Danni cagionati da cinghiali: incombe sul danneggiato la prova della concreta pericolosità dell'area

Antonio Scalera
02 Maggio 2019

Il giudizio di responsabilità può essere fondato sulla mera deduzione che l'ente convenuto non avrebbe posto in essere alcun idoneo accorgimento per arginare il moltiplicarsi esagerato degli esemplari, né per evitarne lo sconfinamento al di fuori dell'area naturale destinata al ripopolamento?
Massima

In materia di danni cagionati da animali selvatici, è onere dell'attore dimostrare che il luogo del sinistro fosse all'epoca abitualmente frequentato da un numero eccessivo di esemplari tale da costituire un vero e proprio pericolo per le proprietà vicine, anche se adeguatamente protette, ovvero fosse stato teatro di precedenti incidenti, tali da allertare le autorità preposte sulla sussistenza di un concreto pericolo per l'uomo.

Il caso

Con il primo motivo, il ricorrente denuncia l'errore della sentenza di merito impugnata nell'affermare che egli si sia limitato a denunciare la mancanza di una recinzione protettiva, quando, invece, nell'atto introduttivo era stato menzionato l'obbligo dell'Ente regionale di predisporre tutte le misure necessarie e idonee per evitare che gli stessi animali arrechino danni a persone o cose, come desumibile dall' enunciato di cui all'articolo 4 della legge regionale in questione, ove si prevedono operazioni e interventi di controllo anche nelle zone nelle quali esiste il divieto di caccia delle specie di fauna selvatica.

Secondo il ricorrente, la corretta interpretazione della legge avrebbe dovuto condurre la Corte territoriale a conclusioni diverse, atteso che la previsione legislativa dell'intervento di controllo della fauna selvatica costituisce un obbligo cui gli enti preposti devono sottostare proprio perché viene imposto dalla legge stessa.

In più, nel caso di specie, la sentenza gravata non avrebbe tenuto conto del caso eccezionale, documentato in atti, costituito dalla permanente, incontrollata proliferazione dei cinghiali, originariamente introdotti venti anni anni prima dall'assessorato regionale in pochi esemplari e per ragioni di studio, e poi abbandonati a se stessi, tanto da proliferare oltre misura e incidere sull'equilibrio ambientale che la stessa legge di protezione della fauna intende salvaguardare, arrecando, invece, costante pericolo di danno alle persone e cose.

La questione

La questione della quale è investita la Suprema Corte è, in sintesi, se il giudizio di responsabilità possa essere fondato sulla mera deduzione che l'ente convenuto non avrebbe posto in essere alcun idoneo accorgimento per arginare il moltiplicarsi esagerato degli esemplari, né per evitarne lo sconfinamento al di fuori dell'area naturale destinata al ripopolamento.

Le soluzioni giuridiche

Nel dare risposta negativa alla questione, la Suprema Corte richiama la giurisprudenza formatasi in materia.

È stato, al riguardo, affermato che costituisce onere della parte danneggiata indicare la causa efficiente del danno, trattandosi di responsabilità aquiliana. Invero, il danno cagionato dalla fauna selvatica non è risarcibile in base alla presunzione stabilita dall'art. 2052 c.c., inapplicabile per la natura stessa degli animali selvatici, ma soltanto alla stregua dei principi generali sanciti dall'art. 2043 c.c., anche in tema di onere della prova, e, perciò, richiede l'individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all'ente pubblico (Cass. civ.,28 marzo 2006, n. 7080; Cass. civ., 1 agosto 1991, n. 8470; Cass. civ., 13 dicembre 1999, n. 13956; Cass. civ., 14 febbraio 2000, n. 1638; Cass. civ., 24 settembre 2002, n. 13907; Cass. 24 giugno 2003 n. 100008; Cass. civ., 28 luglio 2004 n. 14241; v. Sez. 3, Sentenza n. 27673 del 2008 ).

La situazione non è poi mutata con l'entrata in vigore della l. n. 157 del 1992, la quale ha ribadito che «a fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell'interesse della comunità nazionale ed internazionale», posto che si tratta di espressione di una politica di sostegno dell'equilibrio ecologico che di per sé non impone alla pubblica amministrazione l'obbligo di attuare generali misure di protezione e di sorveglianza, fatti salvi i pericoli intercettati e segnalati in concreto e non adeguatamente considerati. Anche la Corte Costituzionale, interpellata in merito, ha escluso la sussistenza di una irragionevole disparità di trattamento tra il privato, proprietario di un animale domestico (o in cattività), e la Pubblica Amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi anche gli animali selvatici, sotto il profilo che gli eventuali pregiudizi, provocati da «animali che soddisfano il godimento della intera collettività, costituiscono un evento puramente naturale di cui la comunità intera deve farsi carico, secondo il regime ordinario e solidaristico di imputazione della responsabilità civile, ex art. 2043 cod. civ.» (Corte cost., ord. 4 gennaio 2001, n. 4).

