Codice Civile art. 2384 - Poteri di rappresentanza (1).

Renato Bernabai

Poteri di rappresentanza (1).

[I]. Il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale.

[II]. Le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società.

(1) Articolo sostituito dall' art. 1 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6 , con effetto dal 1° gennaio 2004. La legge ha modificato l’intero capo V, ed è stata poi modificata e integrata dal d.lg 6 febbraio 2004, n. 37, la cui disciplina transitoria è dettata dall'art. 6.

Inquadramento

Il potere di rappresentanza configurato al primo comma ha natura generale e riguarda, quindi, tutte le manifestazioni esterne, nei confronti dei terzi, della volontà sociale, con effetti reali o obbligatori per la società. Di norma è attribuito, selettivamente, al presidente del consiglio di amministrazione o a uno o più consiglieri delegati.

A sua volta, il potere di gestione – deliberativo o di decisione – dell'impresa sociale spetta in via esclusiva all'organo amministrativo (art. 2380-bis, comma 1) – e dunque a tutti i suoi componenti, se collegiale, salvo deleghe – e si estende ad ogni atto che rientri nell'oggetto sociale, inteso come settore di attività in cui la società è destinata ad operare.

Anche il previgente art. 2384 prevedeva l'estensione dei poteri degli amministratori a tutti gli atti che rientravano nell'oggetto sociale, salve le limitazioni di legge o dell'atto costitutivo. Benché riferito formalmente al potere di rappresentanza, indicato in rubrica, lo si riteneva estensibile al potere di gestione.

I due poteri si cumulano in caso di organo monocratico (amministratore unico), o di amministratore delegato.

La specificazione, nello statuto, del tipo di attività economica che la società si propone di svolgere è di particolare rilievo organizzativo e condiziona l'applicazione di varie norme: quali, ad es., in tema di assunzione di partecipazioni in altre imprese (art. 2361, comma 1), di recesso del socio, nel caso di modifica di una clausola dell'oggetto sociale che consenta un cambiamento significativo dell'attività della società (art. 2437, comma 1, lett.a) , di scioglimento della società per il conseguimento o per la sopravvenuta impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale (art. 2484, comma 1, n. 2), nonché, appunto, di limiti ai poteri degli amministratori.

  Il potere di rappresentanza generale – da intendersi esteso anche all'attività processuale (Cass. I, n. 3305/1997) – è più ampio del potere di gestione previsto dall'art. 2380-bis, valendo pure per gli atti estranei all'oggetto sociale. L'atto ultra vires è, infatti, fonte di responsabilità interna, ma resta valido verso i terzi; con l'unico limite dell'exceptio doli di cui al secondo comma.

La rappresentanza organica dell'amministratore, prefigurata come generale al primo comma, è un potere naturale degli amministratori; ed anzi, secondo parte della dottrina, non è altro che la stessa funzione di amministrare la società, riflessa nei rapporti esterni, e si estende anche agli atti illeciti ed a quelli meramente materiali. Lo statuto può limitare direttamente la rappresentanza ad alcuni amministratori.

Sul problema del rapporto del potere di rappresentanza con la delega (art. 2381, comma 2), si osserva, in tesi generale, che non appare configurabile una delega, in senso tecnico, alla rappresentanza; tanto meno, una delega cd. impropria ad opera del consiglio di amministrazione, che può solo conferire una rappresentanza volontaria.

Secondo parte della dottrina, è pure escluso che il consiglio di amministrazione possa attribuire la rappresentanza mediante l'atto di nomina del presidente, ex art. 2380 bis comma 5, e che la delega di funzioni gestorie porti necessariamente con sé la rappresentanza legale della società. Sebbene l'ampiezza dei due poteri tendenzialmente coincida, pure, vi può essere dissociazione: come nel caso del presidente del consiglio d'amministrazione che goda del potere di rappresentanza, ma sia privo di alcuna delega (che, di solito, viene concessa per la maggiore rapidità delle decisioni).

È consentita, infatti, all'autonomia privata la limitazione, nello statuto o nell'atto di nomina o di delega, dei poteri di gestione e di rappresentanza; nonché la distinzione tra la rappresentanza generale – di norma, riservata al presidente – ed il potere di gestione, eventualmente attribuito al consiglio d'amministrazione nella sua interezza, o invece, al suo interno, al comitato esecutivo o ad amministratori delegati.

