Risarcimento del danno patrimoniale da perdita del congiunto: consistenza del relativo onere probatorio

Massimiliano Stronati
18 Febbraio 2019

È necessaria, da parte dei congiunti, una puntuale allegazione della situazione reddituale del defunto, al fine di vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento di quanto quest'ultimo avrebbe destinato al soddisfacimento delle loro esigenze?
Massima

La risarcibilità del danno patrimoniale che il coniuge abbia a subire, in conseguenza del fatto illecito altrui concretatosi nell'evento mortale del congiunto, non necessita di una puntuale allegazione della posizione economica del defunto. La prova del danno, consistente nelle attribuzioni economiche di cui il superstite sarebbe stato destinatario, infatti, può essere raggiunta anche per mezzo di presunzioni, rapportate alla situazione concreta: tanto in punto di reddito presumibile del defunto, quanto in relazione alla volontà di destinazione dello stesso.

Il caso

Tizio, conseguentemente all'esposizione alle polveri e alle sostanze tossiche in ambito lavorativo, perdeva la vita prematuramente. La coniuge e i figli del defunto instauravano un giudizio nei confronti della società in favore della quale Tizio prestava la propria opera, nonché del responsabile del relativo stabilimento dov'era occupato il lavoratore. In particolare, veniva richiesta la condanna dei convenuti per i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dai congiunti in conseguenza del decesso di Tizio. La relativa pretesa, infatti, veniva fondata sull'assunto che la tecnopatia, rivelatasi mortale per il lavoratore, era stata contratta a causa della mancata predisposizione da parte del datore di lavoro di idonei mezzi di protezione.

Tanto il Tribunale, quanto la Corte di Appello accoglievano parzialmente le richieste risarcitorie avanzate dai familiari di Tizio.

In particolare, veniva riconosciuta una quantificazione del danno ritenuta non congrua, non venivano conteggiati gli interessi compensativi e veniva negata la risarcibilità dei danni patrimoniali futuri sofferti dalla moglie del lavoratore deceduto. Non ravvisandosi la prova degli indici reddituali del marito, infatti, quest'ultima domanda veniva ritenuta infondata, non potendosi presumere quale sarebbe stato l'apporto che il defunto avrebbe destinato ai bisogni del coniuge.

In ragione dell'accoglimento soltanto parziale, i congiunti di Tizio ricorrono avverso la pronuncia della Corte territoriale. I convenuti a loro volta propongono ricorso incidentale.

La questione

È necessaria, da parte dei congiunti, una puntuale allegazione della situazione reddituale del defunto, al fine di vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento di quanto quest'ultimo avrebbe destinato al soddisfacimento delle loro esigenze?

Le soluzioni giuridiche

Nella decisione in commento i giudici di legittimità tornano a confrontarsi sulla risarcibilità dei danni patrimoniali che i superstiti possano soffrire a seguito del prematuro decesso del congiunto, causato dal fatto illecito altrui.

Se la predicabilità di tale tipologia di danno, infatti, non costituisce un approdo innovativo da parte della giurisprudenza, non può negarsi che la latitudine di tale pretesa risarcitoria non abbia mancato di essere oggetto di difformi interpretazioni. La variabilità di giudizio ha riguardato sia il riconoscimento delle diverse posizioni (di diritto o di fatto) tutelate dall'ordinamento e sottese alla domanda, sia il contenuto del relativo onere probatorio.

Anche la statuizione all'esame, infatti, si richiama al consolidato orientamento pretorio che ravvisa tale species di conseguenza dannosa in termini di lucro cessante. Viene rilevato, in particolare, che la scomparsa prematura del congiunto, a seguito di fatto illecito altrui, proiettata nel futuro, determina una presumibile perdita economica per i superstiti, determinabile nelle risorse reddituali che il defunto avrebbe loro destinato.

Tale pretesa pecuniaria, secondo la Corte, può trovare fondamento tanto «in relazione ai precetti normativi (artt. 143, 433 cod. civ.)», quanto nella «pratica di vita improntata a regole etico - sociali di solidarietà e di costume». In tal modo, vengono determinati, seppur indirettamente, quali siano i soggetti titolari della legittimazione ad agire in giudizio per ottenere il ristoro dei danni subendi.

