È sufficiente un calo di fatturato per provare il danno da mancato utilizzo di beni aziendali ?

14 Gennaio 2019

In tema di prova del danno da lucro cessante da inadempimento di un'obbligazione contrattuale è possibile, legare direttamente l'accertata violazione di un obbligo negoziale in un rapporto di causa-effetto, con il mancato guadagno?
Massima

Il danno patrimoniale da mancato guadagno (lucro cessante), concretandosi nel'accrescimento patrimoniale effettivamente pregiudicato o impedito dall'inadempimento dell'obbligazione contrattuale, presuppone la prova, sia pure indiziaria, dell'utilità patrimoniale che il creditore avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta, con la sola esclusione dei mancati guadagni meramente ipotetici perché dipendenti da condizioni incerte. La prova dell'effettiva consistenza del danno da risarcire richiede un giudizio di adeguatezza della causa a generare il danno lamentato. Questa, se riferita all'inadempimento dell'obbligazione contrattuale di consegna di beni aziendali, deve dunque direttamente ricollegarsi alla perdita della loro specifica utilità, potendo solo in via residuale valere il ricorso a dati presuntivi o equitativi riferiti ai soli risultati negativi di gestione.

Il caso

La società R. s.r.l. evoca in giudizio avanti il Tribunale di Monza la P. s.a.s., chiedendo la declaratoria di simulazione del contratto di cessione di beni stipulato tra quest'ultima e una terza società. Il negozio di trasferimento contestato riguarda, in particolare, taluni macchinari industriali compresi nel ramo di azienda che la convenuta si era obbligata a cedere alla società attrice in forza di un diritto di opzione contenuto nel contratto di affitto di ramo di azienda vigente tra le parti. Il Tribunale accoglie la domanda di simulazione assoluta della vendita, accertando il diritto della R. s.r.l. a ritenere i beni oggetto del contenzioso. Il giudice monzese respinge tuttavia l'ulteriore domanda spiegata dalla società attrice, di condanna della P. s.a.s. al risarcimento dei danni conseguenti alla mancata consegna dei beni per tutti gli anni di durata della lunga controversia. Avverso la decisione la R. s.r.l. propone impugnazione innanzi alla Corte d'Appello di Milano chiedendo la riforma parziale della sentenza in relazione al capo che respinge la domanda risarcitoria. I secondi giudici rigettano il gravame e negano dunque a propria volta il risarcimento rivendicato dalla R. s.r.l. Quest'ultima, ad avviso della Corte, avrebbe infatti omesso di fornire «elementi ulteriori e decisivi ai fini della prova dell'esistenza del danno e della sua derivazione dalla mancata consegna dei macchinari». La società propone ricorso avanti alla Cassazione affidandolo a due motivi.

La prima censura fatta valere dalla ricorrente si incentra intanto sull'omesso esame da parte della Corte lombarda di fatti che vengono viceversa presunti come decisivi per il giudizio e, segnatamente, sulla mancata considerazione della documentazione prodotta a dimostrazione del grave inadempimento a base della vicenda. La R. s.r.l lamenta altresì in parallelo una violazione dell'art. 132 c.p.c., nella specie sotto il profilo del vizio di motivazione, con riguardo alle conseguenze di danno del pur allegato calo del “volume di affari” che la società attrice avrebbe invece voluto fin dall'inizio strettamente ricollegato al danno da mancata consegna dei macchinari oggetto di cessione. Con il secondo motivo viene invece denunciata una supposta violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1372 c.c., nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c., laddove la Corte d'Appello non avrebbe correttamente applicato al caso sottoposto al suo esame i criteri normativi in materia di nesso causale. I secondi giudici, più in particolare, avrebbero erroneamente trascurato di considerare come nel caso de quo il grave e prolungato inadempimento dell'obbligo di consegna si sia posto senz'altro come “conseguenza diretta ed immediata” del calo di fatturato registrato nei successivi esercizi sociali, vale a dire - in definitiva - di quel danno da lucro cessante originariamente dedotto in giudizio.

La questione

L'articolato quesito sottoposto allo scrutinio dei Supremi giudici attiene, ridotto nei suoi termini essenziali, al tema della prova del danno da lucro cessante da inadempimento di un'obbligazione contrattuale. È cioè possibile e in quali termini, al cospetto dell'accertata violazione di un obbligo negoziale, legare direttamente quest'ultima in un rapporto di causa-effetto, con il mancato guadagno? O, in una prospettiva diversa, può il preteso danneggiato al fine di integrare la prova del nesso causale tra l'obbligazione inadempiuta e il pregiudizio lamentato, limitarsi ad allegare e documentare il lucro cessante (nella specie il calo del giro di affari), presumendone tout court la riferibilità diretta all'inadempimento? Che spazio possono avere in questo complesso vaglio i dati presuntivi ed equitativi e in che relazione, questi, si pongono con le regole probabilistiche della causalità giuridica?

