Codice Civile art. 2469 - Trasferimento delle partecipazioni (1).

Guido Romano

Trasferimento delle partecipazioni (1).

[I]. Le partecipazioni sono liberamente trasferibili (2) per atto tra vivi e per successione a causa di morte, salvo contraria disposizione dell'atto costitutivo.

[II]. Qualora l'atto costitutivo preveda l'intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell'articolo 2473. In tali casi l'atto costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non può essere esercitato.

(1) V. nota al Capo VII.

(2) La parola «trasferibili» è stata sostituita alla parola «trasmissibili» dall'art. 3 d.lg. 17 gennaio 2003, n. 6, come modificato dall'art. 5 1nn) d.lg. 6 febbraio 2004, n. 37.

Inquadramento

Con l'articolo in commento, il legislatore ribadisce, da una parte, come regola didefault, il principio di libera trasferibilità delle partecipazioni nelle società a responsabilità limitata sia per atto tra vivi che mortis causa e, dall'altra, in ossequio al principio generale della rilevanza centrale che il socio assume in tale tipo di società, consente all'autonomia privata, mediante l'introduzione di apposite clausole nell'atto costitutivo, di escludere in tutto o in parte la trasferibilità ovvero di sottoporla a determinate condizioni. Tuttavia, la possibilità di prevedere, nell'atto costitutivo, l'intrasferibilità della partecipazione ovvero il suo assoggettamento al gradimento di determinati soggetti è contemperato dalla previsione del diritto di recesso al fine di impedire che il socio resti prigioniero della società. Si attua così una composizione dei diversi interessi, quello della società e dei soci come gruppo, alla stabilità ed alla omogeneità della composizione societaria e quello del singolo socio al disinvestimento che ponga fine ad una perpetuità del vincolo societario (Rivolta, 213; Speranzin, Bortoluz, 336; Zanarone, 552).

La norma, dunque, si presenta coerente con il modello tipologico multifunzionale della s.r.l. uscita dalla riforma, ove le peculiarità capitalistiche concernenti la possibile appartenenza del potere amministrativo a persone diverse dai soci possono convivere con rilevanti accenti personalistici, attraverso l'attribuzione anche esclusiva dell'amministrazione ai soci (Maffezzoni, 40; Presti, 29). In altre parole, se la previsione generale della libera trasferibilità delle partecipazioni richiama il concetto di indifferenza dell'organizzazione societaria rispetto ai soggetti titolari della partecipazione e, dunque, il modello più schiettamente capitalistico della società, la possibilità di porre vincoli e limitazioni, anche assolute, a quella trasferibilità consente di attribuire un particolare rilievo alle persone dei soci richiamando in ultima analisi un modello personalistico della società medesima.

Peraltro, la norma prende in considerazione soltanto le clausole che prevedono espressamente l'intrasferibilità delle partecipazioni sociali o che ne subordinano il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni o limiti. Al contrario, la disciplina non prende in considerazione ulteriori modalità di limitazioni del trasferimento delle partecipazioni, quali possono essere le clausole di gradimento non mero, di prelazione, di riscatto, trascinamento, covendita. La dottrina è decisamente propensa ad ammettere la legittimità di tali ulteriori pattuizioni, benché atipiche, salvo approfondire quali siano i limiti che ad esse possano derivare dal sistema (così, Speranzin-Bortoluz, 334; Tassinari, 1418; Ghionni Visconti, 15 ss.).

La dottrina evidenzia come la disciplina del recesso collegato alle ipotesi di clausole di intrasferibilità assoluta e di mero gradimento intenda garantire diversi interessi. In primo luogo, la norma tutela la posizione del socio cui è attribuito, appunto, il diritto di recedere al fine di evitare, anche in considerazione dell'assenza di un mercato delle partecipazioni in s.r.l., la perpetuità del vincolo societario (Rivolta, 213): in questa prospettiva il recesso rappresenta uno strumento per la negoziazione tra i soci e, quindi, funzionale a contrattare l'uscita dalla società (Speranzin, Bortoluz, 336). Sotto altro profilo, la norma – anche attraverso la possibilità di stabilire limiti temporali all'esercizio del recesso – soddisfa l'esigenza degli altri soci a controllare la compagine sociale «impedendo al socio che intenda recedere l'assunzione di comportamenti potenzialmente pregiudizievoli per la stabilità finanziaria della società, in considerazione degli esiti che può determinare l'esercizio del diritto» di recesso (Speranzin, Bortoluz, 336). Infine, viene ad essere tutelato l'interesse dei terzi, in quanto la norma tenta di evitare la possibilità che la liquidazione della quota avvenga a danno della posizione dei creditori sociali (Speranzin, Bortoluz, 336; Ghionni Visconti, 132).

Peraltro, le clausole di intrasferibilità e di mero gradimento attribuiscono il diritto di recesso per il solo fatto di essere presenti nell'atto costitutivo (Speranzin, Bortoluz, 337; De Luca, 1870). Con riferimento alle clausole di mero gradimento, tuttavia, la scelta del legislatore è stata criticata in quanto «se il bene da tutelare è l'aspettativa del socio al disinvestimento appare logico riconoscere questa tutela soltanto in presenza di uno specifico diniego del gradimento e non in virtù della sola esistenza della clausola che lo prevede, la quale, a differenza della clausola di intrasferibilità, non impedisce la ricerca di un acquirente della quota né esclude in modo assoluto la possibilità di una cessione a terzi» (Speranzin, Bortoluz, 338; Maltoni, 1842). Per tale ragione, alcuni autori hanno tentato una interpretazione di tipo «integrativo» ancorando l'esercizio del recesso al mancato gradimento (Cagnasso, 146; Ghionni Visconti, 162, che evidenzia come non vi sia alcun motivo per il quale dovrebbe riconoscersi al socio un diritto di exit della stessa portata di quello previsto in caso di incedibilità assoluta per atto tra vivi, potendo il socio alienare la propria partecipazione anche in presenza di un gradimento arbitrario ed attivare il recesso solo quando gli venga negato il placet; Olivieri, 327). Tuttavia, atteso il tenore letterale della norma, la maggioranza degli autori ritiene che il recesso possa essere esercitato in ogni momento per il solo fatto della presenza della clausola di mero gradimento e non solo subordinatamente al rifiuto del placet (così, Zanarone, 589; Maltoni, 1842; Revigliono, 229).

In giurisprudenza, però, si è affermato che la sola presenza nello statuto di una s.r.l. di una clausola di (mero) gradimento non dà diritto al socio di recedere, essendo bensì tale diritto ed il suo esercizio ancorati al fatto che il gradimento sia stato in concreto richiesto e negato (Trib. Terni, 28 giugno 2010, in Giur. it., 2010, 2551).

