Legittimazione degli amministratori di s.p.a. ad impugnare una deliberazione invalida assunta dall’assemblea

11 Marzo 2019

In caso di Consiglio di Amministrazione di S.p.A., l'attribuzione della facoltà di impugnativa della deliberazione assunta dai soci avviene non in favore dei singoli componenti, ma dell'organo amministrativo nel suo complesso
Massima

In caso di Consiglio di Amministrazione di S.p.A., l'attribuzione della facoltà di impugnativa della deliberazione assunta dai soci avviene non in favore dei singoli componenti, ma dell'organo amministrativo nel suo complesso, trattandosi di un potere collegiale e non individuale dei singoli componenti dell'organo attribuito all'organo nel suo complesso.

Il caso

Su iniziativa del custode giudiziario della società socia, titolare dell'80% del capitale sociale, era convocata l'assemblea dei soci di S.p.a., che deliberava: 1) di non approvare il bilancio; 2) di autorizzare l'azione sociale di responsabilità degli amministratori; 3) di prender atto della revoca automatica dei quattro amministratori in carica ex art. 2393, comma 5, c.c.; 4) di nominare i nuovi amministratori in sostituzione di quelli revocati.

Con atto di citazione avanti il Tribunale di Roma, la delibera era oggetto di impugnazione in proprio, individualmente da parte di tre amministratori revocati nonché del socio titolare del residuo 20% del capitale sociale.

Con il medesimo atto di citazione la delibera era altresì, contestualmente, impugnata dal Presidente del C.d.A della società titolare della quota di maggioranza (80%) del capitale sociale pari all'80% del capitale sociale. Tale soggetto era tuttavia un soggetto diverso dal custode giudiziario nominato in sede penale ai sensi dell'art. 321 c.p.p., che aveva dato corso alla convocazione della assemblea. Con separato ricorso, gli impugnanti richiedevano la sospensione della delibera impugnata.

Nel giudizio così radicato infine si costituiva, in proprio, anche il quarto amministratore revocato, al solo fine di richiedere la riunione con il diverso giudizio di impugnazione dallo stesso introdotto separatamente averso la medesima delibera de qua.

Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, respingeva la richiesta di sospensione della delibera, rilevando il difetto di legittimazione ad impugnare dei soggetti che avevano promosso il giudizio per l'invalidità della delibera.

Con successivo provvedimento, dato in sede di reclamo, il Tribunale di Roma in sede collegiale confermava il difetto di legittimazione in aderenza ai principi espressi nella prima fase del giudizio dallo stesso Tribunale in composizione monocratica.

La questione

Il Tribunale Capitolino analizza i motivi di invalidità della delibera, evidenziando come alla distinzione disegnata dal legislatore tra nullità ed annullabilità della delibera consegua una “diversificata disciplina” in ordine ai soggetti legittimati alla impugnativa ed in ordine ai termini entro cui l'impugnativa stessa è consentita.

In particolare, il Giudice sottolinea che le ipotesi di nullità della delibera sono dal legislatore circoscritte ai soli casi previsti dall'art. 2379 c.c. e che, in relazione a tali ipotesi, il legislatore riconosce il potere di impugnare la delibera a chiunque vi abbia interesse entro il termine di tre anni.

Nel contempo il Tribunale esamina la disciplina della annullabilità delle delibere, contenuta nell'art. 2377 c.c., rilevando come il legislatore limiti la impugnabilità della delibera sia in relazione al termine di soli novanta giorni, sia in relazione ai soggetti legittimati, identificati dalla norma citata nei soci assenti, dissenzienti od astenuti, dagli amministratori, dal consiglio di sorveglianza e dal collegio sindacale.

Dopo aver ricondotto i motivi di invalidità proposti alla figura giuridica della annullabilità della delibera, il Giudice esclude la legittimazione di tutti gli attori.

In particolare, il Tribunale afferma che il potere di impugnazione della delibera per i motivi di cui all'art. 2377 c.c. è riconosciuto all'organo amministrativo, in quanto espressione del suo potere e dovere di assicurare la legalità dell'attività sociale, e non – come nel caso in esame – individualmente ai singoli componenti dell'organo gestorio.

