Il perimetro giurisprudenziale del ne bis in idem in materia di abusi di mercato ed il dialogo multilivello fra le Corti
08 Ottobre 2019
Massima
In materia di abusi di mercato, il principio del ne bis in idem – letto nella prospettiva preminentemente sostanziale assunta alla stregua dei più recenti e convergenti orientamenti delle Corti europee e della Corte costituzionale – comporta che il giudice penale deve limitarsi a verificare la legittimità del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato, valutando la proporzionalità del cumulo della sanzione formalmente amministrativa con quelle penali, rispetto al disvalore globale del fatto costituente anche delitto (nella specie: insider trading). Solo nel caso eccezionale in cui la prima, già irrogata da Consob e divenuta irrevocabile, assorba interamente tale disvalore, in applicazione diretta dell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali il giudice penale dovrà determinare le sanzioni penali anche attraverso la disapplicazione in mitius del minimo edittale normativamente stabilito, fermo restando, con riguardo alla reclusione, il limite minimo insuperabile dettato dall'art. 23 c.p. e, con riguardo alla multa, il meccanismo “compensativo” di cui all'art. 187-terdecies TUF. Il caso
Tizio era stato condannato nel 2011 dal Tribunale di Milano ad un anno di reclusione e 50 mila euro di multa per il delitto di abuso di informazioni privilegiate (c.d. insider trading), di cui all'art. 184, lett. b), d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, e success. modifiche (d'ora in poi: TUF), avendo comunicato a più soggetti non legittimati notizie price sensitive sul valore - stimato come ben superiore a quello di mercato - delle azioni Italease: informazioni apprese nell'ambito della sua attività professionale di analista di Citigroup, con raccomandazione quindi di acquistarle, comunicate a terzi fuori dal normale esercizio della sua professione ed anzi in violazione delle regole di riservatezza stabilite da detto gruppo in materia di ricerche di mercato. La sentenza, che ha comportato anche la condanna al risarcimento dei danni a favore di Consob, quale parte civile che aveva altresì fornito il principale materiale probatorio acquisito nel corso della propria indagine amministrativa sul medesimo fatto, in quanto sanzionato anche come illecito amministrativo dall'art. 187-bis TUF, veniva sostanzialmente confermata dalla Corte d'appello di Milano nel 2013, dopo che nelle more era divenuta definitiva la sanzione pecuniaria di 350 mila euro inflitta dalla stessa Consob per il predetto illecito amministrativo. La Corte di Cassazione, investita dal ricorso dell'imputato, con ordinanza del 2015 rimetteva gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale concernente l'art. 187-bis, comma 1, TUF, nella parte in cui sanziona l'illecito amministrativo con la clausola: “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato” anziché prevedere quella di sussidiarietà: “Salvo che il fatto costituisca reato”, così consentendo l'applicazione di entrambe le tipologie di sanzioni, in violazione dell'art. 117 comma 1 Cost., rispetto alla “norma interposta” di cui all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98 (d'ora innanzi: Protocollo n. 7 CEDU); ed, in subordine, la questione concernente l'art. 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede il divieto di un “secondo” giudizio, nel caso in cui all'imputato sia stata applicata con provvedimento irrevocabile per il medesimo fatto la sanzione amministrativa pecuniaria, avente in effetti natura punitiva, alla stregua dei c.d. criteri Engel (così denominati a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi, costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento: il primo requisito essendo dato dalla qualificazione giuridica operata dalla legislazione nazionale; il secondo dalla natura della misura, che non deve consistere in mere forme di compensazione pecuniaria per un danno subito, ma deve essere finalizzata alla punizione del fatto per conseguire effetti deterrenti; il terzo costituito dalla gravità delle conseguenze in cui l'accusato rischia di incorrere). La Corte costituzionale, con sentenza 8 marzo – 12 maggio 2016, n. 102, ha dichiarato inammissibili entrambe le questioni sollevate (unitamente a quella sollevata, sempre nel 2015, dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione sull'art. 187-ter, comma 1, TUF, che parimenti prevede la comminatoria della sanzione amministrativa per il diverso illecito di manipolazione del mercato, accanto a quella penale stabilita, per il medesimo fatto costituente anche delitto, dall'art. 185 TUF). Il Giudice delle leggi, infatti, ha ritenuto che la questione sollevata in via