Codice Civile art. 2383 - Nomina e revoca degli amministratori 1.

Renato Bernabai

Nomina e revoca degli amministratori 1.

[I]. La nomina degli amministratori spetta all'assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori, che sono nominati nell'atto costitutivo, e salvo il disposto degli articoli 2351, 2449 e 2450. La nomina e' in ogni caso preceduta dalla presentazione, da parte dell'interessato, di una dichiarazione circa l'inesistenza, a suo carico, delle cause di ineleggibilita' previste dall'articolo 2382 e di interdizioni dall'ufficio di amministratore adottate nei suoi confronti in uno Stato membro dell'Unione europea2.

[II]. Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi, e scadono alla data dell'assemblea convocata per l'approvazione del bilancio relativo all'ultimo esercizio della loro carica.

[III]. Gli amministratori sono rieleggibili, salvo diversa disposizione dello statuto, e sono revocabili dall'assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell'atto costitutivo, salvo il diritto dell'amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa.

[IV]. Entro trenta giorni dalla notizia della loro nomina gli amministratori devono chiederne l'iscrizione nel registro delle imprese indicando per ciascuno di essi il cognome e il nome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza, nonché a quali tra essi è attribuita la rappresentanza della società, precisando se disgiuntamente o congiuntamente.

[V]. Le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi dopo l'adempimento della pubblicità di cui al quarto comma, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza.

 

[1] Articolo sostituito dall' art. 1 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6.

[2] Comma modificato dall'art. 6, comma 2, d.lgs. 8 novembre 2021, n. 183 che ha aggiunto, in fine, il seguente periodo «La nomina e' in ogni caso preceduta dalla presentazione, da parte dell'interessato, di una dichiarazione circa l'inesistenza, a suo carico, delle cause di ineleggibilita' previste dall'articolo 2382 e di interdizioni dall'ufficio di amministratore adottate nei suoi confronti in uno Stato membro dell'Unione europea.».

Inquadramento

La riforma del 2003 si è limitata ad apportare emendamenti non incisivi alla disciplina della nomina e revoca degli amministratori contenuta nell'art. 2383. I primi amministratori sono nominati nell'atto costitutivo (anche nel sistema dualistico: art. 2409-novies, terzo comma); i successivi dall'assemblea ordinaria (nel sistema dualistico, invece, dal consiglio di sorveglianza), ed i sistemi di votazione possono anche essere stabiliti volta per volta. L'assemblea potrà anche aumentare o diminuire il numero degli amministratori entro i limiti rigidi fissati nello statuto (art. 2380-bis, quarto comma).

La norma ha natura imperativa: con la conseguente nullità di clausole che sottraggano la competenza all'assemblea, per devolverla in favore di terzi, o di taluni soci, o degli amministratori stessi, in forza di delega o di cooptazione, al di fuori della previsione di cui all'art. 2386, primo comma (Cass. I, n. 14695/2017; Cass. I, n. 12820/1995, secondo cui la norma che riserva all'assemblea la nomina e la revoca degli amministratori è inderogabile e le deliberazioni dell'assemblea debbono essere inderogabilmente prese con l'osservanza del metodo collegiale: onde, non può ammettersi che, tramite singole clausole statutarie, le parti possano giungere, di fatto, a svuotare la portata di tali principi).

Tra le eccezioni alla regola della nomina assembleare espressamente fatte salve dal primo comma è venuta meno quella prevista dall'art. 2450, che nel testo originario dell'art. 2459 – poi rinumerato ed emendato (con l'aggiunta del secondo comma, relativo alla nomina riservata allo Stato del Presidente del collegio sindacale) dall'art. 1 d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6 – concedeva allo Stato un diritto di nomina riservata di amministratori, anche in difetto di partecipazione azionaria. Tale norma è stata infatti abrogata dall'art. 3 del d.l. 15 febbraio 2007, n. 10, convertito con modificazioni in legge 6 aprile 2007 n. 46 (Disposizioni volte a dare attuazione ad obblighi comunitari ed internazionali). L'abrogazione è stata motivata dall'incompatibilità col principio di libera circolazione del capitale e con il divieto di attribuzione all'ente pubblico di un controllo sproporzionato rispetto alla partecipazione al capitale.

Per contro, l'art. 2449 c.c. (corrispondente all'originario art. 2458) è stato novellato dall'art. 13, comma 1, l. 25 febbraio 2008, n. 34 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge Comunitaria 2007), a seguito della sentenza della Corte di giustizia UE 6 dicembre 2007 (in Giur. comm. 2008, 2, 576), e prevede ora che lo statuto possa conferire allo Stato o ad enti pubblici, soci di una s.p.a. cd. chiusa, la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, o di componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla loro partecipazione al capitale sociale.

La nomina ex art. 2449 è diretta, in forma provvedimentale, da parte dello Stato, senza bisogno di delibera assembleare; che, se c'è, ha solo valore dichiarativo. In senso parzialmente difforme, altra tesi dottrinaria ritiene la legittimità di una clausola statutaria di nomina in sede assembleare anche degli amministratori riservati allo Stato e agli enti pubblici: con la conseguenza che la sussistenza del privilegio a questi ultimi riconosciuto dall'art. 2449 non esonera dall'obbligo della regolare convocazione dell'assemblea e del suo svolgimento secondo le regole generali.

