Transazione novativa, l'accordo raggiunto qualifica il rapporto tra datore e lavoratore

22 Dicembre 2017

In ipotesi di intervenuta transazione novativa tra datore di lavoro e lavoratore, l'accordo raggiunto vale a qualificare il rapporto sorto tra gli stessi ed impedisce di configurare l'esistenza di un obbligo contributivo. (Nella specie la somma riconosciuta in forza dell'atto di transazione è stata attribuita al prestatore per mero spirito di liberalità ed al solo fine di evitare un danno all'immagine senza alcuna relazione con quanto precedentemente richiesto e dedotto dal lavoratore).
Massima

In ipotesi di intervenuta transazione novativa tra datore di lavoro e lavoratore, l'accordo raggiunto vale a qualificare il rapporto sorto tra gli stessi ed impedisce di configurare l'esistenza di un obbligo contributivo. (Nella specie la somma riconosciuta in forza dell'atto di transazione è stata attribuita al prestatore per mero spirito di liberalità ed al solo fine di evitare un danno all'immagine senza alcuna relazione con quanto precedentemente richiesto e dedotto dal lavoratore).

Il caso

Il caso oggetto di esame riguarda una lavoratrice che aveva intrapreso un giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendone la condanna al pagamento delle differenze retributive e alla regolarizzazione della posizione previdenziale. Le indicate domande erano state accolte dal giudice di prime cure. Nel prosieguo del medesimo giudizio le parti avevano stipulato una transazione in forza della quale il datore di lavoro aveva corrisposto al lavoratore la somma di € 10.000,00 “per puro spirito di liberalità ed al solo fine di evitare un danno all'immagine ….. senza alcuna relazione con quanto dedotto e richiesto dal lavoratore.” Nelle more, l'INPS aveva iniziato la procedura di recupero coattivo dei contributi per il periodo indicato e la relativa cartella esattoriale non era stata opposta. Tuttavia, dopo l'intervenuta transazione tra datore e lavoratore, l'Istituto previdenziale aveva provveduto, in autotutela, ad annullare la cartella esattoriale ed a richiedere alla lavoratrice, ormai pensionata, la restituzione delle somme corrisposte in più sul trattamento di quiescenza. L'assicurata, pur avendo sottoscritto l'indicata transazione, ha proposto giudizio nei confronti dell'INPS chiedendo la condanna dello stesso Istituto all'accredito dei contributi maturati nel periodo oggetto di transazione nella misura effettivamente dovuta nonché alla conseguente ricostituzione della pensione di vecchiaia di cui era titolare ed al pagamento delle somme spettantile a titolo di differenze sui ratei della medesima pensione.

La questione

La questione sottoposta al vaglio di legittimità riguarda la valenza da attribuire all'accordo intervenuto tra datore e lavoratore e riguardante il rapporto tra di loro esistente, in relazione ai differenti e distinti rapporti contributivo e previdenziale.

È noto che lo svolgimento di un'attività di lavoro subordinato determina il venire ad esistenza di tre differenti rapporti giuridici: il rapporto di lavoro, che sorge tra datore e lavoratore; il rapporto contributivo, che si instaura tra datore ed Ente previdenziale; il rapporto previdenziale che sorge tra lavoratore ed Ente previdenziale.

Gli indicati rapporti giuridici, pur trovando fondamento nel medesimo fatto, lo svolgimento dell'attività lavorativa, mantengono una loro autonomia che consente ai soggetti titolari di ciascuna delle obbligazioni che da essi derivano di non subire le conseguenze derivanti dagli eventuali inadempimenti che dovessero realizzarsi riguardo ad una di esse.

Il rappresentato sistema risulta viepiù avvalorato dall'esistenza di particolari disposizioni attraverso le quali, da un lato, si sanziona con la nullità eventuali accordi transattivi (ovviamente anche quelli che intervengono tra datore e lavoratore) che valgono ad eludere “gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza” (art. 2115 c.c.), dall'altro, si riconosce il diritto del lavoratore alle prestazioni previdenziali anche in ipotesi di mancato versamento della contribuzione da parte del datore (art. 2116 c.c.).

Nel descritto contesto, qualsiasi pattuizione intervenuta tra datore di lavoro e lavoratore non può in alcun modo intaccare o modificare le obbligazioni che la legge pone a carico del medesimo datore in relazione al rapporto contributivo.

