La rideterminazione delle pene accessorie fallimentari non ha effetti sulla pena patteggiata
24 Ottobre 2019
Massima
La rideterminazione delle pene accessorie fallimentari, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale del R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c., nella parte in cui dispone che "la condanna per uno dei delitti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa", non comporta alcun effetto sulla pena concordata tra le parti ex art. 445 c.p.p., in quanto l'applicazione di dette sanzioni non rientra nella disponibilità di queste. Il caso
Con sentenza in data 9 ottobre 2018, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano condannava l'imputato alla pena concordata dalle parti in relazione al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale allo stesso contestato, disponendo altresì la condanna alle sanzioni accessorie di cui all'art. 216, u.c., legge fallimentare, nella durata prevista dalla legge, oltre alla interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. L'imputato promuoveva ricorso in cassazione avverso la sentenza del Giudice per le indagini preliminari chiedendone l'annullamento relativamente all'applicazione delle pene accessorie fallimentari in considerazione della ritenuta illegittimità̀ costituzionale dell'art. 216, u.c., legge fallimentare, nella parte in cui prevede che alla condanna per uno dei fatti di bancarotta conseguano obbligatoriamente pene accessorie per la durata predeterminata, e fissa, di dieci anni. La questione veniva sollevata in termini analoghi all'ordinanza della Corte di Cassazione del 6 luglio 2017 che ha dato origine al giudizio in via incidentale concluso con sentenza della Corte Costituzionale n. 222 del 5 dicembre 2018 intervenuta nelle more della sentenza oggetto del presente commento e che ha riconosciuto l'illegittimità costituzionale dell'art. 216 u.c. della legge fallimentare appunto nei termini del ricorso. La sentenza in esame conserva una sua specifica peculiarità in considerazione del rito scelto dall'imputato, appunto il “patteggiamento”, anche alla luce del pressoché contestuale intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con sentenza del 3 luglio 2019, n. 28910, hanno risolto un conflitto giurisprudenziale sorto a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 216 u.c. della legge fallimentare in ordine a criterio di commisurazione delle pene accessorie medesime di cui si accennerà infra. Brevi cenni, infine, saranno pure dedicati alla questione, di recente rimessa alla Sezioni Unite, e non ancora risolta, «se, a seguito dell'entrata in vigore del comma 2-bis dell'art. 448 cod. proc. pen. (introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103), siano ricorribili o meno per cassazione […], le sentenze di applicazione di pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. che applicano ovvero che omettono di applicare sanzioni amministrative accessorie». La questione
Come noto, la disposizione di cui all'art. 216, u.c., legge fallimentare, prevede testualmente che salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale la condanna per un fatto di bancarotta importa, per la durata di dieci anni, sia (i) l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale sia (ii) l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. Tradizionalmente l'orientamento giurisprudenziale maggioritario, nel rispetto del tenore letterale della norma, riteneva che le pene accessorie contemplate dall'art. 216 l.fall. fossero pene ‘fisse', obbligatorie sia nell'an che nel quantum. Tale orientamento, tuttavia, come sostenuto nel caso di specie dal ricorrente, determinava l'incompatibilità costituzionale di dette pene accessorie con i principi di uguaglianza, ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e di necessaria funzione rieducativa della pena, oltreché – attraverso il parametro interposto di cui all'art. 117 Cost. – con il diritto alla vita privata, sub specie di libertà di svolgere attività professionale o commerciale (art. 8 Cedu) e di diritti ed interessi patrimoniali ad essa connessi (art. 1 Cedu). La Corte Costituzionale n. 222 del 5 dicembre 2018, come detto intervenuta nelle more della sentenza oggetto del presente commento, ha riconosciuto l'illegittimità costituzionale dell'art. 216 u.c. della legge fallimentare. Il Giudice delle leggi, tuttavia non chiariva in modo inequivoco se le pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta a) dovessero considerarsi pene con durata "non predeterminata" e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all'art. 37 cod. pen. che àncora la durata delle sanzioni accessorie all'entità̀ della pena principale della reclusione irrogata dal giudice, ovvero b) se la durata delle pene accessorie dovesse invece considerarsi "predeterminata" entro la forbice data, con la conseguenza che si rende necessario un giudizio di fatto, di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all'art. 133 c.p. Le soluzioni giuridiche