principale non sarebbe stata rilevante nel giudizio a quo, concernendo una disposizione (l'art. 187-bis TUF), che aveva già ricevuto definitiva applicazione dall'autorità amministrativa, mentre la Corte di Cassazione doveva giudicare del reato di cui all'art. 184 cit. e non avrebbe potuto evitare la lamentata violazione del ne bis in idem, dovendo comunque proseguire il giudizio penale (Corte cost. 102/2016, cit., § 6.1). Del resto, sul piano sistematico l'intervento richiesto avrebbe ecceduto lo scopo, perché in base alla consolidata giurisprudenza europea, il divieto di bis in idem avrebbe avuto “carattere processuale, e non sostanziale, permettendo agli Stati aderenti di punire il medesimo fatto a più titoli, e con diverse sanzioni”, purché “in un unico procedimento o attraverso procedimenti fra loro coordinati, nel rispetto della condizione che non si proceda per uno di essi quando è divenuta definitiva la pronuncia relativa all'altro”, spettando al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per evitare le frizioni che il sistema del “doppio binario” – di per sé legittimo - genera rispetto al principio in questione. Quanto alla seconda questione, sollevata in via subordinata, per la Corte si richiedeva un intervento “additivo” rispetto alla previsione di cui all'art. 649 c.p.p., che avrebbe creato in realtà “incertezza quanto al tipo di risposta sanzionatoria – amministrativa o penale – che l'ordinamento ricollega al verificarsi di determinati comportamenti, in base alla circostanza aleatoria del procedimento definito più celermente” senza poter determinare “un ordine di priorità, né altra forma di coordinamento, tra i due procedimenti” (Corte cost. 102/2016, cit., § 6.2). Mentre nel procedimento rimesso alla sezione tributaria della Corte di Cassazione veniva allora sollevata questione interpretativa pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, sul quesito se l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali ostasse o meno a tale duplicazione di sanzioni e ne imponesse o meno la disapplicazione diretta da parte del giudice nazionale, la sezione penale della Cassazione rinviava per ben due volte la propria decisione, in attesa di quelle dapprima della Grande Camera della Corte di Strasburgo, che si pronunciava in argomento con la famosa sentenza 16 novembre 2016, A. e B. contro Norvegia, e poi della Corte di Giustizia dell'Unione europea, che si pronunciava a sua volta con tre sentenze in data 20 marzo 2018, nelle cause C-524/15 Menci; C-537/16 Garlsson Real Estate e al. (sulla menzionata questione rimessa dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione), nonché C-596/16 Di Puma e Zecca, concernenti altrettanti rinvii pregiudiziali in materia di abusi di mercato ed illeciti tributari che ponevano questioni simili di “doppio binario” sanzionatorio. È così paradigmaticamente dimostrata, dallo svolgimento di questa intrecciata vicenda processuale, non solo la rilevante evoluzione giurisprudenziale che si è avuta in materia, ma anche la volontà e rilevanza del dialogo fra le diverse Corti, che ha portato infine la Cassazione, con la sentenza in commento, ad individuare alcuni criteri concreti che devono orientare il Giudice nazionale nel riconoscimento e nell'applicazione del principio del ne bis in idem, nelle ipotesi di una disciplina che preveda un “doppio binario” sanzionatorio, valorizzando le indicazioni di alcune precedenti in cui esso è venuto in rilievo, fra cui in specie quella di poco anteriore sull'art. 185 TUF (Cass. sez. V, 16 luglio 2018, n. 45829, Franconi et al.). Le questioni giuridiche e la soluzione
La Corte di Cassazione ricorda il punto di partenza delineato dalla giurisprudenza europea, che - come ha sottolineato la Corte costituzionale con la sentenza in data 24 gennaio 2018, n. 43, intervenuta nelle more del processo in esame - ha visto un “mutamento del significato della normativa interposta”, vale a dire dell'art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU contenente il principio del ne bis in idem, in forza della pronuncia della Grande Camera della Corte di Strasburgo 16 novembre 2016, A. e B. contro Norvegia, cheoggi “esprime il diritto vivente europeo”. Con tale sentenza è stato fortemente ridimensionato il precedente orientamento, espresso con la sentenza Grande Stevens del 2014, che tante difficoltà e problemi aveva creato negli Stati aderenti, per la sua formale rigidità nel proibire la duplicazione di procedimenti per il medesimo fatto, venendo invece riaffermato che gli Stati devono potere adottare risposte giuridiche complementari, di fronte ad alcuni comportamenti socialmente inaccettabili, per mezzo di varie procedure che formino un insieme coerente, in maniera tale da trattare nei suoi