L’opzione di vendita put e la manleva del nuovo socio dalle conseguenze negative dell’investimento in società

Antonio Franchi
06 Novembre 2018

È lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale gli uni, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighino a manlevare un altro socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società
Massima

È lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale gli uni, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighino a manlevare un altro socio dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società.

Nell'opzione put a prezzo preconcordato si assiste all'assoluta indifferenza della società alle vicende giuridiche che si attuano in conseguenza dell'esercizio di essa, le quali restano neutrali ai fini della realizzazione della causa societaria, già per la presenza di elementi negoziali idonei a condizionare il potere di ritrasferimento a circostanze varie, capaci di orientare la scelta dell'oblato nel senso della vendita, ma anche della permanenza in società; onde non ne viene integrata l'esclusione da ogni partecipazione assoluta e costante dalle perdite.

Il caso

Il ricorso per Cassazione veniva proposto avverso la decisione della Corte d'Appello di Firenze per la quale erano stati condannati in solido i soci di maggioranza di una società di capitali al pagamento di un ingente importo a favore del socio di minoranza, essendo stato ritenuto valido l'accordo parasociale di investimento stipulato tra 3 soci originari (di maggioranza) e un nuovo socio (che sarebbe entrato nella compagine azionaria acquisendo una partecipazione di minoranza pari al 40% per effetto della sottoscrizione di un aumento di capitale riservato [ciò che non emerge dalla sentenza in esame, bensì dal commento alla sentenza del Tribunale di Firenze del 16 luglio 2015 oggetto di gravame, in C. Di Bitonto, Opzioni “put” parasociali su azioni: profili di (in)validità, in Soc., 2016, 3, 286]), mediante il quale i soci di maggioranza avevano attribuito a quest'ultimo socio un'opzione “put” di vendita della partecipazione da egli acquistata entro un dato termine e ad un prezzo predeterminato al fine di garantirlo dalle eventuali conseguenze negative dell'investimento azionario dallo stesso effettuato.

Le questioni

La funzione di garanzia dell'opzione di vendita c.d. “put”

Mediante l'attribuzione di un'opzione di vendita “put”, usualmente nell'ambito di operazioni di investimento nel capitale di rischio (compravendita di partecipazioni ovvero sottoscrizione di azioni di nuova emissione in caso di aumento del capitale sociale), il nuovo socio che abbia effettuato l'investimento acquisisce il diritto di dismettere, in tutto o in parte, la propria partecipazione nella società precedentemente acquistata, rivendendo tale partecipazione ai soci originari, i quali saranno correlativamente obbligati ad acquistarla.

La giurisprudenza di merito e di legittimità si è a lungo occupata della natura giuridica dell'opzione di vendita “put” e, in relazione alla verifica della possibile configurazione di un cd. patto leonino (in funzione della paventata omissione della partecipazione agli utili e alle perdite della società, in conseguenza dell'esercizio di tale particolare opzione di vendita) ha individuato gli elementi qualificanti necessari affinché possa integrarsi il patto nullo di cui all'art. 2265 c.c. (Cass. civ., 29 ottobre 1994, n. 8927, in Società, 1995, 178; Trib. Milano, 3 ottobre 2013, n. 12213, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano, 6 agosto 2015, n. 9301, in www.giurisprudenzadelleimprese.it).

A riguardo, tale giurisprudenza ha sottolineato che il limite all'autonomia statutaria dell'art. 2265 c.c. sussiste soltanto nell'ipotesi in cui l'esclusione dalle perdite o dagli utili costituisca una situazione assoluta e costante (dunque, qualora si abbia un'esclusione integrale da ogni utile o perdita per un periodo di tempo indefinito, pari quindi alla durata della società); specificando, appunto, che “l'esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la società e la sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell'art. 2265 c.c., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso in toto dall'una o dall'altra situazione o da entrambe" (si veda la sentenza in commento e Cass. 29 ottobre 1994, n. 8927, cit. ivi richiamata).

