Morte di un prossimo congiunto: no ai danni punitivi, ma il risarcimento del danno non patrimoniale dev'essere integrale, cioè personalizzato

Enrico Basso
13 Gennaio 2020

È ammissibile una componente punitiva nella liquidazione del danno non patrimoniale nel nostro ordinamento? La personalizzazione del danno non patrimoniale consente una liquidazione in misura superiore a quella massima prevista dalle tabelle milanesi?
Massima

Il giudice di merito, nel liquidare equitativamente un danno non patrimoniale da morte, deve motivare adeguatamente il percorso logico-giuridico seguito, anche indicando la tabella e lo scaglione utilizzati, la personalizzazione operata in relazione alle circostanze peculiari del caso e gli aspetti del danno non patrimoniale presi in considerazione; la mancanza di tali elementi, infatti, non consentirebbe di verificare se la liquidazione sia idonea a risarcire integralmente il danno subito dai congiunti della vittima e, conseguentemente, porrebbe la motivazione al di sotto del minimo costituzionale, così legittimando la censura della sentenza in sede di legittimità, in termini di omessa motivazione.

Il caso

Tizio, giovane operaio della Alfa Spa, mentre si trova al lavoro cade da una scala non conforme alla normativa antinfortunistica e muore. Sua moglie Caia, in proprio e quale esercente la potestà sulla figlioletta Sempronia di due anni, agisce in giudizio per sentir dichiarare la responsabilità esclusiva di Alfa Spa nella causazione del sinistro e ottenere il conseguente risarcimento. Il Tribunale liquida equitativamente il danno non patrimoniale (morale, esistenziale e da perdita parentale) nell'ingente somma di € 700.000 in favore di ciascun danneggiato; somma che viene deliberatamente quantificata oltre i massimi previsti dalle tabelle di Milano, anche in ragione della “componente punitiva nonché solidaristico-satisfattiva del danno”.

Alfa Spa e le sue compagnie assicuratrici impugnano la sentenza del Tribunale chiedendo accertarsi la responsabilità concorrente del danneggiato e la rideterminazione del danno non patrimoniale liquidato in primo grado. La Corte d'Appello, confermata la responsabilità esclusiva di Alfa Spa, accoglie parzialmente il gravame rideterminando il quantum nella somma massima prevista dalle tabelle milanesi, pari all'incirca a metà di quanto precedentemente liquidato.

Caia e Sempronia ricorrono quindi per cassazione, dolendosi che il riferimento a una componente punitiva in un breve inciso motivazionale non legittimi il dimezzamento del danno liquidato in primo grado e che, per converso, la rigida applicazione delle tabelle milanesi sia lesiva del principio d'integralità del risarcimento, implicante una personalizzazione del danno anche discostandosi, se richiesto dalle circostanze concrete, dagli schemi tabellari adottati dalla giurisprudenza.

La questione

È ammissibile una componente punitiva nella liquidazione del danno non patrimoniale nel nostro ordinamento?

La personalizzazione del danno non patrimoniale consente una liquidazione in misura superiore a quella massima prevista dalle tabelle milanesi?

Le soluzioni giuridiche

Come sopra accennato, il Tribunale di Palermo, con la sentenza n. 3593 pubblicata il 19 ottobre 2010 (inedita), ha liquidato il danno non patrimoniale cagionato alla moglie e alla giovanissima figlia della vittima ispirandosi correttamente al principio di integralità del risarcimento, ma anche tenendo conto -ancorché non sia ben chiaro in quale misura- di una funzione punitiva del risarcimento.

Di qui, il parziale accoglimento dell'impugnazione con sentenza App. Palermo, sez. III n. 1880/2016, che -aderendo all'impostazione tradizionale secondo cui la responsabilità civile tende a restaurare la sfera patrimoniale del soggetto leso, esclusa ogni idea di punizione o sanzione del responsabile- ha riquantificato il danno «escludendo dalla liquidazione quella componente punitiva non prevista dal nostro ordinamento giuridico».

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado; ma non tanto perché avesse escluso la possibilità di condannare la convenuta al pagamento di danni punitivi, quanto piuttosto per aver sostanzialmente dimezzato il risarcimento liquidato dal Tribunale senza motivare adeguatamente perché tale minor somma -al netto dei punitive damages- fosse idonea a risarcire integralmente le appellanti.