diversi aspetti il fatto illecito da sanzionare, purché le risposte combinate non rappresentino un onere eccessivo per il soggetto interessato e punito. La natura del ne bis in idem convenzionale è così profondamente cambiata: da principio eminentemente processuale, rappresentato dal divieto di un doppio processo, ancor prima che di una doppia sanzione “punitiva”, a garanzia di tipo sostanziale: i due procedimenti, infatti, non solo possono iniziare, ma anche concludersi, purché la risposta sanzionatoria derivante dal cumulo delle due sanzioni inflitte nei diversi procedimenti, sia complessivamente proporzionata alla gravità del fatto e prevedibile. Nulla vieta infatti ai legislatori nazionali di predisporre un “doppio binario” sanzionatorio ed alle autorità preposte di percorrerlo fino alle rispettive decisioni. Ma viene affidato al giudice nazionale il compito di stabilire quando ci si trovi, o meno, in presenza di un bis in idem, valutando in specie se, avuto riguardo alle peculiarità dei casi di specie, i procedimenti che vengono in rilievo presentino – oltre ai due presupposti dell'identità del fatto storico e della natura sostanzialmente penale di entrambe le sanzioni - l'ulteriore requisito di un “nesso materiale e temporale sufficientemente stretto” (''sufficiently close connection in substance and time"). A tal finela Corte europea ha individuato alcuni criteri che i Giudici nazionali dovranno prendere in considerazione, vale a dire, sotto il profilo del nesso materiale: a) il perseguimento, da parte dei procedimenti sanzionatori, di scopi differenti e il loro tenere conto di profili diversi della medesima condotta antisociale; b) la "prevedibilità" del doppio giudizio; c) la conduzione dei procedimenti in modo da evitare, per quanto possibile, la duplicazione nella raccolta e nella valutazione della prova; d) la "proporzione complessiva" della pena; e) l'appartenenza delle fattispecie in oggetto al "nucleo duro" del diritto penale e, dunque, caratterizzate da forme accentuate di stigma sociale; mentre, sotto il profilo temporale, è stata evidenziato il requisito f) della presenza di un collegamento di natura cronologica fra i procedimenti, che devono essere sufficientemente vicini nel senso di non protrarsi eccessivamente nel tempo, affinché la persona sottoposta alla giustizia non lo sia per un periodo irragionevolmente prolungato. Tale profondo cambiamento del diritto vivente europeo è stato ben colto ed accettato dalla nostra Corte costituzionale, con la menzionata sentenza del 2018, con cui ha restituito gli atti al giudice a quo, ai fini di una nuova valutazione sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, perché se esso “ritenesse che il giudizio penale è legato temporalmente e materialmente al procedimento tributario al punto da non costituire un bis in idem convenzionale, non vi sarebbe necessità […] di introdurre nell'ordinamento alcuna regola che imponga di non procedere nuovamente per il medesimo fatto” incidendo sull'art 649 c.p.p., come invece era stato prospettato nell'ordinanza di rimessione (C. Cost. n. 43/2018, § 8). La Corte di Cassazione è così giunta a sua volta a affermare che il principio del ne bis in idem opera sulla base di un “apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega il procedimento penale e quello solo formalmente amministrativo” e che “il criterio eminente per affermare o negare il legame tra detti procedimenti è quello relativo all'entità della sanzione complessivamente irrogata: di grande rilievo, in tal senso, è il fondamento del canone di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio” (par. 8.5), che ha evidentemente, quale termine di confronto, la gravità del fatto commesso (par. 8.2, richiamandosi alle citate sentenze della Corte di Giustizia UE 20 marzo 2018, Menci, § 55, e Garlsson Real Estate § 56). Per verificare la sussistenza o meno del requisito della proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato dunque “il giudice comune deve valutare la proporzionalità del cumulo sanzionatorio rispetto al disvalore del fatto, da apprezzarsi con riferimento agli aspetti propri di entrambi gli illeciti (quello penale e quello “formalmente” amministrativo) e, in particolare, agli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato (anche sotto il profilo dell'incidenza del fatto sull'integrità dei mercati finanziari e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), tenendo conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo ‘compensativo' di cui all'art. 187-terdecies TUF” (Cass. par. 10, 10.1). Qualora il Giudice penale – intervenendo dopo la definitiva applicazione della sanzione amministrativa - pervenga ad una valutazione di incompatibilità del complessivo trattamento