Talvolta è la stessa legge a conferire, invece, un potere di decisione, di natura gestoria, all'assemblea: come ad es., per l'acquisto di azioni proprie (art. 2357, comma 2) e di azioni della controllante (art. 2359-bis, comma 2), o nell'acquisto di partecipazioni comportanti responsabilità illimitata (art. 2361, comma 2); o ancora, ai fini del contrasto di un'o.p.a. (art. 104 T.U.F.) , o in caso di superamento delle soglie di partecipazioni reciproche previste dagli artt. 120, comma 2, e 121, comma 1, del T.U.F, in base ad un accordo preventivamente autorizzato, appunto, dall'assemblea ordinaria di entrambe le società interessate (art. 121, comma 2, T.U.F.) . Anche lo statuto può assegnare competenze gestorie all'assemblea, sotto forma di autorizzazioni ex art. 2364, comma 1, n. 5.

Ma in ogni caso l'iniziativa e soprattutto l'esecuzione delle relative delibere assembleari spettano sempre all'amministratore e mai all'assemblea.

La distinzione, tipica delle società di capitali, tra persona giuridica e persona fisica ad essa partecipante fa sì che l'interesse del socio alla conservazione dalla consistenza economica dell'ente è tutelabile esclusivamente con strumenti interni (azioni di responsabilità, impugnazioni di delibere); ma non consente, invece, di assumere iniziative esterne, quali azioni giudiziarie, il cui esercizio resta riservato alla società, e per essa al suo amministratore (Cass. VI-I n. 26502/2021).

Gli atti estranei all'oggetto sociale

Nella vigenza del testo anteriore alla riforma del diritto societario, si faceva dipendere l'efficacia esterna dell'atto posto in essere dall'amministratore dalla sua riconducibilità all'oggetto sociale. Così, Cass. II n. 1213/2017, secondo cui, in tema di poteri di rappresentanza dell'amministratore di una società di capitali, il conferimento di un incarico professionale di consulenza fiscale e commerciale costituisce, di regola, atto di ordinaria amministrazione e, comunque, atto coerente con l'oggetto sociale, giacché esecutivo dell'attività imprenditoriale; e perciò rientra nei poteri rappresentativi degli amministratori, ai sensi dell'art. 2384: ratio decidendi, che lascerebbe intendere, a contrario, che se fosse stato un atto di straordinaria amministrazione o non inerente l'oggetto sociale, non avrebbe impegnato la società, indipendentemente dalla mala fede del terzo.

Analogamente, la tesi dell'efficacia verso terzi condizionata dall'inerenza all'oggetto sociale è adombrata da Cass. I, n. 23085/2014 secondo cui il rilascio di fideiussione in favore del conduttore di immobili appartenenti ad una società avente per oggetto la gestione di immobili rientra, indirettamente, nell'oggetto sociale e, dunque, nei poteri rappresentativi degli amministratori, ai sensi dell'art. 2384 (adde Cass. I, n. 23085/2014).

Ma in realtà già la Direttiva 9 marzo 1968 n. 151 - 1968/151/CEE, (Prima direttiva del Consiglio intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società a mente dell'art. 58, secondocomma, del Trattato per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi) – successivamente abrogata dall'art. 16 della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio n. 101 del 16 settembre 2009 – dopo avere enunciato la ratio protettiva della buona fede dei terzi e della sicurezza dei traffici (“considerando che la tutela dei terzi deve essere assicurata mediante disposizioni che limitino, per quanto possibile, le cause di invalidità delle obbligazioni assunte in nome della società”), all'art. 9, secondo comma, aveva riversato sulla società, anziché sui terzi, il rischio dell'eccesso del potere rappresentativo degli amministratori (“Anche se pubblicate, le limitazioni dei poteri degli organi sociali che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi”).

Tale prescrizione è stata poi trasfusa nel secondo comma della norma in commento, novellata dal d.P.R. 29 dicembre 1969 n. 1127, in attuazione della predetta direttiva; con l'unico limite dell'exceptio doli, comportante la prova che i terzi abbiano intenzionalmente agito a danno della società (la formula dell'art. 2384, secondo comma, è analoga a quella dell'art. 1993, secondo comma, sulle eccezioni opponibili nei rapporti cartolari). L'esigenza della tutela dei traffici commerciali e della tutela dei terzi prevale, dunque, sull'interesse della società a contrastare l'abuso del potere di rappresentanza degli amministratori.

