In manicomio dall'età di nove anni: leso il diritto ad avere una famiglia

17 Ottobre 2019

Il danno non patrimoniale non può riconoscersi a titolo di danno biologico in assenza di una lesione all'integrità psicofisica medicalmente accertabile; rileva invece, quale lesione di un diritto fondamentale della persona, il trattamento inappropriato di un minore in stato di abbandono..
Massima

Il danno non patrimoniale non può riconoscersi a titolo di danno biologico in assenza di una lesione all'integrità psicofisica medicalmente accertabile; rileva invece, quale lesione di un diritto fondamentale della persona, il trattamento inappropriato di un minore in stato di abbandono (nella specie, ricovero in ospedale psichiatrico in assenza di patologie) cui consegua la perdita della chance di essere inserito in una famiglia, la preclusione di un percorso di studio adeguato e la perdita della possibilità di svolgere una attività lavorativa richiedente un'istruzione.

Il caso

Nel 1967 un bambino di nove anni, abbandonato dalla madre, e verosimilmente di padre ignoto, si ritrova ricoverato in un ospedale psichiatrico e vi permane fino al 1999, quando viene dimesso in considerazione della sua capacità di autogoverno. Nel 2008 conviene in giudizio la locale ASP, ente gestore del complesso ospedaliero dove era stato ricoverato, e chiede il risarcimento del danno non patrimoniale per la privazione della libertà personale, della dignità, del diritto ad una famiglia. L'ASP si difende deducendo che l'attore, da minorenne, era stato ricoverato per “ragioni umanitarie” perché senza famiglia, e da maggiorenne era rimasto volontariamente nella struttura fino alla data della sua dimissione.

La questione

I giudici del merito riconoscono il danno non patrimoniale, nella misura di euro 50.000, rilevando che il ricovero aveva privato il bambino della chance di essere inserito in un nucleo familiare, e si era tradotta, quindi, nella lesione di valori costituzionalmente protetti e di diritti umani inviolabili.

Escludono invece, sia in primo grado che in appello, la liquidazione del danno biologico. In particolare, la Corte d'appello di Catanzaro, nel confermare la sentenza di primo grado, evidenzia che il ricovero dell'uomo, una volta divenuto maggiorenne, era proseguito volontariamente fino alla data delle dimissioni.

La Corte di Cassazione è investita del ricorso proposto dall'attore, il quale contesta che il suo ricovero si possa definire volontario, perché egli non aveva mai ricevuto adeguate informazioni sulla natura del trattamento, nonché sulla possibilità di essere dimesso. In ogni caso, osserva il ricorrente, poiché l'art. 34 l. n. 833/1978 consente solo il ricovero di persone affette da patologie psichiatriche, il ricovero da lui subito per trent'anni è illegittimo e quindi fonte dell'obbligo risarcitorio. Deduce inoltre che la liquidazione è stata inadeguata perché non è stato considerato il danno biologico, consistente nelle sofferenze psichiche da lui subite durante il ricovero, tenuto a contatto con soggetti cerebrolesi, nonché la perdita della libertà personale e la perdita di chance.

La questione è quindi quella della natura composita del danno non patrimoniale, connotato da unicità (Corte Cost., 11 luglio 2003 n. 233; Cass.,Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972) ma che, in relazione ai pregiudizi in concreto sofferti, può assumere molteplici aspetti, rilevanti se vi è lesione di beni costituzionalmente protetti, di cui il giudice deve tenere conto, ai fini di una personalizzazione che consenta di valorizzare «l'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale» (Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2019, n.2788; Cass. civ.,Sez. Un., 22 luglio 2015, n.15350; Cass. civ., sez. III, 21 settembre 2017, n. 21939).