Le soluzioni giuridiche

La giurisprudenza di legittimità è sempre stata concorde e consolidata nel ritenere che al fine della costituzione del rapporto previdenziale il contratto di lavoro subordinato rappresenta soltanto un presupposto di fatto che può essere disconosciuto dall'ente previdenziale senza la necessità per quest'ultimo di impugnare il contratto stesso. Pertanto la transazione con cui le parti qualificano come lavoro subordinato il rapporto giuridico tra esse intercorso non spiega alcuna efficacia nei confronti dell'ente previdenziale, il quale ha il diritto-dovere di accertare autonomamente l'esistenza dei requisiti richiesti dalla legge per la costituzione del rapporto previdenziale (Cass. sez. lav., 28 gennaio 1985, n. 473).

In maniera più specifica, si è ritenuto che la transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro sia estranea al rapporto tra quest'ultimo e l'INPS, avente ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, giacché alla base del credito dell'ente previdenziale deve essere posta la retribuzione dovuta e non quella corrisposta, in quanto l'obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste indipendentemente dal fatto che siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d'opera, ovvero che questi abbia rinunziato ai suoi diritti. Pertanto, attesa l'autonomia tra i due rapporti, la transazione suddetta non spiega effetti riflessi nel giudizio con cui l'INPS fa valere il credito contributivo (Cass. sez. lav., 3 marzo 2003, n. 3122).

Di eguale tenore, ancora Cass. sez. lav., 13 agosto 2007, n. 17670 nonché Cass. sez. lav., 5 febbraio 2014, n. 2642.

L'unica voce fuori dal coro è rappresentata dalla sentenza che si commenta.

In questa decisione si sostiene che una transazione intervenuta tra datore e lavoratore nella quale si afferma che tra le medesime indicate parti non vi è mai stato un rapporto di lavoro vale ad “eliminare dal mondo giuridico il pregresso accertamento giudiziale del rapporto di lavoro subordinato, che dell'obbligazione contributiva costituisce indefettibile presupposto”. In altri termini, secondo Cass. sez. lav., n. 19587/2017 la volontà espressa tra datore e lavoratore può valere anche a far venir meno l'obbligazione contributiva.

Osservazioni

Affatto condivisibile è da ritenere l'arresto giurisprudenziale che si commenta.

In effetti, per come ineccepibilmente sostenuto, sul fatto costitutivo dell'obbligazione contributiva, che ha natura di obbligazione pubblica nascente ex lege, non può incidere in alcun modo la volontà negoziale, che regoli in maniera diversa l'obbligazione retributiva, ovvero risolva con un contratto di transazione la controversia insorta in ordine alla natura stessa del rapporto, precludendo alle parti il relativo accertamento giudiziale. La transazione intervenuta tra lavoratore e datore di lavoro è estranea al rapporto tra quest'ultimo e l'INPS, avente ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, giacché alla base del credito dell'ente previdenziale deve essere posta la retribuzione dovuta e non quella corrisposta, in quanto l'obbligo contributivo del datore di lavoro sussiste indipendentemente dal fatto che siano stati in tutto o in parte soddisfatti gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d'opera, ovvero che questi abbia rinunziato ai suoi diritti (Cass. sez. lav., 3 marzo 2003 n. 3122, Cass. sez. lav., 9 aprile 2003 n. 5534). La totale estraneità ed inefficacia della transazione eventualmente intervenuta tra datore di lavoro e lavoratore nei riguardi del rapporto contributivo discende dal principio che, alla base del calcolo dei contributi previdenziali, deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta, in quanto l'espressione usata dalla L. n. 153 del 1969, art. 12, per indicare la retribuzione imponibile ("tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro ...") va intesa nel senso di "tutto ciò che ha diritto di ricevere", ove si consideri che il rapporto assicurativo e l'obbligo contributivo ad esso connesso sorgono con l'instaurarsi del rapporto di lavoro, ma sono del tutto autonomi e distinti. Restando quindi l'obbligazione contributiva completamente insensibile agli effetti della transazione (Cass. sez. lav., 3 marzo 2004 n. 6607), la sussistenza dei crediti di lavoro azionati dal dipendente deve essere accertata indipendentemente dall'accordo concluso tra le parti, al solo fine dell'assoggettamento dei relativi importi (in quanto compresi nella retribuzione dovuta) all'obbligo contributivo. Cass. sez. lav., 13 agosto 2007; Cass. sez. lav., 3 marzo 2003, n. 3122.

A nulla rileva la qualificazione della transazione come novativa o meno. Si tratta, con tutta evidenza, di conseguenze che possono spiegare i loro effetti solo e soltanto nell'ambito del rapporto contrattuale tra datore e lavoratore. L'”eliminazione dal mondo giuridico” del rapporto di lavoro intervenuta per accordo tra le parti contraenti, non può valere ad estinguere una distinta e differente obbligazione che una delle indicate parti è tenuta ad adempiere nei confronti di un soggetto terzo (l'INPS).

