Risarcimento del danno patrimoniale per il lavoratore tardivamente assunto

29 Novembre 2018

Quali sono i danni risarcibili tra l'insieme dei pregiudizi provocati dall'illegittimo rifiuto o ritardo del datore di lavoro nell'assunzione del lavoratore che ne abbia diritto, in virtù del successo in un concorso pubblico o di una graduatoria fra candidati?
Massima

Il lavoratore subordinato, che, uscito vittorioso da un concorso pubblico per l'assegnazione di posti di lavoro presso enti di pubblica rilevanza, non sia stato assunto o sia stato tardivamente assunto in ragione di un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione, ha diritto ad un risarcimento del danno corrispondente alle retribuzioni perdute, detratte le somme dallo stesso percepite nel periodo di disoccupazione, la prova delle quali grava interamente sul datore di lavoro.

Il caso

L'allora Azienda Poste e Telecomunicazioni, dante causa dell'odierna Poste Italiane S.p.A., aveva bandito un concorso per l'assunzione di nuovi dipendenti: ai sensi delle normative all'epoca vigenti, i vincitori si sarebbero dovuti individuare tra i candidati risultati obiettivamente idonei, privilegiando i soggetti dotati di particolari requisiti soggettivi, come, ad esempio, gli orfani di padri deceduti per infortuni sul lavoro, secondo quando disposto dall'art. 12 l. 2 aprile 1968, n. 482.

Tuttavia, una delle pretendenti che, in ragione dell'idoneità conseguita grazie al superamento dell'esame e del possesso del titolo preferenziale indicato nella suddetta previsione legislativa, avrebbe dovuto essere assunta, veniva scartata dal provvedimento amministrativo emesso per l'identificazione dei lavoratori da ingaggiare nell'organico aziendale.

La lavoratrice ingiustamente pretermessa reagiva giudizialmente al provvedimento emesso dall'ente pubblico, chiedendone l'annullamento con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, annullamento che veniva effettivamente disposto.

Esercitata l'azione civile per il risarcimento dei danni da mancata assunzione, fondata da una responsabilità da fatto illecito, la lavoratrice otteneva un risultato favorevole sia in primo, che in secondo grado, riscuotendo un ristoro commisurato a tutte le retribuzioni non percepite tramite l'occasione lavorativa ingiustamente negata.

Poste Italiane S.p.A. insorgeva avverso la decisione resa dalla Corte d'Appello, protestando, per quanto quivi interessa, l'erronea applicazione dell'art. 2043 c.c. per aver parametrato la posta risarcitoria alle retribuzioni non riscosse dalla lavoratrice per via dell'omessa assunzione, piuttosto che ai nocumenti sofferti per la partecipazione al concorso ed al legittimo affidamento in ordine all'assunzione.

La Corte di Cassazione, discostandosi dal suo precedente indirizzo interpretativo, rigettava il ricorso con l'ordinanza trattata in questa sede.

La questione

Il problema sollevato dalla descritta controversia risiede principalmente nella selezione dei danni risarcibili tra l'insieme dei pregiudizi provocati dall'illegittimo rifiuto o ritardo del datore di lavoro nell'assunzione del lavoratore che ne abbia diritto, in virtù del successo in un concorso pubblico o di una graduatoria fra candidati.

Più precisamente, ci si domanda se il danno ingiusto suscettibile di ristoro comprenda unicamente le spese sopportate dal danneggiato in proiezione del futuro impiego, le conseguenze psicologiche derivate dalla transitoria situazione di inoccupazione e gli esborsi compiuti per reperire altre occasioni lavorative ovvero possa estendersi alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe conseguito grazie al lavoro ingiustamente negatogli.

Si tratta di verificare, in buona sostanza, se la tutela aquiliana si circoscriva esclusivamente all'interesse negativo del lavoratore a non essere coinvolto in procedimenti amministrativi illegittimamente governati dalla pubblica amministrazione o, al contrario, se siffatta protezione possa espandersi anche in favore dell'interesse pretensivo del lavoratore subordinato all'ottenimento di un'occupazione di cui ha diritto sulla base della corretta applicazione delle norme giuridiche.