La ragione di tale modalità, cui non corrisponde un'effettiva libertà di voto, risiederebbe nella possibilità di discussione sui nomi che l'ente pubblico intende indicare, lasciando quindi adito all'eventuale influenza che i soci ordinari possano esercitare sulle scelte del socio privilegiato (Salafia, 773).

Sembra da escludere, comunque, la trasmissione del diritto di nomina riservata, dallo Stato ad eventuali subacquirenti privati delle azioni.

La revoca dell'amministratore di nomina pubblica, ai sensi dell'art. 2449 c.c., può essere da lui impugnata presso il giudice ordinario, e non presso il giudice amministrativo, trattandosi di atto uti socius, non iure imperii, compiuto dall'ente pubblico; e dà diritto solo alla tutela risarcitoria per difetto di giusta causa, a norma dell'art. 2383 c.c.; non anche alla tutela «reale» per reintegrazione nella carica, in quanto l'art. 2449 c.c. assicura parità di status tra amministratori di nomina assembleare e amministratori di nomina pubblica (Cass. S.U., n. 1237/2015).

Come principio generale, l'uguaglianza dei diritti può essere derogata unicamente tramite categorie di azioni. Pertanto, l'ammissibilità di diritti speciali nella s.p.a si palesa, prima facie, compatibile con la creazione di categorie di azioni con diritto di nomina di un amministratore, alla luce del principio di atipicità delle categorie di azioni (art. 2348, secondo comma). La prevalente dottrina, prima della riforma, negava, invece, l'ammissibilità di azioni con speciali diritti di nomina degli amministratori.

Cosa diversa è la nomina degli amministratori disciplinata convenzionalmente, per mezzo di patti parasociali di mera efficacia obbligatoria, ritenuti validi anche prima della riforma del 2003, pur se di durata a tempo indeterminato; salvo il diritto di recesso unilaterale, ad nutum, con obbligo di preavviso (Cass. I, n. 6898/2010; Cass. I, n. 14865/2001).

Resta in tal caso incoercibile il diritto del socio di determinarsi liberamente in assemblea e quindi di votare come meglio creda; anche restando inadempiente all'obbligo assunto col patto parasociale, insuscettibile di esecuzione in forma specifica o di provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c: il che preserva l'inderogabilità dell'attribuzione all'assemblea del potere di nomina degli amministratori, dato che al socio non è in alcun modo impedito di optare per il non rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta il suo interesse ad un certo esito della votazione assembleare prevalga sul rischio della conseguente responsabilità per inadempimento.

Lo statuto può prevedere clausole particolari per le modalità di elezione, ma vi sono limiti invalicabili: metodo collegiale obbligatorio (a differenza che nella S.r.l., ov'è consentito il metodo per referendum: artt. 2475, primo comma, e 2479, terzo comma) e quorum libero in seconda convocazione (art. 2369, quarto comma): il che implica l'inammissibilità della devoluzione della nomina all'assemblea straordinaria, su base statutaria.

Più controversa è l'inammissibilità del voto segreto. Anteriormente alla riforma del 2003 si riteneva ammissibile la dichiarazione contraria del socio, prima del voto, per consentire, formalmente, il voto segreto, ma integrare, nel contempo, il presupposto del dissenso ai fini della successiva impugnazione, ex art. 2377, secondo comma (Cass. I, n. 21816/2006; Cass. I, n. 10279/1996).

La tesi ammissiva aveva poi ricevuto un indubbio conforto dallo stesso legislatore, visto che l'art. 147-ter del T.U.F., introdotto dalla legge sul risparmio n. 262/2005, al secondo comma, prescriveva addirittura come obbligatorio il voto segreto proprio per le elezioni alle cariche sociali. La novità era stata criticata in dottrina, perché eccentrica al sistema: l'art. 2375 impone, infatti, l'identificazione del voto, anche ai fini della valutazione del conflitto di interessi e dell'impugnazione successiva della delibera. Nel tentativo di aggirarla si era suggerita la distinzione, a dire il vero alquanto sofistica, tra voto segreto, e cioè anonimo, e voto a scrutinio segreto, comunque identificabile: secondo la formula letterale dell'art. 147-ter T.U.F. (“Per le elezioni alle cariche sociali le votazioni devono sempre svolgersi con scrutinio segreto”).

La disposizione è stata comunque abrogata con il d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303 (Coordinamento con la legge 28 dicembre 2005, n. 262, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia e del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria), che ha così ripristinato le ragioni tradizionalmente ritenute ostative a questa modalità di voto.

Nelle S.p.A. quotate sono previsti voti di lista obbligatori, tali da assicurare l'elezione di almeno un amministratore tratto dalla seconda lista più votata, in modo che almeno un consigliere spetti alla minoranza. È altresì imposto un criterio di equilibrio fra generi (art. 147-ter, primo comma ter, T.U.F.). È dubbia la legittimità di una clausola di preferenza a parità di voti.

Lo statuto può contenere clausole di legittimazione legate al possesso di particolari requisiti soggettivi; che non debbono, però, essere tali da limitare le possibilità di scelta al punto da determinare uno jus singulare alla nomina e la pratica infungibilità dell'amministratore, così da renderlo, di fatto, irrevocabile.

L'ultimo comma dell'art. 2383 esclude l'opponibilità ai terzi delle cause di invalidità della nomina degli amministratori, ma solo se muniti del potere di rappresentanza, dopo l'iscrizione nel registro delle imprese (la cui omissione integra l'illecito amministrativo sanzionato dall'art. 2630, primo comma). Questa non riveste efficacia costitutiva, né integra una sanatoria di eventuali vizi della delibera di nomina, che restano quindi deducibili in sede di impugnazione. L'inopponibilità viene meno nell'ipotesi di conoscenza dell'invalidità, da parte dei terzi, con onere della prova a carico della società.