sanzionatorio con la garanzia del ne bis in idem, perché sproporzionato rispetto al fatto contestato, “dovrà dare corso all'applicazione diretta del principio garantito dall'articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, disapplicando le norme interne che definiscono il trattamento sanzionatorio” (par. 11). Ma “solo in presenza di una sanzione irrevocabile idonea, da sola, ad ‘assorbire' il complessivo disvalore del fatto, il giudice comune dovrà disapplicare in toto la norma che commina la sanzione non ancora irrevocabile, così escludendone l'applicazione”. Ad avviso della Corte, “si tratta di ipotesi, che (…) sono potenzialmente suscettibili di venire in rilievo nel caso in cui la valutazione circa la violazione del ne bis in idem riguardi la sanzione amministrativa, essendo già divenuta irrevocabile quella penale (ossia nel caso preso in considerazione dalla sentenza Garlsson Real Estate): sanzione penale, evidentemente, determinata in termini di particolare severità rispetto al disvalore complessivo del fatto” (par. 11). Invece, “nel caso opposto in cui (…) la sanzione divenuta irrevocabile sia quella irrogata da Consob, la disapplicazione in toto della norma sanzionatoria penale può venire in rilievo in ipotesi del tutto eccezionali, in cui la sanzione amministrativa – evidentemente attestata sui massimi edittali in rapporto ad un fatto di gravità, sotto il profilo penale, affatto contenuta – risponda, da sola, al canone della proporzionalità nelle diverse componenti riconducibili ai due illeciti. Fuori dall'ipotesi del tutto eccezionale appena richiamata, l'accertamento dell'incompatibilità del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato rispetto alla garanzia del ne bis in idem comporta, nel caso di sanzione amministrativa già divenuta irrevocabile, esclusivamente la rideterminazione delle sanzioni penali attraverso la disapplicazione in mitius della norma che commina dette sanzioni – non già in toto, ma – solo nel minimo edittale” (par. 11). Su tali basi, la Corte giunge ad enunciare un principio di diritto, che recita come segue. “In tema di abusi di mercato, nel caso in cui la sanzione irrogata da Consob sia già divenuta irrevocabile, la verifica del giudice penale circa la legittimità, rispetto al principio del ne bis in idem, del trattamento sanzionatorio complessivamente irrogato all'autore degli illeciti – fuori dall'ipotesi del tutto eccezionale (…) in cui la sanzione amministrativa sia, da sola, proporzionata al disvalore del fatto, valutato alla luce degli aspetti propri di entrambi gli illeciti e, in particolare, degli interessi generali sottesi alla disciplina degli abusi di mercato – può comportare esclusivamente la rideterminazione delle sanzioni penali attraverso la disapplicazione in mitius della norma che commina dette sanzioni solo nel minimo edittale, con esclusione della multa, in virtù del meccanismo “compensativo” di cui all'art. 187-terdecies TUF, e, con riguardo alla reclusione, fermo restando il limite minimo insuperabile dettato dall'art. 23 cod. pen.” (par. 11.3). Osservazioni
La sentenza in epigrafe merita segnalazione, perché tenta di assolvere il non agevole compito affidato dai Giudici europei ai giudici nazionali, di distinguere in concreto - sulla base dei criteri astratti enunciati nelle sentenze europee sopra richiamate - i casi in cui la doppia sanzione appaia proporzionata al fatto commesso, con conseguente rispetto del ne bis in idem di matrice europea, da quelli nei quali la duplicazione fornisca una risposta sanzionatoria nel complesso eccessivamente gravosa, in violazione di tale principio. La Cassazione dunque ha individuato ulteriori criteri, volti ad indirizzare il Giudice del merito nello svolgimento del descritto compito di discernimento. segnando un importante punto d'approdo, nel lungo percorso giurisprudenziale di riconoscimento, da un lato, e di perimetrazione, dall'altro, della portata concreta del principio o, meglio, del “diritto fondamentale” rappresentato dal divieto di bis in idem. Se nel caso più frequente di definitiva irrogazione della sanzione amministrativa non è preclusa la prosecuzione del procedimento penale fino alla condanna, salva la delimitazione del carico sanzionatorio complessivo alla stregua del principio di proporzionalità, nel caso - più raro - di previa applicazione definitiva della sanzione penale si può giungere ad un completo “assorbimento” in essa dell'istanza punitiva, che determini l'inapplicabilità di quella amministrativa e l'estinzione del relativo procedimento, previa verifica - anche in tal caso - della “proporzione” del carico sanzionatorio complessivamente irrogato rispetto all'unico fatto commesso. Trattandosi nella specie di un caso in cui la sanzione