Codice Civile art. 2475 - Amministrazione della società 1 .Amministrazione della società 1. [I]. L'istituzione degli assetti di cui all'articolo 2086, secondo comma, spetta esclusivamente agli amministratori. Salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, l'amministrazione della società è affidata a uno o più soci nominati con decisione dei soci presa ai sensi dell'articolo 2479. Si applica l'articolo 238223. [II]. All'atto di nomina degli amministratori si applicano il primo4, quarto e quinto comma dell'articolo 2383. [III]. Quando l'amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione. L'atto costitutivo può tuttavia prevedere, salvo quanto disposto nell'ultimo comma del presente articolo, che l'amministrazione sia ad esse affidata disgiuntamente oppure congiuntamente; in tali casi si applicano, rispettivamente, gli articoli 2257 e 2258. [IV]. Qualora sia costituito un consiglio di amministrazione, l'atto costitutivo può prevedere che le decisioni siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto. In tal caso dai documenti sottoscritti dagli amministratori devono risultare con chiarezza l'argomento oggetto della decisione ed il consenso alla stessa. [V]. La redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione o scissione, nonché le decisioni di aumento del capitale ai sensi dell'articolo 2481 sono in ogni caso di competenza dell'organo amministrativo 5. [VI]. Si applica, in quanto compatibile, l'articolo 23816.
[2] Periodo aggiunto dall'art. 6, comma 1, lett. a) d.lgs. 8 novembre 2021, n. 183. [3] Comma sostituito dall'art. 40, comma 4, d.lgs. 26 ottobre 2020, n. 147. Ai sensi dell'art. 42, comma 1, del citato decreto la presente disposizione entra in vigore il 20 novembre 2020. Il testo del comma, come da ultimo sostituito dall'art. 377, comma 4, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, era il seguente: <<La gestione dell'impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all'articolo 2086, secondo comma, e spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l'attuazione dell'oggetto sociale. Salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, l'amministrazione della società è affidata a uno o più soci nominati con decisione dei soci presa ai sensi dell'articolo 2479>>. Tale modifica, ai sensi dell'art. 389, comma 2, d.lgs. n. 14, cit., entrava in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del presente decreto. Il testo del comma precedentemente alla sostituzione era il seguente: «Salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, l'amministrazione della società è affidata a uno o più soci nominati con decisione dei soci presa ai sensi dell'articolo 2479». [4] L'art. 6, comma 1, lett. b) d.lgs. 8 novembre 2021, n. 183 ha aggiunto la parola <<primo,>> dopo le parole <<si applicano il>>. [6] Comma aggiunto dall'art. 377, comma 5, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14. Tale modifica, ai sensi dell'art. 389, comma 2, d.lgs. n. 14, cit., entra in vigore il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del presente decreto (16 marzo 2019). InquadramentoL'art. 2475 apre la sezione riguardante la struttura amministrativa della società a responsabilità limitata. Coerentemente con l'ampio spazio che la riforma del diritto delle società ha riservato all'autonomia privata in particolare nella società a responsabilità limitata, l'articolo in commento detta una normativa in materia di amministrazione della società che, pur se ancora modellata su quella corrispondente prevista per le società per azioni, è prevalentemente derogabile e suppletiva (Abriani, 548). I soci potranno, dunque, plasmare l'organo amministrativo sulla base delle necessità di funzionalità della società in un arco di scelte che spazia da un modello di amministrazione «per uffici» ad un modello «per persone». L'art. 377, comma 4, d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 aveva modificato il primo comma della disposizione in commento, disponendo che la gestione dell'impresa si svolge nel rispetto della disposizione di cui all'articolo 2086 c.c., secondo comma, e spetta esclusivamente agli amministratori. La modifica normativa, peraltro già entrata in vigore, aveva posto numerosi problemi di coordinamento con le ulteriori disposizioni codicistiche che continuavano a prevedere rilevanti poteri gestori in capo ai soci. E, infatti, per come evidenziato dai primi studi effettuati (cfr., Atlante-Maltoni-Ruotolo, 1), a fronte della nuova impostazione normativa, l'interprete poteva in astratto scegliere fra tre possibili soluzioni: 1) il nuovo primo comma dell'art. 2475, quale norma successiva, determina l'abrogazione implicita delle norme precedenti che risultino incompatibili con il principio dell'esclusiva responsabilità degli amministrazione per la gestione sociale; 2) la nuova disposizione dell'art. 2475 non comporta alcuna abrogazione delle norme precedenti, in quanto destinata a spiegare i suoi effetti solo sul piano organizzativo; 3) il nuovo art. 2475 deve ritenersi viziato da illegittimità costituzionale, in quanto palesemente inconciliabile con alcune delle norme precedenti, che in caso contrario dovrebbero considerarsi implicitamente abrogate pur in assenza di una espressa previsione in tal senso nella Legge Delega del 2017; vizio di incostituzionalità da identificarsi nell'eccesso di delega. Si era, dunque, evidenziato che il principio di esclusiva spettanza agli amministratori della gestione sociale doveva essere letta unitamente al richiamo, pure contenuto nel primo comma della disposizione in commento, all'art. 2086 il cui secondo comma (anch'esso introdotto dalla riforma della crisi d'impresa) stabilisce che l'imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale. Le recenti modifiche, quindi, inerirebbero non tanto sul profilo della concreta gestione imprenditoriale della società, ma sugli obblighi organizzativi della società che, sulla base delle precisazioni normative così introdotte, farebbero capo, in via esclusiva, agli amministratori (così, Atlante-Maltoni-Ruotolo, 8). Al fine di risolvere i problemi accennati è intervenuto il legislatore con il d.lgs., 26.10.2020, n. 147 recante disposizioni integrative e correttive al codice della crisi (d.lgs., 12.1.2019, n. 14). Ebbene, l'art., 40 del predetto d.lgs. 147/2020 ha riformulato il primo comma dell'art. 2475 che oggi così dispone: “l'istituzione degli assetti di cui all'articolo 2086, secondo comma, spetta esclusivamente agli amministratori. Salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, l'amministrazione della società è affidata a uno o più soci nominati con decisione dei soci presa ai sensi dell'articolo 2479”. Con la nuova formulazione del primo comma della disposizione in commento è stato chiarito che spetta “esclusivamente” agli amministratori la predisposizione degli assetti di cui all'art. 2086, secondo comma, c.c. e che, dunque, grava esclusivamente su di essi il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale. Inoltre, gli amministratori hanno anche l'obbligo di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale. In altre parole, le recenti modifiche ineriscono non tanto sul profilo della concreta gestione imprenditoriale della società (che rimane disciplinata dalle precedenti disposizioni codicistiche), ma (solo) sugli obblighi organizzativi della società che, sulla base delle precisazioni normative così introdotte, fanno capo, in via esclusiva, agli amministratori (così, Atlante-Maltoni-Ruotolo, 8). Sembra, peraltro, come osservato in dottrina (cfr., Atlante-Maltoni-Ruotolo, 8), che la novella non comporta in capo ad amministratori e soci di società a responsabilità limitata alcun obbligo di adeguamento immediato degli statuti esistenti, per quelle clausole – che devono anche oggi ritenersi legittime – le quali eventualmente ripartiscano la “gestione operativa” della società in maniera difforme rispetto al modello legale. La stessa conclusione deve valere per gli statuti delle s.r.l. che siano state costituite o che saranno costituite dopo l'entrata in vigore del nuovo primo comma dell'art. 2475 c.c. (16 marzo 2019) che dunque possono continuare a prevedere legittimamente clausole in deroga alla disciplina legale in materia di “gestione operativa”, nei limiti a tutti ben noti. La natura del rapporto di amministrazione. Il compenso degli amministratori.Gli amministratori sono un organo indefettibile della società ed i loro poteri (da qualificarsi come poteri-doveri) non sono derivati dall'assemblea, ma originari e discendono direttamente dalla legge. Essi sono investiti della gestione economico-patrimoniale della società e devono adempiervi con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze (art. 2392 c.c.). Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno, sebbene con riferimento alle società azionarie, ma con ragionamento estendibile anche alle società a responsabilità limitata, evidenziato che l'amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una società sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso nell'ambito dei rapporti parasubordinati previsti dal n. 3 dell'art. 409 c.p.c. Ne deriva che i compensi spettanti ai predetti soggetti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dal comma 4 dell'art. 545 c.p.c. del medesimo codice di rito (Cass.S.U., n. 1545/2017). Più precisamente, il rapporto che lega l'amministratore alla società è di immedesimazione organica, non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto all'area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto societario tout court, sicché le controversie tra amministratori e società, anche se specificamente attinenti al profilo «interno» dell'attività gestoria ed ai diritti che ne derivano agli amministratori (quale, nella specie, quello al compenso), sono compromettibili in arbitri, ove tale possibilità sia prevista dagli statuti societari (Cass. n. 2759/2016). Nella giurisprudenza di merito, il rapporto di amministrazione non costituisce un mandato ma una figura contrattuale a sé stante riconducibile all'ampio genus dei contratti di prestazione d'opera quale rapporto professionale autonomo di regola a titolo oneroso (Trib. Roma 19 ottobre 2015, in IlSocietario.it). Peraltro, ciò non esclude che si possa instaurare, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l'accertamento esclusivo del giudice del merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d'opera, in relazione ad attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico: ma in tal caso i due rapporti, non sovrapponibili, restano governati dalle rispettive discipline così ancora Cass.S.U., n. 1545/2017; Cass. n. 28128/2017). Conformemente alla disciplina dettata in tema di società azionaria che però appare estensibile anche alla società a responsabilità limitata, deve riconoscersi agli amministratori di s.r.l. (almeno quando congegnata su un modello capitalistico) il diritto ad un compenso per l'attività da essi svolta per conto della società: in tal senso è del tutto pacifica la giurisprudenza la quale ha correttamente qualificato in termini di diritto soggettivo perfetto la pretesa dell'amministratore di una società al compenso per l'opera prestata (così, Cass. n. 16764/2005; Trib. Trapani 7 gennaio 2010). La carica si presume, dunque, onerosa (Trib. Firenze 18 marzo 2002): ai fini dell'esclusione della onerosità del rapporto è, infatti, necessaria una rinunzia espressa o tacita (Cass. n. 4261/2009). Anche l'amministratore dimissionario ha diritto al compenso e tale diritto permane fino al momento della sua sostituzione (App. Bologna 19 maggio 1979). In assenza di una espressa rinunzia da parte dell'amministratore al compenso dovutogli per l'attività professionale svolta, non può ritenersi che all'amministratore di una società appartenente ad un gruppo non spetti il compenso per lo svolgimento dell'incarico svolto in favore di una diversa società appartenente al medesimo gruppo. Tuttavia, il compenso dell'amministratore di più società può essere determinato in maniera unitaria qualora vi sia unitarietà della struttura, complementarietà dell'attività, identità della compagine e dei collegi sindacali, salvo che l'attore non provi di aver prestato attività separata per ciascuna delle società amministrate, sì da determinare distinti compensi partitamente valutabili (Trib. Roma 12 settembre 2012, in Soc. 2013, 254). Qualora non sia stabilita nello statuto, per la determinazione della misura del compenso degli amministratori è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall'essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell'interesse pubblico al regolare svolgimento dell'attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall'assemblea; la distinta previsione delle delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art. 2364, n. 1 e 3, c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393, comma 2, c.c.). Conseguentemente, l'approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall'art. 2389 c.c., salvo che un'assemblea convocata solo per l'approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori (Cass. n. 21933/2008; Trib. Napoli 22 aprile 2009, in Foro it. 2009, I, 3242). Si è però precisato che – ove il compenso sia stato già in precedenza determinato – l'approvazione del bilancio che contenga l'indicazione del debito relativo a quel compenso valga come riconoscimento di debito e, quindi, come fatto interruttivo della prescrizione del diritto al compenso. E va da sé che tale distinzione appare razionalmente comprensibile se si pone mente al carattere negoziale della determinazione del compenso e, al contrario, al carattere non negoziale del riconoscimento di debito (Trib. Roma 17 ottobre 2016; sul punto, Niccolini, 23, spec., 44, nt. 94). Il diritto al compenso è disponibile; sicché la clausola statutaria che prevede la gratuità dell'incarico è legittima, trattandosi di attività non equiparabile ad una prestazione di lavoro subordinato in senso stretto e non essendo perciò ad essa applicabile il principio costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente (Cass. n. 2861/2002). Oggi, l'art. 3 comma 2, lett. a), d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 (nel testo modificato dall'art. 2 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1) devolve alla cognizione delle Sezione specializzate in materia di impresa le cause aventi ad oggetto «rapporti societari». Rinviando al relativo commento, si evidenzia che tra detti «rapporti societari» deve ascriversi anche il rapporto che lega la società al suo amministratore, tanto più dopo le sezioni unite sopra menzionate, con conseguente assoggettamento a tale competenza per le controversie inerenti il rapporto gestorio ed il compenso spettante agli amministratori. La nomina degli amministratori.Il comma 1 della disposizione in commento stabilisce, da un lato, che l'amministrazione della società è attribuita ad uno o più «soci» e, dall'altro, che gli amministratori sono nominati dai soci con decisione assunta ai sensi dell'art. 2479 c.c. Essa, dunque, disciplina i profili connessi alla eleggibilità alla carica ed alla titolarità del potere di scelta: si tratta, in entrambi casi, di regole di default, che operano in mancanza di diversa disciplina contenuta nell'atto costitutivo, potendo quest'ultimo, al contrario, prevedere che la qualifica di amministratori sia rivestita anche da estranei e che la nomina avvenga con modalità diverse da quelle previste dall'art. 2479 c.c. Quindi, nel modello di default, la carica di amministratore non rappresenta una qualifica intrinseca allostatusdi socio (Regoli, 88), necessitando, al contrario, di una investitura da parte del gruppo dei soci contenuta o nell'atto costitutivo o in una successiva decisione. I primi amministratori sono nominati nell'atto costitutivo (art. 2463, comma 2, n. 8 c.c.). Ove l'atto costitutivo a ciò non provvedesse, secondo una prima ricostruzione che valorizza i profili di vicinanza della S.r.l. alle società personali, il potere amministrativo spetterebbe a tutti i soci (in questo senso, Parrella, 103; Vigo, 460; Lener, 789), con la conseguenza che ogni nomina successiva costituirebbe una modifica dell'atto costitutivo. Secondo diverso orientamento, invece, sarà semplicemente richiesta una decisione dei soci da adottarsi ai sensi dell'art. 2479 c.c. (Regoli, 89; Santoni, 250), da assumersi senza indugio (Mosco, 33). L'atto costitutivo potrebbe, peraltro, comunque prevedere che sono amministratori tutti i soci, contemporaneamente o secondo un ordine temporale prefissato (Vigo, 461). Inoltre, l'atto costitutivo può limitarsi a prevedere un numero minimo e massimo di amministratori, rimettendo alla successiva decisione dei soci la determinazione del numero effettivo. Problematico appare il coordinamento tra il comma 1 dell'art. 2475 per il quale «salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, l'amministrazione è affidata a uno o più soci nominati con decisione dei soci» e il comma 2 dell'art. 2479 c.c. per il quale, in ogni caso, è riservata alla competenza dei soci «la nomina, se prevista nell'atto costitutivo, degli amministratori» (per l'esame del rapporto tra le due norme, cfr., Regoli, 92 ss.; Zanarone, 948 ss.). Secondo una prima opinione, all'inciso «se prevista nell'atto costitutivo» contenuta nell'art. 2479 c.c. dovrebbe attribuirsi il significato che la norma trova applicazione nei casi in cui la nomina dei successivi amministratori sia espressamente contemplata dall'atto costituivo: ove tale