Esclude inoltre la legittimazione del legale rappresentante della società socia titolare di partecipazioni pari all'80%, dato che il potere di impugnare, in quanto strumentale al diritto di voto, compete al Custode Giudiziario nominato in sede di sequestro penale, al quale solo spetta il diritto di intervento e di voto nelle assemblee e quindi la correlativa legittimazione alla impugnazione.

Il Tribunale, infine, ritiene che difetti la legittimazione ad impugnare anche da parte del socio titolare del residuo 20% del capitale sociale dato che, al momento della notifica dell'impugnazione, il socio non aveva operato l'iscrizione nel libro soci del trasferimento delle partecipazioni. Rileva, infatti, il Tribunale che la regolarità della iscrizione del trasferimento nel libro soci costituisce presupposto della legittimazione ad impugnare così che la mancata anteriore iscrizione dell'acquisto a libro soci determina il difetto del socio alla impugnativa stessa.

Le soluzioni giuridiche

Il caso sottoposto al Tribunale di Roma offre lo spunto per esaminare il tema dell'attribuzione agli amministratori della legittimazione ad impugnare le delibere assembleari.

Va debitamente premesso che la novella del 2003 ha profondamente inciso sulla materia della invalidità delle deliberazioni di cui agli art. 2377-2379 c.c.

L'esigenza di tutela della legalità delle delibere è stata contemperata dalla esigenza alla stabilità e certezza dell'attività sociale.

Il punto di equilibrio tra i suddetti interessi, in quanto parimenti meritevoli di tutela, è costituito proprio dalle norme sulle deliberazioni assembleare, che, per tale ragione, sono ritenute inderogabili dalle prescrizioni statutarie (M. Vaccari, in Franzoni Rolli, Codice Civile Commentato, Art.2377 c.c., a cura di G. Meruzzi, Torino, 2018, vol. II, 3359).

Tale punto di equilibrio si è tradotto negli artt. 2377-2379 c.c. nelle restrizioni e limitazioni delle previsioni che consentono di caducare le delibere sia sotto il profilo temporale (A. Bonafine, La legittimazione e l'interesse ad agire nelle vicende di impugnazione delle deliberazioni assembleari delle s.p.a., in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 4, 2017, 1376), sia introducendo all'art. 2377 comma 8 c.c. la possibilità di sostituire, in quanto compatibile, la delibera nulla.

Se quindi da un lato risulta ridotta la distanza tra nullità ed annullabilità, va tuttavia sottolineato l'affrancamento del corpus normativo dettato dagli artt. 2377-2379 c.c. dalla disciplina dell'invalidità dei contratti, costituita dalla previsione dell'istituto della annullabilità della delibera quale specie di invalidità di carattere generale, laddove invece la nullità opera soltanto nei casi tassativamente previsti dall'art. 2379 c.c. (F. Galgano, Diritto Commerciale, in Le società, Bologna 2013, 286; G. Guerrieri, La nullità delle deliberazioni assembleari di s.p.a: la fattispecie, in Giur. Comm., fasc. 1, 2005, 58; Stagno D'Alcontrones, Tr. Abadessa Portale, 2, 175 richiamato in Maffei Alberti, Comm. Breve al Diritto delle Società, Art. 2377 c.c., op. cit, 628; R. Rordorf, Art.2377, Comm. Romano nuovo dir. Società a cura di D'Alessandro,, II, 1, 840, richiamato in Maffei Alberti, Comm. Breve al Diritto delle Società, Art. 2377 c.c., op. cit pag. 628).

Peraltro, dal confronto del testo delle norme dettate in materia di annullabilità e di nullità emerge una sensibile differenza circa la legittimazione a promuovere l'impugnazione. L'art. 2379 c.c. infatti attribuisce la legittimazione a chiunque abbia un interesse alla impugnazione della delibera. Il legislatore quindi non pone un limite ai soggetti che possono essere legittimati all'impugnazione per nullità, richiedendo tuttavia che tale interesse si riferisca ai soli casi tassativamente elencati cui la nullità è per legge circoscritta e sempre che l'azione sia promossa nel termine di decadenza di tre anni.