Le soluzioni giuridiche
Nel primo caso prospettato, l'obbligazione risarcitoria dell'ente pubblico verso il lavoratore a cui sia stata ingiustamente negata l'assunzione tenderebbe ad assumere un'estensione affine a quella derivante dal compimento di illeciti precontrattuali ex artt. 1337 e 1338 c.c. È noto, infatti, che, mutuando le parole del consolidamento insegnamento di legittimità, «la responsabilità precontrattuale prevista dall'art. 1337 c.c., coprendo nei limiti del cosiddetto interesse negativo, tutte le conseguenze immediate e dirette della violazione del dovere di comportarsi secondo buona fede nella fase preparatoria del contratto, secondo i criteri stabiliti dagli artt. 1223 e 2056 c.c., si estende al danno per il pregiudizio economico derivante dalle rinunce a stipulare un contratto, ancorché avente contenuto diverso, rispetto a quello per cui si erano svolte le trattative, se la sua mancata conclusione si manifesti come conseguenza immediata e diretta del comportamento della controparte, che ha lasciato cadere le dette trattative quando queste erano giunte al punto di creare un ragionevole affidamento nella conclusione positiva di esse» (Cass. civ., sez. II, 10 marzo 2016, n. 4718; in senso conforme cfr. anche: Cass. civ., sez. III, 12 marzo 1993, n. 2973). Da un'altra prospettiva, in questa chiave interpretativa, il provvedimento amministrativo che individui erroneamente i candidati da assumere presso l'ente pubblico ed il recesso arbitrario da trattative private in stato ormai evoluto genererebbero fattispecie di responsabilità sostanzialmente sovrapponibili, tendendo entrambe a proteggere il soggetto leso limitatamente all'interesse negativo a non essere implicato in dinamiche negoziali condotte slealmente o in mala fede. La soluzione alternativa, secondo cui il risarcimento accordabile al lavoratore a cui sia stata ingiustamente negata l'assunzione potrebbe includere anche le retribuzioni perdute, invece, muove dal presupposto che il bene della vita meritevole di tutela sia (non soltanto il diritto del consociato a non essere distratto da procedimenti amministrativi non regolarmente condotti), ma l'occupazione lavorativa in sé considerata; con la conseguenza che la tutela risarcitoria dovrebbe spingersi ad una latitudine tale da abbracciare pure le retribuzioni, costituenti una naturale e fisiologica componente del rapporto di pubblico impiego. La tradizionale giurisprudenza di legittimità, invero piuttosto rarefatta, stante il ridotto numero di controversie di questo genere sottoposte al Supremo Collegio, si è dimostrata particolarmente prudente, tendendo ad escludere dal carico risarcitorio le remunerazioni non godute dal danneggiato (Cass. civ., sez. III, 14 dicembre 2007, n. 26282). Due sono gli argomenti addotti a preteso fondamento di una simile conclusione.
  • Innanzitutto, ad avviso di quest'orientamento ermeneutico, il danno da lucro cessante (come, appunto, nella specie, la perdita delle retribuzioni) sarebbe logicamente configurabile soltanto qualora il lucro fosse già attuale al momento di verificazione del fatto illecito: nel caso dell'assunzione illegittimamente rifiutata, invece, il lavoratore subordinato, non avendo mai riscosso degli emolumenti dal datore di lavoro, non beneficia, al momento della consumazione del fatto illecito, di un guadagno di cui potrebbe astrattamente lamentare la perdita (la stessa locuzione “lucro cessante”, anche da un punto di vista strettamente letterale, presupporrebbe la vigenza della situazione di guadagno al tempo dell'illecito). In altre parole, all'epoca in cui viene perpetrata la condotta antigiuridica, il lavoratore subordinato, non essendo stato assunto dall'azienda pubblica, non possiede, all'interno del suo patrimonio personale, il diritto alla retribuzione, per cui non potrà pretendere che il risarcimento del danno sia commisurato al medesimo.
  • In secondo luogo, aggiungono gli assertori di questa teoria, il provvedimento amministrativo illegittimo lede unicamente il diritto all'assunzione e non il diritto alla retribuzione (che, come già sottolineato, non si è mai perfezionato), con la conseguenza che il danno risarcibile dovrebbe limitarsi alle perdite provocate al lavoratore subordinato per aver pianificato l'occupazione non ottenuta, piuttosto che ai vantaggi economici percepibili grazie alla relazione lavorativa mai costituitasi.
La sentenza commentata in questo contributo, invece, si discosta da tale posizione, confutando i due superiori assunti argomentativi, sostenendo:per un verso, che il lucro cessante sarebbe risarcibile anche se futuro, purché fondato su ragionevoli probabilità che esso si manifesti (si consulti, pur non menzionato dall'ordinanza: Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 2016, n. 20630, che distingue il lucro cessante futuro dalla perdita di occasioni di guadagno perché riferito ad un reddito di verosimile realizzazione, piuttosto che meramente possibile);per l'altro, che diritto all'assunzione e retribuzione si collocano su due piani differenti, costituendo la prima la situazione giuridica lesa dall'illecito e il secondo il vantaggio non acquisito su cui va modellato il quantum risarcitorio. Da ciò discende che l'ovvia diversità logica ed ontologica fra assunzione e retribuzione non impedisce di sanzionare la violazione della prima con un risarcimento modellato sulla seconda (analogamente, ricorda la Suprema Corte, la lesione di un diritto non patrimoniale, come la salute, può generare danni economici, pacificamente risarcibili, o viceversa).
Osservazioni