L'oggetto del trasferimento delle partecipazioni sociali. Le garanzie convenzionali

Costituisce oramai consolidato orientamento nella giurisprudenza, sia di legittimità sia di merito, che la cessione delle quote societarie ha come oggetto immediato la partecipazione sociale e solo quale oggetto mediato la quota parte del patrimonio sociale che tale partecipazione rappresenta. Pertanto, le carenze o i vizi relativi alla consistenza e alle caratteristiche dei beni ricompresi nel patrimonio sociale possono giustificare la risoluzione di tale contratto solo se sono state fornite a tale riguardo dal cedente specifiche garanzie contrattuali, anche se non vi è bisogno che esse vengano così espressamente qualificate, sufficiente essendo che il rilascio della garanzia si evinca inequivocamente dal contratto (cfr. Cass. n. 9067/1995; Cass. n. 16031/2007; Cass. n. 2843/1996; Cass. n. 26690/2006). In via generale, infatti, il vizio ed il difetto di qualità in relazione alla compravendita di partecipazioni sociali, essendo queste attributive di un insieme di diritti ed obblighi in relazione a una società, può attenere, in via generale, unicamente alla qualità dei diritti e obblighi che in concreto la partecipazione sociale sia idonea ad attribuire. Non può riguardare, invece, il suo valore economico in quanto esso non attiene all'oggetto del contratto, ma alla sfera delle valutazioni motivazionali delle parti, in grado di assumere rilievo giuridico, come detto, solo ove, in relazione alla consistenza economica della partecipazione, siano state previste esplicite garanzie contrattuali, ovvero nel caso di dolo di un contraente, che renda annullabile il contratto. D'altra parte, è stato correttamente osservato che il patrimonio sociale appartiene alla società e non ai soci, i quali non sono titolari di un diritto reale sui beni sociali e subiscono, per effetto delle perdite del capitale sociale, solo un danno riflesso a causa della diminuzione del valore della loro partecipazione. In altre parole, le tutele apprestate dalla legge – sia nella fase genetica (vizi della volontà) sia in quella funzionale (ai fini dell'esatta e corretta esecuzione del contratto) – proteggono l'interesse del compratore rispetto a discrepanze che riguardano le partecipazioni compravendute, non il patrimonio sociale. In sintesi, la giurisprudenza ammette che la cessione della quota attuata sul presupposto di una determinata consistenza patrimoniale della società, si possa inquadrare nell'ambito di un complesso regolamento negoziale, il quale abbia per oggetto non solo l'acquisizione di un generico status socii, ma anche ulteriori obblighi, a carico del cedente; tali obblighi possono per relationem essere collegati dalle parti, appunto, a una certa consistenza del patrimonio ovvero a determinate caratteristiche di beni sociali specificamente considerati, sino a rendere applicabile in via analogica le norme in tema di vendita, a condizione, come detto, che il cedente abbia, sul punto, assunto una specifica e dettagliata garanzia (cfr. Cass. n. 16031/2007 cit.). I più recenti interventi della giurisprudenza di legittimità consentono così di ritenere abbandonato quell'orientamento, peraltro del tutto minoritario, che attribuiva automatica rilevanza anche alla stessa consistenza del patrimonio sociale a prescindere da qualsiasi garanzia prestata dal cedente al cessionario (Cass. I, n. 18181/2004) e ciò sulla base della considerazione secondo la quale le azioni (e le quote) delle società di capitali costituiscono beni di “secondo grado”, in quanto non sono del tutto distinti e separati da quelli compresi nel patrimonio sociale, e sono rappresentative delle posizioni giuridiche spettanti ai soci in ordine alla gestione ed alla utilizzazione di detti beni, funzionalmente destinati all'esercizio dell'attività sociale; pertanto, i beni compresi nel patrimonio della società non possono essere considerati del tutto estranei all'oggetto del contratto di cessione del trasferimento delle azioni o delle quote di una società di capitali, sia se le parti abbiano fatto espresso riferimento agli stessi, mediante la previsione di specifiche garanzie contrattuali, sia se l'affidamento del cessionario debba ritenersi giustificato alla stregua del principio di buona fede. Sulla base di tali premesse, tale giurisprudenza era giunta ad ammettere la possibilità di applicare i rimedi previsti per la vendita (azione di riduzione e di risoluzione) exartt. 1490 e ss. c.c., ovvero, nei casi più gravi, la risoluzione ex art. 1453 c.c., in ipotesi di vendita aliud pro alio, qualora fosse emersa una differenza tra l'effettiva consistenza quantitativa o qualitativa del patrimonio sociale e quella indicata nel contratto (Cass. I, n. 18181/2004 cit., secondo la quale la differenza tra l'effettiva consistenza quantitativa del patrimonio sociale rispetto a quella indicata nel contratto, incidendo sulla solidità economica e sulla produttività della società, quindi sul valore delle azioni o delle quote, può integrare la mancanza delle qualità essenziali della cosa, che rende ammissibile la risoluzione del contratto ex art. 1497 c.c., ovvero, qualora i beni siano assolutamente privi della capacità funzionale a soddisfare i bisogni dell'acquirente, quindi “radicalmente diversi” da quelli pattuiti, l'esperimento di un'ordinaria azione di risoluzione ex art. 1453 c.c., svincolata dai termini di decadenza e prescrizione previsti dall'art. 1495 c.c.).

Il più recente indirizzo della Cassazione, nel riprendere il risalente orientamento, ha invece rilevato che la valutazione da compiere riguarda solo la qualità dei diritti e degli obblighi che in concreto la partecipazione sociale sia in grado di assicurare, senza poter attribuire alcun automatico rilievo al valore economico, indirettamente desumibile dalla partecipazione sociale, in quanto quest'ultimo non attiene all'oggetto del contratto.

Nella stessa prospettiva si pone la giurisprudenza di merito, che ha ulteriormente ribadito come la cessione delle partecipazioni sociali (azioni o quote) è un atto di disposizione patrimoniale che non ha per oggetto direttamente i beni sociali, poiché il bene mobile trasferito è dato dalla partecipazione sociale stessa, la quale esprime l'insieme dei diritti patrimoniali ed amministrativi che qualificano, secondo la tipica disciplina legale, lo status di socio. Quindi, la differente consistenza dei beni patrimoniali della società non incide sull'oggetto del contratto, o sulla qualità della partecipazione, e la sopravvenienza di passività o la minusvalenza di cespiti attivi, per effetto dei quali il valore del patrimonio sociale risulti diminuito, non possono costituire un vizio rilevante ai sensi della disposizione prevista dall'art. 1490 c.c., qualora l'alienante non abbia espressamente assunto la garanzia circa la consistenza del patrimonio sociale (da ultimo, Trib. Roma, 5 ottobre 2015; Trib. Milano, 10 maggio 2006, n. 5414, ma anche Trib. Roma, 19 settembre 2011, Trib. Milano, 14 settembre 1992, secondo la quale il valore dei beni sociali non è rilevante ai fini della cessione della partecipazione sociale, con la conseguenza che il minor valore di essi rispetto al previsto non costituisce vizio rilevante ai sensi dell'art. 1490 c.c. salvo che l'alienante non abbia espressamente assunto la garanzia del valore del patrimonio aziendale).

In conclusione, secondo questo ormai dominante e condiviso orientamento giurisprudenziale ed al di fuori dell'ipotesi del dolo, il cedente risponde solo se ha assunto una conferente garanzia sul valore economico della partecipazione ceduta. In tutti gli altri casi va ribadita l'irrilevanza delle maggiori passività pregresse o delle minori attività, scoperte dall'acquirente successivamente al perfezionamento del contratto di cessione di quote, con conseguente perdita di valore delle stesse.

Sul punto va ricordato che fra le clausole, che possono essere previste ed introdotte nel contratto di cessione di partecipazioni societarie (clausole di garanzia, di gestione, di prezzo, di prelazione, di gradimento), quelle di garanzia tendono a garantire l'acquirente da passività potenziali o da attività inesistenti o minori, riferibili alla situazione aziendale ed imprenditoriale esistente al momento della cessione; è invece evidente che eventuali oneri e sopravvenienze future rientrano nell'ambito del normale rischio di impresa e non possono che gravare sul cessionario.

Tali garanzie, da distinguere – a seconda della tecnica redazionale – in sintetiche o analitiche, possono salvaguardare il cessionario da generiche differenze negative, determinate da eventuali minusvalenze attive o plusvalenze passive rispetto alle risultanze di bilancio ad una certa data ovvero possono riguardare specificatamente determinate poste patrimoniali inserite in bilancio ovvero ancora possono riguardare gli sviluppi negativi derivanti da operazioni in essere al momento della cessione: le possibili opzioni negoziali sono innumerevoli e dipendono dal contenuto degli accordi.

