Codice Civile art. 2393 bis - Azione sociale di responsabilità esercitata dai soci (1).Azione sociale di responsabilità esercitata dai soci (1). [I]. L'azione sociale di responsabilità può essere esercitata anche dai soci che rappresentino almeno un quinto del capitale sociale o la diversa misura prevista nello statuto, comunque non superiore al terzo. [II]. Nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, l'azione di cui al comma precedente può essere esercitata dai soci che rappresentino un quarantesimo (2) del capitale sociale o la minore misura prevista nello statuto. [III]. La società deve essere chiamata in giudizio e l'atto di citazione è ad essa notificato anche in persona del presidente del collegio sindacale. [IV]. I soci che intendono promuovere l'azione nominano, a maggioranza del capitale posseduto, uno o più rappresentanti comuni per l'esercizio dell'azione e per il compimento degli atti conseguenti. [V]. In caso di accoglimento della domanda, la società rimborsa agli attori le spese del giudizio e quelle sopportate nell'accertamento dei fatti che il giudice non abbia posto a carico dei soccombenti o che non sia possibile recuperare a seguito della loro escussione. [VI]. I soci che hanno agito possono rinunciare all'azione o transigerla; ogni corrispettivo per la rinuncia o transazione deve andare a vantaggio della società. [VII]. Si applica all'azione prevista dal presente articolo l'ultimo comma dell'articolo precedente. (1) V. nota al Capo V. (2) Le parole «un quarantesimo» sono state sostituite alle parole «un ventesimo» dall'art. 3 1 lett. b) l. 28 dicembre 2005, n. 262. InquadramentoL'azione di minoranza è prevista in tutti i paesi capitalistici avanzati, anche per le società non quotate. In Italia, fino al T.U.F.58/1998, era mancata, trovando un surrogato paternalistico nell'art. 2409 c.c. Con la l. n. 52/1996 (Legge comunitaria '94) si consentiva al governo di modificare la disciplina societaria anche in ordine alla tutela delle minoranze. In precedenza, la miniriforma 216/74 aveva accentuato i diritti patrimoniali del piccolo azionista assenteista, facilitando il disinvestimento rapido. In senso contrario, il Testo unico finanziario 58/1998 ha rafforzato i poteri di intervento dei soci di minoranza nella gestione, come diritto di autotutela (artt. 125,128,129 T.U.F.) . In particolare, l'art. 129 è stato assolutamente innovativo. Fino ad allora l'autorizzazione dell'assemblea ex art. 2393 c.c. era un dato caratterizzante, che spesso vanificava ogni possibilità risarcitoria, dato che il blocco di maggioranza che aveva eletto gli amministratori era lo stesso che doveva poi votare l'azione di responsabilità; salva l'ipotesi di esclusione dal voto per conflitto di interessi dei soci di maggioranza (soprattutto nel caso in cui questi fossero gli stessi amministratori). Secondo un'autorevole, ma isolata dottrina (Messineo, Sul quorum minimo per deliberare l'azione di responsabilità contro gli amministratori di società per azioni, in Riv. dir. civ., 1970, 209) era da ritenere già in precedenza ammissibile l'azione di minoranza con la quota di un quinto dei soci, sulla base della disposizione di cui all'art. 2393, (allora) terzo comma. Antesignani della riforma erano stati i progetti Ascarelli (1956), Villabruna e La Malfa-Lombardi: tutti di chiara impronta liberaldemocratica. Alla base della scelta omissiva del codice civile vi era il disegno di razionalizzazione filomonopolistica, in cui la sovranità assembleare era connessa con la struttura familiare del capitalismo italiano, grazie alla sostanziale immedesimazione tra amministratori e azionisti di riferimento. Di fatto, essa ha determinato, per lo più, la traslazione del danno da “mala gestio” sulla società. L'espansione del mercato ha comportato l'introduzione dell'azione di responsabilità della minoranza, con l'art. 129 T.U.F. – norma poi abrogata dall'art. 9 del d.lgs. n. 37/2004 – che prevedeva, all'origine, un doppio requisito: il primo, ai fini della legittimazione attiva, consistente nella titolarità di una quota del 5%, almeno, del capitale (eguale a quella richiesta per la denunzia ex art. 2409 c.c. nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio: artt. 128 e 129 T.U.F.); suscettibile di riduzione, ma non di aumento, nell'atto costitutivo: così da provocare, auspicabilmente, una concorrenza tra società, nell'offerta di garanzie agli investitori. Nelle società quotate, sia l'azione di responsabilità