Qualora il defunto fosse già vincolato al rispetto di obblighi normativamente previsti, in specie la pronuncia richiama espressamente i doveri di contribuzione (art. 143 c.c.) e di corresponsione degli alimenti (art. 433 c.c.), il danno ingiusto si sarebbe concretizzato in capo al titolare della posizione creditoria corrispondente. Vale osservare che, sebbene tali doveri economici riguardino principalmente i coniugi, in favore degli altri membri del nucleo familiare, anche la prole è tenuta al rispetto del dovere di mantenimento, espressamente previsto dall'art. 315-bis c.c.. Sicché nella circostanza in cui la morte prematura colga quest'ultima categoria di soggetti, le Sezioni Unite di Cassazione con sentenza del 11 novembre 2008, n. 26973 hanno riconosciuto la tutela risarcitoria da “lucrum cessans” anche ai genitori superstiti.

Peraltro, può aggiungersi che, sebbene la Cassazione non ne faccia uno specifico riferimento, anche le fonti negoziali (ad es. convenzioni matrimoniali) permettono, in tale materia, di riconoscere una specifica situazione giuridicamente tutelata, ovvero una posizione di credito, passibile di lesione e quindi di un danno ingiusto (cfr. M. Franzoni, Il danno risarcibile, Milano, Giuffrè, 2010; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2017).

Al contrario, se le contribuzioni patrimoniali future della persona venuta a mancare trovassero ragion d'essere esclusivamente in un reciproco rapporto affettivo e di solidarietà, la situazione tutelata sarebbe di mero fatto (in tal senso cfr. M. Franzoni, Il danno risarcibile, Milano, Giuffrè, 2010, p. 652; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2017, p. 721, per il quale trattasi di aspettativa di fatto; in senso contrario, C. M. Bianca, Diritto Civile, V, La responsabilità, Milano, Giuffrè, 2012, pp. 609-610, il quale ipotizza la “lesione del vincolo familiare”). Va tuttavia dato atto che la giurisprudenza sembra ritenere che tale aspettativa si configuri come legittima, non quindi di mero fatto, qualora i destinatari dei benefici economici del familiare prematuramente scomparso rientrino nella categoria dei successori necessari (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 giugno 1981, n. 4137).

In particolare, l'ingiustizia del danno subito, a prescindere da un riferimento normativo o da una fonte negoziale che individui una posizione creditoria, viene ormai univocamente riconosciuta dalla giurisprudenza. Vengono, infatti, ritenuti meritevoli di tutela sia la situazione del convivente more uxorio, sia l'interesse del coniuge all'ottenimento di provvidenze diverse da quelle di mera contribuzione, nonché quello dei figli per benefici differenti da quelli di mantenimento, qualora questi siano economicamente indipendenti.

La distinzione fra le posizioni ideali che l'ordinamento intende tutelare non ha una mera finalità ordinatoria, ma dà la stura ad un differente regime probatorio.

Dar prova dei fatti costitutivi alla base della precipua situazione di credito, fondata su di un obbligo di matrice legale o negoziale, non incontra particolari ostacoli, dovendo il soggetto legittimato soltanto dimostrare il proprio status familiare (es: coniuge, coniuge separato/divorziato, figlio) o il particolare regolamento pattizio, mentre, altrettanto non può dirsi per l'altra categoria di legittimati.

In primo luogo, il riconoscimento di un'aspettativa risarcitoria anche ai componenti di una famiglia di fatto è ormai un punto fermo dell'elaborazione giurisprudenziale in tema.

Tuttavia, il presupposto per il riconoscimento di un pretesa riparatoria come quella in discorso presuppone sempre la prova del rapporto di affezione fuori dal matrimonio. In tal senso, Cass. civ., sez. III, 28 marzo 1994, n. 2988, la quale in motivazione ritiene che «non sia sufficiente, perché́ si possa parlare di famiglia di fatto, la semplice coabitazione, dovendosi far riferimento ad una relazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva e parafamiliare che, come nell'ambito di una qualsiasi famiglia, si esplichi in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale» (cfr. nello stesso senso Cass. civ., sez. III, 16 settembre 2008, n. 23725).

Posizione ancora differente in ambito probatorio, circa la lesione di una posizione di interesse giuridicamente rilevante, viene riconosciuta in capo agli altri componenti del nucleo familiare rispetto alla «perdita di un'entrata che ragionevolmente si sarebbe potuta presumere come duraturo vantaggio economico proveniente dall'attività lavorativa del congiunto» (Cass. civ., 1 agosto 1987, n. 6672). In tali ipotesi, occorrerà fornire la prova dello stretto vincolo di solidarietà familiare, dal quale possa presumersi che il superstite sarebbe stato il destinatario di determinate attribuzioni patrimoniale da parte del defunto, ovvero che avendole già ricevute in passato ne avrebbe probabilmente beneficiato anche in futuro.