condizione sussista, la nomina sarebbe sempre attribuita in ogni caso ai soci e ciascun socio dovrebbe partecipare ad essa con voto proporzionale alla sua quota. L'espressione «salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo» contenuta nell'art. 2475 starebbe a significare che i soci, in deroga alla disciplina legale, possono prevedere statutariamente la nomina di soggetti terzi ovvero l'investitura, di soci, nella carica di amministratore attraverso modalità alternative alla nomina (ad es., mediante attribuzione di un diritto particolare ex art. 2468, comma 3, c.c.). In questa prospettiva, sarebbe esclusa – non solo la possibilità di attribuire il diritto di nomina a soggetti esterni alla compagine sociale (su tale ultimo punto, concorda Abriani, 550), ma anche – la possibilità di configurare un diritto particolare avente ad oggetto la nomina degli amministratori, potendosi solo configurare in capo al socio un diritto di amministrare ovvero di designare un candidato per la nomina da parte dei soci ovvero ancora di esprimere il proprio gradimento alla nomina operata dalla collettività (Buonocore, 599). Si è evidenziato, però, che tale interpretazione penalizzerebbe eccessivamente la portata della norma sui diritti particolari (Mosco, 34). Diverso orientamento (Regoli, 95; Mosco, 35), quindi, legge l'incipit dell'art. 2475 come comprensivo della possibilità, oltre che di affidare a terzi l'amministrazione della società, anche di procedere alla nomina degli amministratori prescindendo da una decisione dei soci ai sensi dell'art. 2479 c.c. e ciò attraverso il riconoscimento, ad uno o più soci, anche individuati in base all'appartenenza a categorie omogenee, tanto del diritto di amministrare quanto quello di nominare direttamente gli amministratori (anche quelli investiti di particolare cariche) (così, Abriani, 550, il quale precisa che sarebbe ammissibile un organo gestorio a formazione mista nel quale una parte dei componenti sia individuata dal titolare del diritto particolare e una parte nominata dai soci; Blandini, 96); ovvero di provvedere alla designazione dei soggetti destinati ad essere nominati dalla pluralità dei soci, sia, infine, mediante l'attribuzione a terzi del diritto di nomina. Dubbia anche la possibilità di nominare amministratore di s.r.l. una persona giuridica. In senso positivo, si è espressa sia la dottrina maggioritaria (Zanarone, 943; Regoli, 76 che ricava tale possibilità dalla circostanza che l'art. 2475 comma 1 affida l'amministrazione ad uno o più soci, che possono essere anche società di capitali, senza limitare espressamente la capacità di ricoprire l'ufficio alle sole persone fisiche; sul punto, con approfonditi riferimenti, Carcano, 568 ss. che richiama anche Cass. n. 3370/2004) sia parte della giurisprudenza di merito, secondo la quale deve intendersi pienamente legittima la nomina ad amministratore di una S.r.l. di una società di capitali, la quale eserciti le relative funzioni attraverso un rappresentante persona fisica da essa designato. Tale rappresentante concretamente deputato alle funzioni gestorie, entrando in contatto diretto con la società amministrata, assume nei confronti di questa, solidalmente con la società amministratore, una posizione di garanzia che genera a suo carico una responsabilità di tipo contrattuale (Trib. Milano 27 marzo 2017, in IlSocietario.it). Identica la posizione della prassi notarile (Consiglio notarile di Milano, massima 100 che precisa che, in tal caso, l'amministratore persona giuridica deve designare, per l'esercizio della funzione di amministratore, un rappresentante persona fisica appartenente alla propria organizzazione, il quale assume gli stessi obblighi e le stesse responsabilità civili e penali previsti a carico degli amministratori persone fisiche, ferma restando la responsabilità solidale della persona giuridica amministratore). La nomina degli amministratori successivi ai primi avviene ad opera dei soci con il metodo assembleare ai sensi dell'art. 2479 c.c. salvo che l'atto costitutivo preveda una decisione mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto (Zanarone, 948; Abriani, 551; Dentamaro, 1955). Inoltre, il dato testuale della norma esclude che la nomina possa essere attribuita agli stessi amministratori (Mosco, 33). Non è̀ possibile prevedere come forma di elezione degli amministratori l'acclamazione, neppure in via alternativa rispetto ad altre modalità di nomina (Consigli notarili Triveneto, massima I.C.26). L'accettazione della carica e la durata della carica.Si è già detto che gli amministratori derivano i propri poteri non già dall'atto di nomina, ma direttamente dalla legge. In questa prospettiva, l'atto di nomina dell'assemblea non costituisce un negozio attributivo di poteri, ma soltanto un atto di designazione di soggetti previsti come necessari dalla legge e dall'atto costitutivo. Tuttavia, ai fini della costituzione del rapporto intercorrente tra società ed amministratori, all'atto di nomina di questi (in qualsiasi modo esso avvenga) dovrà necessariamente seguire l'accettazione della carica da parte dei soggetti designati (Regoli, 108). Essendo l'atto unilaterale di nomina un potere esclusivo della assemblea, per la valida instaurazione del rapporto organico di amministrazione fra la società e l'amministratore non è sufficiente la sola deliberazione di nomina, ma occorre anche la relativa accettazione, quale ulteriore atto unilaterale. L'accettazione si può realizzare mediante qualsiasi comportamento idoneo a manifestare la volontà di assumere la carica, ovvero può desumersi da atti positivi incompatibili con la volontà di rifiutare la nomina stessa (Trib. Napoli 14 settembre 2011, in Soc. 2011, 1342). L'accettazione non richiede particolari formalità e può perfezionarsi anche tacitamente ovvero desumersi dal compimento di atti incompatibili con la volontà di rifiutare la carica (Regoli, 108). L'articolo in commento non disciplina la durata del rapporto di amministrazione. A differenza di quanto previsto nelle società azionarie, l'incarico di amministratore può essere a tempo indeterminato (Abriani, 553). Anzi, in difetto di previsione nell'atto costitutivo o nell'atto di nomina, il rapporto gestorio dovrà intendersi a tempo indeterminato (Dentamaro, 1958). Ove, però, sia prevista una scadenza della carica, si ritiene applicabile l'art. 2383, comma 2, c.c. che individua il momento della cessazione della carica nella data dell'assemblea convocata per l'approvazione dell'ultimo bilancio (Salvatore, 446, contra, Caccavale, 504). Inoltre, la cessazione per scadenza del termine ha effetto dal momento dell'accettazione della carica da parte dei nuovi amministratori (Regoli, 113; Cagnasso, 233). La pubblicitàIl comma 2 dell'art. 2475 rende applicabile alla società a responsabilità limitata i commi 4 e 5 dell'art. 2383 c.c. Conseguentemente, gli amministratori devono richiedere, entro trenta giorni, l'iscrizione della loro nomina nel registro delle imprese; dopo l'esecuzione di tale adempimento pubblicitario, le cause di nullità o di annullabilità della nomina degli amministratori che hanno la rappresentanza della società non sono opponibili ai terzi, salvo che la società provi che i terzi ne erano a conoscenza (art. 2383, commi 4 e 5, c.c. richiamati dall'art. 2475, comma 2, c.c.) (Regoli, 108; Ambrosini, 1568; Parrella, 102; Zanarone, 955). Cause di ineleggibilità e di decadenza
La disciplina delle società a responsabilità limitata non regolamentava le cause di ineleggibilità e di decadenza degli amministratori, sicché, riguardo ad essi, era dubbio se trovasse applicazione l'art. 2382. Peraltro, in ordine alla decadenza dell'amministratore di società a responsabilità limitata che sia stato dichiarato fallito, è recentemente intervenuto il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 183, che ha recepito la direttiva (UE) 2019/1151 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, recante modifica della direttiva (UE) 2017/1132 per quanto concerne l'uso di strumenti e processi digitali nel diritto societario. In particolare, l'art. 6, comma 1, lett. a) del citato d.lgs. ha aggiunto al primo comma dell'art. 2475 c.c. il richiamo all'art. 2382 c.c. In virtù di tale aggiunta, trova applicazione anche alle società a responsabilità limitata il citato art. 2382 c.c., in base al quale non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l'interdetto, l'inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi. Appare, comunque, opportuno dare conto del dibattito, dottrinario e giurisprudenziale, anteriore alla novella normativa. Nulla è disposto nell'articolo in commento in ordine alle cause di ineleggibilità o di decadenza dalla carica, essendo rimesso all'autonomia privata la definizione di condizioni