Il primo comma dell'art. 2383 c.c. è stato di recente emendato dall'art. 6, comma 2, d.lgs. 8 novembre 2021, n. 183, mediante l'inserzione del periodo “La nomina è in ogni caso preceduta dalla presentazione, da parte dell'interessato, di una dichiarazione circa l'inesistenza, a suo carico, delle cause di ineleggibilità previste dall'art. 2382 e di interdizioni dall'ufficio di amministratore adottate nei suoi confronti in uno Stato membro dell'Unione europea”: emendamento, vigente a decorrere dal 14 dicembre 2021. Tale aggiunta costituisce il recepimento, in parte qua, della direttiva (UE) 2019/1151 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, recante, a sua volta, la modifica della direttiva (UE) 2017/1132 per quanto concerne l'uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario.

Alla luce dell'emendamento introdotto si pone il problema delle conseguenze dell'eventuale inosservanza dell'obbligo ivi previsto. Al riguardo, si osserva che nessuna sanzione è formalmente ricondotta all'omissione della dichiarazione prevista: cosicché il relativo precetto appare tecnicamente qualificabile come lex imperfecta. Deve ritenersi, quindi, che comporti la decadenza dalla carica – una volta avvenuta l'elezione – non già la mera condotta omissiva del candidato, avvenuta anteriormente alla nomina, bensì l'effettiva sussistenza di una causa di ineleggibilità ex art. 2382, accertata ex post; o l'eventuale interdizione dall'ufficio di amministratore irrogata nei suoi confronti da uno Stato membro dell'Unione europea, che costituisce la vera novità sostanziale introdotta nel quadro dei requisiti di eleggibilità. Non sembra plausibile, per contro, ricollegare ad una norma di azione, prescrittiva di un obbligo di comportamento, una sanzione reale di nullità della nomina quando l'omessa dichiarazione non rispecchi una reale situazione di ineleggibilità dell'amministratore.

Sotto il profilo procedurale, poi, la disposizione sembra applicabile soprattutto alle società per azioni che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, per le quali è prevista una particolare modalità di elezione del consiglio di amministrazione, legata alla formazione di liste (art. 147-ter, comma 1, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 - TUF): e dunque, ad una formale competizione elettorale, i cui partecipanti sono diretti destinatari dell'obbligo di dichiarazione.

In tema di nomina, si è precisato che l'amministratore, una volta cessato dall'incarico, può essere rieletto, ma non confermato, atteso che il codice civile non prevede la conferma dell'amministratore: con il conseguente obbligo di iscrizione nel registro delle imprese ai fini dell'opponibilità ai terzi (Cass. VI-II, n. 4498/2020).

Il regime pubblicitario della nomina

La natura contrattuale del rapporto di amministrazione ne implica la genesi con l'accettazione dell'incarico da parte dell'amministratore eletto dall'assemblea. Tuttavia, il termine di 30 giorni per la richiesta di iscrizione nel Registro delle imprese (il cui ritardo è sanzionato dall'art. 2194), corredata di tutte le indicazioni prescritte al quarto comma, decorre dalla notizia della nomina, e cioè dalla delibera assembleare di elezione: cosa diversa dall'accettazione della carica, necessariamente successiva, o al più coeva se espressa nel corso della stessa assemblea. Poiché sembra logico che il destinatario della notizia non possa che essere lo stesso amministratore eletto, questa ricostruzione ermeneutica condurrebbe alla conseguenza poco plausibile di un decorso del termine per l'iscrizione già a partire dalla delibera, prima ancora dell'accettazione.

In giurisprudenza si è suggerita, quindi, un'interpretazione correttiva, che ha escluso che dalla sola nomina da parte dell'assemblea possano discendere doveri per un terzo, che potrebbe perfino esserne ancora ignaro (così, in motivazione, Cass. I, n. 6928/2001). Nel caso di inerzia dell'amministratore nominato alla richiesta di iscrizione nel Registro delle imprese della sua nomina, può riconoscersi legittimazione a proporre l'istanza di iscrizione d'ufficio, ex art. 2190, all'amministratore cessato secondo Trib. Milano 25 luglio 2022 (in Soc., 2023, 765).

L'iscrizione nel Registro delle imprese ha solo efficacia dichiarativa, ai sensi dell'art. 2193: con la conseguente inopponibilità ai terzi della nomina non pubblicata, salva la conoscenza di fatto da questi acquisita aliunde.

Dalla natura dichiarativa, e non costitutiva, dell'iscrizione nel registro delle imprese dell'atto di nomina (e di quello di revoca) dell'amministratore, discende che il potere di rappresentanza deriva esclusivamente dall'atto di conferimento dei relativi poteri, una volta accettata la carica; e non dalla pubblicità successiva: pertanto, legittimato a proporre ricorso per la dichiarazione di fallimento della società, in proprio, exart. 6 R.d. 16 marzo 1942 n. 267 è il nuovo amministratore che abbia accettato la carica, e non il precedente – contestualmente revocato e presente nell'assemblea che aveva assunto le due deliberazioni – nonostante revoca e nomina non siano ancora iscritte nel registro delle imprese (Cass. I, n. 30542/2018).