della minoranza, sia la denunzia ex art. 2409 c.c. richiedono dunque la medesima percentuale del 5%. L'altro requisito era di natura temporale, consistente nell'iscrizione nel libro soci da almeno sei mesi. La ratio della doppia qualificazione dei soci risedeva nell'intento di impedire azioni di disturbo dei professionisti delle assemblee, noti per il loro presenzialismo. I presupposti dell'azioneNovità importante della riforma societaria del 2003 è stata l'estensione alle società per azioni non quotate dell'azione di minoranza, con innalzamento della quota di capitale necessaria, ai fini della legittimazione attiva, ad 1/5 – o alla diversa misura statutaria, mai superiore ad 1/3 – del capitale e con inserimento nel medesimo art. 2393-bis c.c. della disciplina relativa alle società aperte, depurata del requisito temporale dell'iscrizione da almeno sei mesi nel libro soci. Per queste ultime, la percentuale originaria di un ventesimo del capitale sociale per la legittimazione all'azione è stata poi ridotta ad un quarantesimo dall'art. 3, primo comma, lett. b) l. n. 262/2005 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari): senza però che fosse simmetricamente abbassata la quota di titolarità prevista dall'art. 2393, ultimo comma, ai fini dell'interdizione dell'eventuale rinunzia all'azione o transazione deliberate dalla società. Si noti che mentre la percentuale necessaria per la proposizione della domanda è derogabile anche al rialzo per le spa ordinarie, con il limite massimo anzidetto di 1/3, essa è derogabile solo al ribasso per le s.p.a. che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Nel che è ravvisabile non solo la considerazione delle maggiori dimensioni sociali e della più ampia diffusione azionaria, secondo l'id quod plerumque accidit (che già rendono problematico il raggiungimento della percentuale normativamente prescritta); ma, forse anche una più accentuata tutela di interessi generali, tenuto conto del maggior pericolo di ricadute dannose sul mercato di comportamenti gestionali scorretti nelle società aperte. Nella società a partecipazione pubblica anche l'ente pubblico che ne sia socio può esercitare l'azione di minoranza nei confronti dell'amministratore responsabile di mala gestio; e l'omissione di tale iniziativa può essere financo fonte di responsabilità del rappresentante dell'ente pubblico (Cass. S.U., n. 520/2010). L'azione viene definita “sociale” in rubrica, e ciò, sebbene la società possa costituirsi in giudizio per contrastarne l'accoglimento. Mentre, non sono sociali, bensì individuali, l'azione ex art. 2395, anche se promossa da soci che superino la predetta aliquota, e la denunzia di gravi irregolarità ex art. 2409 c.c. Nella derivative action statunitense l'azione è preceduta da una sollecitazione rivolta all'organo amministrativo e ai soci. Il fatto che, nella riforma societaria non sia stata prevista analoga assemblea preventiva si potrebbe forse spiegare con la legittimazione attiva anche degli azionisti di risparmio e di altri titolari di azioni a voto limitato, privi del voto in assemblea ordinaria. Non conferiscono invece legittimazione le azioni di godimento, che non concorrono alla formazione del capitale. Natura giuridicaSebbene ispirata ad esperienze straniere, l'azione di minoranza non può in alcun mondo inquadrarsi nel modello nordamericano della class action, caratterizzata dalla legittimazione (standing) individuale, in rappresentanza di una collettività. Anche un singolo shareholder, possessore di una sola azione, è legittimato a proporre per conto della società tale azione, di carattere surrogatorio (“derivative suit”), per far valere la responsabilità degli amministratori. Si pone quindi il problema della natura giuridica dell'azione nel modello italiano. Premesso che certamente la minoranza non è un autonomo soggetto di diritto personificato, ma esprime in forma ellittica una pluralità di soci complessivamente titolari della quota richiesta, una prima tesi, sul presupposto che l'art. 2393-bis non introduca un istituto autonomo e completo, lo riconduce all'azione surrogatoria in nome proprio e a vantaggio del sostituito (art. 81 c.p.c.). Si intenderebbero estesi, quindi, alla fattispecie in esame i requisiti propri dell'azione surrogatoria: e cioè, l'inerzia della società ed il pericolo di insolvenza. Non si tratterebbe, a questa stregua, di azione autonoma e a vantaggio diretto della stessa minoranza: come reso palese dall'art. 