Cessione fittizia di usufrutto di quote sociali
18 Luglio 2019
Massima
Il disconoscimento, per interposizione ex art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, di un contratto di cessione di quote societarie determina il ripristino della situazione anteriore alla cessione. Nella specie, vi era stato un doppio disconoscimento, sia "interno" alla società, quanto alla cessione di quote e sia "esterno" alla compagine societaria, quanto alla cessione a terzi del diritto di usufrutto. La cessione intrasocietaria fittizia delle quote, come pure la cessione, altrettanto fittizia, del diritto di usufrutto, non comportava peraltro alcuna ipotesi di litisconsorzio necessario, dato che l'unico soggetto pregiudicato dall'avviso di accertamento era la contribuente in giudizio, mentre i redditi sia della società che dell'altro socio erano rimasti invariati.
Il caso
L'Agenzia delle Entrate emetteva due avvisi di accertamento nei confronti di una contribuente, per gli anni 2006 e 2007, contestando che la stessa aveva solo fittiziamente trasferito la sua quota sociale ad altra società, continuando, in realtà, a percepire la quasi totalità degli utili, nonostante fosse rimasta mera nuda proprietaria. Nè rilevava la cessione della sua quota sociale del 29% (complessivamente del 30%) al figlio, restando così la stessa formalmente proprietaria solo dell'1% delle quote. In virtù del fittizio contratto di cessione del diritto di usufrutto delle quote sociali vi era quindi stata, secondo l'Amministrazione finanziaria, interposizione fittizia della società cessionaria nell'imputazione degli utili sociali, laddove la stessa cessionaria aveva peraltro compensato il reddito da partecipazione con i costi derivanti dall'acquisto dei diritti di usufrutto di altre società, alcune delle quali in perdita da almeno tre anni. Erano stati, quindi, disconosciuti ai sensi dell'art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/1973, gli effetti fiscali del contratto di cessione dell'usufrutto sulle quote di partecipazione, trattandosi, secondo l'Ente accertatore, di atto simulato e stipulato solo per evitare la tassazione dei redditi. La Commissione Tributaria Regionale rigettava l'appello proposto dalla contribuente contro la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, che aveva respinto il ricorso della contribuente. La questione
Avverso la sentenza di secondo grado la contribuente proponeva ricorso per cassazione, deducendo, per quanto qui di interesse, violazione e falsa applicazione dell'art. 5 del Tuir ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, laddove per la Commissione Tributaria Regionale il recupero a tassazione originava dalla fittizietà delle cessioni del diritto di usufrutto sulle quote sociali e si fondava sull'assunto che gli utili, anche dopo le cessioni, continuavano ad essere imputabili ai soci, ormai solo nudi proprietari, in proporzione della quota di partecipazione. Tuttavia, evidenziava la ricorrente, lei aveva solo l'1% delle quote, sicchè ai sensi dell'art. 5 del d.P.R. n. 917/1986, solo per tale misura gli utili potevano esserle attribuiti. Il giudice di appello non aveva quindi tenuto conto che aveva ceduto il 29% delle proprie quote sociali all'altro socio, restando titolare, dopo la cessione delle quote di usufrutto, della nuda proprietà solo dell'1% delle quote e non del 30% come ipotizzato dall'Agenzia. L'assunto decisivo non era, del resto, ammetteva la stessa ricorrente, che gli utili andassero attribuiti al nudo proprietario, ma che le cessioni di usufrutto erano fittizie e che gli utili andassero quindi imputati pro quota ai nudi proprietari. Ma la fittizietà della cessione di quote tra soci, secondo la ricorrente, non era stata provata. La ricorrente deduceva poi violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 59 d.lgs.. n. 546/1992, in quanto la sentenza si fondava sull'assunto che le quote di spettanza degli utili tra i due soci, fossero diverse da quelle risultanti dall'assetto civilistico dichiarato dalle parti. La ripresa a tassazione era quindi fondata su una diversa attribuzione delle quote sociali ai soci e pertanto sussisteva litisconsorzio necessario tra i soci, le cui quote di spettanza erano risultate modificate. Con altra censura la contribuente deduceva poi la violazione dell'art. 40 d.P.R. n. 600/1973 e dell'art. 5 d.P.R. n. 917/1986, asserendo che, in base al principio di trasparenza, il reddito delle persone fisiche socie di società di persone è indissolubilmente legato al reddito loro attribuito dalla società nella dichiarazione del reddito. Pertanto, nessun accertamento di una diversa quota di utile poteva essere attribuita ai soci senza la previa rettifica della dichiarazione dei redditi della società. Le soluzioni giuridiche
Secondo la Suprema Corte il ricorso era infondato. La prima censura sopra evidenziata era innanzitutto inammissibile. Evidenziano infatti i giudici di legittimità che la Commissione Tributaria Regionale aveva chiarito che "il trasferimento della nuda proprietà di una quota sociale, invero, non comporta che il nuovo nudo proprietariopossa percepire gli utili relativi, che restano attribuiti all'usufruttuaria, come frutti del capitale investito e ormai di proprietà nuda dell'altro socio". Tale motivazione, pur nella sua stringatezza, prendeva in esame anche la questione relativa alla cessione di quote. La frase "non comporta che il nuovo nudo proprietariopossa percepire gli utili relativi" non poteva infatti che fare riferimento al disconoscimento degli effetti di tale cessione intrasocietaria. Non si faceva riferimento, quindi, solo alla fittizietà del trasferimento del diritto di usufrutto sulle quote a terzi, ma anche al disconoscimento del contratto di cessione, con il quale alla contribuente restava solo l'1% delle quote