Nel silenzio della disposizione in esame, si deve ritenere che la revoca dell'amministratore, a differenza della nomina, debba seguire, invece, il regime pubblicitario di cui all'art. 2385, terzo comma: e quindi, essere iscritta, entro trenta giorni, nel Registro delle imprese a cura, però, del collegio sindacale.

Durata della carica

La durata della carica è necessariamente temporanea. Gli amministratori non possono essere nominati per un periodo superiore a tre esercizi (il testo previgente alla riforma indicava tre anni), con scadenza in occasione dell'assemblea che approva il bilancio del terzo esercizio (non più, quindi, al termine dei tre anni).

Sul tema, si è statuito che il patto di sindacato, con cui i soci abbiano concordato la nomina di un soggetto alla carica di amministratore per due trienni consecutivi non è nullo, per violazione dell'art. 2383 c.c., avendo effetti organizzativi del voto meramente interni e obbligatori, senza porre in discussione il corretto funzionamento dell'organo assembleare (Cass. I, , n. 36092/2021, in Soc. 2022, con nota di Cagnasso).

Rientra nell'autonomia statutaria l'eventuale previsione del metodo rotativo del rinnovo parziale, ripartito nel tempo, del consiglio, diversificando la durata dei singoli amministratori: fermo il rispetto del termine massimo di durata, di tre esercizi, per ciascuno di essi (Cass. I, n. 2144/1994). Tale tesi si fonda sull'espressa natura dispositiva dell'art. 2386, terzo comma, che – sia pure all'interno dell'ipotesi particolare di amministratori interinali, nominati in sostituzione di quelli venuti a mancare – pone come regola generale la scadenza contemporanea di tutti gli amministratori.

Nel silenzio della norma, l'accettazione della nomina ad amministratore di una società – necessaria, data la fonte contrattuale della carica – non richiede l'osservanza di specifiche formalità, risolvendosi in un atto endosocietario; e può essere anche tacita, desunta da atti positivi, incompatibili con la volontà di rifiutarla: come nel caso in cui l'amministratore assuma l'ufficio, anche senza l'osservanza dell'obbligo di iscrizione della nomina.

L'autenticazione della firma dell'amministratore è funzionale solo al suo deposito presso il registro delle imprese (non costitutivo dei poteri inerenti alla carica) e non rappresenta quindi un requisito di forma dell'accettazione, (Cass. I, n. 6928/2001).

La revoca degli amministratori con e senza giusta causa

La revoca degli amministratori spetta sempre all'assemblea ordinaria (art. 2364, primo comma n. 2 c.c.), onde sarebbe inammissibile una clausola dello statuto derogativa in parte qua. A differenza che per i sindaci (art. 2400, secondo comma c.c.), la giusta causa non ne costituisce presupposto di efficacia, e quindi la stabilità della carica non è assistita da tutela reale. Non vi è dunque spazio per una reintegrazione giudiziale nell'ufficio.

Questo non esclude, secondo la costante giurisprudenza, la legittimazione dell'ex amministratore ad impugnare la delibera di revoca invalida, ex art. 2377 c.c., secondo comma (Cass. I, n. 9040/1995, in una fattispecie di decadenza dichiarata dal consiglio di amministrazione per presunto difetto dei requisiti di legge di un amministratore nominato dall'assemblea); ed anche a proporne istanza di sospensione (Trib. Palermo, 24 gennaio 2013, in Giur. comm., 2016, II, 162).

Tale opinione suscita, invero, perplessità: non tanto perché l'annullamento verrebbe ad essere richiesto per un interesse privato dell'amministratore e non per l'interesse sociale – dal momento che l'art. 2377 c.c. presuppone, formalmente, solo la violazione oggettiva della legge o dello statuto (anche se parte della dottrina ritiene che tale norma sia solo in apparenza autoevidente: Zanarone, l'Invalidità delle deliberazioni assembleari, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo-Portale, III**, Torino, 1993, 219) – quanto, proprio per la revocabilità ad nutum dell'amministratore, che appare incompatibile con un sindacato di legittimità, se non incidentale, a fini risarcitori.

L'impugnazione della delibera, con la relativa sospensione, sembra quindi ammissibile solo ove miri all'accertamento della mancanza di una volontà assembleare ritualmente espressa in tal senso.

La carenza, in concreto, di una giusta causa, traducendosi in abuso del diritto, comporta il risarcimento del danno; che, però, è da ritenere suscettibile di esclusione – anche preventiva, mediante una clausola statutaria, efficace pure verso i successivi amministratori – o di rinunzia ex post, trattandosi di diritto patrimoniale disponibile (Trib. Milano 20 aprile 2022 n. 3432); e la controversia in materia può essere compromessa in arbitri (Trib. Milano 18 gennaio 2018). In ordine al risarcimento dei danni da revoca priva di giusta causa, si è affermato che alla responsabilità contrattuale della società ex art. 2383 c.c. relativa al lucro cessante per i compensi residui non percepiti, può aggiungersi la responsabilità extracontrattuale solo in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris rispetto alla revoca in sé, allorché le modalità e le ragioni espresse della revoca siano tali da ledere il diritto all'onore, reputazione o identità personale dell'amministratore; e che la motivazione deve essere espressamente enunciata nella deliberazione assembleare di revoca, senza possibilità di successivi motivi aggiunti (Cass. I, n. 21495/2020, in Soc., 2023, 19, con nota di Codazzi; Cass. I, n. 2037/2018, in Giur. it., 2018, 645, con nota di Spiotta; Trib. Milano 20 Maggio 2021).