2393-bis, sesto comma, secondo cui anche il corrispettivo per la rinunzia o transazione deve andare a beneficio della società: in armonia col principio generale che gli effetti dell'azione surrogatoria – mezzo conservativo della garanzia del credito – finiscono nel patrimonio del debitore, e solo indirettamente l'attore ne trae vantaggio, con l'incremento del patrimonio espropriabile. In tesi generale, sono tre i requisiti posti dall'art. 2900: 1) Il credito del surrogante verso il surrogato e di quest'ultimo verso il terzo; 2) l'inerzia del debitore; 3) il pericolo di insolvenza. Sostenere che la minoranza esperisca l'azione di responsabilità in via di legittimazione surrogatoria significa quindi postulare l'esistenza di un rapporto obbligatorio tra società e socio. Occorre cioè pensare che questi sia titolare di un credito sugli utili futuri o sulla futura quota di liquidazione, sospensivamente condizionato alla loro esistenza. Ma la concezione del socio quale creditore (eventuale) della società è prevalentemente respinta . Inoltre, l'azione non presuppone affatto il pericolo di perdere la garanzia patrimoniale, né il requisito dell'inerzia dell'assemblea: la minoranza può agire subito, a differenza che in altri ordinamenti, ov'è invece necessario il previo esperimento degli intracorporate remedies. Tra l'altro, nelle società aperte al mercato del capitale di rischio, la quota di partecipazione necessaria per provocare la riunione dell'assemblea resta doppia (1/20 del capitale: art. 2367, primo comma) di quella per esperire l'azione di responsabilità (1/40): onde, sarebbe incongruo pretendere il filtro della verifica dell'inerzia assembleare. La tesi in esame presta però il fianco anche ad un'altra obiezione. Essa verrebbe a negare carattere di novità all'azione sociale, che si porrebbe in rapporto di specialità rispetto all'azione surrogatoria ordinaria solo nell'imporre requisiti ulteriori di legittimazione (1/5 o 1/40 del capitale). Inoltre, il sostituto processuale, anche nell'azione surrogatoria, non può rinunziare all'azione o transigere; come invece consentito ai soci-attori dal sesto comma della norma in esame: anche se a questo argomento si potrebbe replicare che la società, litisconsorte necessario, se costituita in giudizio, potrebbe opporsi alla rinunzia (anche ammesso che non di rinuncia agli atti si tratti, priva di effetto preclusivo ex art. 310, comma 1, c.p.c., bensì di rinunzia alla domanda); o dichiarare di non voler profittare della transazione, prevenendo, ancora una volta, ogni effetto limitativo nei propri confronti (art. 1304, secondo comma). Si noti, al riguardo, che l'abrogato art. 129 T.U.F., antecedente storico dell'articolo 2393-bis, non prevedeva il potere della minoranza di rinunziare all'azione e transigere, riservato alla sola società. Secondo una seconda ricostruzione dottrinaria, la minoranza eserciterebbe l'azione in nome proprio e nell'interesse della società, ma senza alcuna connotazione surrogatoria. Si tratterebbe, perciò, di azione del tutto inedita, soggetta alla regolamentazione autosufficiente contenuta nell'art. 2393-bis. Senonché è dubbio che i soci di minoranza agiscano in nome della società, visto l'obbligo di chiamata nei suoi confronti, che potrebbe condurre al paradosso di una duplice presenza in giudizio della stessa parte. Una terza tesi ravvisa nell'azione della minoranza una forma di negotiorum gestio (Oppo, 406; Sambucci, 2015). Più esattamente, una gestione di affari processuale, del tipo di quella prevista all'art. 1105, comma 4, c.c., che consente l'iniziativa del comunista per l'amministrazione della cosa, in caso di inerzia della maggioranza. In sede di analisi critica, si può ripetere l'osservazione, d'ordine generale, che accostamenti di più istituti, sotto il profilo della natura giuridica, se non vogliano risolversi in meri orpelli descrittivi, hanno senso pratico solo se valgono ad integrare la disciplina della species mediante richiamo integrativo, in tutto o in parte, alla più completa disciplina dell'istituto generale. Nel caso in esame, ciò implicherebbe, ad es., il requisito della absentia domini e dell'impossibilità dell'interessato di provvedere direttamente (art. 2028, primo comma), inconferente in tema di mancata delibera assembleare di autorizzazione all'azione ordinaria di responsabilità (art. 2393). Oltre al rilievo che, se l'assemblea avesse positivamente respinto la proposta di azione di responsabilità, si