In linea di massima, si possono individuare due tipi di garanzie: una relativa alla quota sociale oggetto del trasferimento (cd. nomen verum) e una connessa alla situazione patrimoniale della società, le cui azioni/quote sono oggetto di cessione (c.d. nomen bonum); con riferimento alla prima, il cedente è tenuto solo a garantire che la partecipazione societaria ceduta è di sua proprietà e che ne può liberamente disporre, in assenza di vincoli, pesi o legami di sorta. Diverso è il discorso in relazione alla seconda garanzia, ricollegata al fatto che la partecipazione ceduta rappresenti effettivamente una determinata percentuale del capitale sociale e quel determinato valore economico, risultante dal bilancio (o, comunque, da una situazione patrimoniale) ad una certa data. In altre parole, questa seconda tipologia di clausole tende ad assicurare la consistenza patrimoniale e la capacità reddituale dell'impresa.

Così, il cedente può assumere anche detta ulteriore e distinta garanzia in ordine alla consistenza quantitativa e qualitativa della partecipazione ceduta, sulla base della situazione patrimoniale ad una determinata data; in tali casi il cedente è tenuto a dare due fondamentali garanzie: una relativa all'effettiva consistenza delle poste attive ed all'inesistenza di passività ulteriori e l'altra relativa alla corretta valutazione, in base ai principî contabili generalmente applicati, delle poste attive e passive inserite nel bilancio di riferimento.

L'interprete deve sempre partire dal dato contrattuale al fine di verificare l'assunzione o meno, da parte del cedente, di una garanzia in ordine all'effettivo valore della partecipazione, così da rendere lo stesso – per così dire – immune dall'incidenza negativa di sopravvenienze passive, purché riferite a periodi precedenti al perfezionamento della cessione.

In questa prospettiva, in dottrina ed in giurisprudenza sono stati prospettati essenzialmente due orientamenti: uno che configura detta garanzia in termini di obbligazione autonoma, che deve essere valutata sotto il profilo dell'inadempimento ex art. 1218 c.c., ed un secondo che invece si richiama alla normativa sulla vendita ed in particolare alla disciplina sulla mancanza nella cosa venduta delle qualità promesse (art. 1497 c.c.): si tratta di una questione non puramente accademica, stanti gli innegabili risvolti pratici, connessi all'applicazione o meno della disciplina sulla decadenza e prescrizione ex art. 1495 c.c.

Qualora l'alienante abbia espressamente assunto la garanzia circa la consistenza del patrimonio sociale, la sopravvenienza di passività e/o la minusvalenza di cespiti attivi, per effetto dei quali il valore del patrimonio sociale risulti diminuito, costituiscono una mancanza di qualità promessa, rilevante ai sensi della disposizione prevista dall'art. 1497 c.c. Se, viceversa, il cedente abbia non solo garantito quella determinata consistenza e qualità del valore della partecipazione, ma si sia addirittura accollato ogni posizione debitoria “pregressa” e si sia espressamente obbligato, nei confronti del cessionario, ad estinguere detti eventuali debiti ”pregressi” con mezzi propri, si deve applicare la disciplina ordinaria in materia di adempimento contrattuale.

Tale duplice impostazione è stata, tuttavia, recentemente rimeditata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 16963/2014), la quale ha avuto occasione di affermare che gli eventi relativi alla consistenza e alla redditività della società potrebbero incidere sul valore di mercato delle azioni, quale può risultare dal bilancio, dallo stato patrimoniale, e da ogni altro elemento che influisca sul loro valore ovvero sulla adeguatezza del prezzo pattuito e, quindi, in definitiva sulla convenienza economica dell'operazione di cessione, ma la corrispondenza o meno del valore del bene venduto al prezzo pattuito non attiene alle qualità intrinseche (essenziali o promesse) previste dall'art. 1497 c.c., in quanto la misura del prezzo pattuito è normalmente irrilevante, a meno che non siano invocati i presupposti che consentano la rescissione per lesione ultra dimidium ovvero l'errore sul prezzo è causa di annullabilità del contratto solo qualora sia consistito in errore sulla qualità del bene. Ne consegue che sono insussistenti i presupposti della disciplina codicistica – anche per ciò che attiene alla disciplina della decadenza e della prescrizione – quando si tratti di garanzia fornita per le sopravvenienze passive della società che, seppure relative a fatti avvenuti prima della conclusione del contratto, si potranno manifestare anche a distanza di anni, senza che l'acquirente ne avesse potuto avere conoscenza prima.

Orbene, con le clausole in esame le parti, al fine di assicurare che il prezzo pattuito corrisponda al valore della società di cui siano trasferite le quote di partecipazione, prevedono prestazioni accessorie al trasferimento del diritto oggetto del contratto che sono volte a garantire l'esito economico dell'operazione. Pertanto, la garanzia convenzionale ha un oggetto diverso da quella prevista dagli artt. 1490 e 1497 c.c. (in dottrina, sul punto, D'Alessandro, passim; Speranzin, passim;Dalla Massara, 1181 ss.; Buset, 355 ss.; Renna, 215 ss.).

La libera trasferibilità delle partecipazioni sociali.

Come già evidenziato, l'art. in commento pone la regola di default della libera trasferibilità delle partecipazioni sociali: le partecipazioni in società a responsabilità limitata non soffrono limitazioni circolatorie né nei trasferimenti per atto tra vivi che in via successoria (De Luca, 1867). La soluzione adottata, dunque, costituisce il portato della scelta, svolta dal legislatore, a favore della regola capitalistica operante per le azioni di s.p.a. in luogo di quella, di segno opposto, ricavabile dagli artt. 2252 e 2284 c.c. per la circolazione delle partecipazioni delle società personali (Poli, 111).

Conseguentemente, è stato osservato che il termine «trasferimento», nell'ambito dell'art. 2469, va riferito ad ogni negozio, mortis causa o inter vivos, che sia idoneo a produrre rilevanza organizzativa, attribuendo ai destinatari la titolarità o la legittimazione all'esercizio dei diritti sociali (Poli, 113; Zanarone, 555 ss. secondo il quale il principio opera a prescindere dalla fonte da cui scaturisce il trasferimento, con la conseguenza che le norme di cui all'art. 2469 andranno coniugate e coordinate con quelle che regolano la fonte, di volta in volta utilizzata per porre in essere la vicenda circolatoria).

L'utilizzo dell'avverbio «liberamente» (introdotto dalla riforma del diritto societario) non sembra influire in modo sostanziale sulla disciplina del trasferimento della quota di s.r.l.: tuttavia, come è stato osservato (Maffezzoni, 38; Zanarone, 552), tale riferimento impedisce di collocare il trasferimento di una partecipazione all'interno dello schema della cessione del contratto, come disciplinato dagli artt. 1406 ss., in quanto una simile ricostruzione comporterebbe un necessario ricorso ad una sorta di consenso preventivo della società ex art. 1407 c.c. come contraente ceduto, il quale è logicamente incompatibile con l'idea di un trasferimento libero da vincoli per legge.

Il principio di libera trasferibilità della quota porta, peraltro, ad affrontare il problema concernente la divisibilità o meno della partecipazione nella società a responsabilità limitata. Su tale problematica, si rinvia al commento dell'art. 2468 c.c. Al commento di tale ultimo art. si rinvia anche per quanto riguarda la problematica della trasferibilità delle partecipazioni sociali cui sono connessi diritti particolari attribuiti a taluni soci.

