La società rifonde le spese sostenute dall’amministratore dimissionario nel procedimento ex art. 2409 c.c.
08 Febbraio 2019
Massima
Le spese per l'attività difensiva degli organi sociali in carica, anche se dimissionari o revocati per effetto del provvedimento giudiziale interinale di revoca, sostenute per fronteggiare il procedimento giudiziale scaturito da denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c., per gravi irregolarità commesse da parte dei suddetti organi, devono essere considerate in rapporto causale diretto con il mandato ad essi conferito e, per l'effetto, devono essere rimborsate ai sensi dell'art. 1720, commi 1 e 2, c.c. qualora l'azione si riveli infondata e la gestione sociale non sia risultata in contrasto con gli interessi della società. Il caso
Un amministratore societario impugnava la sentenza della Corte d'appello di Napoli che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Avellino, riduceva la somma dovuta dalla società a titolo di rimborso delle spese giudiziali sostenute dal predetto per resistere, in qualità di amministratore della stessa, in un procedimento ex art. 2409 c.c. svolto, nella prima fase, innanzi al Tribunale di Avellino (con finale provvedimento di revoca dell'intero collegio sindacale e del consiglio di amministrazione) e, in sede di reclamo, innanzi alla predetta Corte d'appello, che revocava il provvedimento del Tribunale, stante la constatata infondatezza delle gravi irregolarità addebitate agli organi della società, risultate invece imputabili alla passata gestione condotta dallo stesso socio che aveva denunciato i fatti di mala gestio. La richiesta di rimborso per la somma sostenuta per resistere nei due gradi del procedimento di denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. era stata quindi oggetto di separata azione giudiziale. In detto ambito, laddove la società si costituiva per resistere alla domanda, la domanda veniva accolta in prime cure, sull'assunto che le spese fossero afferenti alla carica di presidente del Cda e dunque al mandato societario all'epoca ricevuto. In parziale riforma di quel decisum, la Corte d'appello di Napoli riteneva non giustificata la somma relativa al giudizio di reclamo ex art. 2409 c.c., in quanto a quel tempo il ricorrente si era dimesso dal Cda. Dinanzi alla Suprema Corte, il ricorrente deduceva la violazione dell'art. 1720 c.c. poiché il giudice di secondo grado aveva erroneamente affermato che le sopravvenute dimissioni dall'incarico, conseguenti alla decisione del Tribunale, avevano reciso il collegamento necessario con le successive spese di giudizio affrontate, pertanto, in qualità di amministratore dimissionario. A suo avviso, viceversa la difesa dell'intera vicenda processuale doveva essere intesa come complessivamente unitaria, derivandone il diritto al rimborso anche delle spese connesse alla seconda fase del procedimento. La Suprema Corte accoglieva il ricorso, cassando la sentenza con rinvio, affermando il principio di diritto per cui "qualora la denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. di sospetto di gravi irregolarità commesse da parte degli organi sociali della società di capitali si riveli infondata, e la gestione sociale da parte degli organi in carica non sia risultata in contrasto con gli interessi della società, le spese per l'attività difensiva affrontate nell'arco di durata di detto procedimento dagli organi sociali in carica, ancorché dimissionari o revocati per effetto del provvedimento giudiziale interinale di revoca, devono considerarsi in rapporto causale diretto con il mandato loro conferito, da rimborsare ai sensi dell'art. 1720, commi 1 e 2".
