anche di una persona giuridica, la quale esercita le relative funzioni attraverso un rappresentante da essa designato – e dall'art. 47 Regolamento 8 ottobre 2001 n. 2157 (Regolamento del Consiglio relativo allo statuto della Società europea – SE), a mente del quale lo statuto della SE può prevedere che una società, o altra entità giuridica, sia membro di un organo, salvo se altrimenti disposto dalla legislazione dello Stato membro della sede sociale della SE applicabile alle società per azioni. Anche l'Olanda e la Francia consentono la nomina di persone giuridiche come amministratori. La natura imprenditoriale ed apicale dell'attività dell'amministratore ha sempre reso dubbia la compatibilità con la qualifica di dipendente della società: questione, che ha avuto una ricaduta processuale sulla competenza per le controversie concernenti il rapporto di amministrazione, dibattendosi se appartenesse, o no, al giudice del lavoro, finché è esistito l'ufficio del pretore; e, dopo la sua soppressione, se sia applicabile il rito del lavoro. In particolare, il problema della natura del rapporto che lega la società per azioni ed il suo amministratore ha visto contrapporsi due diversi orientamenti. Da un lato, la teoria cd. Contrattualistica, che individua la presenza di un vero e proprio contratto che legherebbe due soggetti distinti, l'amministratore e la società: sia esso un negozio sui generis, non riconducibile ad alcuna tipologia nota, ma assimilabile di volta in volta a questo o quel contratto; oppure, un vero e proprio contratto di lavoro subordinato, o parasubordinato (tesi, accolta da Cass. S.U., n. 10680/1994); o ancora, un contratto d'opera professionale, finalizzato a far conseguire un profitto alla società, con assunzione di responsabilità ed impiego di tempo ed energie lavorative. D'altro lato, la teoria cd. Organica, secondo cui, al contrario, mancherebbe ogni dualità soggettiva, configurandosi solo un'immedesimazione dell'organo nella persona giuridica che rappresenta, senza possibilità di un regolamento negoziale interno, fonte di reciproci diritti e obblighi. La prima tesi apre la strada alla configurabilità di un rapporto parasubordinato tra società ed amministratore; mentre, la seconda conduce ad escluderlo, in forza dell'indistinguibilità dei due soggetti. La giurisprudenza prevalente ha a lungo ammesso, in linea di principio, il concorso delle due funzioni di amministratore e di lavoratore subordinato; salvo che per l'ipotesi di amministratore unico e, con maggiore incertezza, di amministratore delegato: concorso, subordinato, però, alla prova del vincolo di subordinazione, e cioè dell'assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società (Cass. I, n. 19596/2016). Di recente vi è stato un revirement giurisprudenziale (Cass. S.U., n. 1545/2017, in Foro it., 2017, 1, 891, con nota di Niccolini), che ha statuito che l'amministratore unico o il consigliere d'amministrazione sono legati alla società per azioni da un rapporto che, stante l'immedesimazione organica e l'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso tra quelli previsti dall'art. 409, n. 3, c. p. c. (nella specie, derivandone che i compensi spettanti all'amministratore, per la carica ricoperta, sono pignorabili senza i limiti previsti dall'art. 545, comma 4, c. p. c.). Anche successivamente, però, è presente una giurisprudenza secondo cui la carica di amministratore e l'attività di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali sono compatibili ove siano accertati l'attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale ed il vincolo di subordinazione – nonostante la carica sociale – al potere direttivo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società. L'onere della prova incombe su cui intenda far valere il rapporto di lavoro subordinato (Cass. lav., n. 2487/2022, in Giur. it., 2022, 913, con nota di Tosi). In questo caso, la competenza in ordine all'accertamento del rapporto di lavoro subordinato spetta al giudice del lavoro (Cass. VI-I, n. 12308/2019). L'amministratore di fattoAccanto alla figura normativamente disciplinata dell'amministratore regolarmente nominato ed investito della sua funzione gestoria, dottrina e giurisprudenza hanno configurato la figura anomala dell'amministratore di fatto, alternativamente identificato nel soggetto la cui nomina sia stata annullata, o in colui che, benché privo della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserito nella gestione