Con riferimento alla tutelabilità dell'aspettativa del coniuge al mantenimento, nella pronuncia Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n. 4205 (richiamata anche nella decisione in commento) è stato specificato in motivazione che «l'uccisione del marito fa venire meno l'aspettativa della moglie, fondata su criteri probabilistici desunti dall'"id quod plerumque accidit", di vedere destinata una parte del reddito dell'ucciso al soddisfacimento delle proprie esigenze». Peraltro, nella circostanza in cui non siano configurabili i presupposti del mantenimento non si esclude che i congiunti possano avere interesse ad una diversa attribuzione economica: ad esempio, con riferimento alla posizione dei figli che siano già titolari di un reddito, Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003 ha sottolineato che: «la sufficienza dei redditi del figlio può escludere l'obbligo giuridico di incrementarlo da parte dei suoi genitori, ma non esclude il beneficio» (principio confermato anche in Cass. civ., sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24802).

All'infuori di un preesistente obbligo normativo o contrattuale, la differente situazione tutelata comporta inoltre delle necessarie asimmetrie anche relativamente all'onus probandi circa l'esistenza in concreto del danno patrimoniale subito.

Sul punto, è pacifico in giurisprudenza che la prova della sussistenza dell'an del danno futuro subito dal coniuge, a seguito della morte dell'altro, limitatamente alle presumibili dazioni pecuniarie che avrebbe ricevuto per il proprio mantenimento, non necessita di una puntuale allegazione. Come ribadito nella decisione odierna, la prova del danno si fonda, infatti, su di un «sistema presuntivo a più incognite costituite: dal futuro rapporto economico tra i coniugi e dal reddito presumibile del defunto, ed in particolare dalla parte di esso che sarebbe stata destinata al coniuge». Nel caso di specie, le corti di merito avevano, invece, rigettato in ragione dell'assenza di prova degli indici reddituali del defunto.

Si aggiunge, inoltre, come la presunzione possa basarsi anche su «dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto».

L'indagine, quindi, circa l'esistenza del danno patrimoniale in tale ipotesi si risolve in una ricostruzione della volontà ipotetica del defunto, attraverso un giudizio prognostico dal quale emerga che “il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del coniuge o avrebbe apportato al medesimo utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno” (pronuncia in esame), in base ad un “criterio di normalità” (così, Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n. 4205, parzialmente citata in questa pronuncia).

Criteri affatto distinti governano, invece, la prova della conseguenza patrimoniale ristorabile qualora la pretesa venga avanzata dal convivente more uxorio, o dai congiunti che richiedano la condanna al pagamento di una perdita economica non corrispondente al mantenimento.

Nella prima ipotesi, infatti, il componente della famiglia di fatto, secondo un indirizzo univoco dovrebbe «dare la prova del contributo patrimoniale e personale apportatole in vita, con carattere di stabilità, dal convivente e che è venuto a mancare in conseguenza della sua morte» (così in motivazione Cass. civ., sez. III, 28 marzo 1994, n. 2988). Viene richiesta quindi in sede giudiziale un'allegazione puntuale dei contributi che il convivente destinava alla cura delle esigenze del superstite, non riconoscendosi, peraltro, rilevanza a quegli aiuti pecuniari che il defunto versava solo occasionalmente o sporadicamente.

Allo stesso modo, il sistema di presunzioni non si ritiene sufficiente a dimostrare la fondatezza della domanda di risarcimento del lucro cessante, quando la richiesta riparatoria attiene a benefici economici alieni dalle esigenze di mantenimento (in presenza, ad esempio, di una situazione reddituale di totale autonomia dei destinatari).

Anche in tal caso, infatti, si ritiene accertato il danno futuro, in termini probabilistici, soltanto qualora i richiedenti siano in grado di dimostrare la percezione di utilità economiche nel periodo precedente alla scomparsa del congiunto.

In particolare, nella fattispecie in cui a richiedere la condanna furono i figli del defunto, maggiorenni ed economicamente indipendenti, i giudici di ultima istanza, oltre a sancire che tale situazione di fatto non esclude aprioristicamente la concretizzazione di un danno futuro risarcibile, ritennero che questi ultimi dovessero dare prova di aver ricevuto dai genitori «provvidenze aggiuntive […] durevolmente, prolungatamente e spontaneamente» (Cass. civ., sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003; nonché Cass. civ., sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24802).

Osservazioni

I) La casistica giurisprudenziale esaminata, peraltro, sembrerebbe far emergere una distonia di opinioni circa il criterio probatorio da adottare in ordine a quelle situazioni in cui sia il coniuge a richiedere il risarcimento per la perdita delle risorse economiche che il defunto avrebbe apportato, pur in assenza di una situazione di necessità di far fronte ai propri bisogni.

