La restituzione dei versamenti a favore dei soci della fallita, tra bancarotta per distrazione e preferenziale
17 Giugno 2019
Massima
Integra condotta tipica del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione la restituzione ai soci delle somme dagli stessi conferite a titolo di versamenti “in conto capitale” durante il corso della vita della società, ciò alla luce della natura dei versamenti di cui si tratta, che non consente di poterli identificare con il capitale sociale, né di considerarli alla stregua di conferimenti operati dai soci a titolo di mutuo. La restituzione dei versamenti effettuati dai soci a titolo di mutuo, in presenza degli altri elementi costitutivi il reato de qua, integra la fattispecie di bancarotta preferenziale, stante la loro natura di crediti liquidi ed esigibili.
Il caso
Il Tribunale di Teramo aveva condannato l'amministratore di una società di capitali, per il reato di cui all'art. 216 l. fall., ritenendo la natura distrattiva del prelievo della somma di € 220.000,00, a titolo di rimborso dei versamenti effettuati dai soci, ivi compreso l'imputato, a favore della società poi dichiarata fallita. La Corte d'Appello di Aquila, investita del gravame interposto dalla difesa dell'imputato, aveva poi confermato integralmente la sentenza di condanna di primo grado. All'esame della Corte di Cassazione è pervenuto, perciò, il ricorso avverso una doppia sentenza conforme di condanna, per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale sotto il profilo della distrazione di denaro della fallita. Con il ricorso ex art. 606 c.p.p. il difensore dell'imputato ha sollecitato la Suprema Corte ad annullare la condanna del giudice distrettuale, criticandola sotto diversi profili attinenti il travisamento della prova, mancanza e contraddittorietà della motivazione e falsa applicazione della norma incriminatrice, di cui si sarebbe fatta cattiva applicazione nei suoi elementi costitutivi. Per quanto di interesse in questa sede, il terzo motivo di ricorso proposto dalla difesa, e che è stato trovato condiviso dalla Corte di legittimità la quale lo ha accolto, presenta spunti di riflessione che meritano una più approfondita lettura. In particolare, come si vedrà infra, il punto su cui si è focalizzata l'attenzione del ricorrente e che è stato sottoposto a disamina dal Supremo Collegio, riguarda il corretto inquadramento della condotta contestata all'amministratore della fallita nell'ipotesi di bancarotta patrimoniale per distrazione, ovvero, come predicato dalla ricorrente Difesa, nel meno grave reato della bancarotta preferenziale.
Le questioni
Il ricorso proposto dalla difesa dell'imputato avverso la sentenza della Corte distrettuale coglie nel segno limitatamente alla critica concernente la insufficiente (melius: omessa) motivazione sulla corretta qualificazione giuridica della condotta. In particolare, il ricorrente aveva già richiamato l'attenzione dei giudici del merito, nel corso dei due gradi di giudizio precedenti, sulla ricorrenza degli estremi della bancarotta fraudolenta preferenziale, fattispecie in cui si sarebbe dovuta inquadrare la condotta serbata dall'amministratore della fallita, in luogo di quella patrimoniale per distrazione, ritenuta in imputazione e così confermata nelle due sentenze di condanna. Di fatto, la Corte d'Appello, nel confermare la dichiarazione di responsabilità per il fatto distrattivo a carico dell'amministratore imputato, non aveva tenuto in debito conto quanto viceversa dedotto dalla ricorrente Difesa circa la natura dei versamenti che erano stati effettuati dai soci nel corso della vita societaria e la cui restituzione, in un periodo di dissesto, costituiva oggetto del rimprovero penale quale fatto ritenuto sostanzialmente distrattivo, in pregiudizio del patrimonio della società. La Suprema Corte, con la sentenza in esame, ha accolto le critiche del ricorrente su questo punto, ampliando in modo sensibile la disamina delle problematiche sottese alla questione dedotta – passando, cioè, a distinguere pedissequamente i versamenti effettuati dai soci a seconda del titolo e delle finalità a cui gli stessi siano effettuati – per giungere poi all'annullamento della decisione impugnata, con rinvio alla Corte d'Appello per una miglior elaborazione motivazionale della decisione, non escludendosi che tale percorso, possa portare ad una diversa decisione in ordine al corretto inquadramento della condotta illecita dell'imputato rispetto alla normativa fallimentare.