Pertanto, nei rapporti esterni, sia gli atti compiuti dall'amministratore munito del potere di rappresentanza ma privo del potere di gestione, per estraneità all'oggetto sociale, sia gli atti che eccedono i limiti – anche se pubblicati – ai poteri di rappresentanza rimangono validi (Cass. lav., n. 18574/2007); ferma restando la responsabilità dell'amministratore nel rapporto interno con la società, ai fini dell'eventuale azione sociale (artt. 2393 e 2393-bis), o quale giusta causa di revoca (art. 2383, terzo comma); o ancora, in ipotesi di gravi irregolarità suscettibili di arrecare danno alla società, quale motivo di denuncia al tribunale (art. 2409).

In questa distinzione tra validità esterna e responsabilità interna sta, in nuce, la differenza di disciplina del potere di gestione rispetto al potere di rappresentanza. Il primo non ricomprende, secondo autorevole dottrina, gli atti estranei all'oggetto sociale.

Questa tesi restrittiva valorizza, sul punto, sia il dato letterale dell'art. 2380-bis, che parla di “operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale” (con specificazione ancor più intensa di quella originaria dell'art. 2384: “atti che rientrano nell'oggetto sociale”), sia il conforme testo della Relazione di accompagnamento (“La gestione dell'impresa sociale spetta in via esclusiva agli amministratori, i quali hanno poteri di gestione estesi a tutti gli atti che rientrano nell'oggetto sociale (art. 2380-bis, primo comma)”.

Ad ulteriore conferma, si osserva, altresì, che il patrimonio sociale non può essere distratto dalla destinazione impressagli dai soci con il programma economico prefigurato nello statuto.

L'opinione contraria, secondo cui, dopo la riforma dell'art. 2384 e la soppressione dell'art. 2384-bis, l'oggetto sociale non limiterebbe più i poteri degli amministratori, mostra di non distinguere, sotto il profilo in esame, i due aspetti, gestorio e rappresentativo – al quale ultimo, solo, la norma attribuisce portata generale – e finisce col dilatare il potere di gestione indefinitamente, rendendo incerto il fondamento della responsabilità interna dell'amministratore verso la società.

L'inerenza all'oggetto sociale, più che discendere dall'inclusione nell'elenco statutario delle operazioni consentite, deve essere valutata in base alla strumentalità concreta dell'atto rispetto al programma economico (Cass. I, n. 25409/2016; Cass. I, n. 8159/2000). Ai fini della valutazione della pertinenza non sono, quindi, sufficienti né il criterio dell'astratta previsione, nello statuto, dello specifico tipo di atto posto in essere, né il criterio della sua conformità all'interesse della società, in quanto l'oggetto sociale costituisce, ai sensi dell'art. 2384 c.c., un limite al potere degli amministratori, che non possono perseguire l'interesse della società operando indifferentemente in qualsiasi settore economico (Cass. I, n. 16416/2002).

A questa stregua, neppure gli atti gratuiti, o perfino di beneficenza, potrebbero ritenersi esclusi, a priori, da ogni rapporto di strumentalità con l'oggetto sociale, dovendosi sempre guardare al loro possibile ritorno economico in favore della società, nella concreta situazione data; mentre, all'opposto, potrebbe non risultare funzionale al perseguimento concreto dell'oggetto sociale un atto pur contemplato formalmente nello statuto.

Come detto, il rischio di infedeltà, o negligenza nel rispetto dei limiti assegnati, del rappresentante grava sulla società, stante il rapporto organico che li lega e l'autonomia del potere rappresentativo. Questa disciplina è il punto d'arrivo di un lungo iter di sviluppo normativo.

Il testo originario dell'art. 2384 si riduceva, infatti, ad una mera relatio all'art. 2298, dettato in tema di società in nome collettivo: e dunque accomunava la disciplina del tipo più evoluto di società di capitali a quella, molto meno articolata, della società di persone, rendendo opponibili ai terzi le limitazioni iscritte nel registro delle imprese o di cui essi avessero avuto conoscenza.