Come già evidenziato, poi, negli atti costitutivi delle società di capitali, per le quali vige in via generale il principio della libera trasferibilità delle partecipazioni, è possibile prevedere una clausola cosiddetta di lock-up, ossia una clausola che vieta o limita tale diritto di trasferimento (artt. 2355-bis e 2469 c.c.). Il lock-up ha, quindi, l'effetto di «cristallizzare» l'assetto della compagine sociale, attribuendo di fatto rilevanza all'elemento personale, che caratterizza invece le società di persone.

Le clausole di intrasferibilità

In primo luogo, l'atto costitutivo può prevedere l'assoluta intrasferibilità della partecipazione sociale (divieto di alienazione), valorizzando, in tal modo, il carattere «chiuso» della società (sulla funzione e sulle clausole di intrasferibilità assoluta, Ghionni Visconti, passim).

Il divieto di trasferimento è, però, bilanciato dal diritto di recesso dalla società, esercitabile in qualsiasi momento.

La norma si riferisce, in particolare, all'ipotesi di intrasferibilità assoluta cioè incondizionata e illimitata, in quanto nel caso in cui l'atto costitutivo preveda soltanto delle limitazioni al trasferimento si verte in ipotesi diversa. Si tratta di vedere se il diritto di recesso spetti anche in presenza di clausole che limitino, sotto il profilo oggettivo, soggettivo o temporale, il trasferimento della partecipazione. In via generale, è stato osservato che il diritto di recesso deve ritenersi escluso nei casi in cui la possibilità di cedere la partecipazione subisce delle limitazioni che, però, non impediscano del tutto il trasferimento (Speranzin, Bortoluz, 339; Zanarone, 580; Ghionni Visconti, 68; Olivieri, 325).

È stato, in questa prospettiva, osservato che non consentiranno il recesso né la clausola che impedisca di cedere la partecipazione in favore di determinati soggetti (ovvero che consentano l'ingresso nella società a soggetti dotati di specifici requisiti professionali o soggettivi; Ghionni Visconti, 68; contra, però, Revigliono, 234, secondo il quale la clausola che limita il trasferimento nei confronti di terzi non soci, consentendolo invece tra soci, legittimerebbe il diritto di recesso in quanto il possibile rifiuto dei soci di acquistare renderebbe di fatto la quota non trasferibile), né quella che vieti di cedere una porzione soltanto della quota (Zanarone, 581; Speranzin, Bortoluz, 340, che osservano come il concetto di trasferimento ai fini dell'applicazione dell'art. 2469 vada riferito solo ad operazioni attraverso le quali il socio intende realizzare un integrale disinvestimento della partecipazione, con la conseguenza che la semplice presenza di una clausola che imponga l'indivisibilità della quota e, quindi, l'impossibilità di un trasferimento parziale non legittima l'exit del socio) né, infine, la clausola che impedisca la costituzione di diritti reali minori sulla quota, quali il pegno e l'usufrutto (Ghionni Visconti, 82) in quanto in tali ipotesi è comunque garantita la possibilità di disinvestire.

Dubbio, invece, se legittimino il recesso le clausole che stabiliscono una intrasferibilità relativa, limitata a certi negozi giuridici, quali, ad es., conferimenti, donazioni etc. Secondo una prima ricostruzione, si è osservato che simili clausole consentono al socio di trasferire comunque, sebbene in altro modo, la partecipazione sociale, con la conseguenza che non dovrebbero determinare l'attribuzione del diritto di recesso (Speranzin, Bortoluz, 340). In senso parzialmente diverso, però, è stato osservato che la clausola che vieta di cedere a titolo oneroso la partecipazione consentendo solo trasferimenti gratuiti legittima l'esercizio del diritto di recesso, in quanto il socio non potrebbe realmente disinvestire ottenendo un controvalore economico (Zanarone, 582).

Sono legittime, e non danno luogo a diritto di recesso, le clausole che vietano la costituzione di usufrutto o di pegno su partecipazioni di s.r.l. e le clausole di mero gradimento riferite alla costituzione di usufrutto o di pegno su partecipazioni di s.r.l. (Massima n. 33 Consiglio Notarile di Milano).

Il divieto di costituzione di diritti frazionari sulla quota, infatti, non lede l'interesse del socio a cessare il rapporto, in quanto determina soltanto una parziale spoliazione di determinate prerogative patrimoniali, amministrative ed organizzative (Revigliono, 239; Speranzin, Bortoluz, 341)

Quanto ad eventuali limitazioni temporali, avendo il legislatore ammesso che l'atto costitutivo escluda il recesso per un termine non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, deve concludersi che limitazioni che prendano a riferimento periodo di tempo maggiori consentano comunque l'esercizio del recesso (Ghionni Visconti, 107; contraZanarone, 580 secondo il quale ad opinare come nel testo si ammetterebbe, paradossalmente, che sia più facile limitare la circolazione delle quote in una compagine tendenzialmente aperta come la società per azioni che in una compagine tendenzialmente chiusa come quella della società a responsabilità limitata).

Dubbi, infine, permangono con riferimento a talune tipologie di partecipazioni (socio d'opera ove la prestazione non sia stata integralmente eseguita, socio titolare di diritti particolari): secondo taluni, l'intrasferibilità della partecipazione discenderebbe non dal regime convenzionale della circolazione della quota, ma dalla scelta compiuta, con il consenso del socio interessato, relativa al conferimento o al contenuto della partecipazione (Speranzin, Bortoluz, 342).

Le clausole di mero gradimento.

L'articolo in commento equipara, poi, alle clausole di intraferibilità, quelle che subordinano il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti. Vengono, dunque, in rilievo le c.d. clausole di mero gradimento, equivalenti a quelle previste per le società azionarie dall'art. 2355-bis, ove il rilascio del placet è rimesso alla discrezionalità del soggetto investito del relativo potere (Speranzin,Bortoluz, 342; Revigliono, 241; Salvati, 119).

In linea di massima, possono distinguersi le clausole di mero gradimento che rimettono alla assoluta discrezionalità del soggetto il rilascio o meno del placet, subordinando il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti (mero gradimento) e le clausole che subordinano il gradimento al possesso di determinati requisiti da parte dell'acquirente, ovvero alla ricorrenza di condizioni oggettive e determinabili ex ante. Nell'art. in commento, il legislatore prende in considerazione la prima categoria di clausole: in tali casi, il socio avrà diritto di recedere e ciò per il solo fatto della presenza della clausola e non già per il caso di rifiuto del placet da parte del soggetto legittimato ad esprimere il gradimento (Zanarone, 589). Restano escluse dall'ambito di applicazione dell'art. 2469, comma 2, le clausole che limitanoex ante la discrezionalità del soggetto al quale è conferito il potere di concedere il placet all'ingresso dei nuovi soci (Olivieri, 326; Speranzin, Bortoluz, 343). In questa prospettiva, non costituiscono clausole di mero gradimento quelle previsioni statutarie che predeterminino le qualità soggettive o le specifiche situazioni oggettive alle quali è subordinata la concessione del gradimento.

In giurisprudenza, si afferma che è legittima la clausola che limita la trasferibilità della quota al mero gradimento, cioè al giudizio discrezionale anche immotivato degli organi sociali, dato che tale clausola si basa sul principio della necessità del consenso del contraente ceduto alla cessione del contratto (Cass. n. 11057/1993).

È invece dubbio se l'obbligo di motivazione consenta di escludere il diritto di recesso. In senso contrario si è espressa la maggioranza della dottrina, sulla base della considerazione che l'obbligo di motivazione rappresenta un limite soltanto formale e procedimentale (Revigliono, 243; Zanarone, 585; Revigliono, 243; Maltoni, 1844) che interviene a posteriori e, dunque, non consente al socio di avere certezza sulla possibilità del disinvestimento. In questa prospettiva, si è osservato che, ove l'atto costitutivo non preveda i criteri cui è sottoposto il rilascio del placet, la motivazione non può sostituirsi al rispetto di tali criteri, ma solo contribuire ad accertarli (Zanarone, ibidem; Speranzin, Bortoluz, 343).