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione muove dal presupposto, ormai definitivamente assodato nel doppio grado di merito, che, dopo la maggiore età, il ricovero del ricorrente è stato volontario. Non vi è stata dunque illegittima privazione della libertà personale.La Corte esclude che si possa applicare, in via analogica, la speciale disciplina dettata dagli artt. 314 e 315 c.p.c. per le fattispecie di detenzione cautelare ingiusta disposta ed eseguita in un ambito penale (Cass. pen. ,sez. IV, 5 maggio 2008, n. 17718).

Il ricorrente agita la questione del consenso informato: è rimasto volontariamente nella struttura, ma nessuno gli ha mai spiegato che poteva essere dimesso né per quale ragione effettiva si trovasse in un luogo di cura.

La Corte di legittimità non esamina la questione, perché proposta per la prima volta nel ricorso per cassazione e quindi inammissibile (Cass. civ., sez. II, 19 maggio 2015, n.10211).

Questo rilievo difensivo, ove tempestivo, non sarebbe stato tuttavia pretestuoso, perché in molte altre occasioni la Suprema Corte ha affermato che in caso di trattamento sanitario in assenza di consenso informato può ravvisarsi la lesione di un diritto fondamentale del soggetto (Cass. civ., sez. III, 15 aprile 2019, n. 10423) e cioè la lesione di quella dignità che connota l'esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica o psichica (Cass. civ., 16 ottobre 2007 n. 21748; Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2011, n. 16543).

Il giudice di legittimità esamina invece gli altri motivi di censura, sulla liquidazione del danno non patrimoniale, rilevando che tutti i pregiudizi arrecati alla persona sono stati considerati e valutati dal giudice del merito: la perdita della chance di avere una famiglia ed anche, con essa, la compromissione delle relazioni con il mondo esterno, la preclusione di un percorso di studio adeguato e quindi la perdita della possibilità di svolgere una attività lavorativa che richiede un'istruzione.

La parte insiste sulla sussistenza anche del danno biologico, e cioè di un danno non patrimoniale diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza patita per il ricovero, coesistente in una lesione della integrità psichica. Questo tipo di lesione è stata esclusa dai giudici del merito e la relativa valutazione, trattandosi di un accertamento in fatto, non è censurabile con il ricorso per cassazione. In linea di principio, la Corte ribadisce comunque che il risarcimento del danno biologico va distinto dal danno da sofferenza e da alterazione delle abitudini di vita e della personalità del soggetto: esso è dato dalla lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona, che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato ed è subordinato all'esistenza di una lesione medicalmente accertabile (Cass. civ. sez. VI, 11 settembre 2018, n.22066; Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2019, n.10816)

La Corte applica qui principi consolidati, nella giurisprudenza di merito e di legittimità, e cioè che, pur nella necessità di considerare ogni pregiudizio subito dal soggetto, deve evitarsi l'ingiusta duplicazione di poste risarcitorie (Cass. civ., sez. III, 28 settembre 2018, n.23469; Trib. La Spezia, 4 settembre 2019, n. 548; Trib. Isernia, 10 giugno 2019, n. 207).

Nella sentenza in esame si richiamano -senza operare distinzioni in voci, ma riferendosi alla natura del pregiudizio subito- le definizioni di consueto adottate per descrivere il danno esistenziale, inteso quale radicale cambiamento di vita, alterazione e cambiamento della personalità del soggetto, sconvolgimento dell'esistenza e non già quali meri disagi, fastidi, disappunto ed ansie concernenti gli aspetti più disparati della vita quotidiana (Cass. civ. sez. II, 9 novembre 2018, n.28742; App. Reggio Calabria, 1 agosto 2019, n.637; Cass. civ., sez. III, 8 febbraio 2019, n. 3720). Inoltre, si richiama il concetto di sofferenza, definizione normalmente utilizzata nel riconoscimento e liquidazione del danno morale (Cass. civ. sez. VI, 17 settembre 2019, n. 23146).