formalmente amministrativa è stata invece applicata definitivamente prima di quella penale, è questa che dovrà essere determinata dal Giudice di merito nel rispetto del principio di proporzione, se del caso disapplicando direttamente – in quanto si tratta di materia rientrante nella sfera di competenza del diritto dell'Unione - i limiti edittali minimi della pena detentiva stabiliti dalla legge nazionale, laddove impediscano tale risultato, dato che il meccanismo compensativo stabilito dall'art. 187-terdecies TUF per l'esecuzione delle sole sanzioni pecuniarie è del tutto inoperante. Nel rispetto della sua cognizione di legittimità, la Cassazione non ha peraltro potuto chiudere definitivamente la paradigmatica vicenda processuale del caso Chiarion Casoni ed ha rinviato alla Corte d'appello competente, perché operi una valutazione di merito per la rideterminazione del concreto trattamento punitivo di natura penale. Conclusioni
Per arrivare alle conclusioni esposte, che hanno il pregio di aver portato la complessa materia ad una miglior chiarezza sistematica, la Corte ha operato una ricostruzione assai attenta del lungo dialogo fra le Corti, sviluppatosi su più livelli: quello “convenzionale” della Corte di Strasburgo, che muove dall'interpretazione dell'art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU; quello della Corte di giustizia dell'Unione europea, che muove invece dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, ma deve necessariamente tener conto dell'interpretazione del medesimo diritto data dalla Corte di Strasburgo, per garantire un livello non inferiore di tutela, come impone l'art. 52 della Carta citata; quello del fondamentale diritto alla “proporzione” fra reato e pena, sancito dall'art. 49 della stessa Carta; quello nazionale, articolato fra gli interventi della Corte costituzionale, via via adeguatasi agli sviluppi del “vivente” diritto europeo sia convenzionale che dell'Unione, come richiedono gli artt. 11 e 117 Cost.; e infine quelli della Corte di Cassazione, che ha dimostrato di conformarsi all'interpretazione del giudice delle leggi, oltre che delle menzionate Corti europee. Non è questa la sede per ripercorrere in modo analitico questa lunga evoluzione, del resto tracciata ampiamente nella pregevole motivazione della sentenza. Interessa piuttosto sottolineare due aspetti essenziali, che rendono apprezzabile l'intervento nomofilattico della nostra Corte di legittimità. Da un lato, il riconoscimento della necessaria flessibilità applicativa del principio, di cui deve essere sempre salvaguardato l'essenziale nucleo sostanziale (il diritto a non subire una duplicazione di pena per lo stesso fatto), piuttosto che processuale (in quanto si può dare invece, nei limiti precisati, una duplicazione di processi per lo stesso fatto), fermo il necessario bilanciamento con altri interessi meritevoli di rilievo pubblico, che spetta al giudice operare in concreto, come del resto accade nel definire i limiti di tutela di ogni diritto che, seppur “fondamentale”, non sia assoluto. Dall'altro lato, la distinzione della precipua natura e ragion d'essere della sanzione penale in senso stretto, rispetto a quella formalmente amministrativa, che pur potendo avere contenuto “punitivo” e, dunque, rientrare nella “materia penale” ai fini delle garanzie convenzionali da applicare, sulla base dei ricordati criteri Engel, non è però tale da sostituire o far venir meno la ragion d'essere della prima: tanto che è legittimo il “doppio binario” voluto dal legislatore nazionale, in conformità del resto alle stesse previsioni europee nel campo degli abusi di mercato (come in quello, molto simile, degli illeciti in materia finanziaria), ed è compatibile con il principio del ne bis in idem che i suoi effetti pratici dipendano, fin a poter avere un diverso esito pratico, dalla successione che si abbia in concreto nell'applicazione definitiva delle due specie di sanzioni. La giurisprudenza, in conclusione, non sembra affatto essersi arrogata il ruolo di autonoma “fonte” del diritto, né si è persa nel presunto “labirinto” dell'inevitabile complessità giuridica dei nostri tempi, ma ha dimostrato piuttosto una pregevole capacità di orientarvisi e di svolgere la funzione ermeneutica che le è propria, tramite una motivata lettura sistematica ed evolutiva della disciplina giuridica “vivente”, via via precisatasi nel dialogo fra le Corti ai diversi livelli esaminati, sollecitato dall'incessante confronto con i diversi casi da risolvere e con gli effetti pratici delle decisioni, pervenendo, con logici passaggi argomentativi, ad una decisione coerente con i criteri applicativi di portata più generale che ha opportunamente formulato, adempiendo al suo delicato ruolo nomofilattico. |