della società stessa, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative: sempre che tale ingerenza, lungi dall'esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza (Cass. I, n. 4045/2016). L'amministratore di fatto è ora contemplato dall'art. 2639 c.c. (Estensione delle qualifiche soggettive), che stabilisce che per i reati previsti dal Titolo XI (Disposizioni penali in materia di società, di consorzi e di altri enti privati) “al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile è equiparato ... chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione” Secondo parte della dottrina, peraltro, il vero amministratore di fatto è solo quello che è privo di nomina; non pure quello la cui nomina sia stata annullata. Nella giurisprudenza risalente, solo la responsabilità penale era riconosciuta ad entrambe queste figure di amministratori di fatto; mentre, quella civile era limitata all'amministratore la cui nomina fosse risultata invalida. Con successivo revirement la Corte di cassazione ha ammesso la responsabilità ex art. 2392 c.c. anche del vero amministratore di fatto (Cass. I, n. 9795/1999; Cass. I, n. 2906/2002; Cass. I, n. 6719/2008; Cass. I, n. 28819/2008). Anche nella giurisprudenza più recente, molta attenzione è stata riservata alla nozione di amministratore di fatto, e cioè della persona che, benché priva di investitura formale, si inserisca nella gestione di una società, impartendo direttive e condizionando le scelte operative. Per la relativa qualificazione occorre che l'ingerenza riveli carattere di sistematicità e completezza (Cass. V, n. 1546/2022; Trib. Napoli 8 ottobre 2020 n. 6438). Resta fermo che la disciplina dettata in materia di amministrazione di S.p.A. costituisce un ordinamento predefinito che non permette deroghe. Ne consegue che l'amministratore non può spogliarsi dei suoi poteri delegando a terzi l'amministrazione della società, con elusione delle norme di legge (Cass. II, n. 24068/2022, in Giur. it., 2023, 118, con nota di Vitale ed in Giur. comm., 2023, 2, 424, con nota di Dianese). La possibilità concessa agli statuti di società in house dalla norma speciale di cui all'art. 16 del d.lgs. n. 175/2016 di derogare alla disciplina generale dell'art. 2380-bis c.c. non può tradursi in una limitazione della competenza dell'organo amministrativo ai soli atti di ordinaria amministrazione, secondo Trib. Roma 2 luglio 2018 n. 4737, in Foro it., 2018, 1, 3750. Il consiglio d'amministrazioneIl terzo comma pone l'alternativa tra l'amministrazione affidata ad una sola persona – amministratore unico – o a più persone, responsabili in via solidale ex art. 2392 c.c., che in tal caso formano il consiglio di amministrazione. Per quest'ultimo sembra doversi dare risposta affermativa al quesito sull'inderogabilità del metodo collegiale, che implica un iter procedimentale articolato nelle fasi della convocazione, riunione, discussione e voto (salvo il caso di deleghe): con conseguente illegittimità di clausole statutarie che prevedano l'amministrazione disgiuntiva. Deve ritenersi possibile, invece, l'eventuale attività disgiuntiva degli amministratori delegati. Il metodo collegiale è necessario, peraltro, solo nell'attività deliberativa, restando invece delegabili le funzioni esecutive in senso stretto. La collegialità è pure necessaria ove emergano interessi degli amministratori delegati (art. 2391, comma 2). Ulteriore problema è se spetti al singolo consigliere di esercitare autonomamente poteri di controllo, di convocazione dell'assemblea, di impugnazione di delibere assembleari o consiliari; ed inoltre, di rappresentanza della società. È prevalente la tesi della cogenza dell'esercizio collegiale dell'attività, salvo che per la rappresentanza organica all'esterno, che può essere individuale. Nelle s.p.a. quotate è indefettibile il consiglio di amministrazione, in funzione del pluralismo rappresentativo dei diversi interessi; e la sua composizione deve rispettare l'equilibrio interno della compagine sociale, anche di genere (art. 147-ter, comma 1-ter, T.U.F. introdotto dalla l. n. 120/2011). Inoltre, almeno uno dei componenti del consiglio di amministrazione è espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti (ibidem, terzo comma). Il quarto comma dell'art. 2380-bis prescrive che il numero degli amministratori sia stabilito dallo statuto; eventualmente integrato da una determinazione dell'assemblea ordinaria, ove siano in esso previsti solo un numero massimo e