Tale disciplina è stata emendata dal d.P.R. 29 dicembre 1969 n. 1127, in attuazione della prima direttiva societaria Cee; con la contestuale aggiunta dell'art. 2384-bis (Atti che eccedono i limiti dell'oggetto sociale) a maggiore tutela dei terzi.

Per effetto della restrizione dell'opponibilità dei limiti del potere di rappresentanza, la società poteva sollevare solo l'exceptio doli generalis, non essendo sufficiente la natura, anche gravemente colposa, dell'affidamento del terzo, per impedire l'efficacia dell'atto abusivamente posto in essere dall'amministratore.

La successiva soppressione dell'articolo 2384-bis ad opera della riforma del 2003 ha dato adito a dubbi sulla ricaduta in tema di opponibilità del limite dell'oggetto sociale. Sembra preferibile la tesi dell'assorbimento della norma abrogata nella previsione di cui all'art. 2384, secondo comma, e quindi tenere ferma l'inopponibilità ai terzi dell'estraneità dell'atto all'oggetto sociale: salva la prova – per lo più, ottenuta per presunzioni – del loro intento di arrecare danno alla società.

Alla luce di questa ricostruzione ermeneutica, perde di rilevanza, ai fini della determinazione dei poteri gestori attribuiti agli amministratori delle società di capitali, anche la distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, prevista con riguardo ai beni degli incapaci dagli artt. 320,374 e 394 c.c.: dovendosi fare riferimento, piuttosto, alla strumentalità degli atti al programma economico stabilito dallo statuto – qualunque sia la loro rilevanza economica e natura giuridica – pur se eccedano i limiti della cd. ordinaria amministrazione (Cass. I, n. 5152/2010; Cass. I, n. 25952/2011).

Lo speciale regime di inopponibilità delle limitazioni del potere rappresentativo degli amministratori di una società per azioni ai terzi che non versino in situazione di dolo, trova applicazione in ogni caso in cui tale potere sussiste sia perché previsto dall'atto costitutivo o dalla delibera di nomina, sia perché derivante dalla stessa carica di amministratore. L'inciso “anche se pubblicate”, enunciato nel secondo comma della menzionata disposizione codicistica, elimina in radice la possibilità che eventuali limitazioni del potere rappresentativo possano essere opposte al terzo contraente, allorché siano state adempiute le formalità di legge per la pubblicazione degli atti societari (Cass. lav, n. 18574/2007).

Terreno elettivo della casistica degli atti ultra vires è sempre stato quello delle garanzie gratuite e dei finanziamenti concessi all'interno di un gruppo di società. Nel vigore dell'art. 2384-bis era prevalente la tesi che occorresse guardare all'interesse concreto, sia pure mediato e riflesso, della società autrice dell'operazione, non desumibile automaticamente dalla sussistenza di un legame di gruppo (Trib. Roma, 10 gennaio 2001, in Banca borsa tit. cred., 2002, II, 76).

Secondo parte della dottrina, vi sarebbe una praesumptio hominis di estraneità delle garanzie cd. ascendenti – e cioè concesse alla holding dalla società eterodiretta – perché implicanti un rischio senza corrispettivo; per contro, una presunzione di pertinenza per le garanzie cd. discendenti, concesse dalla capogruppo. In effetti, il positivo accertamento della congruenza dell'atto all'oggetto sociale di quest'ultima risulta agevolato dalla costatazione che esso è, fino a prova contraria, diretto al soddisfacimento di un interesse economico della stessa holding a salvaguardare il valore della propria partecipazione nella società controllata.

Non si tratta comunque di presunzioni assolute: anche una garanzia gratuita della società eterocontrollata in favore della capogruppo potrebbe rivestire un interesse per la prima: come nel caso in cui la società controllante sia il polmone finanziario del gruppo, mediante mutui bancari ottenuti grazie alle garanzie offerte dalle società controllate.

Si tratta, in ultima analisi, della questione dei vantaggi compensativi, da accertare caso per caso, tenuto conto dell'interesse concreto della società garante (Cass. I, n. 21250/2010; Cass. I, n. 12325/1998; Cass. I, n. 2001/1996).

In ogni caso, resta privo di rilevanza esterna, di norma, l'abuso di direzione e coordinamento, con la conseguenza che le garanzie ultra vires sono valide nei rapporti esterni, salva l'exceptio doli.