ostative all'assunzione della carica ovvero di requisiti positivi necessari ai fini dell'assunzione (Abriani, 551). È, peraltro, dubbia l'applicabilità, eventualmente analogica, dell'art. 2382 c.c. (secondo il quale non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio, l'interdetto, l'inabilitato, il fallito, o chi è stato condannato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi). In giurisprudenza, si è osservato che la disciplina delle società a responsabilità limitata, a seguito della novella di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, non regolamenta le cause di ineleggibilità e di decadenza degli amministratori, sicché, riguardo ad essi, non trovano più applicazione, neppure per analogia, le norme dettate, per la società per azioni, dall'art. 2382 c.c., con la conseguenza che – salva diversa previsione statutaria – il fallimento dell'amministratore di società a responsabilità limitata non ne determina l'incapacità alla carica sociale (Cass., n. 25050/2021; Cass. n. 18904/2013). Una simile conclusione si basa sulla considerazione che la disciplina delle società a responsabilità limitata, a seguito della novella di cui al d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, da una parte, non regolamenta le cause di ineleggibilità e di decadenza degli amministratori di tale società e, dall'altro, non contiene un rinvio alle norme dettate dall'art. 2382 c.c. per la società per azioni, previsto dal previgente art. 2487 c.c. Ebbene, secondo una simile impostazione, il silenzio serbato sul punto, non andrebbe imputato a mera dimenticanza, ma dovrebbe ritenersi indicativo di una precisa volontà del legislatore. Tali considerazioni troverebbero, infine, conferma nella disciplina in tema di fallimento – come novellata con il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 e dalla quale risulta una limitazione degli effetti a carico del fallito, sul piano personale, della sentenza di fallimento – e, in particolare, nell'abrogazione, disposta con il primo d.lgs. indicato, della l. fall., art. 50, che prevedeva il registro dei falliti, e nell'abrogazione, operata dal secondo decreto legislativo citato, del d.lgs. n. 114/1998, art. 5, comma 2, lett. a) che vietava l'iscrizione nel registro delle imprese dei soggetti dichiarati falliti, fino alla pronuncia della sentenza di riabilitazione. Tuttavia, la dottrina maggioritaria osserva che la norma di cui all'art. 2382 c.c. è volta a tutelare non solo i soci, ma anche i creditori ed i terzi che vengono in contatto con la società: la tutela del patrimonio sociale richiede anche nelle società a responsabilità limitata l'assenza in capo agli amministratori di situazioni, quali l'interdizione, l'inabilitazione, le condanne in sede penale, idonee ad incidere negativamente sulla capacità ed onorabilità di coloro ai quali è affidata la funzione gestoria. In altre parole, l'art. 2382 c.c. esprime una regola di tutela dei terzi a valenza generale (Abriani, 551; Zanarone, 946; Regoli, 105; Ambrosini, 1568), in quanto le indicate esigenze di tutela si manifestano in modo analogo a prescindere dal tipo sociale adottato in sede di costituzione della società. Né giustifica la inapplicabilità dell'art. 2382 c.c. l'adozione di un assetto spiccatamente personalistico atteso che i terzi che entrano in contatto con una società a responsabilità limitata non possono comunque contare sulla responsabilità illimitata dei soci (Regoli, 107). D'altra parte, anche nel rapporto «interno» tra amministratore e società non sussistono differenze che possano giustificare una soluzione diversa. È evidente, infatti, che, quanto a diritti e obblighi reciproci e connesse responsabilità, il rapporto gestorio che si instaura tra la società ed il relativo amministratore non presenta sostanziali distinzioni tra i due tipi societari (così, Giudice registro Roma, decr., 23 gennaio 2018 secondo il quale le riforme che hanno interessato la legislazione fallimentare non vengono in rilievo sia perché esse non riguardano esclusivamente le società a responsabilità limitata, con la conseguenza che non si comprenderebbe la ragione di una differenza di disciplina tra i due tipi societari e precisamente il permanere delle cause di ineleggibilità e di decadenza solo per la società per azioni, sia in quanto la manifesta limitazione degli effetti, sul piano personale, del fallimento non costituisce esigenza che possa essere antergata rispetto alle necessità di tutela dei terzi che vengono in contatto con una società costituita mediante un particolare tipo societario; Trib. Roma, 9 aprile 2018). L'applicabilità alla società a responsabilità limitata del disposto di cui all'art. 2382 c.c. implica che sarebbe nulla per illiceità dell'oggetto la deliberazione che nominasse un soggetto fallito alla carica di amministratore della società e che, una volta intervenuto il fallimento dell'amministratore, questi decade dalla carica (Giudice registro Roma, decr., 23 gennaio 2018). La cessazione del rapporto di amministrazione.Sono cause di cessazione del rapporto gestorio la scadenza dell'incarico, la decadenza, la revoca, la rinunzia, la morte, l'iscrizione nel registro delle imprese della nomina dei liquidatori. Si ritiene lecito l'inserimento nello statuto della clausola simul stabunt simul cadent (Regoli, 122 che fa comunque salva la prorogatio degli amministratori fino alla loro sostituzione; Abriani, 553) che comporta la cessazione di tutti gli amministratori in carica al verificarsi di una ipotesi di estinzione del rapporto di amministrazione limitatamente ad uno di essi (per una valutazione delle implicazioni dell'operatività di tale clausola con la disciplina dei diritti particolari, cfr., Regoli, 123 ss.). In caso di cessazione del rapporto con riferimento ad uno o taluni amministratori, la dottrina tende ad escludere l'applicabilità dell'art. 2386 c.c. che, nelle società azionarie, disciplina l'istituto della cooptazione quale meccanismo attraverso il quale l'organo amministrativo provvede alla sostituzione degli amministratori prima della scadenza del termine (Zanarone, 949; Regoli, 102 i quali evidenziano come nella S.r.l. potrebbe mancare il collegio sindacale e come, nelle S.r.l., vige il principio della competenza dei soci a nominare gli amministratori). Secondo una parte della dottrina, i soci potrebbero ugualmente inserire nell'atto costitutivo un regime di sostituzione temporanea per cooptazione (Regoli, 103). La giurisprudenza ha ritenuto applicabile, alla s.r.l., l'art. 2385 comma 1 c.c.: le dimissioni dalla carica rese da un amministratore di s.r.l. hanno effetto immediato solo se resta in carica la maggioranza degli amministratori; in caso contrario hanno, invece, effetto differito al momento in cui la maggioranza del consiglio sia stata nuovamente ricostituita in seguito all'accettazione dei nuovi amministratori (Trib. Napoli 14 novembre 2013, in Soc. 2014, 1343). Per contro, la prorogatio non è applicabile nel caso in cui la società sia amministrata da due coamministratori che gestiscano la società in maniera disgiunta, nel caso di cessazione dalla carica di uno di essi (Trib. Roma 1° dicembre 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it, secondo il quale, in una s.r.l. gestita da due coamministratori con poteri disgiunti, le dimissioni di uno dei due amministratori sono immediatamente efficaci, non appena ricevute dal destinatario, atteso che la rinuncia alla carica di amministratore è un atto unilaterale recettizio e che a seguito di esse la società non rimane priva dell'organo gestorio, avendo pieni poteri di gestione l'altro amministratore: il principio che si ispira alla disciplina delle società personali è appare applicabile anche alla società a responsabilità limitata, stante l'identità di ratio, qualora l'amministrazione sia stata conferita a due coamministratori con poteri disgiunti, non potendosi ravvisare in tal caso la costituzione di un consiglio di amministrazione). La remissione da parte dell'amministratore delle deleghe operative attribuitegli in seno alla società amministrata non implica le dimissioni dall'incarico di membro del consiglio di amministrazione, quale funzione che non comporta poteri, doveri e responsabilità operative. Pertanto, la nomina assembleare di un nuovo amministratore, a seguito della remissione delle deleghe, rappresenta una revoca implicita priva di giusta causa dell'amministratore nominato a tempo indeterminato, tale da fondare legittimamente il suo diritto a un indennizzo (Trib. Milano 5 giugno 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it). Quanto alla revoca degli amministratori di società a responsabilità limitata, il legislatore ha inteso disciplinare soltanto l'ipotesi di revoca giudiziale in caso di gravi irregolarità