La questione dei c.d. punitive damages

Generalmente, si ritiene che il risarcimento del danno non patrimoniale sia concepibile sotto tre diverse angolazioni: come punizione del responsabile, se si ritiene che il bene pregiudicato non sia riparabile nemmeno per equivalente; come reintegrazione, se si accetta l'idea che, anche nel caso di danno non patrimoniale, si tenda a collocare il danneggiato nella situazione quo ante, ancorché ciò possa avvenire solo per equivalente in denaro; o ancora come consolazione, se si aderisce alla tesi secondo cui il risarcimento del danno non patrimoniale miri, piuttosto, a “consolare” la vittima attraverso delle utilità alternative. Non essendo questa la sede per addentrarsi in un dibattito non ancora sopito (certo non in dottrina), ci si limiterà a far presente che la giurisprudenza prevalente oggi predilige la terza impostazione: la finalità punitiva viene esclusa sul presupposto che alla responsabilità civile sia affidato il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto leso (art. 1223 c.c.), mentre, d'altro canto, beni quali l'affetto di un prossimo congiunto non sono considerati reintegrabili, talché la perdita di siffatti beni può essere compensata, al più, con una soddisfazione alternativa a quella data dal bene perduto.

Detto questo, oggi non si ritiene più che il nostro ordinamento giuridico sia contrario tout court ai risarcimenti punitivi: basti considerare che, anche in recentissimi arresti, la Suprema Corte ha escluso la configurabilità di alcune tipologie di danno in re ipsa in quanto le stesse verrebbero a configurare «un vero e proprio danno punitivo per il quale non vi è copertura normativa» (cfr. Cass. civ., sez. VI, 18 luglio 2019, n. 19434; Cass. civ., sez. III, 24 aprile 2019, n. 11203), sostanzialmente rimarcando che il danno punitivo è compatibile con l'ordinamento ma, conformemente a quanto prevede l'art. 23 della Costituzione, deve essere esplicitamente previsto a livello normativo. Principio, questo, già enunciato dalle Sezioni Unite, che hanno ritenuto di dover superare ogni precedente e contrario orientamento con la nota sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017: «…Già da qualche anno le Sezioni Unite hanno messo in luce che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva… Le Sezioni Unite hanno tuttavia precisato che questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall'art. 25 comma 2 della Costituzione nonché l'art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali. [OMISSIS] …In sintesi estrema può dirsi che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell'istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva».

Nel caso in esame, quindi, la Corte d'Appello di Palermo -escludendo radicalmente l'esistenza del danno punitivo nel nostro ordinamento- ha seguito un orientamento di legittimità realmente esistente (cfr. ad esempio Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n.1183) che, però, è stato sconfessato di lì a poco dalle Sezioni Unite.

Nondimeno, occorre sottolineare che, ad oggi, non vi è copertura legislativa che consenta di liquidare componenti di natura punitiva nel contesto del risarcimento del danno da perdita parentale, neanche in presenza di condotte illecite particolarmente riprovevoli.

La questione dell'integralità del risarcimento

Appare chiaro, allora, come la Suprema Corte abbia cassato la sentenza della Corte palermitana non già per l'espunzione della componente punitiva valorizzata dal Tribunale, bensì per l'inadeguata motivazione sul drastico taglio al risarcimento, siccome insufficiente, in ultima analisi, a far comprendere se la minor somma liquidata fosse idonea a risarcire integralmente il danno occorso ai danneggiati: di qui, il rinvio alla stessa Corte d'Appello in diversa composizione.

Effettivamente, la Corte d'Appello di Palermo si è limitata «a escludere dalla liquidazione quella componente punitiva non prevista dal nostro ordinamento» e «a ritenere di dovere applicare le tabelle predisposte dal Tribunale di Milano, in quanto costituiscono valido e necessario criterio di riferimento per la valutazione e il calcolo del danno, trattandosi del criterio più diffuso sul territorio nazionale che garantisce non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi …alla luce di quanto sopra, e tenuto conto delle circostanze legate all'evento, della giovane età della vittima e dell'età della moglie e della figlia superstiti, può essere riconosciuto alla moglie, in proprio e nella qualità, a titolo di danno non patrimoniale, la maggior somma all'uopo prevista dalle Tabelle di Milano, per l'operata personalizzazione del danno, quantificata in € 327.999,00 per ciascuna di esse».