Un ulteriore esempio problematico di atto estraneo all'oggetto sociale è costituito dalla vendita o dall'affitto dell'unica azienda, che metta fine all'attività imprenditoriale della società (nel caso dell'affitto, si parla addirittura di passaggio dalla forma societaria alla mera comunione). Parte della dottrina ritiene che occorra, per tale ragione, l'autorizzazione dell'assemblea: ferma restando, comunque, l'inopponibilità ai terzi di buona fede del valicamento dei limiti del potere di gestione e rappresentanza, da parte dell'amministratore.

Altri autori ritengono invece che, dopo il potenziamento della funzione gestoria in capo all'amministratore, disposto dalla riforma, solo nell'ipotesi di una modificazione del programma economico, e quindi del profilo di rischio, per effetto dell'atto dell'amministratore, vi sarà bisogno di una delibera assembleare autorizzativa.

In ogni caso, la capacità generale della società porta ad escludere la nullità degli atti ultra vires, esorbitanti dall'oggetto (Cass. III, n. 18449/2015, secondo cui l'amministratore, in difetto di specifiche limitazioni della capacità stabilite dalla legge, può porre in essere qualsiasi atto o rapporto giuridico, inclusa la donazione, ancorché esuli od ecceda – o anche, tradisca – lo scopo lucrativo perseguito: dovendosi ritenere che l'oggetto sociale costituisca solo un limite al potere deliberativo degli organi societari, la cui violazione non determina la nullità dell'atto, né la sua inefficacia, ma, eventualmente, la responsabilità degli amministratori che lo hanno compiuto).

Per altro verso, il negozio potrebbe rientrare nell'oggetto sociale della società e tuttavia essere egualmente scorretto, come nel caso della vendita di un cespite patrimoniale a prezzo vile.

La rappresentanza passiva della società spetta sempre al singolo amministratore, anche in caso di clausola di firma congiunta.

Si è posto pure il problema del conflitto della norma in esame con l'art. 12 della legge cambiaria (R.d. 14 dicembre 1933, n. 1669- Modificazioni alle norme sulla cambiale e sul vaglia cambiario), secondo cui “il potere di obbligarsi cambiariamente in nome e per conto dell'imprenditore commerciale, spettante in via presuntiva al rappresentante dell'imprenditore stesso, resta escluso quando vi sia una contraria previsione pubblicata ai sensi dell'art. 2206 c.c.”. Problema, risolto dalla giurisprudenza di legittimità con ricorso al principio di specialità: nel senso che l'art. 2384 c.c. (nel testo fissato dall'art. 5 del d.P.R. 29 dicembre 1969 n. 1127) – a norma del quale, quando l'amministrazione di una società di capitali ha la rappresentanza della società medesima, le limitazioni del relativo potere, poste dall'atto costitutivo o dallo statuto, sono opponibili al terzo, pure se pubblicate, nel solo caso in cui si provi che questi abbia agito intenzionalmente a danno della rappresentata – trova applicazione, quale disposizione speciale in materia societaria, anche con riguardo alle obbligazioni cambiarie e quindi configura una deroga all'art. 12, comma 2, del R.d. 14 dicembre 1933, n. 1669 (Cass. I, n. 1506 /1993, in Foro it., 1994, 1, 165, con nota di Nazzicone; Cass. I, n. 2042/1987).

Il principio di irrilevanza esterna dei limiti convenzionali si dovrebbe coerentemente confermare anche in ordine alla clausola di rappresentanza congiunta, tenuto anche conto che la rappresentanza spetta, in via generale, disgiuntamente a ciascun amministratore e che, in quest'ottica, l'art. 2328, secondo comma, n. 9 che prevede l'indicazione degli amministratori che ne sono provvisti sembra valere piuttosto in negativo, che non in senso attributivo (per l'inopponibilità ai terzi della clausola di rappresentanza congiunta, Cass. I, n. 13442/2005; Cass. II, n. 12420/1995; contra, per l'opponibilità, Cass. . lav, n. 16376/2004, sotto il profilo che l'inopponibilità delle limitazioni dei poteri di rappresentanza, di cui al secondo comma dell'art. 2384 c.c. riguarda unicamente il contenuto della rappresentanza e non l'esistenza stessa del potere di rappresentanza).

I limiti legali.