nella gestione della società attribuendo la legittimazione attiva a ciascun socio (art. 2476, comma 3, c.c.). L'articolo in esame, invece, non disciplina la revoca degli amministratori da parte dei soci. Si discute, quindi, se sia applicabile alla società a responsabilità limitata l'art. 2383, comma 3, c.c. nella parte in cui prevede che gli amministratori sono «in qualunque tempo» revocabili dall'assemblea, salvo, però, il diritto al risarcimento del danno se la revoca interviene in assenza di giusta causa. Secondo l'orientamento maggioritario, l'attuale, persistente riconducibilità della società a responsabilità limitata nell'ambito delle società capitalistiche induce a ritenere possibile l'applicazione della norma dettata per le società azionarie con la conseguenza che i soci potranno in qualsiasi momento revocare gli amministratori (Ambrosini, 1569; Salvatore, 448; Bartalena, 163 ss.; contraWeigmann, 985, il quale, richiamando per analogia l'art. 1723, comma 2, c.c., ritiene che possa decidersi la revoca esclusivamente adducendo una giusta causa). Si precisa, però, che la possibilità di applicare l'art. 2383, comma 3, c.c. trova come suo presupposto che il modello capitalistico della società a responsabilità limitata non sia stato superato dalle previsioni dell'atto costitutivo in quanto, ove i soci avessero organizzato la società su basi più propriamente personalistiche, la revoca sarebbe possibile solo in caso di giusta causa (Abriani, 556 ss.). Anche la disciplina della revoca degli amministratori deve essere valutata alla luce della disciplina dei diritti particolari che possono essere attribuiti ai soci ai sensi dell'art. 2468, comma 3, c.c. Ove la facoltà di amministrare sia oggetto del diritto particolare, la revoca dovrà essere decisa con il consenso unanime di tutti i soci, ai sensi del comma 4 dell'articolo da ultimo citato, comportando essa una modifica di quel diritto, salvo, però, l'ipotesi di giusta causa, per il quale varranno gli ordinari principî dovendo prevalere le esigenze di tutela della società (Abriani, 558; Zanarone, 995). Qualora, invece, sia attribuito ad un socio il diritto particolare di nominare l'amministratore si ritiene che al medesimo spetti anche il potere di revoca (Abriani, ivi). In giurisprudenza si afferma che, nonostante il silenzio del testo normativo, gli amministratori della società a r.l. possono essere revocati dall'assemblea dei soci, in applicazione analogica dell'art. 2383 comma 3 c.c. (Trib. Milano 12 marzo 2013, in Soc. 2013, 791; Trib. Napoli 14 settembre 2011, in Soc. 2011, 1342; Trib. Arezzo 18 ottobre 2011, in Soc. 2011, 1342). Si precisa, inoltre, che la revoca dell'amministratore nominato nell'atto costitutivo non richiede, ai fini della sua efficacia, né la modifica dell'atto costitutivo né la sussistenza di una giusta causa, la quale ultima incide soltanto sull'eventuale obbligo della società di risarcire i danni all'amministratore revocato, secondo le norme sul mandato (Trib. Torino 18 ottobre 2012, in Giur. it. 2013, 867). Secondo Trib. Roma 24 luglio 2013 (in Vita not.2013, 3, 1461), la deliberazione di revoca senza giusta causa di un amministratore di società di capitali è lecita e conseguentemente all'amministratore revocato compete un indennizzo e non, come testualmente prevede l'art. 2383 c.c., un risarcimento del danno. L'indennizzo che compete all'amministratore di società nominato ad tempus e revocato senza giusta causa deve essere quantificato in misura pari agli emolumenti che l'amministratore avrebbe percepito ove non fosse intervenuta la revoca: il debito da indennizzo costituisce debito di valore, come tale suscettibile di rivalutazione monetaria. Nell'ipotesi di amministratore di s.r.l. nominato a tempo indeterminato non si applica la norma di cui al comma 3 dell'art. 2383 c.c. in tema di s.p.a, poiché detta norma non è richiamata dall'art. 2475, che oggi invero la richiama quanto ai soli commi 4 e 5 dell'art. 2383 c.c. Dunque, «quest'ultima norma resta dettata per l'ipotesi, tipica per la s.p.a. ex art. 2383 comma 2 c.c., di amministratore nominato a tempo determinato e non può, invece, regolare l'ipotesi di nomina a tempo indeterminato, ricorrente solo nelle s.r.l., poiché, diversamente, la suddetta regola comporterebbe l'impossibilità per tutta la durata della vita dell'amministratore di una revoca in assenza di una giusta causa senza obbligo di risarcimento del danno, in contrasto con il carattere fiduciario dell'incarico». Nel caso di amministratore nominato a tempo indeterminato, quindi, può trovare applicazione in via analogica solo la diversa disciplina di cui all'art. 1725, comma 2, c.c., prevedente che la revoca del mandato a titolo oneroso a tempo indeterminato, che costituisce sempre facoltà del mandante, e attribuisce al mandatario il diritto al risarcimento del danno solo in difetto di congruo preavviso, salvo sussista una giusta causa. La tutela patrimoniale prevista dall'ordinamento per la cessazione del rapporto gestorio, quindi, comporta la commisurazione del risarcimento non già alle aspettative di durata dell'incarico fino al termine della vita lavorativa dell'amministratore ma alle aspettative di prosecuzione dell'incarico (e della sua retribuzione) per un periodo di congruo preavviso; salvo la società non dimostri sussistesse una giusta causa (Trib. Milano 13 marzo 2007; Trib. Milano 11 novembre 2013; Trib. Milano 30 luglio 2015, entrambe in giurisprudenzadelleimprese.it). Il diritto dell'amministratore di s.r.l., nominato a tempo indeterminato, al risarcimento del danno per essere stato revocato senza giusta causa sussiste se la revoca sia stata comunicata senza congruo preavviso e solo in presenza della prova di un danno risarcibile (Trib. Cagliari 12 maggio 2006). L'organo amministrativo ed il suo funzionamento. I modelli organizzativi.Gli ultimi tre commi dell'art. 2475 offrono una disciplina del funzionamento dell'organo amministrativo e della validità delle decisioni da questo assunte. La normativa si presenta assai scarna e lacunosa, ma corrisponde alla volontà del legislatore della riforma di assicurare ai soci una ampia libertà di forme organizzative come d'altra parte richiesto dalla legge delega (art. 3 comma 1, lett. c) e d), l. n. 366/2001). L'ampiezza dei poteri organizzativi riconosciuti ai soci ha portato una parte della dottrina a ritenere possibile che l'atto costitutivo non preveda la presenza di un organo amministrativo conferendo l'amministrazione della società a tutti soci, riuniti o meno in assemblea (così, Zanarone, 935 che precisa che ciò che verrebbe eliminato è la distinzione soggettiva tra collettività dei soci e organo amministrativo e non già direttamente quest'ultimo che resterebbe esistente coincidendo semplicemente con la prima; Nazzicone, 2856; Parrella, 105; Lener, 789). In senso contrario, si osserva che l'ultimo comma dell'art. 2475 affida alla (sola) competenza dell'organo amministrativo la redazione del bilancio e dei progetti di fusione e scissione e le decisioni di aumento del capitale sociale, circostanza che implica una alterità soggettiva tra soci ed amministratori (Salvatore, 453; Bartalena, 155 ss.; Cagnasso, 219). Secondo la prassi notarile, stante la natura di società di capitali della s.r.l., deve ritenersi indispensabile la presenza formale di un organo amministrativo, anche nel caso in cui lo statuto preveda che l'amministrazione spetti necessariamente a tutti i soci e ciò in quanto le qualifiche di amministratore e di socio sono distinte, anche se rivestite dagli stessi soggetti (Consiglio notarile del Triveneto, massima I.C.3). In astratto, i modelli organizzativi possibili (Abriani, 563; Dentamaro, 1964) sono: 1) organo monocratico (amministratore unico); 2) consiglio di amministrazione a collegialità piena; 3) consiglio di amministrazione a collegialità attenuta che assume decisione senza riunirsi mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto; 4) amministrazione disgiuntiva; 5) amministrazione congiuntiva. Il comma 3 dell'art. 2475 disciplina l'ipotesi di nomina di più amministratori ponendo la regola, derogabile, che questi vengono così a comporre un consiglio di amministrazione. All'interno del consiglio, gli amministratori deliberano a maggioranza per teste collegialmente (Abriani, 563). Non sembrano, invece, trasponibili alle s.r.l. i sistemi alternativi di amministrazione e controllo quali il sistema dualistico o il sistema monistico (Consiglio notarile del Triveneto, massima I.C.2; possibilisti Abriani, 570; Dentamaro, 1965; Mosco, 51). La norma, tuttavia, non disciplina il funzionamento interno del consiglio di amministrazione aprendo la strada al dubbio se, in difetto di precisazioni contenute nell'atto costitutivo, debbano applicarsi – quanto