Le due differenti soluzioni interpretative sono state oggetto di un contrasto giurisprudenziale evidenziatosi in seno alla Quinta Sezione della Corte di Cassazione nelle pronunce “Piermartiri” (Cass. pen., Sez. V, 7 dicembre 2018, n. 1963) e “Retrosi” (Cass. pen., Sez. V, 13 dicembre 2018, n. n. 7851). Tale contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, con la sentenza del 3 luglio 2019, n. 28910, hanno ritenuto che, secondo una più attenta lettura della pronuncia della Consulta n. 222/2018, la Corte Costituzionale abbia respinto la possibilità di applicare il criterio, dettato dall'art. 37 c.p. Ancorare la durata delle sanzioni accessorie fallimentari all'entità̀ della pena principale costituirebbe anch'esso, infatti, un automatismo che, alla stregua di quello previsto dalla lettera dell'art. 216, u.c., legge fallimentare, dichiarato incostituzionale, produrrebbe effetti incompatibili con i principi espressi dalla sentenza della Consulta secondo cui ogni forma di automatismo è inadeguata ad assicurare la necessaria autonoma quantificazione delle diverse tipologie di pena (principale e accessoria) in considerazione sia delle rispettive precipue funzioni sia del diverso carico di afflittività̀, ciò anche in considerazione dei differenti diritti fondamentali della persona su cui incidono le diverse specie di pene. Tale essendo lo scenario interpretativo attuale, la sentenza in commento, per certi versi anticipandone gli esiti, si caratterizza, inoltre, per l'applicazione di detti principi nell'ambito del rito dell'applicazione della pena su richiesta delle parti. Consolida, infatti, anche in ambito penale-fallimentare un orientamento interpretativo - formatosi principalmente con riguardo alla sanzione amministrative accessoria della sospensione della patente di guida - secondo cui, in tema di patteggiamento, la clausola con cui le parti concordano la durata delle sanzioni accessorie deve ritenersi come non apposta. Infatti, come costantemente affermato, in caso di applicazione della pena su richiesta delle parti le pene accessorie non sono nella loro disponibilità e, ove comunque pattuite, il giudice non è obbligato a recepire o non recepire per intero l'accordo, rimanendo vincolato soltanto ai punti concordati riguardanti elementi nella disponibilità delle parti (v., ex plurimis, Cass. pen., Sez. II, 18 dicembre 2015, n. 1934, in C.E.D. Cass., n. 265823). L'intervento del giudice in ordine alla loro applicabilità e quantificazione, pertanto, non incide in alcun modo sulla validità dell'accordo e non comporta alcun effetto sulla pena concordata. Osservazioni
In definitiva, la sentenza in commento riconosce (i) la necessità che il giudice, per la determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, svolga una valutazione di merito, facendo ricorso ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., anche in caso di patteggiamento e (ii) l'irrilevanza di una pattuizione delle parti volta a concordare tale durata. A parere di chi scrive, l'applicazione di tali principi potrebbe manifestare profili di problematicità in relazione al regime delle impugnazioni nei confronti della sentenza di applicazione della pena ridisegnato dalla legge 23 giugno 2017, n. 103. Come noto, infatti, il legislatore, introducendo il comma 2-bis dell'art. 448 cod. proc. pen., ha provveduto a limitare il ricorso per cassazione ai soli motivi attinenti (i) l'espressione della volontà dell'imputato, (ii) il difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, (iii) l'erronea qualificazione giuridica del fatto e (iv) l'illegalità della pena o della misura di sicurezza, senza prevedere, espressamente, la possibilità di impugnare le statuizioni contenute nella sentenza di patteggiamento sottratte all'accordo tra le parti, quali le sanzioni amministrative accessorie. È vero che un primo indirizzo giurisprudenziale formatosi sul punto (in materia di sospensione della patente di guida) ha riconosciuto come, nonostante il dato letterale della richiamata disposizione, sia possibile impugnare con ricorso per cassazione la sentenza di patteggiamento anche con riguardo alle statuizioni relative alla sanzione accessoria (Cass. pen., sez. VI, 10 aprile 2019, n. 15848). In proposito si è affermato infatti che l'eventuale vizio della sentenza di patteggiamento riguardante l'applicazione delle sanzioni accessorie, ancorché non sia riconducibile a nessuno dei vizi positivizzati dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., debba poter essere rilevato mediante ricorso alla disciplina generale dettata dall'art. 606, comma 2,c.p.p. posto che le sanzioni accessorie, proprio perché sottratte all'accordo delle parti, sfuggirebbero a ogni verifica del giudice superiore. È altrettanto vero, tuttavia, che altre pronunce della Corte di cassazione hanno invece escluso l'ammissibilità del ricorso proposto in ordine al vizio della motivazione concernente la durata della sanzione accessoria facendo perno sulla manifesta finalità deflativa perseguita dal legislatore del 2017 che ha inteso ridurre significativamente l'area della ricorribilità delle sentenze di patteggiamento, prevedendo la possibilità di dedurre davanti alla Suprema Corte solo vizi macroscopici (Cass. pen., Sez. VI, 3 aprile 2019, n. 14721). Le Sezioni Unite, nel frattempo chiamate a dirimere il contrasto dall'ordinanza della Sezione IV, 16 maggio 2019, n. 22113 dovranno senz'altro porre un argine alla appena citata interpretazione restrittiva dell'art. 448 co.2-bis cod. proc. pen. posto che, come affermato nella stessa ordinanza di rimessione, le esigenze deflative non possono comprimere i diritti delle parti tanto da precludere loro tutela giurisdizionale avverso statuizioni oggettivamente in contrasto con disposizioni di legge, altrimenti non potendosi escludere questione di costituzionalità della disciplina. A parere di chi scrive, inoltre, l'orientamento restrittivo, soprattutto se applicato alla materia fallimentare, paleserebbe l'evidente limite di produrre un effetto contrario allo scopo deflattivo perseguito. L'incertezza in ordine all'applicabilità di sanzioni accessorie - sanzioni che la stessa Consulta e la Suprema Corte ha riconosciuto come rilevanti rispetto a principi costituzionali e libertà fondamentali della persona (unitamente all'impossibilità di ricorrere avverso una loro erronea applicazione) - rischierebbe, con ogni probabilità, di disincentivare il ricorso al rito del patteggiamento. |