I maggiori problemi applicativi riguardano, però, i limiti del potere di rappresentanza che discendono direttamente dalla legge. I più frequenti consistono nell'invalidità della delibera, a monte, di autorizzazione, quando richiesta dalla stessa legge.

Già l'articolo 9, primo comma, della prima direttiva societaria 1968/151/CEE espressamente prevedeva: “Gli atti compiuti dagli organi sociali obbligano la società nei confronti dei terzi, anche quando tali atti sono estranei all'oggetto sociale, a meno che eccedano i poteri che la legge conferisce o consente di conferire ai predetti organi”.

Anche per essi sembra preferibile, peraltro, dell'efficacia nell'ambito della sola gestione, e dunque dei rapporti interni con la società; non pure alla rappresentanza, che resta generale, ai sensi dell'art. 2384, primo comma.

Ne consegue, ancora una volta, il normale regime di inopponibilità ai terzi: come ad es., nel caso tipico di limitazione legale dei poteri degli amministratori a seguito dello scioglimento della società ex art. 2486, primocomma. La stessa previsione di responsabilità ivi prevista, al secondo comma, per l'amministratore che abbia compiuto operazioni nuove, implica, logicamente, l'inopponibilità di tale limite legale ai terzi, dal momento che, in caso contrario, non vi sarebbe alcun danno risarcibile, potendo la società lasciare ineseguito l'eventuale contratto stipulato con eccesso di potere rappresentativo; o chiederne l'annullamento, se già eseguito.

Non mancano però le zone grigie, oggetto di dubbi interpretativi in ordine all'agire con i terzi dell'amministratore privo del potere di rappresentanza. In tesi generale, il procedimento interno di formazione delle decisioni è irrilevante verso i terzi (salva sempre l'exceptio doli generalis), ma parte della dottrina ritiene che la radicale assenza di una delibera richiesta dalla legge comporti l'inefficacia degli atti esecutivi.

In tema di rappresentanza processuale, quando la fonte del potere rappresentativo derivi da un atto soggetto a pubblicità legale, spetta alla controparte, qualora contesti che colui che ha sottoscritto la procura possa agire in giudizio di rappresentanza dalla società, provare l'irregolarità dell'atto di conferimento. Nel caso in cui la firma di chi ha conferito la procura sia illeggibile e non sia stato indicato il suo nominativo nell'intestazione dell'atto, il giudice deve invitare alla parte alla regolarizzazione e solo in caso di inottemperanza può emettere una pronuncia, in rito, di inammissibilità del ricorso (Cass. V, n. 6799/2020). Per contro, qualora il potere rappresentativo non derivi da un atto soggetto a pubblicità legale e la controparte lo contesti, la parte rappresentante è tenuta a dimostrare, tramite pertinente produzione documentale, anche ex art. 372 c.p.c., la spettanza di tale potere (Nella specie, non risultava prodotto dalla ricorrente alcun atto che consentisse di verificare l'effettiva sussistenza di poteri rappresentativi in capo all'asserito amministratore unico: poteri, contestati ex adverso e non ricavabili da pubblici registri italiani, stante l'allocazione all'estero della società: Cass. III, n. 11091/2020).

Ancora in tema processuale si è escluso che la morte dei rappresentanti legali di una società sia causa di interruzione del giudizio exartt. 299 e 300 c.p.c. (App. Napoli 4 giugno 2020 n. 1962).

Le limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori di società per azioni, anche se risultanti da pubblici registri, non sono opponibili a terzi di buona fede sia in tema di rappresentanza processuale, sia in tema di rappresentanza sostanziale (Cass. I, n. 18356/2019, in Foro it., 2019, 1, 3125). Si è ritenuta, invece, opponibile la clausola statutaria che prescrive la firma congiunta dei rappresentanti della società, sotto il profilo che l'art. 2384, comma 2, c.c. riguarda unicamente il contenuto, non l'esistenza stessa del potere di rappresentanza: atteso che il legislatore ha mostrato di volersi avvalere della facoltà attribuite dall'art. 9 n. 3 della direttiva comunitaria n. 151/68, che consente agli Stati membri di rendere opponibile ai terzi la disposizione statutaria che attribuisce la rappresentanza congiuntamente a più persone, sempre che siano rispettati gli adempimenti di pubblicità (Cass. lav., n. 8147/2018).

