Rischio di recidiva relativo a infezione potenzialmente mortale: come liquidare il danno?

10 Luglio 2019

In caso di malpractice medica che abbia cagionato un'infezione osteomielitica, l'ineliminabile permanenza nell'organismo del paziente del batterio – tale da determinare un rischio di recidiva con esito potenzialmente letale – va considerata fonte di un autonomo danno biologico oppure rappresenta elemento di personalizzazione del danno biologico complessivamente patito dalla vittima?
Massima

Posto che il rischio di recidiva relativo a un'infezione potenzialmente mortale non costituisce fonte di un autonomo danno biologico, il pregiudizio sofferto dal portatore del batterio va valutato quale aspetto del complessivo danno biologico subito dalla vittima.

Il caso

Ricoverata in ospedale, la vittima di un incidente stradale manifesta a una gamba i sintomi di una sindrome compartimentale. Quest'ultima verrà trattata - con un ritardo di quasi dieci giorni – tramite un intervento chirurgico, effettuato presso altra struttura sanitaria specializzata. Durante il ricovero post-operatorio, avvenuto nel reparto di provenienza, viene omessa la somministrazione della necessaria terapia antibiotica, per cui il paziente contrae un'infezione osteomielitica. Il relativo trattamento richiederà un'interminabile serie di ricoveri e interventi chirurgici, culminati dopo molti anni nell'amputazione parziale dell'arto. Le cure non riescono, tuttavia, a eradicare il germe, che – permanendo nell'organismo – determina in capo all'uomo un rischio di recidiva, con esito potenzialmente letale in un 10% dei casi.

Nel giudizio di merito è stato liquidato un danno non patrimoniale da invalidità temporanea per un importo di euro 359.890 e un danno non patrimoniale da invalidità permanente, a fronte dell'amputazione dell'arto inferiore sinistro, pari a euro 152.094, in forza dell'applicazione della massima percentuale di personalizzazione prevista dalle tabelle di Milano. Sul totale, risultante dalla somma dei due importi, viene applicato un ulteriore incremento del 10%, al fine di fornire riscontro alla modificazione peggiorativa della qualità della vita del danneggiato legata al rischio di recidiva.

Il ricorso in Cassazione del danneggiato è motivato dalla mancata considerazione in via autonoma – da parte del giudice di merito - del danno derivante dalla condizione oggettiva di portatore di un ineradicabile batterio, fonte di una possibile infezione futura potenzialmente mortale.

La questione

In caso di malpractice medica che abbia cagionato un'infezione osteomielitica, l'ineliminabile permanenza nell'organismo del paziente del batterio – tale da determinare un rischio di recidiva con esito potenzialmente letale – va considerata fonte di un autonomo danno biologico oppure rappresenta elemento di personalizzazione del danno biologico complessivamente patito dalla vittima?

Le soluzioni giuridiche

La vittima lamenta la mancata considerazione in via autonoma – rispetto all'invalidità legata all'amputazione dell'arto - della propria condizione di portatore di un batterio: tale da determinare - da un lato - una modificazione peggiorativa della qualità della vita, in considerazione dei costanti controlli medici volti a verificare lo stato di salute e – dall'altro lato - uno devastante stato d'ansia legato alla consapevolezza che l'infezione potrebbe nuovamente scatenarsi, con il rischio di un esito letale.

I giudici di legittimità respingono tale istanza, osservando che nella liquidazione del danno effettuata nel giudizio di merito non emergono vuoti risarcitori di sorta in esito all'applicazione del sistema tabellare. Si parte dalla constatazione che il pregiudizio alla salute è destinato a racchiudere al suo interno tutti i profili relazionali, estetici ed esistenziali provocati dalla lesione all'integrità psico-fisica. Di tali ripercussioni tengono conto le tabelle, potendo il giudice procedere alla personalizzazione a fronte di circostanze specifiche ed eccezionali. La S.C. ritiene che a tali indicazioni si sia attenuta la corte di merito, la quale ha apprezzato in termini di personalizzazione la significativa modificazione peggiorativa della vita quotidiana della vittima provocata dalla condizione di portatore del batterio.