dovrebbe escludere, per definizione, l'azione di minoranza, se configurata in termini di negotiorum gestio. Un'ulteriore dissonanza con l'istituto si riscontra nella legittimazione generale ed incondizionata prevista dall'art. 2028, primo comma (“chi, senza essere obbligato, assume scientemente la gestione di un affare altrui...”), in contrasto con il requisito soggettivo della titolarità della quota di capitale di cui al primo e secondo comma dell'art. 2393-bis. Infine, si ritiene normalmente inammissibile la gestione d'affari meramente processuale. Lo dimostrerebbero l'art. 77 c.p.c. (che richiede la procura scritta in favore del procuratore generale o per determinati affari) e l'art 81 c.p.c., che esige la previsione di legge per le ipotesi tassative di sostituzione processuale; e più in generale la difficoltà di configurare un potere rappresentativo processuale disancorato da un potere sostanziale gestorio, nella specie assente nei soci. Al fondo della critica resta altresì l'osservazione che l'azione di minoranza è esercitata – di norma, se non istituzionalmente – in latente conflitto con la maggioranza, di cui gli amministratori sono l'espressione. Appare quindi sforzata la sua assimilazione alla gestione d'affari, in cui il possibile dissenso o perfino il divieto dell'interessato restano inefficaci solo se contrari a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume (art. 2031, secondo comma). Inoltre, ai sensi dell'art. 2028 il gestore è tenuto a continuare la gestione finché l'interessato non sia in grado di provvedervi. Nella specie, per contro, si può dubitare che vi sia un obbligo dei soci di minoranza di proseguire l'azione, visto che l'art. 2393-bis, sesto comma, consente loro la rinunzia incondizionata. Resta ravvisabile, in ultima analisi, un'ipotesi speciale di legittimazione concorrente e disgiuntiva della società e della minoranza (o meglio, delle minoranze) in ordine alla medesima azione, con effetti preclusivi “erga omnes” del giudicato formatosi sulla domanda da chiunque proposta: non diversamente, a ben vedere da quanto accade per le impugnazioni delle delibere da parte dei soci ex art. 2377 e 2379. Il litisconsorzio necessario della società (se a tale titolo debba intendersi la chiamata obbligatoria della società in giudizio) vale, in quest'ottica, a prevenire azioni “a sorpresa” o in ordine sparso; con i connessi problemi processuali di litispendenza (o riunione ex art. 273-274 c.p.c.) e di preclusione di eccezioni e prove. G Nella giurisprudenza più recente si è ribadito che il socio che agisca ex art. 2393-bis c.c. è munito di una legittimazione straordinaria, riconducibile alla previsione dell'art. 81 c.p.c., perché assume la posizione di sostituto processuale della società. Quest'ultima può peraltro impugnare la sentenza sfavorevole al sostituto e coltivare, in appello, le domande da lui proposte in primo grado, poiché i poteri processuali del socio sono correlati alla titolarità in capo alla società del diritto azionato, che non viene meno per effetto dell'iniziativa del sostituto (Cass. I, n. 12568/2021). Ne consegue che il socio di minoranza qualificata che abbia ottenuto nei confronti di amministratori e sindaci un sequestro conservativo, deve porlo in esecuzione in favore della società, e non nel proprio (Trib. Roma 12 gennaio 2021 n. 525, in Foro it., 2021, 1, 1854). Qualora, quindi, il socio richieda la trascrizione nei registri immobiliari a proprio favore, il sequestro conservativo non può considerarsi eseguito e deve pertanto essere dichiarato inefficace per decorso del termine di cui all'art. 675 c.p.c. (Trib. Roma 4 gennaio 2021, in Riv. dir. proc., 2021, 1043, con nota di Dalla Bontà). Sempre in tema di misure cautelari, si è ritenuto che la sospensione dell'efficacia della delibera che autorizzi la rinunzia all'azione di responsabilità sociale esercitata dal socio di minoranza ai sensi dell'art. 2393-bis c.c. si fonda sul periculum in mora dell'impossibilità per il socio di vedere accertata la fondatezza degli addebiti di mala gestio denunciati, perché il giudizio pendente non potrebbe essere proseguito in caso di rinunzia. Al contrario, dalla sospensione della delibera, la società non riceverebbe alcun pregiudizio, considerato che l'azione di responsabilità è volta, per sua natura, a far conseguire alla società stessa il risarcimento degli eventuali danni (Trib. Roma 17 ottobre 2019, in Soc., 2020, con nota di Papini). Si è pure statuito, nella