Al contrario, l'art. 2377, comma 2, c.c. stabilisce in termini generali l'impugnabilità delle delibere contrarie a norme di legge o di statuto, ma limita i soggetti legittimati a promuovere l'annullabilità. Il legislatore quindi attribuisce espressamente ai soci assenti, dissenzienti od astenuti, agli amministratori, al consiglio di sorveglianza e al collegio sindacale il potere di impugnare la delibera nel termine di giorni.

Detto elenco è ritenuto tassativo e come tale non modificabile da una norma statutaria. A sostegno di ciò si evidenzia che la deliberazione è un atto che opera nell'ambito dell'organizzazione societaria: è infatti destinata a rilevare internamente nei confronti dei soggetti che fanno parte della organizzazione societaria a diverso titolo ed in relazione ai propri compiti specifici (C. Bavetta, in Codice Civile Commentato a cura di G.Alpa e V. Mariconda, Art. 2377 c.c., Milano, II, 1457-1458).

Sotto tale aspetto, come è stato ben rilevato, la previsione nell'elenco degli amministratori risponde alla volontà del legislatore, espressa con la novella del 2003, di trasformare l'amministratore da gestore a controllore della società (Lauria, La legittimazione dell'amministratore ad impugnare le delibere assembleari, in questo portale).

In quanto organo preposto alla tutela degli interessi sociali, l'amministratore è legittimato alla impugnazione, essendo tale legittimazione alla impugnativa espressione del potere dovere dell'organo di assicurare la legalità dell'attività sociale (Cass. Civ., n. 259/2010, in Giur. It., 2010, 6,. 1303; Trib. Torino, Sez. Specializzata, 30 gennaio 2015, in giurisprudenzadelleimprese.it).

Si pone quindi il problema, affrontato dai provvedimenti in esame, di verificare se con l'uso del termine “amministratori” di cui all'art. 2377, comma 2 c.c. il legislatore abbia inteso attribuire la legittimazione alla impugnazione, in caso di Consiglio di Amministrazione, all'organo collegiale di gestione o individualmente ai singoli componenti dello stesso.

Non pare, al riguardo, potersi attribuire valore al dato letterale dell'art. 2377 comma 2 c.c., al fine di poter riconoscere legittimazione al singolo componente del Consiglio di amministrazione.

Il termine “Amministratori” è infatti utilizzato dal Legislatore per intitolare il capo 2 (“Degli Amministratori”) della Sezione VI-bis del titolo V del libro V del Codice Civile relativo alla amministrazione e controllo della società.

L'art. 2380-bis c.c. inoltre, dopo aver attribuito in via esclusiva il potere di gestione agli “amministratori”, statuisce che “quando l'amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione”.

Il successivo art. 2381 c.c. precisa che è il consiglio di amministrazione a gestire la società in via collegiale e non il singolo componente in modo individuale: all'organo è affidato, in via collegiale, il dovere di valutare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società, e, di esaminare i piani strategici, industriali e finanziari della società laddove questi siano stati elaborati. E' ben vero che, se autorizzato dallo Statuto, il Consiglio di Amministrare ha il potere di delegare alcune attribuzioni e determinare il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega: tuttavia l'attribuzione di tale delega non implica perdita o spoliazione del potere dell'organo nella sua collegialità, ma costituisce atto di potere di gestione in via collegiale poiché l'organo può, collegialmente, in ogni momento impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Non solo. Lo stesso art. 2381 c.c. preclude la possibilità di delegare le attribuzioni indicate negli articoli 2420-ter, 2423, 2443, 2446, 2447, 2501-ter e 2506-bis c.c., con ciò quindi dimostrando la volontà del legislatore di lasciare sempre alla decisione collegiale alcune materie ritenute essenziali per la vita della società.

Va in aggiunta sottolineato che, laddove il legislatore ha voluto riferirsi individualmente all'amministratore, vi ha proceduto espressamente.

In tal senso, oltre ai casi di cui agli artt. 2379, comma 3, e 2479, comma 4, c.c, rileva ai fini del presente commento la previsione dell'art. 2391 c.c., che attribuisce al componente del Consiglio di Amministrazione la legittimazione ad impugnare le deliberazioni consiliari. Tale norma evidenzia la preminenza riconosciuta alla volontà collegiale espressa dall'organo rispetto alla volontà del singolo componente. Da un lato, infatti, la norma esprime il principio che il potere gestorio è svolto in via collegiale dall'organo; dall'altra, l'art. 2391 c.c. sottolinea come il potere del singolo componente di modificare a posteriori la volontà espressa dall'organo collegiale derivi dalla esigenza che tale decisione collegiale sia avvenuta secundum legem.