La ratifica dell'atto estraneo all'oggetto sociale.

Fortemente controversa è la questione se, nell'ambito dei rapporti interni tra amministratore società, rientri nella competenza dell'assemblea ordinaria la ratifica dell'atto estraneo all'oggetto sociale; o sia invece ineludibile il previo passaggio della modifica statutaria, demandata all'assemblea straordinaria (eventualmente, con diritto di recesso del socio dissenziente: art. 2437, comma 1, lett. a).

Parte della dottrina nega la possibilità di una deviazione occasionale dall'oggetto sociale, che non sia conseguenza di una delibera modificativa della clausola statutaria: non bastando, all'uopo, l'eventuale autorizzazione dell'assemblea ordinaria; neppure se all'unanimità, visto che, dopo la riforma, non eliminerebbe, comunque, la responsabilità dell'amministratore verso la società (art. 2364, comma 1, n. 5).

In realtà, il superamento dei limiti dell'oggetto sociale può corrispondere all'interesse, una tantum, della società, come deroga e non come modifica dello statuto; e sotto questo profilo, non appare convincente la tesi che esclude, in linea di principio, il ricorso alla ratifica dell'atto posto in essere dall'amministratore con eccesso o abuso del suo potere rappresentativo (così come previsto, in tesi generale, per qualunque falsus procurator: art. 1399): ratifica, che, proprio perché non comporta un permanente emendamento statutario, dovrebbe rientrare nei poteri dell'assemblea ordinaria.

Tanto più, che neppure di vera ratifica si tratterebbe, in quanto il potere di rappresentanza c'era – essendo generale per dettato della norma in esame – bensì di rinunzia all'exceptio doli generalis e all'eventuale azione di responsabilità verso l'amministratore infedele, o non avveduto (Cass. I, n. 24547/2016, secondo cui, l'eccedenza dell'atto rispetto ai limiti dell'oggetto sociale, ovvero il suo compimento al di fuori dei poteri conferiti, non ne integra un'ipotesi di nullità, ma, al più, di opponibilità nei rapporti con i terzi, e, posto che è rimesso alla società, e solo ad essa, di respingere gli effetti dell'atto, deve correlativamente esserle riconosciuto il potere di assumere ex tunc quegli effetti, attraverso la ratifica, ovvero di farli preventivamente propri, attraverso una delibera autorizzativa, capace di rimuovere i limiti del potere rappresentativo dell'amministratore. In senso conforme, Cass. I, n. 5522/2015).

In adesione a questa linea interpretativa ci si è spinti a ritenere che il diritto potestativo di ratifica competa non solo all'assemblea, ma anche all'organo amministrativo, se ne abbia i poteri secondo lo statuto: organo, cui non deve partecipare, però, il soggetto fisico che abbia materialmente compiuto l'atto ultra vires da ratificare (App. Milano 25 febbraio 2003, in Giur. it., 2003, 1413; in senso contrario, sull'inammissibilità della ratifica da parte del consiglio di amministrazione, Cass. I, n. 26325/2006).

La giurisprudenza sul tema resta, peraltro, ancora oscillante.

All'indirizzo favorevole alla ratifica da parte della società di atti estranei all'oggetto sociale per mezzo di una delibera, stante l'assenza di un interesse superiore che renda imprescindibile l'adozione di una delibera di assemblea straordinaria (Cass. I, n. 9905/2008), continua a contrapporsi una tesi rigorosa (che mostra di non distinguere chiaramente tra limiti al potere di gestione ed al potere di rappresentanza), secondo cui la delibera assembleare, pur se unanime, di preventiva autorizzazione dell'amministratore al compimento di un atto contrario all'oggetto sociale è nulla per violazione dell'oggetto sociale, posto a garanzia della stessa compagine sociale e del cd. ordine pubblico economico (art. 41, comma 2, Cost.), da coordinarsi, per la sicurezza dei rapporti economici, con l'utilità sociale dell'impresa: potendosi, per l'effetto, rilevare anche d'ufficio la nullità di una delibera che autorizzi previamente e contra legem un atto estraneo all'oggetto sociale e destabilizzante il capitale societario in favore del terzo (Cass. III, n. 20597/2010).

La rappresentanza volontaria conferita a terzi.