In definitiva, può dirsi che sono prese in considerazione dalla norma in commento tutte quelle clausole di gradimento che non prevedano alcun criterio ovvero che non prevedano, per il rilascio del gradimento, criteri chiari, precisi e verificabili ex ante.

Il soggetto chiamato ad esprimere il gradimento potrà essere un organo societario (per tale intendendosi gli amministratori, il collegio sindacale o il revisore, la collettività dei soci operante in sede sia assembleare che extrassembleare: così Zanarone, 584) oppure uno o più soci cui sia stato statutariamente attribuito tale diritto che configurerà un diritto particolare (art. 2468, comma 3) ovvero ancora un terzo estraneo alla compagine sociale. È, però, necessario che il soggetto competente ad esprimere il gradimento sia individuato o individuabileper relationem (Revigliono, 242; Speranzin, Bortoluz, 345).

È dubbio se legittimi il recesso la clausola che, in caso di rifiuto del gradimento, imponga a carico della società o degli altri soci l'obbligo di reperire e quindi indicare al socio alienante un acquirente gradito; ovvero la clausola che imponga a carico degli altri soci l'obbligo di acquistare o riscattare la quota del socio uscente. Va, sul punto, evidenziato come il meccanismo previsto dall'articolo in commento garantisce al socio, in caso di mancato gradimento all'acquirente dal medesimo individuato, non una qualsiasi forma di uscita dalla società, ma, attraverso il rinvio all'art. 2473 c.c., un'uscita idonea a consentire il rimborso della partecipazione in termini di valore reale della quota ed entro il termine di centottanta giorni dalla comunicazione del recesso. Di, conseguenza, con riferimento alle clausole ora indicate, si tratta di valutare se il terzo acquisti la partecipazione conformemente ai criteri formulati dall'art. 2473 comma 3, c.c.; in tal caso la disciplina dell'art. 2469 con riferimento all'attribuzione del diritto di recesso non troverà applicazione (Massima n. 33 del Consiglio notarile di Milano; Speranzin-Bortoluz, 344).

Non sussiste diritto di recesso nel caso di clausola di gradimento alla francese, nella quale il diniego deve essere necessariamente accompagnato dall'indicazione di un terzo disponibile ad acquistare entro un termine prestabilito ed a parità di prezzo e condizioni: in tal caso è, infatti, assicurato il disinvestimento, conformemente alla valutazione di opportunità e convenienza formulata da colui che intende uscire dalla società (Comitato Triveneto dei notai, Orientamento, I.I.5).

Secondo la giurisprudenza di merito (Trib. Roma, 5 luglio 2011) il diritto di recesso da società a responsabilità limitata, con riferimento alle vicende inter vivos, viene attribuito al socio nelle sole ipotesi in cui la facoltà di trasferire la partecipazione sociale venga esclusa del tutto, ovvero subordinata al mero gradimento (e, dunque, al parere libero ed arbitrario) di organi sociali, soci e terzi. Per converso, non valgono a conferire il diritto di recesso quelle clausole dell'atto costitutivo che pongano mere condizioni o limiti al trasferimento della partecipazione sociale, in considerazione del fatto che simili previsioni non valgono a precludere del tutto l'exit del socio. Rilevato quanto innanzi deve, pertanto, interpretarsi il dettato normativo di cui all'art. 2469, comma 2, quale espressione della volontà del legislatore di consentire al socio di uscire dalla compagine sociale, quante volte l'atto costitutivo contenga clausole che valgano ad escludere del tutto la trasferibilità della partecipazione sociale.

Nonostante il suo inserimento in uno statuto societario, la circostanza che la clausola di gradimento acquisisca una coloritura sociale, piuttosto che mantenere la sua natura parasociale, con la conseguenza della non necessaria manifestazione dell'espressione del consenso dei soci in ambito assembleare, come da espressa previsione statutaria, costituisce oggetto di un accertamento interpretativo di fatto, riservato al giudice di merito, come tale incensurabile in sede di legittimità se logicamente ed adeguatamente motivato (Cass. n. 17960/2008).

Il trasferimento per causa di morte.

Il principio della libera trasferibilità delle partecipazioni in società a responsabilità limitata, di cui al primo comma della disposizione in commento, vale anche con riferimento agli acquisti mortis causa. In tali casi, l'erede o il legatario subentrano al socio defunto nella titolarità della quota e nella legittimazione all'esercizio dei diritti sociali a seguito del compimento delle formalità previste dall'art. 2470, comma 2, c.c. (Speranzin, Bortoluz, 345; Bullo, 206). In caso di pluralità di eredi, la quota cade in comunione tra gli eredi del socio: essi acquistano la titolarità indivisa della quota relitta e devono procedere necessariamente alla iscrizione dell'acquisto in comune, pena la violazione del principio generale di continuità delle iscrizioni.

Anche in tal caso, tuttavia, l'atto costitutivo potrà prevedere limitazioni al trasferimento della quota: è, infatti, conferito agli eredi del socio il diritto di recesso in presenza di una clausola che «ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte». Sebbene il richiamo al diritto di recesso in favore degli eredi del socio costituisca una imprecisione terminologica in quanto, in presenza di clausole che impediscano il trasferimento in loro favore gli eredi non acquistano mai la qualità di socio, deve ritenersi che il legislatore riconosca all'erede il diritto alla liquidazione del valore della partecipazione del socio defunto, proporzionalmente al valore effettivo del patrimonio sociale e, dunque, secondo i criteri stabiliti dall'art. 2473 in tema di liquidazione della quota del socio receduto (Revigliono, 253; Maltoni, 1846; Speranzin, Bortoluz, 347).

In giurisprudenza, si è affermato che la clausola di uno statuto di una società a responsabilità limitata che, in caso di morte di un socio, preveda il diritto degli altri soci di acquisire la quota del defunto versando agli eredi il relativo controvalore, da determinarsi secondo criteri stabiliti dalla stessa clausola, non viola il divieto dei patti successori, posto dall'art. 458 c.c. – norma che, costituendo un'eccezione alla regola dell'autonomia negoziale, non può essere estesa a rapporti che non integrano la fattispecie tipizzata in tutti i suoi elementi – e neppure costituisce una frode al divieto dei patti medesimi, in quanto essa non ricollega direttamente alla morte del socio l'attribuzione ai soci superstiti della quota di partecipazione del defunto, ma consente che questa entri inizialmente nel patrimonio degli eredi, pur se connotata da un limite di trasferibilità, dipendente dalla facoltà degli altri soci di acquisirla esercitando il diritto di opzione loro concesso dallo statuto sociale, e dunque è volta solo ad accrescere lecitamente il peso dell'elemento personale, rispetto a quello capitalistico, nella struttura dell'ente collettivo (Cass. n. 3345/2010).