Tale motivazione è stata ritenuta dal Supremo Collegio «meramente apparente e obiettivamente incomprensibile», risultando omesso qualsiasi riferimento al tipo di tabella utilizzata; allo scaglione tabellare individuato per ciascun danneggiato; al quomodo e al quantum dell'asseritamente operata personalizzazione; agli aspetti o voci del danno non patrimoniale presi nella specie in considerazione; alla valutazione in particolare del danno morale; al criterio adottato ai fini dell'operata sottrazione, dall'ammontare liquidato dal giudice di prime cure a titolo di danno non patrimoniale, di somma a titolo di «componente punitiva non prevista dal nostro ordinamento giuridico».

Gioverà, a questo punto, qualche brevissimo cenno sul danno da perdita di un prossimo congiunto.

Il diritto ad essere risarciti per la morte d'una persona cara esige due presupposti: uno di diritto e l'altro di fatto. Il primo è che il vincolo esistente tra vittima e superstite avesse il carattere della giuridicità, cioè che fosse riconosciuto dall'ordinamento (es.: rapporti parentali o coniugali); il secondo è che tra vittima e superstite esistesse un vincolo affettivo intenso e tangibile, cioè un legame profondo e duraturo. Ciascuno di tali presupposti, si noti, costituisce condizione necessaria ma non sufficiente per poter chiedere il risarcimento del danno in questione.

In presenza dei suddetti presupposti, le conseguenze non patrimoniali che, in linea generale, potrebbero derivare dalla morte di una persona sono ravvisabili in una malattia psicofisica (cioè in un danno biologico: es. depressione da lutto); nel dolore e nella sofferenza provocati dalla mancanza della persona cara; nella perdita dei benefici morali che il superstite ritraeva dalla compagnia del defunto (es. gli insegnamenti e l'educazione che un genitore impartiva al figlio); nella perdita dell'amoenitas della vita comune (si pensi a chi perda un fratello che fosse compagno di studi o di giochi); in un pregiudizio alla vita sessuale (come nel caso della perdita del coniuge o del partner).

Poiché la liquidazione del danno da perdita di un prossimo congiunto non è disciplinata da alcuna norma di legge, ovviamente ciascuna di tali conseguenze potrà esser risarcita solo in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c.

La giurisprudenza utilizza, a tal fine, le regole fondamentali già adottate per la liquidazione del danno biologico, ovvero: (a) la liquidazione deve tenere conto di tutte le conseguenze pregiudizievoli causate dall'illecito; (b) la liquidazione deve garantire parità di trattamento a parità di danno; (c) la liquidazione deve avvenire con un criterio che consenta di attribuire il giusto rilievo alle specificità del singolo caso, al fine di consentire -con la maggiore approssimazione possibile- l'integralità del risarcimento che, salvo diversa disposizione di legge, dovrà coprire tutto il danno e nulla più del danno.

Per far ciò, occorre dapprima individuare un criterio di liquidazione standard, idoneo a garantire la parità di trattamento a parità di danno. Tale criterio, perlomeno dalla nota sentenza Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2011 n. 12408, viene pacificamente individuato nelle tabelle milanesi, elevate a parametro generale attestante la conformità della valutazione equitativa del danno alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 1256, comma 1, c.c.

Dopodiché, occorre adattare il suddetto criterio alle specificità del caso concreto, definendo il quantum nell'ambito della forbice consentita dalle tabelle, personalizzando il risarcimento attraverso apposite variazioni in più o in meno, che il giudice dovrà motivare adeguatamente.