giurisprudenza di merito, che nel giudizio promosso dal socio di minoranza per far valere la responsabilità dell'amministratore unico, la società – che è litisconsorte necessaria ex art. 2393-bis, comma 3, c.c. – debba essere rappresentata da un curatore speciale ai sensi dell'art. 78, comma 2, c.p.c. (Trib. Genova 23 luglio 2021). In ordine al requisito processuale della notificazione della domanda al presidente del collegio sindacale, una pronuncia di merito ha escluso che esso persegua il mero scopo di dare notizia dell'azione di responsabilità; in quanto la norma prevede non la notifica dell'atto di citazione all'organo di controllo in persona del suo presidente, bensì la notifica della citazione alla società “anche in persona del presidente del collegio sindacale”. Da ciò conseguirebbe l'attribuzione alla persona fisica del presidente del collegio di un potere di rappresentanza della società destinataria dell'atto, quanto meno nella fase della vocatio in jus (App. Genova 14 maggio 2018 n. 148). La statuizione suscita perplessità, perché non sembra che si verta in una delle ipotesi di rappresentanza vicariale del collegio sindacale, che presuppone la cessazione dell'amministratore unico o di tutti gli amministratori, nel lasso di tempo che precede la loro sostituzione (art. 2386, ultimo comma, c.c.). Problemi applicativiVenendo all'esame di aspetti particolari della disciplina, è dubbio se la quota di capitale prevista per la legittimazione attiva debba permanere fino al momento della decisione (irrevocabile); e se debba sussistere già al momento della proposizione della domanda, quale presupposto processuale (come faceva pensare l'abrogato art. 129 T.U.F., che esigeva la titolarità delle azioni, a titolo di legittimazione, da almeno sei mesi); o per contro, se possa sopraggiungere in corso di causa, quale condizione dell'azione. La questione riecheggia il dibattito analogo in tema di procedimento ex art. 2409; in cui la prevalente opinione è nel senso della sufficienza del requisito al momento della proposizione della denunzia (Domenichini, Il controllo giudiziario sulla gestione delle s.p.a., in Trattato di diritto privato diretto da Rescigno, Torino, 1985, vol. 16, pag. 602). Al riguardo, esigere per l'intera durata del processo di merito (assai più lunga del procedimento ex art. 2409) la permanenza della quota degli attori – che potrebbe venir meno anche a seguito di operazioni di aumento del capitale che portino, maliziosamente o no, al suo annacquamento – significa ridurre ulteriormente le già scarse prospettive di utilizzo dell'azione di minoranza; almeno nei casi in cui l'atto costitutivo non riduca la percentuale legale di titolarità. Qualora l'azione sia proposta verso amministratori e direttori generali (fattispecie normale) è prescritta la notifica alla società anche in persona del presidente del collegio sindacale. Tenuto conto che questi è privo della rappresentanza legale della società, ratio della notificazione potrebbe essere lo stimolo all'avvio di una procedura di nomina di un curatore speciale ai sensi dell'art. 78 c.p.c. Sul punto, non sembra da condividere – tenuto conto che la congiunzione “anche” fa pensare ad una doppia vocatio in ius – la tesi della sufficienza, ai fini del corretto instaurarsi del contraddittorio, della notifica della domanda al solo presidente del collegio sindacale. Se l'azione concerne l'amministratore unico o l'intero consiglio d'amministrazione la società avrà bisogno, ai fini della rappresentanza in giudizio, di un curatore speciale nominato ai sensi dell'art. 78 c.p.c., se non nominato dall'assemblea. Senza dubbio la società può far propria, costituendosi, l'azione di responsabilità; ma non appare necessitata la conseguente estromissione dei soci attori: come sarebbe se si trattasse di vera azione surrogatoria, per il venir meno del requisito dell'inerzia del creditore. La società può ovviamente impugnare la sentenza, quale parte necessaria, senza bisogno di previa delibera autorizzativa. Dubbio è invece se la minoranza, oltre che intervenire in appello “ad adiuvandum” ex art. 344 c.p.c., possa anche impugnare la sentenza sfavorevole alla società nel giudizio ex art. 2393 c.c., senza aver partecipato al primo grado: analogamente a quanto ritenuto, ad es., nelle cause condominiali, ove si riconosce la legittimazione concorrente ad impugnare dei condomini, pur se assenti in primo grado. Si deve ritenere altresì ammissibile, l'intervento