Per completezza, si segnala che è illegittima l'iscrizione nel libro dei soci (oggi, registro delle imprese) dell'acquisto di quote divise in capo a ciascuno dei coeredi, non preceduta dal deposito nel registro delle imprese e dalla conseguente iscrizione nel libro soci della comunione ereditaria avente ad oggetto la quota sociale relitta, essendo questa la conseguenza immediata, ed insuperabile, della successione ereditaria al socio defunto. Invero, l'acquisto in proprietà esclusiva di porzioni di quota proporzionali al diritto di ciascun coerede presuppone il precedente acquisto, in capo ai chiamati, della quota indivisa, la cui iscrizione nel libro soci (previo deposito nel registro delle imprese) non può in alcun caso essere omessa, pena la violazione del principio generale di continuità delle iscrizioni. La illegittimità della iscrizione nel libro soci dell'acquisto di quote divise, in quanto non preceduta dal deposito nel registro delle imprese di alcun atto autentico avente natura divisionale, deriva altresì dalla violazione del disposto dell'art. 2479, comma 4, che prevede il requisito della forma autentica per il deposito e l'iscrizione nel registro delle imprese di ogni atto inter vivos avente ad oggetto la titolarità di quote di partecipazione al capitale sociale, ivi compresa la divisione (Trib. Roma, 2 maggio 2001, in Vita not., 2003, 328).

Le clausole di prelazione.

La clausola di prelazione impone al socio che intende cedere la propria partecipazione di offrirla preventivamente, a parità di condizioni, agli altri soci con preferenza rispetto ai terzi (sul punto, Avagliano, 374; Salvati, 236 ss.; Speranzin, Bortoluz, 351).

L'art. 2469 c.c., al pari dell'art. 2355-bis comma 1, c.c., inquadra la clausola di prelazione come regola di organizzazione della società per azioni, stabilendo che il trasferimento della partecipazione sociale abbia effetto nei confronti della stessa solo in seguito ad una precisa “procedura” prevista nello statuto e voluta dai soci. Si ritiene, infatti, che l'inserimento in uno statuto di una clausola di prelazione assume, oltre alla funzione di regolare le posizioni soggettive di soci o di terzi, una rilevanza organizzativa, incidendo sul rapporto tra l'elemento capitalistico e quello personale della società, nel senso di accrescere il peso del secondo rispetto al primo, nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell'ente; trattandosi di regola organizzativa della società, e, quindi, di regola di un gruppo organizzato cui deve sottostare chiunque voglia entrare a far parte del gruppo stesso, gli effetti della clausola statutaria di prelazione sono opponibili anche al terzo acquirente (Trib. Roma, 9 luglio 2017, in Soc., 2018, 458).

Dal punto di vista strettamente operativo, il meccanismo delineato dalle clausole di prelazione prende il suo avvio con la cosiddetta denuntiatio, ossia con l'inoltro ai soci del progetto di alienazione Avagliano, 375): essa si presenta come vera e propria proposta contrattuale rivolta ai sensi dell'art. 1326 c.c. Essa dovrà indicare il nominativo del terzo interessato all'acquisto (Cass. n. 7879/2001; Trib. Roma, 8 luglio 2005, in Riv. not., 2006, 541), il prezzo offerto o concordato con questi (Cass. n. 1407/1981; Trib. Avellino, 13 ottobre 2005, in Riv. not., 2006, 553, che ha ritenuto non sufficiente ai fini della determinazione del prezzo, il riferimento compiuto in maniera generica al valore nominale della partecipazione incrementato da quello delle operazioni compiute) e gli altri elementi essenziali o comunque rilevanti del negozio di cessione (sul punto, Avagliano, 376).

In dottrina, si evidenzia che nel silenzio dello statuto, e salvo che i soci abbiano disposto diversamente, non sono ammesse accettazioni dei soci aventi diritto «scindibili», e dunque acquisti parziali delle azioni o delle partecipazioni offerte in vendita: in caso di adesioni plurime, le partecipazioni andranno attribuite ai soci interessati in proporzione alle quote dagli stessi detenute, fatta salva anche in questo caso una diversa previsione dei patti sociali (Avagliano, ivi).

Peraltro, dalla prelazione c.d. propria – nella quale i termini del trasferimento, ed in particolare il suo corrispettivo, ai quali sono tenuti i soci, sono identici a quelli proposti dall'aspirante socio – si distingue la clausola di prelazione impropria o «impura» o «spuria», nella quale il prezzo o il corrispondente valore può discostarsi da quello convenuto, risultando determinato o comunque determinabile sulla base delle specifiche modalità di valutazione previste in statuto, e per lo più affidate, in caso di contrasto tra le parti, alla stima fornita da un terzo arbitratore (così, testualmente, Avagliano, 377; sul punto, si veda, anche Salvati, 237).

Nella giurisprudenza di merito, si evidenzia che, ai fini della operatività di una clausola di prelazione, non è equiparabile il trasferimento della partecipazione sociale al mutamento del controllo della società partecipante (c.d. change of control), considerato che, sotto il profilo oggettivo, la clausola contenuta nello statuto di una società di capitali, pur individuando un perimetro assai ampio della nozione di trasferimento delle partecipazioni, trova sempre fondamento in un negozio che comporti il mutamento della loro titolarità formale e non già delle azioni di altre società; mentre, sotto il profilo soggettivo, i soci della partecipante non possono ritenersi vincolati alle previsioni statutarie della partecipata, perché ad esse estranei (Trib. Roma, 9 luglio 2017, in Soc., 2018, 458; in senso parzialmente difforme, App. Torino, 1° ottobre 2013, in Giur. comm., 2014, II, 864, pubblicata con la diversa data di 14 ottobre 2013 in Riv. not., 2014, II, 573, secondo il quale laddove uno statuto sociale contenente clausola di prelazione esenti dalla stessa‎ i trasferimenti endo-gruppo – ovvero, a favore di società controllate da soci – il trasferimento a favore di una società controllata, che sia tuttavia funzionalmente collegato alla cessione a terzi del relativo controllo, deve ritenersi illegittimo, in quanto sostanzialmente elusivo, con conseguente inopponibilità del trasferimento alla società delle cui azioni si tratta).

La clausola statutaria che contempli una prelazione (o un gradimento mero con obbligo di acquisto, ipotesi del tutto equivalente sotto il profilo funzionale) oggettivamente riferita anche ai negozi traslativi diversi dalla vendita, ma che non preveda un meccanismo convenzionale di determinazione del prezzo, è pienamente legittima ed in linea con l'art. 2355-bis, comma 2, c.c., disposizione che sarà pertanto applicabile ai fini della determinazione del prezzo (Trib. Napoli, 5 marzo 2015, in Soc., 2016, 477).

Le limitazioni al diritto di recesso.

L'articolo in commento, consentendo all'atto costitutivo di stabilire un termine massimo di due anni nel quale il diritto di recesso non può essere esercitato, evidenzia il carattere inderogabile della restante parte della disciplina del recesso (Speranzin, Bortoluz, 347, Ghionni Visconti, 88).

In particolare, è inderogabile la disciplina relativa al valore di liquidazione della quota del socio recedente.

Secondo parte della dottrina, il richiamo alla «sottoscrizione della partecipazione» dovrebbe essere inteso in senso ampio, così includendo anche l'ipotesi di acquisto della partecipazione da parte di chi entra a far parte della compagine societaria per effetto di un trasferimento della quota operato a suo favore (Zanarone, 591, nt. 82; Tassinari, 1419) e ciò in quanto la ratio della previsione non può non essere individuata nell'intento di limitare la possibilità di uscita dalla società a chi vi sia da poco entrato (Rosapepe, 487; Tassinari, 487; Maltoni, 1848; Consiglio notarile di Milano, massima n. 119). In senso contrario, però, si rileva che il dato testuale si presenta univoco e limitato alle ipotesi di sottoscrizione della partecipazione in senso proprio, tipicamente in sede di aumento del capitale sociale (Speranzin, Bortoluz, 349).

Secondo parte della dottrina, sarebbe possibile costituire come intrasferibili anche solo alcune delle quote (Speranzin, Bortoluz, 348).