a convocazione, formazione dell'ordine del giorno, presidente, coordinamento dei lavori, svolgimento della riunione, quorum costitutivo e deliberativo – le corrispondenti norme dettate per le società azionarie (sulla problematica, Mosco, 43). In senso contrario alla integrale applicazione delle norme delle s.p.a. (in questo senso, invece, Parrella, 105) si osserva che la disciplina del c.d.a. nelle società per azioni non è espressione di principî generali, ma di un modello di collegialità che risponde ad istanze specifiche di quel tipo societario (Abriani, 561; Mirone, 543) e che, quindi, occorre tenere in debito conto la specificità dell'ordinamento interno di una s.r.l. (Mosco, 44). Secondo altra opinione, dovrà procedersi all'applicazione analogica delle norme sulle s.p.a. negli stretti limiti in cui esse risultino compatibili con la disciplina e le caratteristiche tipologiche della s.r.l. (Zanarone, 972; contra, Abriani, 562). Infine, altri ritengono possibile solo il ricorso ai principî generali sul funzionamento degli organi collegiali o alle indicazioni normative interne al tipo della s.r.l. (Abriani, ivi). Secondo Trib. Terni 15 novembre 2004 (in Foro it. 2005, I, 1620), nel caso in cui la s.r.l. segua il modello costituito dall'istituzione del consiglio di amministrazione, si deve ritenere applicabile, al riguardo, il relativo regime, dovendosi valutare che l'omessa disciplina analitica delle attività dell'organo è stata dovuta alla circostanza che il legislatore ha inteso, implicitamente, rinviare alle norme poste in tema di s.p.a. All'interno del consiglio di amministrazione è indefettibile l'individuazione della figura del presidente che provvede alla convocazione (mediante invio del relativo avviso) ed alla direzione dell'organo (Abriani, 563). È dubbia la legittimità della clausola dell'atto costitutivo che demandasse ad uno o più soci il diritto di designare, tra gli amministratori nominati dai soci, il presidente del consiglio ovvero l'amministratore delegato atteso che una simile previsione lederebbe una delle prerogative tipiche degli amministratori (Regoli, 97; contra, A. Blandini, 111 secondo il quale è possibile configurare come diritto particolare sia la posizione dell'amministratore delegato sia il diritto di indicare l'amministratore chiamato a ricoprire tali incarico, «nell'ipotesi in cui il consiglio di amministrazione decida di delegare talune sue funzioni», configurandosi, così, una sorta di «diritto particolare condizionato»; tuttavia, secondo l'A., l'effettiva scelta di conferire la delega e l'individuazione delle materie concretamente delegate, così come la revoca della delega, restano di esclusiva competenza del consiglio di amministrazione). I soci sono liberi di apprestare una regolamentazione specifica dei quorumcostitutivi e deliberativi. Quanto ai primi, in dottrina si evidenzia come il contratto sociale possa prescinderne del tutto (Abriani, 565; Mosco, 45) prevedendo anche la presenza di un numero di partecipanti inferiori alla maggioranza (Mirone, 548). In difetto di previsioni statutarie, però, sarà applicabile l'art. 2388 c.c. secondo il quale per la validità della seduta occorre la presenza della maggioranza degli amministratori (Mirone, 547; Zanarone, 972; contra,Mosco, 45 secondo il quale se l'atto costitutivo nulla dispone, non si dovrà rispettare alcun quorum costitutivo). Anche i quorumdeliberativi saranno liberamente modellabili dall'atto costitutivo. Si ritiene che lo statuto possa legittimamente attribuire al presidente del c.d.a. il voto prevalente in caso di stallo deliberativo (Parrella, 106; Mirone, 548), con il limite della invalidità del voto plurimo (Ambrosini, 1574) e della disapplicazione della regola maggioritaria (Abriani, 566). In particolare, sarebbe illegittima una norma statutaria che comportasse l'approvazione della proposta che riceva solo la metà dei voti favorevoli anche a fronte di altrettanta metà di voti contrari (Mirone, 548 che evidenzia come, diversamente, l'accoglimento deriverebbe, in modo irrazionale, dalla modalità di formulazione della proposta). Può ammettersi la validità della regola della maggioranza relativa solo nel caso in cui, al voto, concorrano più di due proposte (Mirone, 548; Mosco, 46). In generale, si ritengono valide – sia con riferimento al quorum costitutivo che a quello deliberativo – le clausole unanimistiche (Mirone, 548; Abriani, 566; Mosco, 46) anche ove riferibili a tutte le decisioni e non solo a singoli atti preventivamente individuati. Altrettanto valide dovrebbero essere le clausole che, in presenza di una struttura societaria nell'ambito della quale siano amministratori tutti i soci, prevedesse il voto per quote di capitale o per quote di partecipazione agli utili e non già per teste (Mirone, 549; Abriani, 567). Le deliberazioni del consiglio di amministrazione devono constare da apposito verbale. Pur in mancanza di una norma espressa, in ragione del carattere fiduciario dell'incarico e delle connesse responsabilità, sembra inammissibile che l'amministratore si faccia rappresentare in consiglio ovvero che esprima comunque il voto per rappresentanza (Mosco, 47; Carcano, 576; Zanarone, 971; Mirone, 547; Ambrosini, 1575). Se tale conclusione sembra certa in assenza di una espressa previsione statutaria, una parte della dottrina è più possibilista verso clausole dell'atto costitutivo che consentano all'amministratore impossibilitato a partecipare di conferire una delega ad altro consigliere (Abriani, 564 il quale evidenzia la possibilità, da una parte, di attenuare la collegialità dell'organo e, dall'altro, di deferire ampie competenze gestorie ai soci che possono attribuire liberamente procure di voto). L'atto costitutivo può prevedere che le decisioni siano adottate mediante consultazione scritta o sulla base del consenso espresso per iscritto. Si tratta di una modalità «referendaria» (Abriani, 569) di assunzione della decisione. Essendo comunque imposto che dai documenti sottoscritti dagli amministratori risultino con chiarezza l'argomento oggetto della decisione ed il consenso alla stessa, si ritiene che, sebbene possa essere esclusa la riunione fisica del consiglio, sia comunque necessario che le decisioni siano assunte in forma scritta, cartacea o elettronica (Salvatore, 456; Parrella, 108). Segue. Amministrazione disgiuntiva e congiuntivaIn alternativa alla costituzione di un consiglio di amministrazione, l'atto costitutivo può prevedere, con il limite di quanto disposto nell'ultimo comma dell'art. 2475, che l'amministrazione sia affidata a più persone disgiuntamente oppure congiuntamente, trovando, in tali casi, applicazione le norme dettate in tema di società personali. Sembra possibile che l'atto costitutivo costruisca un sistema di amministrazione «misto» prevedendo una amministrazione disgiuntiva per le operazioni di valore inferiore ad una certa soglia e congiuntiva per le operazioni di valore superiore (Picardi, 559; Carcano, 580; Morandi, 1030). Inoltre, sembrerebbe lecita una clausola dell'atto costitutivo «aperta» che, prevedendo alternativamente i due modelli gestori, rimetta la scelta tra essi alla decisione dei soci in sede di nomina degli amministratori e senza le formalità richieste per le modifiche statutarie (Dentamaro, 1969; Picardi, 559). Nel caso di amministrazione disgiuntiva, l'amministrazione della società spetta a ciascun socio disgiuntamente dagli altri, secondo la disciplina dell'art. 2257 c.c., filtrata dal giudizio di compatibilità. Secondo la norma richiamata, ciascun socio amministratore ha diritto di opporsi all'operazione che un altro voglia compiere, prima che sia compiuta; la maggioranza dei soci, determinata secondo la parte attribuita a ciascun socio negli utili, decide sull'opposizione. La trasposizione di tali norme nell'ambito della disciplina della s.r.l. appare particolarmente problematica sia con riferimento alla configurazione del diritto di veto sia con riguardo al computo della maggioranza chiamata a risolvere l'opposizione. Con riferimento al primo profilo, il problema deriva dalla possibilità nella s.r.l. di designare amministratori esterni alla compagine sociale anche nel caso si adotti il sistema di amministrazione disgiuntiva (per tutti, Tedeschi, 563). Si ritiene, però, che il diritto di veto vada attribuito anche agli amministratori non soci perché, diversamente, essi sarebbero responsabili (art. 2476, comma 1, c.c.) per il compimento della singola operazione dannosa senza, tuttavia, di disporre di strumenti per esprimere il proprio dissenso e per intervenire preventivamente per evitare il compimento di quella stessa operazione (Abriani, 574; Tedeschi, 564; Dentamaro, 1971; Teti, 643). Infatti, in caso di amministrazione disgiunta, il dissenso deve necessariamente