Osservazioni
La sentenza in epigrafe, nella parte che interessa analizzare, ha innanzitutto inteso espressamente escludere che la fattispecie in esame sia assimilabile alla condotta dell'amministratore di società che disponga, in fase di decozione della società, pagamenti a proprio favore a titolo di emolumenti (questione che ha dato luogo, nella giurisprudenza di legittimità e di merito, alle diverse interpretazioni circa il carattere distrattivo o preferenziale della condotta illecita: si veda, tra le altre, Cass. Pen., Sez. V, n. 3797/2018, in questo portale, con nota di Marzari, I compensi dell'amministratore di società fallita, tra bancarotta preferenziale e per distrazione). L'inciso inserito in premessa dalla Suprema Corte non appare, sinceramente, perspicuo, tanto distante si colloca l'argomento che interessa la fattispecie oggetto della decisione in esame, rispetto al tema di cui si è voluta marcare la differenza. Né pare evincersi dal corpo motivazionale, che un parallelo logico-giuridico sia stato avanzato dal ricorrente, tale da doversi motivatamente escludere il ricorrere di questa ipotesi. E tuttavia, il Supremo Collegio è partito da questa premessa per osservare che la stessa problematica alternativa si registra nella giurisprudenza di legittimità, con alterne motivazioni, tra bancarotta per distrazione e bancarotta preferenziale a fronte della condotta dell'amministratore di società che, in fase di dissesto, eroghi a se stesso e/o ad altri soci somme di denaro a titolo di restituzione di versamenti in precedenza effettuati a favore della società stessa. Per porre un'analisi approfondita della questione ed arrivare ad una soluzione convincente, la sentenza che qui si commenta attinge a piene mani ed in più riprese ad istituti di carattere civilistico, sia in maniera diretta, sia evocando l'interpretazione di diritto che su questi istituti hanno fornito le sezioni civili della Suprema Corte. In tal modo, la sentenza ripercorre in modo esaustivo e chiaro la distinzione della natura dei conferimenti dei soci, ponendo un filo diretto tra queste diverse tipologie e le possibili figure di reato ipotizzabili. Ecco, dunque, che la Corte prende in considerazione da un lato i versamenti “in conto capitale”, e dall'altro quelli a titolo di mutuo. I primi sono caratterizzati da denaro conferito dai soci per costituire una riserva, da utilizzare o per scopi prefissati – ad esempio, futuro aumento di capitale o per far fronte a prevedibile periodo di crisi transitoria – o genericamente costituita per ogni evenienza; viceversa i versamenti a titolo di mutuo vengono effettuati dai soci nel corso della vita societaria per esigenze immediate – quali l'approvvigionamento di merci, come nel caso di specie – e costituiscono, perciò, a tutti gli effetti un prestito, oneroso o non oneroso, ed un credito liquido ed esigibile. In buona sostanza, i versamenti “in conto capitale” non entrano a far parte del capitale societario, ma sono assimilabili al “capitale di rischio”, e soprattutto non costituiscono crediti liquidi ed esigibili in capo agli eroganti. A ciò consegue che la restituzione delle somme versate in conto capitale non può essere richieste, né disposta nel corso della vita societaria, ma solo per effetto dello scioglimento della società e secondo il valore delle quote (che può essere diverso dagli importi erogati dai singoli soci). Fatta questa distinzione in punto di diritto tra la natura delle due diverse tipologie di versamenti, la sentenza in commento stabilisce il discrimine tra i diversi reati correttamente prospettabili secondo questo schema: la restituzione, nel corso della vita societaria, di versamenti effettuati “in conto capitale”, non essendo ammissibile per la natura stessa dei versamenti, costituisce fatto sostanziale di distrazione e, se subentra la dichiarazione di fallimento, può integrare bancarotta patrimoniale per distrazione; viceversa, la restituzione di una erogazione a titolo di mutuo al socio, sempre possibile nel corso della vita della società, se avviene in una fase di dissesto patrimoniale, integra una condotta lesiva della par condicio creditorum e dunque, in