Il Supremo Collegio, con l'arresto in disamina, conferma la qualificazione in termini di diritto soggettivo perfetto, anziché di interesse legittimo, la pretesa esercitata sul posto di lavoro dal candidato meritevole che sia risultato meritevole di assunzione secondo la graduatoria stilata all'esito del concorso; al contrario, sempre in base alla medesima tendenza interpretativa, ormai ampiamente consolidata, i criteri impiegati dalla pubblica amministrazione per la selezione dei vincitori ed il giudizio sugli elaborati realizzati dal candidato nell'ambito degli esami costituisce una questione amministrativa, in relazione alla quale il cittadino può vantare esclusivamente un interesse occasionalmente protetto (Cass. civ., Sez. Un., 13 dicembre 2017, n. 29916; Cass. civ., sez. lav., 10 luglio 2015, n. 14397; Cass. civ., Sez. Un., 23 settembre 2013, n. 21671; Cass. civ., Sez. Un., 4 novembre 2009, n. 23327; Cass. civ., sez. lav., 21 aprile 2006, n. 9384; successivamente alla pubblicazione della sentenza in disamina, si è associata a tale posizione anche: Cass. civ., sez. III, ord. 13 aprile 2018, n. 9193).

Il confine fra interesse legittimo e diritto soggettivo, pertanto, si rinviene nella graduatoria, il cui procedimento formativo (cioè la dichiarazione di inidoneità e di insuccesso del candidato) attiene al primo e la cui attuazione incide direttamente sul secondo (ossia la mancata assunzione dei vincitori o di quelli che, in base allo scorrimento della lista, avrebbero dovuto assumersi).

La lesione di entrambe le situazioni giuridiche soggettive può determinare l'insorgenza, a carico dell'autore del provvedimento amministrativo illegittimo, di un'obbligazione risarcitoria, sebbene la violazione del diritto soggettivo perfetto impone il ristoro di tutti i pregiudizi provocati al creditore secondo i canoni definiti dal diritto comune, mentre l'infrazione dell'interesse legittimo autorizza il danneggiato a pretendere la riparazione del solo bene della vita direttamente connesso all'atto antigiuridico (Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500).

Le due fattispecie di responsabilità, secondo quanto traspare dalla richiamata giurisprudenza in termini, hanno natura aquiliana, essendo apprezzabili come semplici fatti illeciti sia l'illegittima predisposizione della graduatoria sia la sua mancata o inesatta esecuzione.

Tale ragionamento, pur apparentemente lineare, solleva, tuttavia, delle perplessità.

Non si comprende, infatti, perché, una volta appurato che la pubblicazione della graduatoria crea, in capo al candidato che sia risultato vincitore, un diritto soggettivo all'assunzione, la sua violazione dovrebbe censurarsi secondo il paradigma della responsabilità aquiliana, che, come noto, postula l'alterità fra danneggiato e danneggiante, ossia l'insussistenza fra gli stessi di un rapporto giuridico anteriore alla commissione del fatto illecito.

Al contrario, in situazioni di questo genere, pare potersi predicare che una relazione giuridica socialmente qualificata fra ente pubblico e candidato si formi ben prima dell'illegittimo rifiuto all'assunzione, cioè della condotta antigiuridica determinativa del danno ingiusto.

Infatti, già la pubblicazione del bando arride alla costituzione di un'aderenza, seppur a livello soltanto embrionale, fra ente pubblico bisognevole di nuovi operatori e cittadini dotati dei titoli per ambire all'assunzione. L'ammissione e la partecipazione del candidato al concorso, poi, concretizzano un rapporto di affidamento che si implementa con l'adozione della graduatoria.

Il silenzio dell'arresto giurisprudenziale in commento in ordine alla figura della responsabilità da contatto sociale è spiegabile, però, alla luce della domanda giudiziale concretamente svolta dalla lavoratrice in primo grado che, risalendo al 2002, è stata proposta in un'epoca storica in cui tale categoria non si era ancora affermata nel panorama giurisprudenziale.

In un'ottica evolutiva, però, andrebbe meditata la valorizzazione degli schemi del contatto sociale e del quasi-contratto per offrire una risposta di tutela al cittadino che, nel contesto di una relazione negoziale a formazione e a rafforzamento progressivo, sia stato pregiudicato nella sua legittima pretesa di ottenere il posto di lavoro dall'azienda pubblica.

Rimane il problema, inoltre, di quantificare le retribuzioni a cui deve ammontare il risarcimento del danno nell'ipotesi in cui il candidato meritevole di assunzione abbia diritto ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Stante la riconosciuta connessione fra omessa assunzione e retribuzioni non erogate, nei termini accertati dall'ordinanza in parola, non appare così irragionevole l'applicazione per via analogica dei principi e delle norme in materia di licenziamento illegittimo per il quale il datore di lavoro può essere condannato alla reintegrazione e, in modo particolare, dell'art. 18, comma 3, l. 20 maggio 1970, n. 300, che fissa dei criteri liquidatori dell'indennizzo sostitutivo della riassunzione, sia con riferimento alla base monetaria, individuata nella retribuzione globale di fatto, sia nel numero di 15 mensilità.

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