Sul punto, la sentenza qui oggetto di analisi sancisce che la prova del danno al coniuge vada valutata su base presuntiva anche qualora il defunto «avrebbe apportato al medesimo utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno» (così anche Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n. 4205).

D'altro canto, in passato i giudici di legittimità avevano richiesto che anche per il coniuge, come per i figli economicamente indipendenti, in siffatte ipotesi, l'onere probatorio dovesse consistere in un prova piena e non meramente presuntiva dei futuri apporti economici del defunto. In particolare, Cass. civ., sez. lav., 8 marzo 2006, n. 4980 ebbe a sostenere che: «in mancanza, quindi, di un accertamento in concreto che quest'ultima fosse stata privata di utilità economiche di cui già beneficiava, non poteva presumersi che in futuro la ricorrente avrebbe ricevuto dal figlio, ove questi fosse rimasto in vita, una somma superiore a quella occorrente al proprio mantenimento».

In senso parzialmente simile Cass. civ., sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549, con riferimento ad una situazione di fatto in cui il defunto «per quanto già lavorasse, non versava alla famiglia una somma superiore a quella occorrente al suo mantenimento», dichiarò rispetto alla richiesta di benefici ulteriori che: «occorre però pur sempre che detto danno economico sia accertato e che quindi sia provato che il soggetto deceduto già provvedeva a dette elargizioni economiche in favore dei soggetti che chiedono il risarcimento del danno ovvero presumibilmente, ma pur sempre sulla base di elementi oggettivi, sarebbero state effettuate in futuro».

II) Nella decisione in commento, inoltre, la Suprema Corte identifica quali debbano essere i criteri sulla base dei quali stimare una valutazione equitativa del danno ristorabile.

In particolare, il collegio ritiene che debba tenersi conto della “rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale, dall'altro”. L'indicazione, certamente non esaustiva (ad esempio non richiamando il valore negativo della quota sibi, ovvero la parte di reddito che il defunto avrebbe destinato alle proprie esigenze, cfr. sul punto Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186), da rilievo ad un peculiare valore rispetto al quale determinare la perdita risarcibile per il singolo congiunto. Specialmente nelle ipotesi, come quella all'esame, in cui la richiesta risarcitoria attenga al ripristino economico che consenta il mantenimento dei congiunti, parametrato al tenore di vita precedente alla morte del familiare. Sicché, non è di immediata percezione la ragione per cui, in simili circostanze, sia necessario indagare un valore soggettivo quale quello del “legame di solidarietà familiare”.

Tale parametro, invero, potrebbe risultare di maggiore utilità nelle ipotesi esaminate della famiglia di fatto o di richieste risarcitorie consistenti in provvidenze ulteriori a quelle di mero mantenimento.

III) Si osserva, infine, che la determinazione dell'onere probatorio in capo al coniuge comporterà una revisione anche per quanto riguarda la posizione del convivente di fatto. La legge “Cirinnà” 20 maggio 2016, n. 76 all'art. 1 comma 49 dispone, infatti, che: «in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell'individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite». Disposizione questa che sembra accordare alle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza in subiecta materia un autentico ruolo di fonte del diritto (come sostiene G. Iorio, Il danno risarcibile derivante dal decesso del convivente di fatto, in Responsabilità Civile e Previdenza, 2017, 1092 ss).

Peraltro, la medesima normativa riconosce ora ai conviventi di fatto la possibilità di concludere dei “contratti di convivenza” (l'art. 1, comma 50 prevede, infatti, che: «I conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune con la sottoscrizione di un contratto di convivenza»), per mezzo dei quali, in particolare, i soggetti legati da una relazione di stabile affezione e assistenza morale e materiale possono regolamentare «le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo» (art. 1, comma 53, lett. b, l. n. 76/2016). Sicché, in tale ipotesi viene a concretizzarsi un vero e proprio diritto di credito reciproco e non una mera aspettativa di fatto, semplificando ulteriormente la dimostrazione dei danni che il convivente subirà in futuro per la precoce scomparsa dell'altro, in seguito al fatto illecito altrui. Non rimane esclusa, d'altronde, la possibilità che la pretesa risarcitoria abbia ad oggetto anche attribuzioni patrimoniali ulteriori rispetto a quelle attinenti il contenuto di tale negozio, invero, tale situazione si potrebbe presentare, come già sopra descritto, qualora il superstite sia in grado di far fronte autonomamente alle esigenze della famiglia di fatto.

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