In particolare, si ritiene pacifico in giurisprudenza che, nella stima del danno in questione, si debba tenere conto:

-dell'età del defunto (sul presupposto che quanto più sia avanzata, tanto meno intenso sarà il dolore per la perdita, perché quest'ultimo sarebbe stato comunque provato in un futuro prossimo);

-dell'età e del sesso del superstite che domanda il risarcimento (sul presupposto che secondo l'id quod plerumque accidit persone mature e di sesso maschile fanno fronte alle emozioni con maggior compostezza e forza rispetto ai fanciulli ed alle donne);

-del rapporto di parentela tra la vittima ed il superstite (sul presupposto che più è stretto tale vincolo, maggiore è il dolore causato dalla morte);

-della convivenza col defunto (sul presupposto che dove vi fosse convivenza, la perdita della persona cara produce una maggiore sofferenza in considerazione dell'inevitabile mutamento dello stile di vita del superstite);

-della composizione del nucleo familiare (sul presupposto che la vicinanza di persone care nei momenti di dolore è un valido aiuto al superamento del lutto, e che per contro la solitudine aggrava la sofferenza);

-delle modalità di commissione dell'illecito (sul presupposto che quanto più queste siano state efferate, drammatiche o addirittura tragiche, tanto più acuto sarà il dolore provato dai familiari della vittima).

Occorre poi considerare che, in casi eccezionali, ai fini dell'integralità del risarcimento le tabelle milanesi potrebbero rivelarsi insufficienti: sarà sempre necessario, quindi, che il giudice di merito accerti se nel caso concreto sussistano circostanze inusuali, anomale o eccezionali rispetto a quelle normalmente derivanti da un evento luttuoso, tali da giustificare –senza lesioni del principio di parità di trattamento- un aumento o una riduzione dei valori standard (naturalmente, si ribadisce che simili circostanze andranno allegate e provate dall'attore in modo puntuale, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte o ipotetiche: sul punto, cfr. Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2016, n. 21060; Cass. civ., sez. III, 19 ottobre 2016, n. 21060).

Del resto, gli stessi «Criteri Orientativi Per La Liquidazione Del Danno Non Patrimoniale Derivante Dalla Lesione All'integrità Psico-Fisica E Dalla Perdita – Grave Lesione Del Rapporto Parentale» forniti dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano in occasione della pubblicazione delle tabelle aggiornate Edizione 2018, chiariscono che le sentenze considerate nella formulazione delle tabelle riguardano fatti illeciti penalmente irrilevanti o integranti gli estremi di reato colposo, talché in presenza di un reato doloso o altri elementi eccezionali (e ci sembra che la c.d. “morte bianca” di un giovane operaio causata da violazioni particolarmente gravi delle norme antinfortunistiche potrebbe essere un elemento eccezionale) il giudice dovrà aumentare o ridurre –motivando adeguatamente- l'entità degli importi previsti in tabella in considerazione delle peculiarità della fattispecie concreta.

In quest'ottica, anche la sentenza in commento, pur ribadendo l'idoneità delle tabelle milanesi come parametro di riferimento per la liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale, pone un monito per il giudice del rinvio, evidenziando la necessità di apportare “i necessari e opportuni correttivi” al fine di conseguire l'obiettivo irrinunciabile della congruità del risarcimento: ma per capire se il risarcimento è congruo, il giudice deve indicare nella motivazione quali siano gli aspetti del danno non patrimoniale considerati e la loro incidenza sulla liquidazione dello stesso, pena un insanabile vizio di motivazione, anche nella prospettiva ristretta dell'art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. introdotta l'art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134).

Osservazioni

La sentenza cassata, nella prospettiva del Supremo Collegio, potrebbe anche essere “giusta”, nel senso di aver risarcito integralmente le sfortunate familiari del giovane operaio tragicamente defunto sul posto di lavoro.

Tuttavia, nell'impossibilità di ricostruire il percorso logico-giuridico seguito nella liquidazione, s'è imposto il rinvio alla stessa Corte in altra composizione, affinché si rimediasse al deficit motivazionale così consentendo, in definitiva, di verificare il rispetto del principio di integralità del risarcimento.

La sentenza in commento, quindi, ha il pregio di evidenziare come l'obiettivo prioritario della fase di liquidazione sia quello di garantire l'integralità del risarcimento e come rispetto a questo obiettivo le tabelle milanesi possano essere considerate alla stregua di una bussola: strumento indispensabile perché indicano la giusta direzione, ma che non si sostituiscono al timoniere perché, da sole, non bastano per arrivare in porto.

Guida all'approfondimento

M. ROSSETTI, Il Danno Alla Salute, Padova 2017

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