manifestarsi mediante l'opposizione preventiva al compimento dell'operazione, non essendo sufficiente la mera annotazione di quel dissenso (Tedeschi, 564) Quanto al computo della maggioranza chiamata a decidere sull'opposizione, essa spetta ai soci, dovendosi intendere compresi anche i non amministratori (Abriani, 574; Zanarone, 980), con la precisazione che il criterio di calcolo della maggioranza per decidere dell'eventuale opposizione deve intendersi la partecipazione al capitale e non agli utili come indicato dall'art. 2257 c.c. (Zanarone, ivi; Tedeschi, 564; Consiglio notarile Triveneto, massima I.C.7; contra, Carcano, 580 secondo il quale se i soci hanno stabilito che ad un determinato socio spetti una quota di utili superiore a quella che gli spetterebbe in proporzione alla quota di capitale, con la medesima clausola hanno riconosciuto a detto socio, nelle decisioni ex art. 2257 c.c., un «peso» superiore a quello risultante dal conferimento). Si evidenzia, comunque, che il dovere di diligenza gravante sugli amministratori implica la sussistenza di un obbligo di informare gli altri amministratori su operazioni particolarmente rilevanti (Abriani, 575; Tedeschi, 565). Ove i soci abbiano previsto un regime di amministrazione congiuntiva, si applica l'art. 2258 c.c. secondo il quale, in tal caso, per il compimento delle operazioni sociali è necessario il consenso di tutti i soci amministratori; mentre, se è convenuto che per l'amministrazione o per determinati atti sia necessario il consenso della maggioranza, questa si determina a norma dell'ultimo comma dell'art. 2257 c.c. (parte attribuita a ciascuno agli utili). In primo luogo, è dubbio se, nel silenzio dell'atto costitutivo, la scelta del regime di amministrazione congiunta richieda il consenso unanime degli amministratori (con conseguente attribuzione a ciascuno di essi di un diritto di veto) ovvero comporti l'applicazione del principio maggioritario (in questo secondo senso, Picardi, 554, che segnala come, nella s.r.l., il principio di collegialità costituisca il metodo legale derogabile in grado di garantire ponderatezza ed unità della gestione e giustificare la solidarietà nella amministrazione). Nel caso di applicazione della regola maggioritaria, ove la partecipazione agli utili non sia proporzionale alle quote di partecipazione al capitale, si pone il problema se la maggioranza necessaria per la decisione vada calcolata sulla base della partecipazione agli utili (come previsto dall'art. 2257 c.c.) ovvero sulla base della partecipazione al capitale (come richiesto dall'art. 2479, comma 5, c.c.). La dottrina sembra propendere per tale seconda soluzione (Picardi, 555). Ulteriore problematica riguarda la possibile presenza, nella s.r.l., di amministratori esterni alla compagine sociale. Si ritiene che, per il calcolo della maggioranza degli amministratori, debba farsi ricorso al criterio «per teste» (Abriani, 572 che precisa che detto criterio deve essere previsto da apposita clausola statutaria; Dentamaro, 1970; Picardi, 555; Consigli Notarili Triveneto, massima I.C.12). Non applicandosi nella amministrazione congiuntiva il metodo collegiale, in caso di sistema maggioritario, non è necessario consultare tutti gli amministratori, ma è sufficiente raccogliere il consenso della maggioranza di essi (Abriani, 572; Dentamaro, 1971; Picardi, 556). Infine, si applica alla amministrazione congiuntiva l'art. 2258 comma 3 c.c. secondo il quale i singoli amministratori non possono compiere da soli alcun atto, salvo che vi sia urgenza di evitare un danno alla società (sul punto, Picardi, 555 secondo la quale è opportuno che l'atto costitutivo specifichi le ipotesi di urgenza indicando i limiti, per tipologia, oggetto o valore dell'operazione, entro i quali il singolo sia legittimato ad operare). Le materie riservate all'organo amministrativoL'ultimo comma dell'articolo in commento riserva «in ogni caso» – e, dunque, a prescindere dal sistema di amministrazione prescelto – alla competenza dell'organo amministrativo, la redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione o scissione, nonché le decisioni di aumento del capitale ai sensi dell'art. 2481 c.c. In relazione al rilievo di talune decisioni, la norma impone, in modo inderogabile, che la relativa paternità e responsabilità siano assunte da tutti gli amministratori attraverso una partecipazione cosciente ed informata al processo decisionale (Abriani, 569; Zanarone, 972), impedendo che ai singoli amministratori siano attribuiti autonomi poteri decisori (Mosco, 37). Va precisato che ciò che è richiesto dalla norma è l'interessamento informale degli amministratori con la conseguenza che non occorre conformarsi alla collegialità piena che normalmente caratterizza il consiglio di amministrazione (Mosco, 39). Secondo la dottrina, quindi, non è richiesta né la unanimità dei consensi degli amministratori, essendo sufficiente che tutti siano stati preventivamente avvisati e posti in grado di esprimere la propria determinazione (rendendo così riferibile all'organo amministrativo la decisione) né che la raccolta delle determinazioni dei singoli amministratori debba necessariamente avvenire con il metodo collegiale ovvero con le modalità della consultazione scritta o del consenso espresso per iscritto (Mosco, 38 il quale evidenzia come le singole dichiarazione di volontà possono essere raccolte in modo deformalizzato, anche oralmente o via e-mail). L'attribuzione di deleghe nella s.r.l.L'articolo in commento non disciplina espressamente la possibilità che, nell'ambito di un sistema gestorio composto da un consiglio di amministrazione, siano conferite ad uno o più amministratori deleghe gestorie. Il mancato richiamo all'art. 2381 c.c. è stato, in dottrina (Abu Awwad, 569), spiegato in ragione: della circostanza che il fenomeno delle deleghe appare proprio di società che assurgono a notevoli livelli dimensionali e non a società il cui modello è sì capitalistico, ma in qualche modo attenuato; nella s.r.l. la gestione è, almeno tendenzialmente, incentrata sulle persone dei soci e non si assiste alla netta cesura tra proprietà e funzioni gestorie; la ripartizione interna all'organo amministrativo, tipica della s.p.a., che conduce alla dialettica tra consiglio di amministrazione e amministratori delegati, si realizza, nella s.r.l., all'esterno dell'organo attraverso una ripartizione di prerogative gestorie tra soci e amministratori. Simili considerazioni portano a ritenere non applicabile analogicamente l'art. 2381 c.c. alla s.r.l. quanto meno in via automatica (Abu Awwad, 570). In generale, la dottrina è concorde nel ritenere che sia consentita la delega di funzioni (Abriani, 567; Abbadessa, 508) evidenziando che l'ampia autonomia statutaria, la possibilità di optare per un sistema di amministrazione disgiuntiva, la rispondenza ad esigenze di efficienza e funzionalità, che possono riscontrarsi anche nella società a responsabilità limitata, conducono all'ammissibilità della ripartizione delle funzioni gestorie. La delega, infatti, costituisce una modalità di espletamento della funzione gestoria così che essa rientra tra le norme concernenti l'amministrazione relative al funzionamento della società (art. 2463, comma 2, n. 7, c.c.). Tuttavia, occorre distinguere tra le diverse tipologie di deleghe. Nessun dubbio, infatti, che sia senz'altro consentita la delega interna e, precisamente, la ripartizione interna al consiglio delle funzioni e ciò in quanto tale ripartizione risponde pacificamente ad esigenze irrinunziabili di efficienza e di funzionalità dell'organo (Abbadessa, 508; Abu Awwad, 571). Altrettanto pacifica è l'ammissibilità della c.d. delega autorizzata semplice che si ha quando lo statuto prevede una mera ripartizione di funzioni fra gli amministratori o si autorizzano gli amministratori a realizzare la suddetta ripartizione. Le problematiche che si presentano riguardano, però, la delega c.d. «autorizzata complessa» e cioè di quella delega modellata sulla falsariga del disposto dell'art. 2381 c.c. Ci si chiede, infatti, se l'introduzione di una ripartizione di funzioni tra consiglio di amministrazione e delegati possa avere ripercussioni sulla regola della responsabilità solidale di cui al comma 1 dell'art. 2476 c.c. Una parte della dottrina ritiene che, in caso di attribuzione di deleghe, si abbia una attenuazione della posizione dei deleganti, ma che non sia possibile operare, nell'ambito della regola della solidarietà, alcuna distinzione (Teti, 641; Barachini, 567). Secondo altra dottrina (Abriani, 568; Ambrosini, 568; Dentamaro, 1969), l'art. 2476 c.c. si applicherebbe sul presupposto della vigenza del regime legale suppletivo di amministrazione che è di tipo collegiale ed andrebbe adattato alla conformazione