L'approccio è quello proprio dell'orientamento affermatosi dopo le note sentenze di San Martino, secondo cui, ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, i nomina iuris tradizionali delle diverse voci di pregiudizio (danno morale, esistenziale, esistenziale) non costituiscono autonome sotto-categorie di danno, ma concorrono ad individuare e descrivere i pregiudizi subiti dal danneggiato, essendo sempre necessario individuare un danno-conseguenza, nell'unitarietà della liquidazione, ove non sono consentite ingiuste duplicazioni. Ciò che conta è che il giudice motivi, senza trascurare nulla, sugli aspetti pregiudizievoli meritevoli di tutela risarcitoria e senza risarcire più volte, sotto diverso nome, un medesimo aspetto del danno non patrimoniale (Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2014, n. 2413 ; Cass. civ., sez. I, ord., 31 maggio 2018, n. 13992 ; Cass. civ., sez. III, ord., 14 novembre 2017, n. 26805).

In definitiva, nella surreale vicenda del bambino ricoverato per trent'anni in un manicomio senza alcuna patologia psichiatrica, ciò che rileva è la lesione della chance di essere inserito in una famiglia e comunque del diritto a ricevere un trattamento appropriato alla condizione di minore in stato di abbandono, e di essere istruito ed educato.

Osservazioni

La vicenda appare surreale oggi, a quarant'anni dalla legge Basaglia, e dopo che lo Stato italiano ha ratificato le Convenzioni internazionali di protezione dell'infanzia in particolare la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 e la Convenzione dell'Aja del 28 maggio 1993.

Nel 1967 tuttavia i manicomi, pudicamente denominati ospedali psichiatrici, erano spesso il luogo di reclusione non solo di malati psichiatrici ma anche di soggetti deboli, rifiutati, soli, o comunque ritenuti divergenti dal modello sociale accettato.

Ciò perché la legge 14 febbraio 1904 n. 36, vigente, con modifiche non sostanziali, fino al 1978, consentiva non solo la cura ma anche la custodia di persone affette per qualunque causa «da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo». Nei manicomi vi era anche, usualmente, il reparto pediatrico, abitato da quei bambini che, epilettici o cerebrolesi, venivano considerati “pericolosi a sé”.

Non è ben chiaro come sia stata inquadrata, ai fini del ricovero, la condizione del bambino: pare che inizialmente siano stati diagnosticati disturbi funzionali e nervosi seppure non collegati a vere e proprie patologie. È possibile che il minore, proprio perché solo, traumatizzato dall'abbandono e privo di educazione sia stato classificato come “pericoloso a sé”; di fatto lo si è collocato in una struttura pubblica per la cura (e custodia) dei malati psichiatrici, senza immaginare per lui un possibile percorso di inserimento in famiglia.

In verità, l'ordinamento nazionale si era dotato, proprio nel 1967, di una legge sulle adozioni speciali di minorenni in stato di abbandono, la legge 5 giugno 1967 n. 431, che però differenziava la posizione del bambino di età inferiore agli otto anni, da avviare alla adozione speciale, da quello di età superiore, da ricoverare in “idoneo istituto” ovvero da avviare alla affiliazione, istituto soppresso dalla legge 4 maggio 1983, n. 184, ovvero ancora alla adozione ordinaria, istituto che tuttavia non è nato per la protezione del minore, ma per soddisfare le esigenze di chi, privo di prole, intende procurarsi un erede.

Le esigenze di tutela dei bambini abbandonati erano invece proprie dell'istituto dell'affiliazione, dato dal testo originario degli artt. 404-413 c.c. Si prevedeva che il minore in stato di abbandono materiale e morale venisse collocato in un istituto di protezione; da qui poteva essere dato in affidamento a persona di fiducia, che dopo tre anni poteva fare richiesta al giudice tutelare di affiliarsi il minore; l'affiliante acquistava i doveri e i poteri inerenti la “patria potestà” vale a dire anche i doveri di mantenere, educare, istruire il minore.

In questo quadro normativo si può vedere una prima parziale attuazione dell'art. 31 della Costituzione, il quale al comma secondo prevede che, nei casi di incapacità dei genitori (nell'adempimento dei doveri di cui al comma primo, di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio), «la legge provvede a che siano assolti i loro compiti».