A maggior chiarimento, i Giudici della Suprema Corte nella stessa sentenza qui in commento hanno precisato che “nessun significato in tal senso potrà assumere il trasferimento del rischio puramente interno fra un socio e un altro socio o un terzo, allorchè non alteri la struttura e la funzione del contratto sociale, nè modifichi la posizione del socio in società, e dunque non abbia nessun effetto verso la società stessa: la quale continuerà ad imputare perdite ed utili alle proprie partecipazioni sociali, nel rispetto del divieto ex art. 2265 c.c. e senza che neppure sia ravvisabile una frode alla legge ex art. 1344 c.c., la quale richiede il perseguimento del fine vietato da parte di un negozio che persegua proprio la funzione di eludere il precetto imperativo”.

Inoltre, è stato sottolineato dalla Suprema Corte che, al fine di verificare se l'opzione “put” ricada nel divieto ai sensi dell'art. 2265 c.c. ovvero sia comunque diretta a realizzare interessi meritevoli di tutela così superando il vaglio di cui all'art. 1322 c.c., occorre indagare la causa concreta del negozio, valutando il risultato pratico dell'operazione posta in essere e, dunque, verificando la sussistenza di un interesse, che sia appunto meritevole di tutela, per il quale le parti si siano determinate a compiere tale operazione.

Nel caso di specie, il patto di investimento che preveda un'opzione “put” non sembra certo volto all'esclusione dalla partecipazione agli utili o alle perdite, bensì ad una finalità assicurativa della posizione del socio investitore (mediante il trasferimento del rischio di investimento dal socio investitore all'altro socio); e la causa concreta deve ritenersi in questo caso mista, giacché coesistono la causa associativa e di finanziamento dell'ente (che si estrinseca nell'interesse del socio investitore a favorire il buon andamento della società e con essa del proprio investimento) congiuntamente alla funzione di garanzia (sia pure in senso lato) costituita dalla configurazione della facoltà di uscita dal capitale sociale nei termini e alle condizioni stabilite tra le parti.

Proprio in considerazione della sussistenza di tale funzione di garanzia, dunque, la previsione del diritto di vendita della partecipazione sociale entro un dato termine e il correlativo obbligo di acquisto della stessa ad un prezzo predeterminato viene altresì a configurare, almeno quanto agli effetti, un'ipotesi di “manleva” del socio investitore dalle eventuali conseguenze negative del proprio investimento societario.

I requisiti della manleva

La manleva (alla quale, come abbiamo visto, può essere assimilata, quanto agli effetti lato sensu assicurativi, l'opzione di vendita c.d. “put”) rappresenta un negozio di garanzia atipico, per il quale un dato soggetto assume l'obbligo di sollevare un'altra parte, la quale acquisisce correlativamente il diritto di essere tenuta indenne, dalle eventuali conseguenze patrimoniali dannose derivanti da un dato evento o dal fatto dello stesso mallevadore o del mallevato o di terzi.

Gli elementi essenziali ai fini della configurazione di una valida manleva sono costituiti, inter alia, dalla causa (l'interesse concreto che la manleva sia diretta a soddisfare, tale da giustificare legittimamente l'assunzione di obblighi da parte del soggetto mallevadore), spesso individuata in accordi sottostanti o collegati, e dalla determinabilità dell'oggetto.

A tale ultimo riguardo, occorre sottolineare che una manleva in forma generica - in assenza dell'indicazione, dunque, di un preciso evento o comportamento dai quali possa nascere il futuro debito - debba essere ritenuta nulla per contrasto con l'art. 1346 c.c. in tema di requisiti dell'oggetto del contratto (Trib. Milano, 20 dicembre 2013, in www.leggiditalia.it); altresì deve essere considerata nulla una manleva (che si riferisca a fatti generatori della responsabilità non ascrivibili al mallevadore) che non indichi la previsione di un importo massimo garantito, ponendosi questa in contrasto con la previsione dell'art. 1938 c.c. in tema di fideiussione per obbligazioni future (Cass. civ., 23 settembre 2015, n. 18771; Cass. civ., 26 gennaio 2010, n. 1520, in Not., 2010, 2, 125).