Anche la mancata rielezione dell'amministratore – da intendere, quindi, implicitamente revocato – può giustificare la pretesa risarcitoria (App. Milano 18 ottobre 2006, in Giur. it., 2007, 1450). Nella giurisprudenza di merito era controverso, invece, se dia luogo a risarcimento la revoca della sola delega al singolo amministratore (in senso affermativo, Trib. Milano 12 maggio 2010, in Soc., 2010, 1154; lo ha negato, per contro, Trib. Cuneo 13 marzo 2012, in Giur. comm., 2013, 2, 151). In argomento è intervenuta poi la Corte di cassazione, affermando che nel silenzio dell'art. 2381 c.c., la revoca della delega all'amministratore delegato, decisa dal consiglio di amministrazione, deve essere assistita da «giusta causa», sussistendo, in caso contrario, il diritto del revocato al risarcimento dei danni eventualmente patiti: tanto, in applicazione analogica dell'art. 2383, comma 3, c.c., disciplinante la revoca degli amministratori da parte dell'assemblea, norma di cui ricorre la stessa ratio, in base alla quale, pur nella libertà del conseguimento degli interessi e degli obiettivi societari, occorre, in assenza di «giusta causa», tenere conto del sacrificio economico e sociale dell'amministratore conseguente alla revoca, soprattutto quando la delega comporti un'attività remunerata suscettibile di valutazioni professionali nel mercato dei managers (Cass. I, n. 7587/2016). La tesi dell'estensione analogica, in parte qua, dell'art. 2383 c.c. si palesa ormai consolidata (Cass. VI-II, n. 4954/2020, in Giur. comm., 2021, 2, 100, con nota di Cagnasso; App. Torino 9 gennaio 2018 n. 69; Trib. Milano 19 maggio 2021). Appare dubbia, a dire il vero, l'analogia delle situazioni, visto che la revoca dell'amministratore (che può essere un non socio) priva del tutto quest'ultimo della funzione e del compenso, oltre a cagionargli una situazione di potenziale discredito, connaturale alla revoca stessa: ciò che può avvenire anche in caso di revoca della delega, ma deve essere accertato in concreto, visto che il soggetto conserva il suo ruolo apicale di membro del consiglio di amministrazione. Si è comunque statuito che la revoca delle deleghe può essere giustificata dalla necessità di una profonda ristrutturazione dell'organico societario e delle relative funzioni specialistiche, dovuta, ad es., a sviluppi tecnologici o a normative di sicurezza: tali, da incidere negativamente sull'affidamento riposto sulle attitudini dell'amministratore delegato, pur immune da inadempimento dei doveri a lui ascrivibili. Non sarebbe, invece, idonea una generica esigenza di organizzativa della società (Cass. VI-II, n. 4954/2020 cit.).

La revoca può essere anche conseguenza automatica di una delibera autorizzativa dell'azione di responsabilità, se assunta con il voto favorevole di almeno un quinto del capitale (art. 2393, quinto comma c.c.). Non è una sanzione e quindi non deve essere preceduta dalla contestazione dell'addebito ed integra, per converso, una giusta causa, per presunzione assoluta di lesione del vincolo fiduciario (Trib. Roma 22 febbraio 2021 n. 3099 in Foro it., 2021, 1, 2564).

Ai sensi dell'art. 2449, secondo comma c.c., gli amministratori designati dallo Stato o da enti pubblici che abbiano partecipazioni in una società per azioni possono essere revocati solo dai medesimi enti che li hanno nominati. Si ritiene trattarsi di norma eccezionale, insuscettibile di estensione analogica; da cui non si può inferire, pertanto, un principio generale di simmetria tra potere di nomina e potere di revoca: con la conseguenza che fuori di detta ipotesi, ogni amministratore, pur se rappresentante di una categoria di azioni o anche se amministratore indipendente nominato dai titolari di strumenti finanziari partecipativi (cui si riferisce il rinvio all'art. 2351 c.c. contenuto al primo comma), resta revocabile dall'assemblea.

Secondo altra opinione dottrinaria, vi sarebbe, invece, in quest'ultimo caso, una competenza concorrente dell'assemblea e dei titolari degli strumenti finanziari.

È dubbio, peraltro, se ai sensi dell'art. 2449 c.c. la revoca debba intendersi riservata allo Stato e agli enti pubblici nella sola ipotesi in cui manchi una giusta causa; la cui sussistenza giustificherebbe, per contro, la concorrente competenza assembleare, secondo la regola generale. La soluzione sembra dipendere dall'identificazione dell'interesse sociale, eventualmente atipico, di cui siano, o no, portatori i predetti amministratori di nomina extra assembleare. L'art. 2383 c.c. è applicabile anche al provvedimento di revoca dell'amministratore di società partecipata dall'ente pubblico, disposto dal sindaco, ai sensi dell'art. 50, commi 8 e 9, d.lgs. 267/2000, trattandosi di una potestà di diritto privato spettante all'ente pubblico uti socius e non uti imperii: con la conseguenza processuale che il giudizio sulla legittimità di tale atto è devoluto al giudice ordinario (Cass. S.U., n. 29078/2019; Cass. S.U., n. 16335/2019, in Soc., 2020, 159, con nota di Pasero) e che la società è l'unico soggetto responsabile per l'eventuale illegittimità del provvedimento (Cass. S.U., n. 16335/2019, in Soc., 2020, 147, con nota di Perrino). Il cambio di maggioranza politica dell'ente pubblico socio non giustifica di per sé la revoca degli amministratori di una società quotata in borsa, a meno che non ne determini la paralisi organizzativa (Cass. I, n. 21495/2020, in Soc., 2021, 19, con nota di Codazzi).