Con la rappresentanza organica degli amministratori può concorrere una rappresentanza volontaria conferita con procura. Essa trova la sua giustificazione in esigenze di efficienza dell'impresa che rendano opportuno il ricorso a soggetti esperti in particolari materie: siano essi interni all'organizzazione societaria – tipicamente: gli ausiliari dell'imprenditore (art. 2203), i direttori generali (art. 2396) o altri dipendenti – oppure del tutto estranei, officiati in forza di mandato.

Fenomeno diverso, quindi, dalla delega interna al consiglio di amministrazione, ex art. 2381, e che in nessun modo può trasformare il procuratore in un coamministratore; né, tanto meno, esautorare gli amministratori dal potere di gestione conferito loro ex lege (art. 2380-bis).

È tralatizia l'affermazione della nullità della cd. procura generale, abdicativa al governo dell'impresa, per incompatibilità con il modello legale di amministrazione societaria, visto che finirebbe col demandare a soggetti esterni al consiglio di amministrazione la definizione degli obiettivi strategici (Cass. I, n. 8516/2009, in motivazione). Tale principio era enunciato espressamente nel codice di commercio del 1865, all'art. 138, dove si stabiliva che gli amministratori potevano nominare delegati e costituire procuratori per affari sociali; ma non cedere, né delegare ad altri l'amministrazione, senza il consenso della società.

In coerenza con questa impostazione, l'atteggiamento della giurisprudenza, ammissiva della procura speciale, si è sempre dimostrata ostile, per contro, a quella generale: con la conseguenza che gli atti compiuti dal falsus procurator in forza di procura generale nulla devono essere ritenuti privi di effetto verso la società, salvo eventuale ratifica (Cass. I, n. 3652/1968).

L'exceptio doli.

L'atto posto in essere dall'amministratore in violazione dei limiti posti ai suoi poteri è annullabile, da parte della società, solo in presenza del requisito soggettivo della mala fede del terzo. Si fa riferimento al dolo eventuale, distinto dalla colpa, anche cosciente, trattandosi di comportamento malizioso. Occorre quindi la conoscenza dei limiti di rappresentanza e la consapevolezza del danno che ne consegue alla società; anche se non si richiede il dolo specifico (Cass. lav., n. 18574/2007).

Al riguardo, resta però dubbio se l'elemento psicologico si risolva nella mera conoscenza dell'eccesso o abuso di rappresentanza, o debba assurgere ad un agire intenzionalmente in danno, giusta la lettera della norma: come sarebbe, se si ritenesse essenziale la collusione frodolenta tra l'amministratore ed il terzo (In questo senso, Cass. I, n. 7293/2009, secondo cui, ai fini dell'opponibilità al terzo contraente delle limitazioni dei poteri di rappresentanza degli organi di società di capitali, l'art. 2384, comma 2, c.c. richiede non la mera conoscenza dell'esistenza di tali limitazioni da parte del terzo, ma altresì la sussistenza di un accordo fraudolento; o, quanto meno, la consapevolezza di una stipulazione potenzialmente generatrice di un danno per la società).

Ove si ritenga, invece, sostanzialmente pleonastica la predetta intensificazione dell'elemento psicologico, l'onere della prova, a carico della società, non subirà alcun aggravamento, traducendosi, per lo più, in presunzioni (“non poteva non sapere”). In questo senso depone, del resto, l'art. 9,1 della direttiva CEE 151/1968, antesignano dell'emendamento dell'art. 2384, secondo cui “gli Stati membri possono stabilire che la società non sia obbligata quando tali atti superano i limiti dell'oggetto sociale, se essa prova che il terzo sapeva che l'atto superava detti limiti o non poteva ignorarlo, considerate le circostanze, essendo escluso che la sola pubblicazione dello statuto basti a costituire tale prova”.

Unica legittimata a sollevare l'exceptio doli è la società, e non pure il terzo (Cass. lav., n. 6291/2001).

Rilevante, ai fini dell'accertamento dell'elemento psicologico, viene ritenuta la qualificazione professionale del terzo, ove lo renda in grado di riconoscere l'estraneità dell'atto all'oggetto sociale o al potere di rappresentanza dell'amministratore: principio, applicato soprattutto alle banche (Trib. Roma 10 gennaio 2001, in Banca borsa tit. cred., 2002, II, 76, con nota di Daccò).

Bibliografia

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