La gestione della fauna assegnata alla regione (alla stregua della l. 157/1992 che, all'art. 26, prevede la costituzione di fondo per il risarcimento dei danni alle coltivazioni cagionati dalla detta fauna), non comporta, quindi, che qualunque danno cagionato da essa sia addebitabile all'ente territoriale preposto, occorrendo l' allegazione, o quantomeno la specifica indicazione, di una condotta omissiva efficiente sul piano della presumibile sua ricollegabilità al danno ricevuto, quale la anomala incontrollata presenza di molti animali selvatici sul posto, l'esistenza di fonti incontrollate di richiamo di detta selvaggina verso la sede stradale, la mancata adozione di tecniche di captazione degli animali verso le aree boscose e lontane da strade e agglomerati urbani etc. (Cass. civ., 24 aprile 2014, n. 9276).

Sulla scorta di tale inquadramento giurisprudenziale, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata, che ha affrontato correttamente il tema da decidere.

Ed invero, non possono essere pretese dall' ente pubblico la recinzione o la segnalazione generalizzata di tutti i perimetri boschivi indipendentemente dalle loro peculiarità concrete. Sarebbe stato, semmai, onere dell'attore dimostrare che il luogo del sinistro fosse all'epoca abitualmente frequentato da animai selvatici, con un numero eccessivo di esemplari tale da costituire un vero e proprio pericolo per le proprietà vicine, anche se adeguatamente protette, ovvero fosse stato teatro di precedenti incidenti tali da allertare le autorità preposte sulla sussistenza di un concreto pericolo per l'uomo. Gli articoli di cronaca prodotti quale prova del pericolo concreto, invece, risalgono al 2012, mentre l'incidente è occorso nel 2005, non potendosi quindi da questi soli elementi arguire, anche con l'ausilio di ragionamenti presuntivi o di massime di comune esperienza, che il ripopolamento attuato, all'epoca del sinistro, costituisse fonte di concreto pericolo per l'uomo.

Osservazioni

L'ordinanza in rassegna conferma il tradizionale orientamento in base al quale, in materia di danni cagionati da fauna selvatica, trova applicazione il rimedio risarcitorio previsto dall'art. 2043 c.c. con l'aggravio probatorio che esso comporta.

Il danneggiato dovrà, infatti, fornire la prova di tutti gli elementi strutturali di cui si compone la fattispecie: condotta, nesso di causalità materiale, evento, nesso di causalità giuridica, conseguenze e, soprattutto, il dolo o la colpa dell'ente preposto al controllo.

Sotto quest'ultimo aspetto, però, la giurisprudenza è oscillante.

Secondo una prima impostazione (Cass. civ., 21 novembre 2008, n. 27673; Cass. civ., 28 marzo 2006, n. 7080; Cass. civ., 24 giugno 2003, n. 10008), condivisa anche dalla pronuncia in rassegna, il danneggiato è onerato della prova della specifica condotta omissiva imputabile alla P.A.

Una corrente contrapposta (Cass. civ., 8 gennaio 2010, n. 80, cit.; Cass. civ., 13 gennaio 2009, n. 4671; Cass. civ., 25 novembre 2005, n. 24895) si muove, invece, nella direzione di un progressivo alleggerimento dell'onere probatorio del danneggiato. Questo secondo orientamento, pur confermando l'applicabilità dell'art. 2043 c.c., introduce una sorta di presunzione di responsabilità in capo alla P.A., senza che l'attore debba dimostrare alcuna condotta colpevole.

Un'altra questione dibattuta è quella relativa all'individuazione del soggetto responsabile.

Un primo orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che fosse la Regione, questa è la titolare della funzione normativa che si concretizza nella predisposizione di misure idonee ad evitare il danno (Cass. civ., 13 gennaio 2009, n. 467; Cass. civ., 21 novembre 2008, n. 27673; Cass. civ., 10 ottobre 2007, n. 21282; Cass. civ., 20 aprile 2006, n. 9159; Cass. civ., 25 novembre 2005, n. 24895)

Altra giurisprudenza ha sottolineato che la responsabilità vada, invece, imputata a quell'ente sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tale attività derivino (Cass. civ, 8 gennaio 2010, n. 80; Cons. Stato, 27 novembre 2011, n. 5383; Cass. civ., 10 novembre 2015 n. 22886).

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