Sempre in tema di società partecipata pubblica si è ritenuto, nella giurisprudenza di merito, che la revoca dell'amministratore, in applicazione del meccanismo di spoil system configuri una revoca senza giusta causa: con conseguente diritto al risarcimento del danno, ma senza reintegrazione della carica, in quanto l'art. 2449 c.c. assicura parità di status tra amministratori di nomina assembleare ed amministratori di nomina pubblica (Trib. Milano 24 luglio 2019 n. 7450). La tesi – che richiama, in sede motiva, la sentenza 15 dicembre 2006 n. 269 della Corte cost., dichiarativa dell'illegittimità costituzionale della l. r. Calabria n. 12/2005, nella parte in cui disponeva la decadenza automatica degli organi di vertice di società controllate, in caso di avvicendamento di maggioranze politiche regionali – si pone però in palese contrasto con il dictum di Cass. S.U., n. 16335 (in Soc., 2020, con nota di Pasero), secondo cui la previsione di cui all'art. 50, commi 8 e 9, d.lgs. 267/2000, che attribuisce al sindaco il potere di revoca degli amministratori della società partecipata dal Comune entro 45 giorni dal suo insediamento, integra, di per sé, una giusta causa di revoca, avendo una propria autonoma rilevanza rispetto alle regole statutarie, in funzione del rapporto di natura fiduciaria fondato sull'intuitus personae.

Questione nuova, involgente un'ipotesi eccezionale di tutela reale della funzione gestoria, per illegittimità della revoca, è quella esaminata da Cass. I, n. 31660/2019 (in Foro it. 1, 556) che, accertata una condotta discriminatoria ai danni dell'amministratore – che aveva, in precedenza, difeso il principio di parità di trattamento indipendentemente dalla razza o origine etnica all'interno dell'impresa – ne ha riconosciuto il diritto alla reintegrazione nella carica ai sensi dell'art. 28 del d.lgs. n. 150/2011.

La revoca è incompatibile con la decadenza degli amministratori, per perdita del requisito di indipendenza previsto dallo statuto: che quindi non dà diritto al risarcimento del danno (Trib. Napoli 7 giugno 2022, in Soc., 2023, 253).

Non sono dovuti danni per revoca senza giusta causa in caso di cessazione dalla carica di un amministratore dovuta all'apertura della liquidazione la società, che fa venir meno l'organo gestorio e la continuità dell'amministrazione (Cass. II, n. 22351/2022).

In tema di revoca dell'amministratore, che consiste nell'esercizio del potere di recesso che l'assemblea può esercitare in qualunque tempo, si è ritenuto che la giusta causa che esonera la società dal risarcire i danni all'amministratore revocato non debba consistere necessariamente in un'inadempienza dell'amministratore, essendo sufficiente che si sia determinata, per qualsiasi ragione, una rottura del pactum fiduciae basato sulle attitudini e capacità dell'amministratore (Cass. n. 21495/2020, in Soc., 2021, 19, con nota di Codazzi; Trib. Milano 3 maggio 2019 n. 4248). Può quindi dipendere da circostanze anche solo oggettive, ma tali da elidere l'affidamento riposto dai soci nell'organo di gestione (Trib. Torino, 18 ottobre 2012, in Giur. it., 2013, 867). È invece insufficiente, sotto il profilo in esame, la mera esistenza di contrasti tra l'amministratore e i soci (giurisprudenza costante: Cass. I, n. 16526/2005; Cass. lav, n. 15322/2004; Cass. I, n. 11801/1998).

Non mancano, tuttavia, oscillazioni, nella giurisprudenza di merito, di valutazione, sotto il profilo in esame, dei contrasti tra amministratore e maggioranza all'interno della società. Da un lato, si è ritenuto, infatti, che non assurga a giusta causa il semplice dissenso di un amministratore sulle decisioni del consiglio o su fatti relativi alla gestione (Trib. Milano, 6 maggio 2013 in Soc., 2013, 1285, in un caso di esercizio del diritto di veto, di natura statutaria o negoziale, spettante ad un componente di minoranza del consiglio di gestione, per impedire il ritorno della società al modello ordinario di amministrazione, voluto dal socio di maggioranza; Trib. Napoli, 21 maggio 2001, in Soc., 2001, 951, relativamente all'opposizione palesata dall'amministratore ad un progetto di fusione in itinere); dall'altro, la si è ravvisata, invece, nella radicale contrarietà manifestata dall'amministratore ad un'operazione giuridica di fondamentale importanza per la società, seguita da comportamenti tali da ingenerare il sospetto di un atteggiamento ostruzionistico, o comunque non connotato dalla solerzia necessaria a condurre a compimento tale operazione (Trib. Napoli 10 maggio 2001, in Giur. comm., 2002, 2, 495).

In ogni caso, la giusta causa non è condizione di efficacia della delibera di revoca, che resta in ogni caso ferma, valendo solo ad escludere l'obbligo risarcitorio (Trib. Milano 17 dicembre 2018 n. 43354).

Ai fini dell'accertamento della sussistenza di una giusta causa di revoca dalla carica di amministratore di società per azioni deve aversi riguardo solo alle ragioni enunciate nella deliberazione assembleare di revoca (Cass. I, n. 2037/2018; Trib. Roma, 24 luglio 2013, in Vita not., 2013, 1461).