Tale interpretazione è fatta propria anche dalla prassi notarile ove si afferma che «è legittima la previsione statutaria di diverse regole di circolazione delle azioni di s.p.a. o delle partecipazioni di s.r.l., che siano applicabili non già a tutte le azioni o partecipazioni emesse dalla società, bensì solo ad alcune di esse. Tale facoltà – che incontra ovviamente i medesimi vincoli imposti dalla legge per la generalità delle azioni o partecipazioni sociali – può riguardare sia le clausole comportanti limiti alla circolazione in senso proprio (ad es. prelazione, gradimento, etc.), sia le altre clausole riguardanti in senso lato il trasferimento delle azioni (ad es. tecniche di rappresentazione delle azioni, riscatto, recesso convenzionale, etc.). In queste circostanze, il diverso regime di circolazione dà luogo: (i) nella s.p.a., a diverse categorie di azioni ai sensi dell'art. 2348 c.c., ciascuna delle quali caratterizzata dalle regole statutarie ad essa applicabili; (ii) nella s.r.l., a diritti particolari dei soci ai sensi dell'art. 2468 c.c., spettanti ai singoli soci cui si applica il diverso regime di circolazione» (Consiglio notarile di Milano, massima n. 95).

La violazione delle clausole.

Con riferimento alle conseguenze della violazione delle clausole che limitano la circolazione di partecipazioni di s.r.l., occorre necessariamente distinguere tra le clausole che abbiano natura parasociale e quelle inserite nello statuto della società (Avagliano, 418). La violazione delle prime comporterà la responsabilità del socio che abbia violato la norma parasociale, ma nessuna conseguenza potrà essere ravvisata sul piano dell'organizzazione sociale.

Più complessa la questione allorquando le clausole limitative siano contenute nell'atto costitutivo, oggi riconoscendosi ad esse carattere «reale». La dottrina maggioritaria argomenta dalla natura sociale per ritenere l'efficacia reale della clausola e la conseguente inopponibilità del trasferimento alla società, ancorché la cessione sia stata depositata presso il registro delle imprese e il trasferimento iscritto ai sensi dell'art. 2470 (in questo senso, Speranzin, Bortoluz, 358; Zanarone, 577; Olivieri, 329; Ghionni Visconti, 243 ss.). Infatti, la trasferibilità delle partecipazioni sancita dall'art. 2469, in quanto libera, prescinde dal consenso della società, con la conseguente opponibilità a quest'ultima della vicenda traslativa; quando vi è, invece, una diversa disposizione dell'atto costitutivo, la vicenda traslativa non può produrre di per sé effetti nei confronti della società; d'altra parte, una simile conclusione è conforme alla rilevanza della figura del socio ed alla conseguente valorizzazione dell'interesse all'omogeneità della compagine sociale (Speranzin, Bortoluz, 357; nel medesimo senso, Zanarone, 570).

Al contrario, la violazione della clausola di prelazione (o di altre clausole limitative del trasferimento della partecipazione) non importa la dichiarazione di nullità o di inefficacia assoluta dell'atto, in quanto tali sanzioni risulterebbero eccessive rispetto agli interessi che le clausole violate mirano a realizzare: l'atto è solo relativamente inefficace, nel senso che l'inefficacia potrà essere fatta valere solo dalla società (tramite l'organo amministrativo), quale soggetto portatore dell'interesse sotteso alla clausola (così, testualmente, Speranzin, Bortoluz, 35).

Si è però evidenziato, da una parte minoritaria della dottrina, che nella circolazione delle partecipazioni sociali, l'acquisto della qualità di socio, così come l'esercizio dei diritti sociali connessi alla quota ceduta, costituisce l'obiettivo comune alle parti ed intrinseco al negozio. Così, il mancato conseguimento di tale finalità rappresenta una anomalia funzionale della cessione, vale a dire un vizio della causa concreta: pertanto, il negozio traslativo della partecipazione compiuto in spregio alle clausole di intrasferibilità ed a quelle limitative in genere potrebbe essere considerato nullo per mancanza genetica della causa effettiva, purché emerga l'interesse comune delle parti alla modifica della compagine sociale (Ghionni Visconti, 277, 279, che evidenzia come nel caso di specie ricorra un'ipotesi di difetto di causa originario e non già sopravvenuto, in quanto il trasferimento delle quote sociali si pone da subito in conflitto con i vincoli circolatori contenuti nello statuto).

Anche in giurisprudenza era dibattuto se l'inefficacia del negozio traslativo di partecipazioni in spregio alle clausole limitative sia assoluta oppure solo relativa e, dunque, opponibile solo dalla società.

Parte della giurisprudenza aveva in passato optato per la prima ipotesi, evidenziando che la mancata espressione del consenso degli altri soci, espressamente richiesto dallo statuto di s.r.l. in caso di trasferimento di quote della società per atto tra vivi, rende il trasferimento della quota inefficace anche tra le parti del contratto di cessione, salva una diversa ed espressa volontà dei contraenti (Cass. n. 19203/2005).

Tuttavia, si è osservato che l'atto di trasferimento, posto in essere della clausola limitativa, è tra le parti valido ed efficace, mentre la violazione della clausola potrà essere fatta valere soltanto dalla società quale soggetto portatore dell'interesse sotteso alla clausola (Zanarone, 577; Speranzin, Bortoluz, ibidem).

Nel medesimo senso si è espressa la giurisprudenza la quale ha avuto modo di osservare che il patto di prelazione vincola il socio nei confronti degli altri soci nonché, se recepito nello statuto, anche nei confronti della società, ma non comporta la nullità del negozio traslativo nel rapporto tra socio cedente e terzo cessionario (Cass. n. 7003/2015). La realità della clausola non può mai condurre alla nullità del trasferimento operato in violazione del patto di prelazione, non versandosi in ipotesi di violazione di norma imperativa, né alla declaratoria di nullità per impossibilità dell'oggetto per indisponibilità della partecipazione ceduta; può condurre unicamente ad una pronuncia d'inefficacia del trasferimento in favore del socio pretermesso e/o della società (Trib. Napoli, 3 dicembre 2013, in Soc., 2015, 1, 50; Giudice registro Roma, 17 luglio 2017). Deve, dunque, necessariamente escludersi che il conservatore e, quindi, il giudice del registro possa operare, al momento dell'iscrizione di un atto di compravendita di partecipazioni sociali, una verifica del rispetto della clausola statutaria di prelazione costituisca, non afferendo tale valutazione al giudizio di corrispondenza tra l'atto da iscrivere ed il modello legale. In tali casi, infatti, la cessione delle partecipazioni sociali è perfettamente sussumibile nella fattispecie legale tipica, a prescindere dal rispetto della clausola suddetta. In altre parole, la cessione delle quote o delle azioni corrisponde al modello legale cui aspira ad appartenere, ancorché quella cessione sia intervenuta in violazione della clausola statutaria di prelazione, proprio perché il rispetto di quest'ultima non assurge ad elemento costitutivo, sotto il profilo tipologico, della fattispecie (Giudice registro Roma, 17 luglio 2017).

Inoltre, il patto di prelazione inserito nello statuto di una società di capitali ed avente ad oggetto l'acquisto delle azioni sociali, poiché è preordinato a garantire un particolare assetto proprietario, ha efficacia reale, in caso di violazione, è opponibile anche al terzo acquirente (Cass. n. 12797/2012; Cass. n. 8645/1998; Cass. n. 2763/1973). La violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l'inopponibilità nei confronti della società e dei soci titolari del diritto di prelazione – stante «l'efficacia reale» del patto inserito nello statuto sociale – della cessione della partecipazione societaria (che resta, però, valida tra le parti stipulanti), nonché l'obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull'inadempimento delle obbligazioni. Per contro, siffatta violazione non comporta anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dell'acquirente, atteso che il c.d. retratto non integra un rimedio generale in caso di violazioni di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela specificatamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione, previsti per legge, spettanti ai relativi titolari (Cass. n. 24559/2015; Cass. n. 12956/2016).