sociali. La contribuente, dunque, aveva il 30% sia della nuda proprietà che del diritto di usufrutto sulle quote di partecipazione detenute nella società, laddove il disconoscimento del contratto di cessione delle quote, sia della nuda proprietà che dell'usufrutto, determinava il ripristino della situazione anteriore alla cessione per entrambe le situazioni giuridiche (sia la nuda proprietà sia l'usufrutto). Insomma, i disconoscimenti effettuati erano due: il primo atteneva alla cessione di quote intrasocietaria e il secondo alla cessione del diritto di usufrutto. E la motivazione sul punto della Commissione, pur se estremamente sintetica, chiariva infatti che vi era stato un doppio disconoscimento, sia "interno" alla società (cessione di quote) e sia "esterno" alla compagine societaria (cessione a terzi del diritto di usufrutto). La ricorrente, invece, nel motivo di ricorso trascurava completamente la circostanza che il giudice di appello si era espresso inequivocabilmente anche con riferimento alla "cessione infrasociateria" della nuda proprietà delle quote, tanto da affermare che "il trasferimento della nuda proprietà di una quota sociale, invero, non comporta che il nuovo nudo proprietario possa percepire gli utili relativi". Aggredendo la motivazione della sentenza unicamente sotto il profilo della dedotta erronea asserzione del giudice del gravame che gli utili spettavano all'usufruttuaria e non al nudo proprietario, la ricorrente non aveva quindi colto la vera ratio della decisione di appello, incorrendo così nel difetto di specificità del motivo di impugnazione. La seconda censura sopra evidenziata, secondo la Cassazione, era invece infondata. Sussiste infatti il litisconsorzio necessario, ai sensi dell'art. 14 d.lgs. n. 546/1992, solo nel caso in cui il reddito della società di persone venga imputato per "trasparenza" ai singoli soci, costituendo principio ormai consolidato quello per cui, in materia tributaria, l'unitarietà dell'accertamento, che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui all'art. 5 d.P.R. n. 917/1986 e dei soci delle stesse, e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, proporzionalmente alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci - salvo il caso in cui questi prospettino questioni personali -, sicchè tutti questi soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi. Tali tipi di controversie, infatti, non hanno ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell'obbligazione dedotta nell'atto autoritativo impugnato, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario. Conseguentemente, il ricorso proposto anche da uno soltanto dei soggetti interessati impone l'integrazione del contraddittorio (salva la possibilità di riunione ai sensi del successivo art. 29) ed il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorzi necessari è affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio (cfr., Cass., Sez. Un., 4 giugno 2008, n. 14815; Cass., 20 giugno 2012, n. 10145). Nella specie, però, sottolinea la Corte, l'accertamento non aveva avuto ad oggetto il reddito della società, che era rimasto del tutto immutato, ma soltanto l'imputazione di tale reddito ai due soci, dopo che uno aveva ceduto il 29% delle sue quote (pari al 30%) all'altro e la società aveva ceduto il diritto di usufrutto delle quote ad altra società. E, con l'avviso di accertamento in contestazione, si era ritenuto che la cessione intrasocietaria delle quote, come pure la cessione del diritto di usufrutto, fosse fittizia, tanto che i redditi attribuiti alla società cessionaria erano stati riconosciuti per il 30% in capo alla ricorrente e per il restante 70% in capo all'altro socio. L'unico soggetto pregiudicato dall'avviso di accertamento era, allora, la contribuente in giudizio, mentre i redditi della società e dell'altro socio erano rimasti invariati. Anche l'ultima censura, secondo la Suprema Corte, era infine infondata. Come correttamente deciso dal giudice di appello, nella specie, non vi era stata infatti, come già detto, alcuna rettifica del reddito della società di persone, operando, quindi, il principio di trasparenza di cui all'art. 5 d.P.R. n. 917/1986, con attribuzione ai soci dei redditi della società in proporzione alla (effettiva) rispettiva quota di partecipazione.
Osservazioni
A prescindere dallo specifico caso processuale, più in generale, giova evidenziare quanto segue.In tema di interposizione, la norma di cui all'art. 37, comma 3, d.P.R.. n. 600/1973 attribuisce all'Amministrazione finanziaria il potere di imputare al contribuente i redditi di cui appaiano titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l'effettivo possessore per interposta persona. Si ricorda, del resto, che la fattispecie dell'interposizione non va confusa con l'elusione.Nell'elusione le parti dell'operazione sono infatti effettivamente quelle che risultano dagli atti o negozi.Nell'interposizione (fittizia) invece le parti vere (interposte) sono diverse da quelle che appaiono all'esterno (interponenti). Questo è il caso, appunto, della simulazione relativa soggettiva, nella quale l'interponente esprime la volontà "effettiva", mentre l'interposto manifesta una volontà solo apparente.Quando una persona fisica o giuridica interpone tra sé e il Fisco un altro soggetto, si crea dunque una situazione in cui l'apparenza mira a mascherare la realtà.Diversamente, con l'elusione/abuso si pone in essere un negozio effettivamente voluto dalle parti, disciplinato nei suoi effetti “tipici” dall'Ordinamento, ma con una sostanziale distorsione di quegli stessi effetti, che diventano irrilevanti o comunque secondari rispetto al vero obiettivo (non contemplato dall'Ordinamento), consistente nel raggiungimento dell'obiettivo fiscale.
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