La giusta causa consiste, innanzitutto, nella violazione dell'obbligo di diligenza. Sotto questo profilo, si prospetta l'interrogativo se possa integrarla l'eccessiva propensione al rischio.

La risposta al quesito si deve misurare con il principio generale della insindacabilità, nel merito, delle scelte gestionali (cd. Business judgement rule), per il quale l'amministratore può anche intraprendere operazioni rischiose, che restano sottratte al controllo giudiziale di responsabilità, se decise previa assunzione di cautele, nel rispetto del dovere di agire con diligenza, ed in particolare del dovere di agire informato (art. 2381 ultimo comma c.c.).

A questa stregua, resta soggetta a scrutinio di legittimità la sola fase istruttoria, propedeutica all'operazione; e se risulta che tutte le informazioni preventive siano state raccolte, la decisione assunta si presume la migliore possibile, e comunque insuscettibile di riesame nel merito, a prescindere dal risultato economico che ne consegua. Ritenere pertanto che la propensione al rischio, sol perché giudicata eccessiva dai soci, pur senz'alcun addebito di negligenza, assurga a giusta causa di revoca significa contraddire il canone fondamentale dell'autonomia gestionale dell'amministratore: con la conseguenza, apparentemente contraddittoria, che il medesimo comportamento potrebbe andare indenne da addebito di responsabilità, ex art. 2392 c.c., ma giustificare, nel contempo, la revoca, così da escludere il diritto al risarcimento del danno.

Sul tema della giusta causa di revoca la casistica giurisprudenziale è ricca e varia.

Può integrarla anche il rifiuto dell'amministratore della società-monade di ottemperare alle direttive della capogruppo; beninteso, se queste non siano abusive, e cioè contrarie ai principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale (art. 2497 c.c.): rispetto alle quali, anzi, l'amministratore della società eterodiretta è tenuto ad una funzione di filtro.

Può costituire giusta causa di revoca dell'amministratore di una società per azioni, agli effetti dell'art. 2383, comma 3, c.c., anche la sua adesione ad un patto parasociale che rimetta le scelte gestorie alla volontà maggioritaria dei relativi contraenti (cd. sindacato di gestione: Cass. I, n. 8221/2012; in senso parzialmente difforme, Trib. Torino 11 gennaio 2005 in Giur. it., 2005, 525, secondo cui anche ammesso che un sindacato azionario deliberante a maggioranza sia nullo, bisognerebbe provare non solo la sua esecuzione, ma anche che proprio dall'attuazione di un patto illecito e nullo sia derivato, in concreto, un grave pregiudizio alla società).

Non si può invece ravvisare una giusta causa nella mera convenienza economica della società, derivante dalla riduzione del numero degli amministratori (Cass. n. 4240/1957, in Giur. it., 1958, I, 1, 962; in senso contrario, in una fattispecie, però, particolare, Trib. Roma, 1 marzo 2012, in Giur. comm., 2013, II, 697, secondo cui la decadenza ex lege dalla carica di consigliere di amministrazione di società a partecipazione pubblica, disposta nella prospettiva della riduzione obbligatoria del numero dei componenti del consiglio, si configura come factum principis, e quindi come profilo pubblicistico del più generale principio dell'impossibilità sopravvenuta per il debitore di adempiere i propri obblighi: cosicché si deve escludere la spettanza, in capo all'amministratore decaduto, del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 2383, comma 3, c.c.).

La giusta causa può anche avere natura oggettiva, non dipendente, cioè, da inadempimenti dell'amministratore, bensì determinata dalla sopravvenienza di situazioni che, seppur inimputabili a titolo di colpa, siano comunque tali da elidere l'affidamento inizialmente riposto sulle sue attitudini e capacità: come nel caso che, in dipendenza di circostanze nuove, si richieda una competenza professionale specifica, di cui l'amministratore in carica sia sprovvisto (Trib. Napoli, 25 novembre 2014, in Soc., 2015, 1371); o a fortiori in caso di impossibilità di quest'ultimo di proseguire l'esercizio dell'incarico, per malattia, età, ecc. La giusta causa che legittima la revoca dell'amministratore può consistere, oltre che in un inadempimento significativo, anche in obblighi ex lege attinenti alla composizione equilibrata, sotto il profilo del genere, dell'organo amministrativo (Trib. Milano 5 maggio 2021 n. 3731, in Giur. it., 2022, con nota di Desana).

Non costituisce, invece, giusta causa di revoca il mutamento dell'assetto organizzativo, quale discende, implicitamente, dal passaggio da un modello di amministrazione ad un altro; o dalla eliminazione della forma collegiale; o ancora, dalla riduzione del numero dei componenti del consiglio di amministrazione: evenienze, peraltro, non di rado mosse da intenti strumentali (Cass. I, n. 21342/2013; Cass. I, n. 27512/2008).

Perfino l'applicazione della clausola statutaria simul stabunt, simul cadent – che prevede che, a seguito della cessazione di taluni amministratori, venga meno l'intero c.d.a. – deve rispondere al principio generale di buona fede ed al dovere di lealtà e correttezza che regolano i rapporti all'interno della società: cosicché è viziata da illegittimità laddove sia volta al solo fine di determinare l'estromissione di un amministratore, eludendo il disposto di cui all'art. 2383, comma 3 c.c. (Trib. Milano, 7 Novembre 2012, in Soc., 2013, 797).