della singola società tenendo, quindi, anche conto dell'attribuzione di eventuali deleghe. Conseguentemente, i deleganti sarebbero responsabili nei limiti delle informazioni ricevute (Abu Awwad, 575), ma graverebbero pur sempre sui medesimi gli obblighi di agire informato, di valutare, sulla base delle informazioni ricevute, il generale andamento della gestione e di richiedere maggiori informazioni in presenza di «segnali di allarme» (Abriani, 568). Si precisa, peraltro, che, in assenza di una norma corrispondente all'art. 2381 c.c., la possibilità di delegare talune funzioni dovrebbe risultare direttamente dall'atto costitutivo non essendo sufficiente una previsione contenuta nell'atto di nomina degli amministratori (Abriani, 567; Regoli, 49; Mosco, 48; Abu Awwad, 576 il quale, con riferimento alla delega interna, evidenzia come simile conclusione sia resa necessaria dalla circostanza che, nella s.r.l., l'organizzazione della funzione amministrativa spetta in via esclusiva ai soci; contra, Consiglio Notarile Triveneto, massima I.C.15). La giurisprudenza ha, recentemente, assunto una posizione parzialmente diversa (Cass. n. 2038/2018). Dopo avere preso atto dell'assenza nella disciplina della società a responsabilità limitata di una articolazione formale del consiglio di amministrazione per come prevista dall'art. 2381 c.c., il richiamato arresto ha evidenziato che i principî enunziati con riguardo alla responsabilità degli amministratori privi di deleghe di società per azioni (Cass. n. 22848/2015; Cass. n. 17441/2016) possono comunque estendersi all'amministrazione della società a responsabilità limitata. Infatti, nonostante alcune differenze letterali (il mancato riferimento alla delega gestoria ed alla circolazione dei flussi informativi all'interno del consiglio; la menzione di atti pregiudizievoli ancora da compiere e non degli atti pregressi) e nonostante una formula più sintetica, la disciplina della responsabilità di cui all'art. 2476 c.c. è, quanto a responsabilità solidale degli amministratori, sovrapponibile a quella dettata, per le società azionarie, dall'art. 2392 c.c. In particolare, si dà unicamente responsabilità colpevole, mai oggettiva, dovendo essa pur sempre essere ancorata almeno all'elemento soggettivo della colpa; alla “cognizione” del fatto altrui va equiparata la conoscibilità; la mera annotazione del “dissenso” non è sufficiente, non trattandosi di esenzione formale, ma di sostanziale assenza di colpa. Ciò posto, la regola della responsabilità solidale gestoria non esclude affatto che, sebbene in astratto tutti gli amministratori siano responsabili del danno cagionato alla società, in concreto la responsabilità residui solo a carico di uno o taluno di essi; e che, così come nell'illecito civile, la graduazione interna delle responsabilità si operi in relazione all'apporto effettivo di ciascuno alla causazione dell'evento, anche sino ad escluderne interamente quella di alcuno. L'impugnazione delle delibere consiliari.Le norme in materia di società a responsabilità limitata non prevedono una disciplina organica della invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione, al pari di quella dettata dall'art. 2388 c.c. per la s.p.a., limitandosi, all'art. 2475-ter comma 2 c.c., a prevedere la sola fattispecie del conflitto di interessi (Nuzzo, 580). In dottrina, taluni hanno osservato che l'omissione di una disciplina organica costituisce il segno di una consapevole scelta legislativa contraria, nell'ambito della società a responsabilità limitata, all'allargamento dei casi di invalidità rispetto al solo conflitto di interessi (Perrino, 577; Daccò, 808; Parrella, 119). In tale prospettiva, si evidenzia che nella s.r.l. sussistono mezzi di tutela diversi dal rimedio invalidatorio, quale l'esercizio dell'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore e la possibilità di ottenerne in via cautelare la revoca. Altri autori ritengono possibile il ricorso all'applicazione analogica della disciplina delineata dall'art. 2388 c.c. (Zanarone, 971; Ambrosini, 1573; Nuzzo, 583; Abriani, 576 ss.: quest'ultimo esclude l'applicabilità analogica dell'art. 2388 c.c. in caso di organizzazione personalistica della società a responsabilità limitata; in quest'ultimo senso, anche, Ambrosini, 1573). Deve, infine, ritenersi applicabile analogicamente alle società a responsabilità limitata anche la norma di cui all'art. 2388, comma 4, c.c. che consente ai soci di impugnare le deliberazioni del consiglio di amministrazione lesive dei loro diritti (così, almeno quando la società a responsabilità limitata sia organizzata su basi capitalistiche, Abriani, 578). In giurisprudenza, si osserva che sono legittimati ad impugnare le deliberazioni del consiglio di amministrazione di società consortile a responsabilità limitata sia gli amministratori dissenzienti per violazione di legge o dell'atto costitutivo, sia i soci lesi nei loro diritti soggettivi (Trib. Terni 15 novembre 2004, in Foro it. 2005, 1626). Infatti, l'art. 2388 c.c. deve essere interpretato quale espressione di un principio generale di sindacabilità delle delibere di tutti gli organi sociali per contrarietà alla legge o all'atto costitutivo. Ne consegue, pertanto, la sua applicazione analogica anche alle società a responsabilità limitata, con la diretta conseguenza di rendere impugnabili (anche) le deliberazioni del c.d.a. oltre i casi disciplinati dall'art. 2475-ter c.c. (Trib. Milano 27 febbraio 2013, in Giur. it. 2013, 2560; Trib. Milano 1 marzo 2012, in Giur. it. 2013, 1120; contra, però, Trib. Milano 19 febbraio 2009, in Soc. 2009, 1269; Trib. Verona 1 settembre 2004, in Giur. mer. 2006, 124). Inoltre, stante l'identità di ratio, l'art. 2388, comma 4, c.c., inciso finale, è applicabile analogicamente alla società a responsabilità limitata, anche per le decisioni dell'amministratore unico lesive dei diritti dei soci, costituendo tale facoltà espressione di un principio generale dell'ordinamento (Trib. Roma 12 settembre 2012, in Vita not. 2013, 239; Trib. Campobasso 31 ottobre 2007, in Soc. 2008, 1138 secondo il quale è possibile ritenere applicabile, in tema di s.r.l., la disciplina relativa all'impugnazione delle delibere consiliari da parte di un socio, prevista nell'ambito delle s.p.a. Sarà, tuttavia, necessario verificare che in concreto abbia avuto luogo la lesione di un diritto soggettivo del socio medesimo). Secondo altra ricostruzione, il silenzio del legislatore in ordine alla legittimazione dei soci di una s.r.l. ad impugnare le delibere consiliari costituisce una lacuna che deve essere colmata con il ricorso all'applicazione analogica (non già dell'art. 2388, comma 4, c.c., ma) dell'art. 2479-ter c.c.: l'interprete deve cioè procedere (non all'eterointegrazione, ma) all'autointegrazione nell'ambito del sistema della s.r.l. (Lodo arbitrale 12 maggio 2007, in Banca borsa tit. cred. 2011, II, 356). BibliografiaAbbadessa, Profili topici per la nuova disciplina della delega amministrativa, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, a cura di Abbadessa e Portale, II, Torino, 2006; Abriani, Sub art. 2475, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle società - Dell'azienda. Della concorrenza, artt. 2452-2510, a cura di D.U. Santosuosso, Milano 2015, 547; Abu Awwad, La delega di funzioni nel consiglio di amministrazione, in S.r.l. Commentario, a cura di Dolmetta, Presti, Milano, 2011, 553; Ambrosini, Sub art. 2475, in Società di capitali. Commentario, a cura di Niccolini, Stagno d'Alcontres, Napoli, 2004; Atlante, Maltoni, Ruotolo, Il nuovo articolo 2475 c.c. Prima lettura, Consiglio Nazionale del notariato, studio 58-2019/I; Bartalena, La revoca degli amministratori di s.r.l., in Amministrazione e controllo nel diritto delle società, Liber amicorum A. Piras, Torino, 2010; Barachini, La gestione delegata nella società per azioni, Torino, 2008; Bianchini, Nomina degli amministratori e cause di ineleggibilità, in S.r.l. Commentario, a cura di Dolmetta, Presti, Milano, 2011, 524; Blandini, Categorie di quote, categorie di soci, Milano, 2009; Buonocore, L'organizzazione interna della società a responsabilità limitata riformata, in Riv. not. 2004, I, 599; Cagnasso, I controlli nelle S.r.l., in Giur. it. 2013, 2438; Carcano, Sub art. 2475, in Società a responsabilità limitata, Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, a cura di Bianchi, Milano, 2008, 561; Daccò, L'invalidità delle decisioni degli amministratori di S.r.l., in Aa.Vv., Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum A. Piras, Torino, 2010; Dentamaro, Sub art. 2475, in Codice delle società, a cura di Abriani, Torino 2016; Lener, Le competenze legali e statutarie dei soci, in S.r.l., in S.r.l. 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