Le questioni
Il provvedimento in commento espone con chiarezza sia l'aspetto processuale sia i rilievi di diritto sostanziale relativi alla questione posta. La Corte giunge alle sue conclusioni qualificando il rapporto tra amministratore e società, collocandolo per quanto rileva nell'ambito del mandato. Quindi, esamina la natura del procedimento ex art. 2409 c.c. e degli interessi sottesi, per giungere a sostenere il rapporto causale tra la difesa ivi svolta dall'amministratore e l'incarico gestorio. In ordine al primo aspetto, i Supremi Giudici si riferiscono alle norme sul mandato, e, nello specifico, all'art. 1720 c.c., secondo cui "il mandante deve rimborsare al mandatario le anticipazioni, con gli interessi legali, dal giorno in cui sono state fatte, e deve pagargli il compenso che gli spetta. Il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell'incarico". Volendo aderire a tale inquadramento, per effetto della riforma del diritto societario va ricordato che la disciplina della responsabilità degli amministratori risulta innovata, anzitutto (per quanto qui rileva) con la sostituzione, come criterio di comportamento della "diligenza del mandatario" con la "diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze". Tale sostituzione è avvenuta, invero, per sottolineare la genericità del primo criterio e far invece leva sulla natura dell'attività svolta. Ne deriva che il comportamento richiesto all'amministratore non può che essere improntato alla diligenza professionale di cui all'art. 1176, comma 2. Posta la questione in detti termini, a partire dalla riforma del 2003 appare quindi più agevole la ricostruzione del nesso di causalità tra gli eventi che possono determinare la richiesta di ripetibilità delle spese legali da parte dell'amministratore o del sindaco, nonchè la loro pertinenza alle funzioni che questi sono chiamati a espletare (in tema Guglielmetti, Il rimborso delle spese legali sostenute dall'amministratore, in Le Società, 2012, 1). Nella circostanza, in merito al rapporto di causalità necessario per ottenere il rimborso degli oneri giudiziali sostenuti, la Corte precisa che il lemma “danni” dell'articolo 1720 c.c., comma 2, debba essere inteso nel senso di ricomprendervi ogni perdita economica che il mandante deve rifondere al mandatario, comprendendo anche le spese che, per loro natura, si collegano all'esecuzione dell'incarico conferito ed ai rischi inerenti (v. anche Cass. n. 23138/2004; Cass. n. 10052/2008; Cass. n. 5718/2011; Cass. n. 3737/2012). Cosa non ricorrente, ad avviso del Supremo Collegio, in relazione alle spese sostenute per difendersi in un processo penale inerente a fatti connessi all'incarico di amministratore, ove il nesso di causalità diretta si interrompe a causa dell'attività di una terza persona, ossia l'accusa, pubblica o provata, quale elemento intermedio, il procedimento di volontaria giurisdizione non acquista natura pubblicistica e non inficia sul nesso di causalità diretta con il mandato ricevuto, nel caso in cui la difesa sia stata svolta nell'interesse concreto della società alla conservazione ed all'incremento del patrimonio sociale. Per altro verso, ad avviso della Cassazione le spese di difesa tecnica e legale sostenute dall'amministratore, ancorché dimissionario in caso di nomina dell'amministrazione giudiziale, sono sempre causalmente riconducibili al mandato gestorio a favore degli interessi societari, dunque suscettibili di essere ricomprese nella previsione di cui all'art. 1720 c.c. Invero l'attribuzione al primo ed a carico della predetta società del rimborso delle spese non è un elemento estraneo al sistema delle società di capitali, essendo, peraltro, previsto anche dall'art. 2409, comma 2 c.c., laddove esso stabilisce che le spese di ispezione nell'ambito di procedimenti promossi per l'accertamento di asserite gravi responsabilità degli amministratori siano poste a carico dei soci richiedenti (secondo comma), a meno che il procedimento venga attivato dagli organi di controllo, per il qual caso sono poste a carico della società (settimo comma) (v. Cass. 9828/2002; Tedeschi G.U., Il controllo giudiziario sull'amministrazione delle società di capitali, 520 ss) La ragione per cui tali spese sono poste a carico della società discende dal fatto che il procedimento in questione viene attivato fondamentalmente nell'interesse della società stessa, che, pertanto, ha il dovere di rimborsarle. A tal proposito la Corte ricorda e precisa che l'attività difensiva svolta da amministratori e sindaci nell'ambito di un procedimento instaurato ex art. 