caso di fallimento, la figura criminosa della bancarotta fraudolenta preferenziale. La disamina che qui si è riepilogata risulta del tutto rilevante nel caso di specie, poiché, come la Suprema Corte ha osservato, il ricorrente imputato aveva dedotto che la natura, in concreto, dei versamenti di cui si era disposta restituzione, aldilà ed indipendentemente della denominazione adottata (“in conto futuro aumento di capitale sociale”), doveva ricondursi a quella del prestito a fronte della necessità immediata dell'approvvigionamento di merci per l'attività commerciale. Questo dato, sulla cui comprovata effettività la Cassazione non è ovviamente entrata, non era tuttavia stato valorizzato minimamente dai giudici di merito nel loro percorso motivazionale, come se esso fosse del tutto ininfluente rispetto la decisione da assumere. Viceversa, la Suprema Corte ha indicato la necessità che il nuovo giudizio di appello si soffermasse sulla disamina del tema circa la natura dei versamenti effettuati e poi restituiti, ponendolo come base imprescindibile per qualificare la condotta illecita dell'amministratore come bancarotta per distrazione, ovvero come la più lieve bancarotta preferenziale. Ultimo dato interessante delle motivazioni della sentenza è la digressione della Cassazione alla previsione dell'art. 2626 c.c., che disciplina la indebita restituzione dei conferimenti quale autonoma figura delittuosa in capo all'amministratore della società e che, nell'ipotesi di dichiarato fallimento, integrerebbe l'ipotesi prevista dal n. 1 dell'art. 223, comma 2, l.fall., per espresso richiamo della norma citata (cd “bancarotta da reato societario”). Ovviamente tale digressione della sentenza è un quid pluris rispetto alle doglianze della Difesa ricorrente, la quale aveva interesse solo ad una riqualificazione nell'ipotesi criminosa più blandamente punita. Essa merita, perciò, cenno per completezza dogmatica cui la Suprema Corte si è prestata prendendo a pretesto l'esame della fattispecie concreta. In sintesi estrema, la tesi invero suggestiva che l'alternativa all'ipotesi della bancarotta preferenziale possa essere quella della bancarotta da reato societario, anziché quella da distrazione, viene respinta dalla sentenza in esame in quanto la previsione dell'art. 2626 c.c. fa riferimento espresso ai conferimenti tesi ad integrare il capitale sociale (sanzionandone la eventuale restituzione), mentre i versamenti “in conto capitale”, per quanto già si è detto, non entrano a far parte del capitale sociale, ne costituiscono una riserva, e come tali sono iscritti separatamente nel bilancio. Ne consegue che, ritenere integrata nel caso di specie, la violazione dell'art. 223, comma 2 n. 1 l. fall. implicherebbe una inammissibile estensione in malam partem della previsione normativa. In ultima analisi, dunque, la conclusione di diritto cui perviene la Cassazione nella decisione in commento è che l'accertamento della diversa natura dei versamenti dei soci è imprescindibile in capo al giudice di merito al fine di qualificare il reato: in bancarotta per distrazione (se sono stati restituiti versamenti in conto capitale) ovvero in bancarotta preferenziale (se si sia proceduto a restituire, in fase di dissesto, somme erogate dai soci a titolo di mutuo). Detta distinzione, laddove dedotta dall'imputato come tema difensivo, deve formare oggetto di espressa motivazione, stante la decisività del tema. Conclusioni
La sentenza oggetto di esame, nel suo articolato percorso motivazionale, si rivela un prezioso ed esaustivo vademecum dei vari istituti di cui la Cassazione civile si è occupata a più riprese, e che vengono esplicitati in modo riassuntivo e molto chiaro. A tale illustrazione dogmatica, che la Corte ha compiuto andando ben oltre l'esigenza motivazionale posta dalla critica contenuta nel ricorso difensivo (si veda la questione dell'art. 2626 c.c.), ha fatto seguito la conclusione sul terreno delle fattispecie penali, come mera conseguenza logica di tutto l'excursus, che resta la parte principale e più interessante – a parere di chi scrive – della decisione assunta.
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