La pretesa di vedersi attribuita una somma per il ristoro del danno da rischio recidiva si risolverebbe, secondo la Cassazione, in una questione puramente nominalistica, dal momento che i giudici di appello non hanno mancato di apprezzare sul piano risarcitorio, attraverso specifico riscontro, i riflessi determinati da tale pericolo: si osserva, infatti, che “la Corte territoriale ha escluso che il ‘rischio recidiva' integri un autonomo ‘danno biologico', ma ne ha comunque riconosciuto la natura di pregiudizio risarcibile ex art. 2059 c.c., ritenendolo, infatti, un evento idoneo ad incidere, in termini di una più accentuata ‘sofferenza interiore' (soprattutto legata al timore del suo elevato grado di mortalità) sulla prosecuzione del percorso esistenziale” della vittima.

Osservazioni

Le indicazioni formulate dalla Cassazione, volte a respingere le istanze della vittima, non appaiono condivisibili per quanto riguarda le motivazioni messe in campo. È fuor di dubbio che una qualche considerazione risarcitoria, per quel che concerne la condizione della vittima quale portatore di un pericoloso batterio, sia stata assicurata nel giudizio di merito; ma discutibile appare il percorso attraverso il quale si è pervenuti alla relativa liquidazione.

Si tratta, in effetti, di osservare come la malpractice sia stata fonte di un'infezione nosocomiale (sul punto v. LOMBARDO, Infezioni nosocomiali: gli elementi determinanti della prova liberatoria per la Struttura sanitaria, in Ridare.it), dalla quale sono scaturiti due differenti tipi di menomazioni permanenti, del tutto indipendenti l'una dall'altra. L'ineliminabilità del batterio non appare, infatti, per alcun verso legata all'avvenuta amputazione dell'arto: la situazione della vittima, per quanto riguarda questo specifico profilo di danno, sarebbe stata la medesima, anche laddove non avesse avuto luogo amputazione alcuna ovvero laddove l'intervento necessario venisse ad assumere carattere più radicale, imponendo – per esempio - l'amputazione totale dell'arto. Improprio appare, pertanto, considerare il pregiudizio quale elemento di personalizzazione nel calcolo del danno non patrimoniale legato a quella differente menomazione. Ancora più discutibile appare il legame tra il danno da rischio recidiva e il pregiudizio da invalidità temporanea, posto che la condizione di portatore di un batterio ineliminabile risulta accertata soltanto all'atto della stabilizzazione definitiva della situazione; fino a quel momento, infatti, le terapie poste in atto risultavano rivolte a combattere l'infezione, anche al fine di eliminare in maniera definitiva il germe. Solo alla fine del percorso terapeutico emergerà l'impossibilità di raggiungere quest'ultimo obbiettivo.

Il pregiudizio da prendere in considerazione, discendente dal rischio di recidiva, investe entrambi i profili attraverso cui prende corpo il danno non patrimoniale: sia il piano dinamico-relazionale in vista dei costanti controlli e monitoraggi sanitari imposti dalla situazione, sia il profilo morale, considerati gli effetti psichici deleteri provocati dalla situazione di pericolo. La S.C, nel suo discorso, considera ora l'uno ora l'altro dei due aspetti, senza chiarire che si tratta di due versanti del pregiudizio entrambi i quali andranno tenuti debitamente in conto.

Posto l'opportunità di prendere in considerazione in maniera autonoma la fattispecie lesiva consistente nel aver determinato in capo alla vittima la condizione di portatore di un batterio potenzialmente letale, per la liquidazione del relativo pregiudizio appare possibile far capo alle indicazioni provenienti da due distinti campi dell'illecito. Da un lato, emerge una sostanziale analogia con i casi in cui, a causa di emotrasfusioni infette, il trattamento medico abbia provocato il contagio con il virus dell'HIV oppure dell'epatite C. Altre indicazioni utili possono, dall'altro lato, essere ricavate dal campo del danno da pericolo, attraverso il riferimenti alla casistica relativa all'esposizione all'amianto o ad altre sostanze tossiche. Va rammentato, in particolare, quanto statuito in passato dalla Cassazione a fronte del famoso caso di inquinamento da diossina avvenuto a Seveso. Le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 21 febbraio 2002, n. 2515) hanno provveduto, pur in assenza di qualsiasi lesione all'integrità psico-fisica, a riconoscere il danno morale dei soggetti vittime della fuga di diossina, per le sofferenze e i patemi d'animo derivanti dall'esposizione a sostanze tossiche e per le limitazioni subite nel normale svolgimento della loro vita.

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