minimo. Al riguardo, è dubbia la legittimità di un consiglio di amministrazione composto di due membri, per l'impossibilità di risolvere l'eventuale contrasto. La necessità della previsione statutaria riguarda, in realtà, solo il numero massimo degli amministratori; non pure quello minimo, visto che l'amministratore può anche essere unico e non sembra che la disposizione in esame, collocata in evidente connessione con il comma immediatamente precedente che contempla come possibile l'amministrazione collegiale, giustifichi l'eventuale divieto statutario dell'amministratore unico (che è proprio l'ipotesi legale ordinaria). Il quinto comma prevede il ruolo di presidente del consiglio d'amministrazione, nominato dall'assemblea, o, in difetto, dallo stesso consiglio di amministrazione: figura di garanzia, che deve soddisfare requisiti di terzietà rispetto agli amministratori esecutivi. Prima della riforma del diritto societario, dalla dissociazione del potere rappresentativo del presidente rispetto a quello gestionale, affidato al consiglio d'amministrazione, si desumeva l'inefficacia verso la società di contratti conclusi dal presidente senza la ratifica del consiglio d'amministrazione, in quanto stipulati da un rappresentante senza poteri (Cass. II, n. 6468/2005 n. 6468, in Not. 2006, 2, 220, con nota di Lupetti). Autonomia di gestione e patti di sindacatoAlla luce dell'irriducibile titolarità esclusiva della funzione gestoria appare illegittima la nomina, con deliberazione assembleare, di procuratori generali dotati degli stessi poteri degli amministratori, la cui competenza verrebbe in tal modo ad essere svuotata di contenuto. In generale, ogni direttiva esterna, in forza di patto parasociale, oltre a restare incoercibile, è vista con disfavore dalla giurisprudenza, in quanto potenzialmente turbativa del corretto esercizio dell'amministrazione sociale, implicando un dovere di doppia fedeltà, nei confronti della società e del sindacato. Costituisce, quindi, giusta causa di revoca dell'amministratore di una società per azioni, ai sensi dell'art. 2383, comma 3, c.c., la sua adesione ad un patto parasociale che rimetta le scelte gestorie alla volontà maggioritaria dei relativi contraenti (c.d. sindacato di gestione: Cass. I, n. 8221/2012). Con il patto parasociale introduttivo di un sindacato di gestione, i soci si impegnano a fare in modo che gli amministratori, nominati grazie ai loro voti, si conformino a pattuizioni riguardanti la gestione societaria, replicandole nelle sedi opportune e dandovi esecuzione (Trib. Milano 2 luglio 2001, in Giur. it. 2002, 562). Il patto parasociale che impegni il socio a impartire istruzioni agli amministratori della società potrebbe quindi consistere, al più, in una promessa del fatto del terzo, insuscettibile di esecuzione in forma specifica ed invalida qualora contrasti con la norma inderogabile di cui all'art. 2380-bis c.c. (Trib. Modena, 3 dicembre 2010, in Soc. 2011, 832, con nota di Torino); oltre a non esimere, comunque, l'amministratore dalla responsabilità per mala gestio (Trib. Milano 30 ottobre 2008, in Giur. it. 2009, 647). L’emendamento introdotto dal codice della crisi d’impresaIl d.lgs. n. 14/2019 (Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155) ha emendato l'incipit del primo comma, inserendovi il riferimento al secondo comma dell'art. 2086 c.c., pure aggiunto dal medesimo decreto legislativo (art. 375, comma 2). La disposizione richiamata prescrive che l'imprenditore che operi in forma societaria o collettiva deve dotarsi di un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura ed alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva delle crisi d'impresa e della perdita della continuità aziendale; oltre che attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale (l'obbligo in questione è pure enunciato dall'art. 3 del d.lgs. n. 14/2019). Il combinato disposto delle due norme dà adito, prima facie, a qualche dubbio interpretativo. Innanzitutto, il riferimento congiunto alla forma societaria o collettiva non sembra doversi intendere come ridondante endiadi, bensì come alternativa effettiva. Con tale formulazione il legislatore pare aver preso posizione, sia pure in modo implicito e quasi parentetico, sulla vexata quaestio se l'esercizio collettivo di un'attività economica faccia capo necessariamente ad una società. Secondo parte della dottrina, tale non sarebbe l'impresa collettiva che abbia oggetto e finalità ideali, di natura