Per contro, la revoca implicita degli amministratori per effetto dello scioglimento della società, con nomina dei liquidatori, dotati di poteri diversi, è evenienza tipizzata nella legge e dunque esimente da risarcimento: salvo ipotesi particolari di abuso del diritto, come nel caso di successiva revoca dello stato di liquidazione e ripresa dell'ordinaria attività imprenditoriale, senza riconferma dei precedenti amministratori.

Discorso analogo va ripetuto per l'ipotesi di fusione con altra società, comportante automatica cessazione dell'organo amministrativo della società incorporata.

In tesi generale, si può dunque concludere che se una trasformazione o una modificazione strutturale, per quanto profonde, siano ispirate proprio dall'intento di rimuovere dalla carica un amministratore individuato, non valgono come giusta causa.

Nella giurisprudenza di merito è stata ritenuta giusta causa anche la sostituzione del socio di controllo, se incrini il rapporto di fiducia fra gli amministratori e la nuova maggioranza, che non si senta adeguatamente rappresentata dai gestori in carica (Trib. Treviso 20 aprile 2007, in Giur. comm. 2008, 2, 1049).

Non è sempre netto, in giurisprudenza, il rilievo esimente delle esigenze organizzative allegate a base della revoca dell'amministratore. Da un lato si è statuito che costituisce giusta causa di revoca dell'amministratore di una società facente parte di un gruppo, la comprovata esistenza di ragioni di ristrutturazione e riorganizzazione del gruppo stesso e dei compiti assegnati alle varie società partecipate; dall'altro, si è contestualmente affermato che non può invece consistere nella mera ricorrenza di esigenze di autoorganizzazione della struttura societaria, in assenza di fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto (Cass. I, n. 28719/2020, in Foro it., 2021, 1, 2179, con nota di Niccolini).

Una volta accertata l'inesistenza di una giusta causa di revoca, alla responsabilità contrattuale della società per il lucro cessante da compensi residui non percepiti – derivante dal fatto stesso del recesso dal rapporto di amministrazione – può aggiungersi sia la responsabilità, sempre di natura contrattuale, per la violazione delle regole di buona fede e correttezza, sia la responsabilità aquiliana della società, o di soggetti in concorso con essa, in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris rispetto alla revoca in sé: come quando le ragioni poste a base della delibera, anziché essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, siano pure tali da ledere un diritto della persona (come l'onore e la reputazione, con le eventuali conseguenti ricadute patrimoniali), distinto dal diritto dell'amministratore alla prosecuzione della carica fino alla sua naturale scadenza (Cass. I, n. 2037/2018).

Benché il terzo comma ricolleghi espressamente alla revoca priva di giusta causa il risarcimento dei danni, la giurisprudenza di merito l'ha talvolta riqualificato in indennizzo, sotto il profilo che si tratterebbe di pregiudizio da fatto lecito; e lo ha liquidato in misura pari agli emolumenti che l'amministratore avrebbe percepito ove non fosse intervenuta la revoca, a titolo di debito di valore: come tale, suscettibile di rivalutazione monetaria (Trib. Roma, 24 luglio 2013, in Vita not., 2013, 3, 1461).

La revoca giudiziale dell'amministratore

Natura giuridica affatto diversa ha la revoca degli amministratori perseguita per via giudiziale.

Il primo esempio si colloca all'interno del procedimento tipico ex art. 2409 c.c., disposto dal Tribunale in caso di fondato sospetto di gravi irregolarità commesse dagli amministratori in violazione dei loro doveri, suscettibili di arrecare danno alla società, o a una o più società controllate. È prevista come ultima ratio (“nei casi più gravi”, recita l'art. 2409, comma 4 c.c.), trattandosi della misura maggiormente invasiva dell'autonomia della società.

Proprio la presenza del procedimento tipico configurato dall'art. 2409 c.c. porta ad escludere la revocabilità cautelare dell'amministratore di s.p.a. in un giudizio di responsabilità, analoga a quella prevista per la s.r.l, dall'art. 2476, terzo comma c.c. L'alternatività tra le due misure è messa chiaramente in luce dalla Relazione governativa al d.lgs. 6/2003, par. 11, che spiega la novità dell'esclusione del procedimento di cui all'art. 2409 c.c. per le s.r.l. con il riconosciuto “potere di ciascun socio di promuovere l'azione sociale di responsabilità e di chiedere con essa la provvisoria revoca giudiziale dell'amministratore in caso di gravi irregolarità ex articolo 2476, terzo comma”: sebbene il giudice non disponga, in tal caso, del potere di nomina di un amministratore giudiziario, in sostituzione di quello revocato.

La revoca giudiziale dell'amministratore può essere anche effetto di una misura cautelare assunta nel corso dell'istruttoria ex art. 15, ottavo comma, legge fallimentare, ed è destinata a cessare con la sua chiusura. Secondo parte della dottrina, peraltro, il provvedimento in questione consisterebbe in un'anticipazione dello spossessamento concorsuale disposto dall'art. 42 legge fallimentare.

Si pone, allora, il problema di un'eventuale amministrazione giudiziaria prefallimentare (sul modello regolato, appunto, dagli artt. 2409, quarto comma c.c. e 92-94 disp. att. c.c.), sostitutiva di quella societaria (Trib. Monza 20 novembre 2009, in Fall., 2009, 854, in un caso in cui si assumeva che l'amministratore stesse mettendo in essere attività depauperative del patrimonio, mediante bonifici bancari, con drenaggio di liquidità verso la capogruppo).

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