2409 c.c., trovi, appunto, origine e giustificazione diretta nel rapporto organico che lega amministratori e sindaci alla società per la loro funzione di rappresentanza o di immedesimazione organica ricoperta nell'ambito dell'organizzazione societaria. Si sostiene, condivisibilmente, che tale procedimento (di volontaria giurisdizione) non acquista una natura pubblicistica, anche ove si realizzi l'intervento del pubblico ministero previsto per legge, e soprattutto “non fa venire meno il nesso di causalità diretta con il mandato ricevuto nel caso in cui la difesa si riveli svolta nell'interesse in concreto della società, posto che il procedimento de quo tende a incidere direttamente nella gestione della società, ragione per cui la società medesima non può rimanere indifferente all'esito di detto procedimento (essendo oggi prevista anche la possibilità di intervenirvi)”. Esso conduce all'esame sulla corretta esecuzione del mandato di amministratori e sindaci, a verificare la correttezza della gestione societaria da parte degli organi sociali in carica nell'interesse della società, e non solo del socio denunciante il sospetto di gravi irregolarità gestorie, allo scopo di adottare, in caso fondatezza della denuncia, provvedimenti interinali sulla gestione che prevedono, infine, anche la sostituzione degli amministratori e sindaci con un amministratore giudiziario. Rileva la Corte che, nella dimensione privatistica del controllo giudiziario sulle società di capitali, sostenuta dalla dottrina prevalente, ove pure l'art. 2409 (oltre agli interessi privati della società), “tutelasse un interesse altrettanto privato dei soci, esso sarebbe comunque inscindibile da quello della stessa società alla conservazione e all'incremento del suo patrimonio sociale, la cui lesione potrebbe cagionare un danno riflesso al patrimonio dei soci. Costoro, pertanto, sarebbero latori di un interesse personale indiretto, e non potrebbero agire in funzione di un interesse puramente extrasociale, soprattutto se quest'ultimo fosse addirittura confliggente con gli interessi della società: l'interesse egoistico da cui fosse mosso il socio dovrebbe sempre legarsi alla tutela della sua personale posizione nell'organizzazione sociale, e l'esercizio della facoltà d'azione non dovrebbe concretare un abuso del processo e porsi in conflitto con l'interesse della società”. Quindi, si conclude che ove il procedimento venga avviato da soci per difendere solo i propri interessi egoistici, gli organi sociali denunziati si troverebbero a tutelare congiuntamente gli interessi propri e quelli sociali. Ancora, che in un procedimento di amministrazione di interessi privati, che denota un'attività oggettivamente amministrativa al termine della quale vengono emanati provvedimenti modificabili e revocabili, l'attività difensiva prestata dall'amministratore o dal sindaco origina dal mandato sociale ricevuto, dunque non da un rapporto meramente occasionale, atteso che la verifica della fondatezza del sospetto di gravi irregolarità viene svolta nell'interesse della società ad una corretta gestione (v. anche Cass. n. 30052/2011; Corte d'appello di Milano, decreto 13 marzo 2001).
Osservazioni
La soluzione fornita dalla Suprema Corte alla questione centrale affrontata dal provvedimento in esame, circa il rimborso delle spese che la società deve versare a favore dell'amministratore, fonda, come visto, sull'applicazione alla fattispecie ed all'interpretazione dell'art. 1720 c.c. comma 2. Ebbene, la natura e la qualificazione del rapporto che lega l'amministratore alla società che questi gestisce, non appaiono profili così pacifici come la pronunzia vorrebbe far ritenere. È noto che le Sezioni Unite avevano avuto modo di affermare che la controversia nella quale l'amministratore di una società di capitali, o ente assimilato, chieda la condanna della società stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto dell'attività di esercizio delle funzioni gestorie restava soggetta al rito del lavoro ai sensi dell'art. 409 n. 3 c.p.c., atteso che, se verso i terzi estranei all'organizzazione societaria è configurabile tra amministratore e società, un rapporto di immedesimazione organica, all'interno dell'organizzazione erano viceversa configurabili rapporti di credito nascenti da un'attività come quella resa dall'amministrazione, continua, coordinata e prevalentemente personale, non rilevando in contrario il contenuto parzialmente imprenditoriale dell'attività gestoria e l'eventuale mancanza di una posizione di debolezza contrattuale dell'amministratore nei