La volontà delle parti è certo indispensabile per costituire un rapporto di lavoro subordinato, ma tale volontà, considerata sul piano dell'obbligo contributivo, viene in rilievo puramente come il fatto previsto dalla legge per la nascita dell'obbligazione stessa, restando escluso che la medesima volontà possa in qualche modo influenzare la detta obbligazione una volta sorta. Peraltro, così come il giudicato negativo circa la natura subordinata di un rapporto non può spiegare influenza per i soggetti, rimasti estranei al giudizio, che siano titolari di rapporti del tutto autonomi rispetto a quello su cui è intervenuto il giudicato (Cass. sez. lav., 24 marzo 1999, n. 2795; Cass. sez. lav., 18 maggio 1999, n. 4821), così la transazione tra datore di lavoro e lavoratore non può esplicare effetti riflessi (effetti riflessi che si possono avere solo per rapporti non autonomi) sulla posizione dell'INPS, che ben può far valere in giudizio il credito contributivo derivante dalla legge e non dalla transazione.

Argomentazioni differenti porterebbero a ritenere che in tutte le ipotesi in cui il datore ed il lavoratore si accordano nell'affermare, fittiziamente, come inesistente un rapporto di lavoro realmente sorto tra le stesse parti, verrebbe impedito all'Ente previdenziale di poter richiedere l'adempimento dell'obbligazione contributiva. Appare chiaro che una simile evenienza non trova fondamento alcuno nelle norme che regolamentano la fattispecie. D'altronde, anche l'ultimo comma dell'art. 2115 c.c. che sancisce la nullità di qualsiasi patto diretto ad eludere l'obbligazione contributiva, non fa altro che comminare l'indicata sanzione proprio nelle ipotesi in cui l'accordo intervenuto è diretto ad evitare l'adempimento dell'indicata obbligazione.

Nella prassi, peraltro, capita spesso che negli accordi transattivi che vengono sottoscritti tra datore e lavoratore in relazione alle richieste retributive, soprattutto in ipotesi di svolgimento di c.d. lavoro nero, venga inserita una clausola, quasi di stile, con la quale le parti dichiarano che tra di esse non vi è mai stato un rapporto di lavoro subordinato, pur riconoscendo al lavoratore una somma di denaro che, proprio per evitare conseguenze in ordine all'obbligazione contributiva, viene qualificata come atto di liberalità. Un accordo siffatto, se dovesse risultare fittizio, realizza certamente il presupposto elusivo richiesto dall'art. 2115 c.c.. È ben vero che in ordine al rapporto contributivo l'onere probatorio è posto a carico dell'INPS. Tuttavia, nel caso sottoposto al vaglio di legittimità conclusosi con la decisione di cui si discute, risultava che vi era già stata una sentenza di primo grado che aveva dichiarato l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e con la quale il datore era stato condannato al pagamento della corrispondente retribuzione. Orbene, nel giudizio riguardante l'accertamento del rapporto previdenziale, nel quale si chiede anche l'applicazione del principio di automatismo, è necessario accertare pure l'esistenza del rapporto di lavoro e del conseguenziale rapporto contributivo. In siffatte ipotesi, la sentenza di primo grado resa nella causa tra datore e lavoratore avrebbe dovuto essere valutata come “prova atipica” e, agli elementi di fatto risultanti dalla medesima decisione si sarebbe potuto attribuire valore di indizi da valutare ai sensi dell'art. 116 c.p.c.. (Cass. sez. lav., 3 marzo 2003, n. 3122).

Se si aderisse alla tesi sostenuta nella sentenza che si sta esaminando, si potrebbe addirittura consentire al datore di evitare le conseguenze sanzionatorie, anche penali, previste per lo svolgimento di c.d. lavoro nero. In effetti, se si ritenesse sufficiente per l'accertamento di un rapporto lavorativo solo e soltanto l'accordo formale tra i soggetti contraenti, da un lato si eliminerebbe il potere dell'Istituto previdenziale, prima, e del Giudice, poi, di verificare la corrispondenza della volontà espressa dalle parti al fatto realmente verificatosi, e, dall'altro, si attribuirebbe alle parti medesime un potere di definitiva qualificazione del rapporto che non trova fondamento in alcuna disposizione normativa.

E in questa prospettiva ci si chiede: quale datore di lavoro, pur di evitare l'applicazione delle sanzioni previste per il lavoro nero, non sarebbe disposto ad elargire “liberalità” ai propri dipendenti?

Guida all'approfondimento
  • M. Persiani – M. D'Onghia Fondamenti della Previdenza Sociale, Milano, 2016 pag. 107 e ss.;
  • D. Mesiti, Manuale di Diritto Previdenziale, Giuffrè ed. 2014, pag. 187 e ss.;

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