Tale contesto normativo consente di apprezzare l'essenzialità, ai fini della attività di gestione, del principio della tutela della legalità dell'attività sociale che, manifestandosi nel potere di impugnativa, si sostanzia nella tutela del superiore interesse sociale (rispetto all'interesse personale dell'amministratore).

La legittimazione degli amministratori ad impugnare le deliberazioni assembleari, contemplata dall'art. 2377 c.c., si fonda non già su un interesse proprio degli amministratori, ma sull'esigenza di tutela dell'interesse generale alla legalità societaria, che implica l'esistenza di un diritto ad impugnare anche nel caso in cui la decisione invalida sia stata approvata dai soci all'unanimità (Trib. Roma, Sez. Specializzata, n. 5456/2017).

Il principio espresso dall'art. 2377 c.c., quindi, è da interpretarsi nel senso che "il potere, riconosciuto agli amministratori della società per azioni dal secondo comma dell'art. 2377 cod. civ., d'impugnare le deliberazioni dell'assemblea della società che non siano state prese in conformità della legge o dell'atto costitutivo, spetta al consiglio di amministrazione (ove statutariamente previsto) e non agli amministratori stessi individualmente considerati, atteso che tale potere è attribuito agli "amministratori" per la tutela degli interessi sociali e dunque richiede una deliberazione dell'organo incaricato di detta tutela, il quale, nella società retta da un consiglio di amministrazione, si identifica, appunto, nel consiglio, e non nei singoli componenti di esso" (Cass. Civ., n. 8992/2003, in Foro It., 2003, 3007; Trib. Milano, Sez. VIII, 08 febbraio 2006, n. 1466 in Società, 2007, 11, 1411.; Trib. Torino, Sez. Specializzata, 30 gennaio 2015 cit. In dottrina: C. Bavetta, in Codice Civile Commentato a cura di G.Alpa e V. Mariconda, Art.2377 c.c., op. cit., 1458).

Va tuttavia segnalato che la giurisprudenza ammette in via di eccezione la legittimazione dell'amministratore ad impugnare una delibera dell'assemblea, qualora il consigliere di amministrazione sia stato immediatamente leso in un suo diritto dalla deliberazione stessa: ciò sull'ovvio presupposto che al momento dell'impugnazione il soggetto danneggiato dalla delibera sia ancora amministratore. Inoltre, la giurisprudenza contempla l'ipotesi in via di eccezione della legittimazione dell'amministratore revocato – che, pure, non può far valere un diritto a permanere nella carica – ad impugnare la delibera dell'assemblea di revoca dalla carica di amministratore, quante volte la stessa si ponga in contrasto con la legge o con lo statuto (Cass. Civ., n. 259/2010, cit.; Trib. Roma, 20 marzo 2017, cit.).

In realtà, come correttamente sottolineato in giurisprudenza, in entrambi i casi sussiste un rapporto di attualità/strumentalità fra la legittimazione (che rimane eccezionale rispetto alla regola generale) dell'amministratore e la tutela della posizione ricoperta dall'amministratore stesso all'interno della società: questi, infatti, o è amministratore al momento della impugnazione oppure rivendica il suo diritto a rimanere amministratore malgrado una delibera di revoca (Trib. Torino, 30 gennaio 2015, cit.).

In entrambi i casi, quindi, con la legittimazione eccezionalmente riconosciuta all'amministratore per la tutela di un suo diritto personale si tutela di riflesso la compagine sociale e il suo corretto funzionamento, andando ad incidere sulla composizione dell'organo amministrativo, o sui poteri degli amministratori o, ancora, sullo status dei medesimi (Trib. Torino, 30 gennaio 2015, cit.).

Ne consegue che tale legittimazione eccezionale va esclusa laddove il soggetto non più amministratore non proponga l'impugnazione a tutela o nell'esercizio dei suoi poteri di amministratore che sarebbero stati lesi dalla delibera in parola, ma quale privato cittadino sostanzialmente e formalmente estraneo alla società: in una simile situazione infatti l'interesse, laddove pur sussistente in fatto, non può ritenersi giuridicamente qualificato ai sensi dell'art. 2377 c.c. (Trib. Torino, 30 gennaio 2015, cit.).