Le soluzioni giuridiche

Il Supremo Collegio, attraverso un percorso argomentativo piuttosto complesso, respinge in toto il ricorso della società pretesa danneggiata, convalidando integralmente l'operato dei giudici del merito. La prima censura, con la quale si ipotizza un vizio di motivazione della sentenza gravata, poggia in effetti su un manifesto errore prospettico, dal quale a ben vedere prende le mosse l'intero ragionamento dell'attrice/ricorrente, e viene dunque fulminata di inammissibilità. La motivazione resa dalla Corte territoriale non verte infatti sulla sussistenza dei fatti costitutivi dell'inadempimento, ampiamente enfatizzati dalla società appellante e comunque acclarati, quanto - piuttosto - sulla mancata prova del danno che ne sarebbe conseguito. I giudici milanesi hanno dunque per tale riguardo inappuntabilmente motivato, ma spostando il fulcro della discussione altrove, là dove questo in realtà doveva cadere. Vale a dire sulla questione, diversa ed ulteriore rispetto a quella dell'inadempimento, della mancata allegazione della prova del nesso causale tra il fatto di inadempimento e il calo di fatturato. Dedotto, quest'ultimo - si evidenzia - non già in termini di danno emergente, ma di lucro cessante. Nessun vizio del ragionamento presuntivo, dunque. Il fatto noto (in questo caso il prolungato inadempimento dell'obbligo di consegna) non deve infatti, come preteso dalla ricorrente, ineluttabilmente condurre al fatto ignoto (ovvero alla sussistenza di un danno sovrapponibile al calo di fatturato registrato nel periodo). Necessariamente preordinata all'affermazione di questo legame causale è invero l'offerta da parte del danneggiato di argomenti di prova, anche solo indiziari, in ordine alla stretta correlazione tra il primo e il secondo, tra evento e danno. Lo stesso tema emerge ancora più chiaramente nella disamina del secondo motivo, su un terreno più squisitamente sostanziale. Il supposto vizio della decisione di appello atterrebbe in questo caso ad un errato governo delle regole causali applicabili alla specie, avendo la Corte omesso di considerare il calo di fatturato come conseguenza immediata diretta (e in ultima analisi indefettibile) del gravissimo e protratto inadempimento a monte del danno. Anche questa pretesa è frutto di quel relativo strabismo che caratterizza l'impostazione attrice fin dalle prime battute della vicenda. Il focus, lo ribadiscono questa volta i giudici di piazza Cavour, non è sull'inadempimento per quanto grave e prolungato esso sia, ma sul danno. E il risarcimento di questo non può essere garantito se non, ai sensi dell'art. 1223 c.c. in relazione alle conseguenze immediate e dirette dell'evento. E ciò, secondo le regole generali e in un'ottica di ricostruzione controfattuale, presuppone la prova anche solo indiziaria dell'utilità che il creditore avrebbe conseguito se l'obbligazione fosse stata adempiuta. Con l'esclusione di tutto ciò che cade al di fuori dal raggio di un corretto vaglio probabilistico e che si pone dunque come condizione meramente ipotetica siccome dipendente da condizioni incerte. Il relativo scrutinio ricostruttivo, rifuggendo ogni automatismo e ogni suggestione veicolata dalla gravità dell'evento-inadempimento, deve dunque restare rigorosamente ancorato al principio di causalità adeguata. Solo eccezionalmente, laddove vengano indicate le ragioni dell'impedimento probatorio, sarà possibile, in via del tutto residuale il ricorso a dati presuntivi o equitativi, in questo caso correlati (anche) ai risultati negativi di gestione.

Osservazioni

Il dictum qui in commento affronta un capitolo di particolare delicatezza e rilievo economico-sociale. La tentazione di ricollegare un deludente o addirittura fallimentare risultato economico ad inadempienze altrui è di tutt'altro che rara occorrenza. Il giudice di legittimità, assai opportunamente, attua un severo richiamo all'ordine, delineando con chiarezza i limiti e le regole sostanziali e processuali che governano lo strumento risarcitorio. Anche a fronte di una franca violazione contrattuale, non basta pertanto il solo calo del fatturato per accedere al risarcimento. Per quanto astrattamente suggestivo sia il dato reddituale, questo può in realtà dipendere da ulteriori e diversi “inneschi” strutturali o economici che nulla hanno a che fare con l'inadempimento negoziale. Il preteso danneggiato, in conformità con le regole generali, resterà dunque onerato anche in questo caso a fornire la prova della sussistenza di un nesso causale diretto e immediato tra l'evento e il presunto danno. A chiusura del sistema e dunque a garantire il diritto ad un giusto ristoro a chi un danno lo ha subito veramente, soccorreranno comunque, ma solo in via residuale, i dati presuntivi e l'equità.

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