In effetti, appare del tutto ragionevole che il principio posto dall'art. 1938 c.c. debba applicarsi anche alla figura della manleva, giacché attraverso la conclusione di un tale tipo di pattuizione (garanzia personale atipica) il mallevadore (garante), come abbiamo visto, viene ad assumere dei debiti futuri il cui importo potrebbe essere non noto e non prevedibile (Trib. Roma, 18 dicembre 2002, in Corriere Giur., 2003, 9, 1153).

Come anzi accennato, deve, comunque, ritenersi che l'applicazione del principio posto nell'art. 1938 c.c. sia dovuta soltanto nell'ipotesi in cui l'evento che faccia scattare l'obbligazione del mallevadore sia estraneo alla sua sfera di controllo e di influenza, giacché qualora l'evento originatore della responsabilità del manlevato derivi da fatto del mallevadore o sia sotto il controllo o l'influenza di quest'ultimo, l'obbligazione di manleva non costituirebbe una vera e propria garanzia, bensì rappresenterebbe una c.d. garanzia generica, semplicemente rafforzativa della posizione giuridica originariamente assunta dall'obbligato (mallevadore) (si veda Trib. Milano 6 maggio 2016, in www.giurisprudenzadelleimprese.it).

Risulta, infatti, ovvio che in una tale ipotesi il mallevadore sia perfettamente consapevole del rischio cui si esponga per effetto del rilascio della manleva e, dunque, non sia necessaria l'applicazione della regola sancita nell'art. 1938 c.c., sussistendo una reale ipotesi di garanzia soltanto in quelle situazioni nelle quali l'obbligato difetti del potere di produrre l'evento al quale ha interesse il creditore.

(Per ogni approfondimento sulla figura della manleva sia consentito rinviare alla Bussola, di A. Franchi, in questo portale).

Osservazioni

La sentenza in esame stabilisce che sia lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale con il quale i soci di una società si obblighino a manlevare un altro socio dalle eventuali conseguenze negative dell'investimento effettuato nel capitale della società, mediante l'attribuzione di un'opzione di vendita “put” entro un dato termine e la costituzione di un corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione oggetto di opzione ad un prezzo predeterminato.

Deve, quindi, ritenersi che tale accordo negoziale (di trasferimento del rischio inerente l'investimento nel capitale societario) possa venire a configurare una manleva in quanto siano in esso presenti gli elementi essenziali che caratterizzano tale garanzia atipica.

Quanto alla causa, abbiamo visto che effettivamente l'accordo negoziale in oggetto assolve ad una funzione mista, anche di garanzia, mentre con riguardo all'oggetto dell'obbligazione del concedente-mallevadore, deve ritenersi che la predeterminazione del prezzo della partecipazione oggetto di vendita (elemento essenziale del patto di opzione di vendita – in argomento si veda P. Divizia, Patto di opzioni put and call, in Notariato, 2017, 3, 343) costituisca un indice economico di riferimento nell'opzione di vendita “put” alla stessa stregua del tetto massimo garantito di cui all'art. 1938 c.c. nella manleva; elemento quest'ultimo, che si ritiene debba essere previsto nella manleva ogni volta che il fatto generatore dell'obbligo di pagamento non sia ascrivibile al mallevadore. Così come, in effetti, è nel caso di specie, giacché normalmente le conseguenze negative dell'investimento non derivano da fatto del concedente, né (pure nell'ipotesi in cui il socio concedente coincida con l'amministratore della società) sono normalmente prevedibili.

Conclusioni

Alla luce di quanto stabilito dalla giurisprudenza di merito e di legittimità (in senso conforme alla sentenza in commento, si veda Cass. civ., 4 luglio 2018, 17498, in questo portale, con nota di Caruso), si può affermare che il patto parasociale che preveda un'opzione di vendita “put” costituisce, negli effetti, uno strumento di garanzia (con esiti analoghi a quelli propri di una manleva) volto ad ottenere il trasferimento su un altro socio del rischio inerente l'investimento operato in società (pur nell'ambito di un negozio traslativo della partecipazione sociale) e che, conseguentemente, non determinandosi un'esclusione dalle perdite “assoluta e costante”, né essendo questa la sua funzione essenziale, deve ritenersi che tale struttura negoziale sia meritevole di tutela e non ricada nel divieto di patto leonino ai sensi dell'art. 2265 c.c.

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