confronti della società (così, Cass. n. 10680/1994, in Mass. Giur. It., 1994; in Giur. It., 1995, I, 1, 1524, RIGANO'; in Società, 1995, 5, 635, MACRI'). Tale tesi è risultata sposata da altre successive pronunzie (Cass. n. 4261/2009; Cass. n. 16494/2013; Cass. n. 4769/2014) e tuttavia contestata in arresti di segno contrario, basati ad esempio sulla più o meno ampia autonomia caratterizzante il rapporto tra amministratore e società, a seconda che questi sia inserito in un consiglio d'amministrazione, riceva delega da tale organo oppure rivesta addirittura la posizione di amministratore unico dell'ente (ad esempio: Cass. n. 7961/2009). Altri pronunciamenti della Corte di legittimità hanno posto l'accento sia su tale autonomia che sulla relazione d'immedesimazione organica tra l'amministratore e la società, per tentare di superare indirettamente l'avviso espresso precedentemente in funzione nomofilattica. In quelle decisioni si è sostenuto sostiene, ad esempio, che il rapporto tra l'amministratore di una società di capitali e la società medesima va ricondotto nell'ambito di un rapporto professionale autonomo e, quindi, ad esso non si applica l'art. 36, comma 1, Cost., che riguarda il diritto alla retribuzione in senso tecnico, poiché il diverso diritto al compenso professionale dell'amministratore, avendo natura disponibile, può essere oggetto di una dichiarazione unilaterale di disposizione da parte del suo titolare (in termini Cass. n. 19714/2012). Più di recente i Supremi Giudici hanno poi sostenuto che quello di amministrazione costituisca niente altro che un rapporto societario, nell'accezione prevista dal novellato art. 3 d.lgs. n. 168/2003 (istitutivo del Tribunale delle imprese), distinto e separato anche da un semplice rapporto d'opera, oltre che da quelli di rango parasubordinato. Un avviso in tal senso lo si rinviene ove la Corte ha ritenuto il rapporto tra la società ed il suo amministratore è di immedesimazione organica, avente ad oggetto la gestione stessa dell'impresa sociale, costituita da un insieme variegato di atti, del compimento dei quali l'amministratore risponde direttamente, anche nei confronti dei terzi, non essendo soggetto ad ingerenze o direttive altrui, neppure dell'assemblea, giuridicamente vincolanti in modo assoluto. Pertanto che, il contratto tipico che lega l'amministratore e la società non è un contratto d'opera ex art. 2222 c.c., in quanto l'opus di amministrazione che egli si impegna a fornire non è, a differenza di quello del prestatore d'opera, determinato dai contraenti preventivamente, né è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività di impresa. Nel far ciò i Giudici di legittimità hanno richiamato altro precedente (Cass., n. 22046/2014), ove pure si era parlato di immedesimazione organica, di relazione ad oggetto la gestione stessa dell'impresa sociale. Ed hanno escluso la ricorrenza in tale rapporto dei caratteri propri del lavoro subordinato, nonchè (non però senza contrasti, non del tutto sopiti dalla ricordata pronuncia delle S.U. del 1994) di quelli della c.d. parasubordinazione, stante essenzialmente la non configurabilità dell'attributo di "coordinata" con riguardo ad una attività che, a prescindere dalla struttura individuale o plurisoggettiva dell'organo, non è soggetta ad alcuna forma di eterodirezione (cfr. Cass. n. 13956/2016). A fronte di tale contrasto le Sezione Unite hanno infine affermato che l'amministratore unico o il consigliere d'amministrazione di una società per azioni sono legati da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dall'art. 409 c.p.c., n. 3 (Cass. SS.UU. n. 1545/2017). Ebbene, questa conclusione pare attribuire valore dirimente solo al profilo esterno del rapporto di amministrazione, sicuramente caratterizzato – anche in considerazione della capacità rappresentativa generale dell'ente spettante all'amministratore (unico e/o delegato e/o presidente del c.d.a.) – da tale vincolo di immedesimazione. Dal lato interno rimane tuttora difficile inquadrare il rapporto (di mandato, d'opera o professionale autonomo). Va da se, tuttavia, che nonostante l'inesistenza di norme che regolano direttamente la materia, si rinviene un principio legislativo di rimborsabilità delle spese, o comunque di ristoro delle perdite sopportate nella gestione dell'interesse altrui, desumibile non solo dal citato articolo sulla disciplina del mandato, ma anche dall'art. 2031 c.c. in materia di gestione di affari, dall'art. 2234 c.c. in materia di rapporti tra cliente e professionista intellettuale. Per questo motivo, ricorrendo