Osservazioni

La soluzione prospettata nel caso in esame consente di concludere anzitutto che, laddove la società sia gestita da un consiglio di amministrazione, il potere di impugnazione della delibera assembleare spetta all'organo di gestione nella sua collegialità: è infatti l'organo in via collegiale ad essere attribuito della tutela dei superiori interessi sociali che esprime tramite la necessaria deliberazione consiliare.

Ciò in quanto “la tutela della legalità dell'attività sociale” da parte dell'organo di gestione si esprime e sostanzia nella “tutela del superiore interesse sociale”.

L'applicazione di tale principio è stata ritenuta in giurisprudenza così rilevante, da far riconoscere la legittimità anche dell'impugnazione promossa dal singolo amministratore, in assenza quindi di preventiva delibera collegiale, laddove questa di riflesso tuteli la compagine sociale e il suo corretto funzionamento.

Nel contempo, tali ultime conclusioni della giurisprudenza paiono introdurre una distinzione finale tra la tutela del superiore interesse sociale e la tutela della legalità, dando preminenza a tale ultima tutela: in tal senso viene ammessa la deroga alla necessaria preventiva deliberazione collegiale laddove l'amministratore, impugnando, tuteli di riflesso il corretto funzionamento della società.

Detto rilievo consente, a sommesso parere di chi scrive, una ulteriore considerazione conclusiva in relazione al potere di impugnare la delibera per motivi di annullabilità da parte dell'organo gestorio.

Pur essendo espressione della tutela della legalità dell'attività sociale, il potere di impugnativa pare dover esser subordinata alla effettiva necessità di “tutela del superiore interesse sociale” da parte dell'organo gestorio ponendosi, così, quale elemento di equilibrio tra quella esigenza di tutela della legalità delle delibere e la esigenza alla stabilità e certezza dell'attività sociale in aderenza alle linee ispiratrici la novella del 2003 in materia di invalidità delle delibere.

Ai fini della impugnativa per annullabilità da parte degli amministratori non parrebbe quindi sufficiente che la delibera sia assunta dalla assemblea in violazione della norma di legge o dello statuto da parte della assemblea: dovendosi informare tale tutela della legalità alla tutela del superiore interesse della società, va verificata la presenza anche di tale ulteriore tutela

E' ben vero che tale tutela del superiore interesse sociale è manifestazione della tutela della legalità della attività sociale: non può tuttavia escludersi che con la impugnazione, promossa secundum legem, gli amministratori abbiano voluto in realtà privilegiare interessi propri o di alcuni soci piuttosto che l'interesse superiore della società.

Simile conclusione appare corroborata dall'atteggiamento della giurisprudenza in materia di impugnazione per nullità.

L'art. 2379 c.c. stabilisce che la delibera può esser impugnata per nullità da chiunque vi abbia interesse. Il dato letterale della norma parrebbe quindi consentire di promuovere tale impugnazione a chiunque possa avere un interesse, potenziale o di fatto, a rimuovere tale delibera.

La giurisprudenza è tuttavia intervenuta per circoscrivere il concetto di interesse, atteso il rischio di lesione dell'equilibrio raggiunto tra tutela della legalità e tutela dell'attività sociale.

Giurisprudenza costante ritiene infatti che l'azione non sia proponibile in mancanza di prova da parte dell'attore di un interesse attuale e concreto alla invalidità della delibera (Trib. Milano, 29 febbraio 2016, in giurisprudenzadelleimprese.it). Ciò significa che l'azione stessa non è proponibile in mancanza della prova, da parte dell'attore, della necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica (Cass., n. 5420/2002, in Mass. Giur. It., 2002; Arch. Civ., 2003, 192). In ogni caso giurisprudenza costante respinge l'impugnazione se dalla declaratoria di nullità l'impugnante non possa ricavarne alcun vantaggio apprezzabile (Cass., n. 16159/2007 in Soc., 2007, 12, 1461; Cass., n. 24591/2005, in Not., 2006, 3, 252).

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