culturale, assistenziale, politica ecc., perché priva dello scopo di lucro, considerato elemento essenziale della fattispecie societaria (art. 2247 c.c.). Né basterebbe, al riguardo, il lucro oggettivo, dovendo sussistere anche la destinazione naturale degli utili alla divisione tra i soci. Secondo tale impostazione, sarebbero quindi da riqualificare come associazioni, nonostante l'eventuale denominazione sociale, le imprese collettive senza scopo di lucro, data l'illegittimità di una clausola statutaria di una società di capitali che escluda sempre il riparto di utili (salvo che nelle società sportive e nelle società consortili, disciplinate da norme speciali): in tal modo, superandosi il convincimento preconcetto che la società, nel sistema legislativo vigente, sia la sola figura utilizzabile per l'esercizio collettivo di un'impresa (Galgano, Trattato di dir. civ., 2009, vol. 3, 264). Se questa è davvero la ratio sottesa alla formulazione testuale, appare pertanto svalutata, dal legislatore, l'opposta opinione dottrinaria che esclude la possibilità di concepire un'altra forma di esercizio collettivo di attività economica, diversa dalla società: tesi, essenzialmente fondata sul rilievo che, a seguito della direttiva 9 marzo 1968, n. 151 del Consiglio dei Ministri delle Comunità europee, è stata modificata, col d.P.R. n. 1127/1969, la disciplina della nullità del contratto di società per azioni, senza includere, tra le cause tassative previste dall'art. 2332 c.c. la mancanza dello scopo di lucro: omissione, poi confermata dalla riforma societaria del 2003. Si dovrebbe concludere, dunque, che anche le associazioni prive di scopo di lucro soggettivo – in quanto esercenti, beninteso, un'attività economica, tale da qualificarle come imprese – sarebbero tenute agli specifici obblighi elencati dall'art. 2086, comma 2, c. c., richiamato dall'art. 2380-bis, comma 1, c.c. (che parla promiscuamente di amministrazione della società, in rubrica, e di gestione dell'impresa, nel testo). Ma la novità sostanziale del richiamo al secondo comma dell'art. 2086 c. c. risiede nella parte in cui si pone la prescritta adeguatezza degli assetti in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d'impresa e della perdita della continuità aziendale (l'obbligo di programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale era già contenuto negli artt. 6, comma 2, e 14 del d.lgs. n. 175/2016 - Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica); e si prescrive, contestualmente, il dovere degli amministratori di attivarsi senza indugio per l'adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale. Si tratta di assetti organizzativi adeguati, a scopo di allerta, la cui mancata adozione potrebbe dare adito alla denunzia ex art. 2409 c. c. ed alla responsabilità degli amministratori in caso di mancata strategia di risanamento. All'art. 13 del d.lgs. n. 14/2019 sono indicati gli indicatori della crisi, ravvisati negli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell'impresa dell'attività imprenditoriale svolta dal debitore; in particolare, i ritardi nei pagamenti, reiterati e significativi. L'obbligo specifico di nuova introduzione va correlato con quanto già previsto dall'art. 2381, comma 5, c.c., con riferimento specifico all'eventuale riparto di competenze all'interno del consiglio di amministrazione, in caso di deleghe. Al riguardo, non sembra che la prescrizione di cui al combinato disposto degli artt. 2380-bis e 2086, comma 2, c.c., valga implicitamente ad imporre tale obbligo e la conseguente responsabilità, in modo generale ed indifferenziato, a carico di tutti gli amministratori, inclusi quelli deleganti. Appare, piuttosto, un'enunciazione generale, che lascia salva la distinzione di competenze tra consiglieri delegati e deleganti: rispettivamente, di cura dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile, per i primi (art. 2381 comma 5, c.c.), e di valutazione della relativa adeguatezza, sulla base delle informazioni ricevute, per i secondi (ibidem, terzo comma): anche sotto il profilo della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, che costituisce l'obbligo specifico introdotto ex novo. Il d.lgs. n. 147/2020Il d.lgs. n. 147/2020 (Disposizioni integrative e correttive a norma dell'art. 1, comma 1, della legge 8 marzo 2019, n. 20, al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, recante codice della crisi di impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155) ha