dei cessionari delle partecipazioni degli originari attori, che manterrebbe la quota di legittimazione, ove ritenuta necessaria fino alla conclusione del processo. Qualunque sia la natura giuridica riconoscibile all'azione, il litisconsorzio necessario nei confronti della società comporta, de plano, l'estensione del giudicato nei suoi confronti ex art. 2909, con la conseguente preclusione di ulteriori azioni, della società o di altra minoranza. Qualora la società si costituisca, godrà di piena autonomia di posizione difensiva: adesiva o antagonistica alla domanda; inclusa la facoltà di proporre domanda riconvenzionale di danni, anche ex art. 96 c.p.c., in considerazione dei riflessi negativi che un'azione avventata può esercitare sulla sua immagine. Il quarto comma prescrive la nomina di uno o più rappresentanti comuni dei soci di minoranza, per l'esercizio dell'azione ed il compimento degli atti conseguenti. Al riguardo si osserva come il rappresentante comune non sia richiesto, invece, nell'azione di annullamento ex art. 2377 e nella denunzia al tribunale di gravi irregolarità nella gestione della società, ai sensi dell'art. 2409. Il riferimento alternativo alla possibile nomina di più rappresentanti comuni sembra consono all'ipotesi di plurime azioni di responsabilità promosse da gruppi autonomi di soci. È dubbio se nella nozione di atti conseguenti che il rappresentante comune è legittimato a compiere, rientrino, senza restrizioni, l'interrogatorio formale, l'impugnazione, il giuramento decisorio e l'esecuzione forzata: tenuto conto che taluni tra essi presuppongono un potere dispositivo sul diritto fatto valere in giudizio di cui un mero rappresentante comune non sembra disporre. Non appare applicabile la revoca automatica degli amministratori ex art. 2393, terzo comma: altrimenti, la semplice proposizione dell'azione in una società che non faccia ricorso al mercato del capitale di rischio importebbe la revoca. Ciò che, in realtà, qualifica tale fattispecie è il voto assembleare: non surrogabile con un accordo extra moenia tra soci per la proposizione dell'azione. Del pari inammissibile deve ritenersi il ricorso ex art. 700 c.p.c. proposto dai soci di minoranza di una s.p.a. al fine di ottenere la revoca, in via cautelare, dell'amministratore delegato; e ciò anche per difetto del presupposto della strumentalità della cautela richiesta, qualora venga prospettata la futura proposizione non di una domanda di revoca dell'amministratore, bensì di un'azione di responsabilità e di risarcimento danni (Trib. Mantova 10 luglio 2008, in Giur. merito, 2009, 716). La costituzione in giudizio della società, che proponga a sua volta propria l'azione di responsabilità, non determina alcuna carenza sopravvenuta di interesse dei soci. In realtà, sembra che le due azioni possano concorrere; tanto più quando il petitum risarcitorio sia, com'è possibile, diverso. Non senza aggiungere che il potere di veto su proposte di rinunzia o transazione (art. 2393, ultimo comma, richiamato dall'art. 2393-bis, ultimo comma) non vale, di per sé solo, a tutelare contro il rischio di strategie processuali perdenti – volutamente o no – della società e si giustifica quindi l'interesse della minoranza a proseguire il giudizio. Se questo avvenga, nonostante l'affiancamento della società, si deve peraltro ritenere che i soci abbiano diritto alla ripetizione delle spese solo per l'attività iniziale utilmente intrapresa. In caso di azione vittoriosa il risarcimento va a vantaggio della società, ma questa deve rimborsare agli attori le spese di giudizio e quelle per l'accertamento dei fatti non rimborsate dai soccombenti. Non è chiaro peraltro dove si formi il titolo esecutivo per il rimborso: se con la medesima sentenza (nel caso di compensazione totale o parziale nei confronti degli amministratori), o in separato giudizio, eventualmente in via monitoria, se il mancato recupero dipenda da insolvenza dei soccombenti; incluse le spese sopportate dai soci nell'accertamento dei fatti, che possono non coincidere con le spese del giudizio, se anteriori alla sua proposizione. Sotto il profilo istruttorio, è da rivedere in senso negativo, l'opinione tradizionale della capacità a deporre ex art. 246 c.p.c. dei soci (Cass. I, n. 21/1972): quanto meno per quelli che agiscono in giudizio, assumendo direttamente la veste di parte, senza più lo schermo della personalità giuridica.
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