La cessione di partecipazione avvenuta in violazione degli eventuali limiti statutari al suo libero trasferimento (prelazione, gradimento, divieto assoluto, ecc.) è inefficace nei confronti della società e, pertanto, la stessa non legittima l'esercizio dei diritti sociali da parte del cessionario, ancorché depositata nel registro delle imprese (Trib. Milano, 13 novembre 2015, in Banca, borsa, tit. cred., 2016, II, 509; Trib. Milano, 28 giugno 2011, in Soc., 2011, 1266 e Giur. it., 212, 7, 1611, la quale ha precisato che la società in quanto tale è comunque legittimata, indipendentemente dal promovimento di iniziative giudiziarie volte ad accertare l'inefficacia della cessione nei propri confronti, ad opporre tale inefficacia all'acquirente che abbia acquistato in violazione di clausola di prelazione statutaria). Al contrario – e salvo il caso di espressa previsione statutaria nel caso di specie assente – l'efficacia reale non implica la configurabilità di un diritto del socio pretermesso di «riscattare» la partecipazione oggetto della cessione non preceduta da adeguata denuntiatio (così, Trib. Milano 17 dicembre 2012; Trib. Milano, 10 maggio 2013). Secondo Trib. Napoli, 25 novembre 2014 (in Soc., 2016, 482), l'efficacia reale della clausola di prelazione rende opponibile il patto ai terzi non contraenti pur non consentendo ipso facto la tutela reale, ovvero il diritto al retratto, o in alternativa la tutela in forma specifica ex art. 2932 c.c.

L'introduzione delle clausole limitative del trasferimento.

La norma in commento tace sulla possibilità di inserire o sopprimere nell'atto costitutivo clausole limitative del trasferimento delle quote di società a responsabilità limitata. Il silenzio del legislatore ha generato un dibattito tra coloro che richiedono l'unanimità dei consensi e quelli che reputano sufficiente la maggioranza richiesta per le modificazioni statutarie.

In senso favorevole a tale secondo orientamento, si evidenzia che «i limiti dell'atto costitutivo al trasferimento delle partecipazioni, quando sono diretti a regolare in modo uniforme e generale la circolazione delle partecipazioni stesse, attengono all'organizzazione societaria e rispondono ad un interesse collettivo non riconducibile a posizioni soggettive tendenzialmente intangibili» (Speranzin, Bortoluz, 355; Maltoni, 1849; Tassinari, 1421; Revigliono, 246; Olivieri, 328; Zanarone, 567). Conseguentemente, la maggioranza ha il potere di deliberare modifiche al regime di circolazione delle quote previsto dall'atto costitutivo, sia introducendo che eliminando le relative clausole limitative, ferma restando in ogni caso la possibilità di prevedere deroghe a tale regola nell'atto costitutivo (Speranzin, Bortoluz, 355, i quali, peraltro, precisano che tale conclusione può valere se la clausola rivesta natura sociale, in quanto, ove tali limitazioni assumano natura parasociale, applicandosi i principî generali in materia di contratti, sarà richiesto il consenso di tutti i partecipanti all'accordo). In questa prospettiva, si osserva che l'introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione della partecipazione costituisce in una società di capitali oggetto di deliberazione assembleare di modifica statutaria (Zanarone, 567 che cita l'espresso disposto di cui all'art. 2437, comma 2, lett. b, il quale, sebbene non riprodotto in materia di S.r.l., sembra applicabile analogicamente)

In tal senso si è espressa anche la prassi notarile, secondo la quale la clausola statutaria che limita ovvero impedisce il trasferimento di partecipazioni di s.r.l. può essere introdotta o rimossa, se lo statuto non prevede diversamente, con il quorum deliberativo che lo statuto stesso – ovvero, in mancanza, la legge – genericamente dispone per le modifiche statutarie (Massima n. 31 Consiglio Notarile di Milano, ove si precisa, altresì, che le deliberazioni assembleari che introducono o rimuovono dallo statuto di s.r.l. vincoli alla circolazione delle partecipazioni nondeterminano il diritto di recedere, ferma restando la spettanza del diritto stesso per i casi disciplinati all'art. 2469, comma 2, c.c.).

In giurisprudenza, anche se con riferimento alla introduzione di clausole drag along di società azionarie, si è affermato che, per poter introdurre nello statuto di una s.p.a., successivamente alla sua costituzione, una clausola di drag along occorre l'unanimità dei consensi, in quanto tale clausola non è riconducibile al genus di quelle recanti (ex art. 2437, comma 2, lett. b, c.c.) meri vincoli alla circolazione delle azioni, ma contempla un congegno di vendita forzosa, paragonabile a quello prodotto con la trasformazione di azioni già emesse in azioni riscattabili. Di talché è da ritenersi applicabile, in via analogica, la disciplina di cui all'art. 2437-sexies c.c. (Trib. Milano, 25 marzo 2011, in Not., 2011, 395: nella fattispecie, il Tribunale – adito dal presidente del consiglio di amministrazione di una s.p.a., ai sensi dell'art. 2436 c.c., a seguito del rifiuto del notaio verbalizzante la deliberazione dell'assemblea straordinaria adottata a maggioranza e volta ad introdurre nello statuto una clausola di drag along ed una di tag along – ha ritenuto non accoglibile il ricorso a motivo dell'assorbente rilievo della non disponibilità in capo alla maggioranza assembleare della materia regolata dalla prima clausola ed omesso di pronunciarsi sulla seconda, non avendo il ricorrente richiesto in subordine l'iscrizione anche solo parziale della deliberazione).

Tuttavia, più di recente, si è affermato che la clausola statutaria di prelazione è modificabile con deliberazione assunta con le normali maggioranze previste in tema di modifica dello statuto di s.r.l. (Trib. Milano, 22 ottobre 2014, in Soc., 2015, 955). La medesima decisione ha affermato che le clausole di covendita (o drag-along) possono essere introdotte nello statuto di s.r.l. con deliberazione assunta con le normali maggioranze previste in tema di modifica dello statuto, purché tutti quanti i soci vengano a trovarsi nella medesima posizione rispetto all'evento futuro della cessione a terzi che dà origine al diritto di drag-along, con esclusione di qualsivoglia vantaggio o peso attribuito a singoli soci.

Parte della dottrina, poi, ritenendo applicabile alle società a responsabilità limitata il disposto di cui all'art. 2437, comma 2, lett. b), sostiene che, in caso di introduzione o eliminazione di limiti alla circolazione delle partecipazioni spetterebbe ai soci assenti o dissenzienti, il diritto di recedere dalla società (Zanarone, 569). In senso contrario, oltre alle difficoltà di predicare l'applicazione analogica delle norme previste per le società azionarie per via della centralità in quest'ultimo tipo societario della rilevanza dell'azione in luogo del socio, si è osservato che «nella s.r.l. non sarebbe necessario riservare al socio un diritto di recesso in caso di modifica della disciplina del trasferimento delle partecipazioni, visto che l'art. 2469 c.c. attribuisce comunque tale diritto per le clausole più stringenti (e i soci hanno la possibilità di estendere tale rimedio, in via statutaria, anche ad altri casi) e che solo nelle s.p.a. deve essere valorizzata al massimo grado la natura di investimento finanziario della partecipazione» (Speranzin, Bortoluz, 356; Maltoni, 1849; Ghionni Visconti, 218; Revigliono, 248).

Bibliografia

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