apportato un emendamento all'art. 2380-bis c.c. (Amministrazione della società), aggiungendo, in chiusura del primo comma, il seguente periodo: “L'istituzione degli assetti di cui all'art. 2086, secondo comma, spetta esclusivamente agli amministratori”. Si tratta dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile, adeguato alla natura ed alle dimensioni dell'impresa, già previsto all'art. 2381 terzo e quinto comma c.c., novellato con la riforma del 2003; reso esplicitamente funzionale anche alla rilevazione tempestiva della crisi di impresa e della perdita della continuità aziendale, con specificazione contenuta nel richiamato art. 2086, comma 2, c. c., la quale costituisce una novità del codice della crisi di impresa (d.lgs. n. 14/2019). La portata dell'emendamento in esame è, in realtà, più apparente che reale, dal momento che nessuno ha mai dubitato che tale attività organizzativa, nell'ambito della società per azioni, spetti soltanto agli amministratori; essendo univoca la loro competenza esclusiva alla gestione dell'impresa, già prevista sia nel testo previgente dell'art. 2380-bis, comma 1, c. c., introdotto e rinumerato dalla riforma del 2003, sia in quello sostituito dall'art. 377, comma 2, del d.lgs. n. 14/2019: con conseguente inammissibilità, al riguardo, di un'eventuale procura generale, o ad hoc, conferita a terzi. La ratio della norma in esame va, quindi, ricercata con riferimento a tipi societari diversi dalla s.p.a. Solo per quest'ultima è stato conservato, infatti, dalla riforma del 2003, il principio di esclusività della gestione in capo agli amministratori; temperato unicamente con l'eventuale requisito statutario di autorizzazioni assembleari (art. 2364, comma 1, n. 5). In effetti, l'art. 40 d.lgs. n. 147/2020, nell'integralità del suo contenuto, ha inteso eliminare il dubbio che nelle società di persone e, ancor più, nella s.r.l., il codice della crisi avesse inteso assegnare ai soli amministratori la gestione sociale – a somiglianza, appunto, di quanto prescritto per la s.p.a. – in contrasto stridente con l'accentuata autonomia di disciplina della s.r.l. ridisegnata dalla riforma del 2003. La norma in esame, ispirata, dunque, ad una funzione chiarificatrice, quasi di interpretazione autentica, volta ad eliminare il dubbio di una gestione interamente demandata agli amministratori anche nella s.r.l., in controtendenza con la riforma del 2003, appare ridondante, in ultima analisi, nella parte in cui si riferisce alla società per azioni; e probabilmente è dovuta, in parte qua, ad un'esigenza formale di completezza di disciplina. All'interno della s.p.a, la distinta questione del riparto della competenza ad istituire gli assetti organizzativi, amministrativi e contabili tra il consiglio d'amministrazione nella sua pienezza e l'amministratore delegato (quando previsto dallo statuto o consentito dall'assemblea), è già risolto dall'art. 2381, comma 2, c.c.: nel senso che a quest'ultimo spetta – s'intende, nei limiti della delega – provvedere all'istituzione di tali assetti, adeguati alla natura ed alle dimensioni dell'impresa (art. 2086, comma 2, c. c.); mentre, al consiglio di amministrazione compete di valutarne l'adeguatezza. Il rispetto di tale obbligo vale non solo a cogliere i segni premonitori della crisi, ma anche come regola di condotta di un imprenditore diligente: con la conseguenza che la relativa inadempienza può dare luogo ad un'azione di danni. Occorre aggiungere che qualora si ammetta, in tesi generale, un amministratore-persona giuridica (su cui vedi sub art. 2381 c. c.), si dovrà ritenere che siano gli amministratori della persona giuridica, e non un terzo delegato, a dover provvedere all'istituzione degli assetti di cui all'art. 2086, comma 2, c.c. Si è affacciato il quesito, nel dibattito dottrinario, se la predisposizione degli assetti in questione rientri nella business judgement rule, e cioè nella discrezionalità amministrativa, giudizialmente sindacabile entro i ristretti limiti della manifesta irragionevolezza. Affermare ciò, peraltro, significherebbe svalutare i criteri di corretta amministrazione ormai testualmente affermati, che impongono l'adeguatezza della struttura organizzativa alle dimensioni e alla natura dell'impresa ed alla rilevazione tempestiva della crisi: canoni specifici, ben più stringenti dell'obbligo generico di esercitare con diligenza l'attività economica della società. 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