all'interpretazione analogica è possibile pervenire ad una conclusione nella sostanza coerente con quella assunta dalla Suprema Corte e idonea a permettere di evitare – per ogni caso di gestione di affari altrui, a qualunque titolo avvenuta – trattamenti che potrebbero violare il correlato principio ex art. 3 Cost. Detto questo, a proposito del tema delle spese giudiziali del procedimento di denunzia al tribunale – la cui natura camerale di volontaria giurisdizione, il cui oggetto e gli interessi sottesi appaiono correttamente inquadrati dalla pronunzia in esame – v'è da rilevare l'esistenza di un lungo contrasto giurisprudenziale che lo ha attraversato. Si rammentano decisioni che, partendo dall'affermazione che la sua natura di volontaria giurisdizione precluderebbe ogni statuizione in proposito, le hanno poste a carico del denunziante (tra le altre, Cass., n. 7424/1983, in Giur. Comm., 1984, II, 729; e, più recentemente, App. Cagliari, 13 febbraio 2004, in Società, 2004, 976, con nota di Spagnuolo). Altre, invece, ne hanno gravato chi aveva dato causa all'iniziativa od aveva resistito senza alcuna valida ragione, con ciò determinando la necessità, per gli altri, di effettuare esborsi processuali utili ad accertare, nel contraddittorio, i presupposti del controllo (App. Milano, 12 marzo 2004, in Società, 2004, 1125, con nota di Salafia; ma già Cass., n. 498/1996, in Foro It., 1996, I, 857). La seconda tesi al fine è stata recepita anche dalla Cassazione, sia pure dopo qualche iniziale incertezza; ciò sull'avviso che art. 91 c.p.c., che disciplina la condanna alle spese processuali, trovi applicazione anche nei procedimenti camerali quando siano finalizzati alla decisione su posizioni giuridiche contrastanti, per quanto non espressione di diritti soggettivi, poiché ivi è comunque configurabile una soccombenza, pur se di tipo esclusivamente processuale (Cass., n. 30052/2011; Cass., n. 403/2010, in Notariato, 2010, 246; in Foro It., 2010, I, 3113; ma già Cass., n. 9828/2002, in Società, 2003, 576, con nota di Tedeschi; in tale senso, nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma, 19 marzo 2014, in Giur. It., 2014, 1137; App. Milano, 29 giugno 2012, in Società, 2012, 10, 1099; Trib. Salerno, 12 novembre 2009, in Foro It., 2010, I, 2567; App. Milano, 12 marzo 2005, in Giur. It., 2005, 2342, con nota di Dalmotto; contra App. Sassari, 13 febbraio 2004, in Società, 2004, 976, con nota di Spagnuolo; Trib. Nocera Inferiore, 22 ottobre 2002, in Dir. e Prat. Soc., 2003, 6, 84, con nota di Liace); Del resto, più in generale la giurisprudenza ha osservato che l'art. 91 c.p.c., si riferisce ad ogni processo, senza distinzioni di natura e di rito, e che il termine "sentenza" è usato in tale norma nell'accezione di provvedimento che, nel risolvere contrapposte posizioni, chiude il procedimento stesso innanzi al Giudice che lo emette, e dunque anche se tale provvedimento sia emesso nella forma dell'ordinanza o del decreto (Cass., n. 23955/2013). In altri termini, appare pacifico che l'art. 91 c.p.c., secondo cui il giudice con la sentenza che chiude il processo dispone la condanna alle spese giudiziali, intenda riferirsi a qualsiasi provvedimento che, nel risolvere contrapposte pretese, definisce il procedimento, e ciò indipendentemente dalla natura e dal rito del procedimento medesimo, pertanto, la norma trova applicazione anche ai provvedimenti di natura camerale (Cass., n. 14742/2006, cit.).
Conclusioni
Il principio affermato nella pronuncia qui commentata appare condivisibile. Esso conduce alla soluzione del problema del rimborso delle spese di assistenza legale sostenute dall'amministratore nel procedimento di denunzia ex art. 2409 c.c., avente ad oggetto fatti connessi all'esercizio delle funzioni di gestione, prevedendo l'obbligo della società di rifondere in tutto o in parte tali spese. Ad avviso di chi scrive, tal principio dovrebbe vedere esteso il proprio ambito di applicazione a qualsiasi procedimento svolto nell'interesse della società, ove la partecipazione dell'organo sia eziologicamente (e non occasionalmente) connessa all'esecuzione dell'incarico conferito, e giustificata dal rapporto (qualunque sia il nomen juris, la qualificazione e/o la disciplina applicabile al riguardo, in via diretta o in via analogica) che lega l'amministratore o il sindaco alla società. Senza poter essere derogato nemmeno nel caso in cui siano intervenute le dimissioni di questi ultimi durante l'arco di durata del procedimento, dal momento che non inficiano sul rapporto di causalità diretta con l'incarico conferito. |