Si è ancora lontani, nel 1967, dalle enunciazioni della Convenzione di New York e della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) sui diritti dei bambini, secondo le quali i bambini hanno diritto alla protezione e alle cure necessarie per il loro benessere e in ogni questione che li riguarda deve tenersi in considerazione il loro miglior interesse, da considerare preminente; tuttavia, pur nel quadro di incompleta tutela allora vigente, può dirsi che al bambino di nove anni ricoverato in manicomio è stato negato, in primo luogo, il diritto di essere collocato in un istituto idoneo, ove seguire un percorso di istruzione e formazione professionale, e comunque la chance di essere inserito in una famiglia, in affidamento o affiliazione.

Sebbene il modello teorico del risarcimento da perdita di chance sia quello del danno patrimoniale, laddove la giurisprudenza ha enucleato i suoi principi base (Cass. civ., sez. I, 29 novembre 2016, n. 24295; App. Milano, sez. II, 7 febbraio 2017, n. 476; Trib. Latina, sez. II, 20 marzo 2018, n. 748) nel tempo se ne è fatta ricorrente applicazione anche in tema risarcimento del danno non patrimoniale, in particolare nella responsabilità sanitaria (Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2018, n. 3691).

La perdita della chance va intesa come evento di danno, in termini di possibilità perduta di un risultato migliore e soltanto eventuale di cui il soggetto si gioverebbe (Cass. civ., sez. III, 9 marzo 2018, n. 5641).

Nell'ambito del danno non patrimoniale, deve precisarsi che il risarcimento della chance non patrimoniale non è proporzionale al risultato perduto, ma equitativamente commisurato alla possibilità di realizzare quel risultato e deve legarsi alla realizzazione di un diritto fondamentale, a copertura costituzionale; nello specifico settore delle relazioni familiari la perdita di chance si identifica di regola nel mancato sostegno materiale e morale patito dal minore, oltre alla perdita di chance che il figlio avrebbe potuto avere se educato e cresciuto dal genitore (Trib. Firenze, sez. I, 14 febbraio 2018, n. 452) o eventualmente da altro soggetto che assume i doveri parentali.

Nel caso in esame, il risultato migliore che il soggetto avrebbe avuto la possibilità di conseguire, e che gli è stato invece precluso definitivamente con il ricovero in manicomio, è l'instaurazione di una relazione familiare, con la conseguente assunzione da parte di un adulto, idoneo al ruolo parentale, dei doveri di istruzione, mantenimento, educazione. Possibilità non remota, perché, come si è detto, la legislazione dell'epoca consentiva l'instaurarsi di rapporti familiari, anche diversi dall'adozione, cui il bambino avrebbe potuto accedere. La chance perduta, in questo caso, si ricollega a un diritto fondamentale dell'individuo, quello alla relazione familiare, tutelato non solo all'art. 30 Cost. ma anche dall'art. 8 CEDU, diritto che nel caso del minorenne
porta con sé anche il diritto ad essere istruito, educato, assistito moralmente e materialmente e, così armoniosamente formato, di poter intrattenere relazioni sociali e lavorative adeguate.

Diritto che è stato negato nella vicenda in esame, davvero singolare ed irripetibile nella sua unicità, ma non diversa, quanto alla natura del pregiudizio subito, da altre vicende di abbandono di minori non adeguatamente avviati a percorsi di mantenimento o instaurazione di relazioni familiari ed affettive adeguate.

Guida all'approfondimento

DE STEFANO, Danno esistenziale, Ridare, bussola del 16 aprile 2014;

CHINDEMI, Il danno non patrimoniale da perdita di chance dopo le sentenze di San Martino in Resp. civ. e prev., fasc. 2, 2011, 454B;

DINI, Tutela risarcitoria della posizione genitoriale e danno endofamiliare in Resp. civ. e prev. fasc. 4, 2012, 1329.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario