La liquidazione del danno non patrimoniale e del danno patrimoniale da lucro cessante in ipotesi di responsabilità sanitaria

Marco Rodolfi
21 Gennaio 2020

In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari.
Massima

In presenza di un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l'attribuzione di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale).

In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari.

Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento

Il caso

La vertenza decisa dalla sentenza n. 28988 si riferisce ad una domanda di risarcimento dei danni che i genitori di un minore, in proprio e quali esercenti la potestà sul minore, svolgevano nei confronti di una struttura ospedaliera e dei suoi sanitari, per i danni subiti dal medesimo minore e dalla madre in occasione del parto.

Il pregiudizio lamentato veniva individuato nei: «danni patrimoniali (lucro cessante da inabilità permanente e danno emergente da perdita di possibilità attuale e futura – cd perdita di chance – lucro cessante da inabilità temporanea, ed emergente e per spese vive sostenute e da sostenersi) e non patrimoniali (biologico da invalidità permanente e temporanea, alla vita di relazione, alla veste estetica, morale soggettivo, esistenziale, alla vita privata, al rapporto familiare parentale, per la lesione del diritto ad una compiuta informativa e, comunque, per la lesione dei diritti personalissimi inviolabili)».

Il Tribunale respingeva la domanda risarcitoria, mentre la Corte d'Appello, in riforma della sentenza impugnata, condannava i convenuti al risarcimento dei danni in favore degli appellanti.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione la compagnia garante per la RC sanitaria della struttura.

Con ordinanza interlocutoria del 7 febbraio 2019 la Corte disponeva la trattazione della controversia in pubblica udienza.

Le questioni

In verità, sono tre le questioni che la Suprema Corte ha dovuto affrontare.

Con il primo motivo di ricorso, infatti, la Compagnia di assicurazione della struttura lamentava la violazione agli artt. 1226 e 2729 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nella determinazione del danno non patrimoniale in favore del minore danneggiato.

La Corte territoriale, infatti, pur facendo riferimento ai criteri contenuti nelle tabelle milanesi che computano nel valore base la componente del danno morale, avrebbe: «erroneamente personalizzato il danno nella misura massima del relativo parametro», quando la personalizzazione, al contrario: «andrebbe riferita a situazioni assolutamente particolari non ricorrenti nel caso di specie, in cui il deficit permanente del 13% era lievemente superiore alle cd micropermanenti».

Con il secondo motivo di ricorso viene lamentata la violazione degli artt. 1223, 1226 e 2729 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, nella determinazione del danno patrimoniale in favore del minore.

La circostanza infatti: «che il padre del danneggiato fosse un carabiniere non può costituire una presunzione in ordine alla predisposizione del figlio per la carriera militare che richiede, invece, il superamento di prove selettive». Sotto altro profilo, inoltre: «la lieve percentuale invalidante non sarebbe tale da compromettere una lunga serie di attività lavorative, soprattutto di carattere sedentario, con retribuzioni anche più elevate rispetto alle mansioni manuali».

Con il terzo motivo è stata infine lamentata la violazione delle medesime disposizioni riguardo al danno non patrimoniale in favore dei genitori del minore. In particolare: «la configurabilità di una compromissione di tipo esistenziale sarebbe compatibile con lesioni particolarmente serie e non con quelle in concreto riscontrate» (13% di danno biologico).

Le soluzioni giuridiche

Il Supremo Collegio ha ritenuto fondati i primi due motivi del ricorso, considerando assorbito il terzo.

Partiamo dalla questione relativa alla c.d. “personalizzazione” del danno non patrimoniale

È stato innanzitutto ricordato che: «In presenza di un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l'attribuzione di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale)».

Di conseguenza: «In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari».

Le conseguenze dannose che, al contrario: «sono da ritenersi normali ed indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento».

Ed ancora: «Le conseguenze della menomazione, sul piano della loro incidenza sulla vita quotidiana e sugli aspetti “dinamico-relazionali”, che sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito il medesimo tipo di lesione, non giustificano alcun aumento del risarcimento di base previsto per il danno non patrimoniale».

Mentre, al contrario: «le conseguenze della menomazione che non sono generali ed inevitabili per tutti coloro che abbiano patito quel tipo di lesione, ma sono state patite solo dal singolo danneggiato nel caso specifico, a causa delle peculiarità del caso concreto, giustificano un aumento del risarcimento di base del danno biologico».

In altre parole, ai fini della personalizzazione del risarcimento rileva: «che quella conseguenza sia straordinaria e non ordinaria, perché solo in tal caso essa non sarà ricompresa nel pregiudizio espresso dal grado percentuale di invalidità permanente, consentendo al giudice di procedere alla relativa personalizzazione in sede di liquidazione (così già, ex multis, Cass. civ., sez. III, sent. 21 settembre 2017 n. 21939; Cass. civ., sez. III, sent. 7 novembre 2014 n. 23778)».

Le circostanze di fatto “specifiche ed eccezionali” devono essere: “tempestivamente allegate”, in quanto integrano un “fatto costitutivo” della pretesa, e “provate” (seppure “con ogni mezzo di prova”), dai danneggiati.

Solo allora: «è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass. civ., sez. III, sent. 7 novembre 2014 n. 23778; Cass. civ., sez. III, sent. 18 novembre 2014 n. 24471)».

Nel caso di specie, la menomazione concreta era rappresentata da una distocia della spalla che aveva determinato postumi permanenti nella misura del 13% di danno biologico: «e cioè una invalidità qualificata in misura prossima al tetto dei danni biologici di lieve entità (cd micropermanenti)».

In presenza di tali presupposti è stata riconosciuta in secondo grado una personalizzazione di oltre il 40%: «in difetto di una specifica motivazione, che avrebbe dovuto essere adottata sulla base dei principi espressi in premessa, al fine di giustificare, in primo luogo, la ragione per la quale quel pregiudizio non risultava già assorbito nel danno biologico liquidato e, in secondo luogo, i criteri sottesi ad una personalizzazione così significativa, riferita ad una menomazione comunque, lieve».

Anche il motivo relativo al danno patrimoniale è stato giudicato “fondato, sotto due profili”.

In primo luogo, non è risultato: «chiaro se il danno riconosciuto in appello è stato valutato in termini di incapacità lavorativa specifica o generica».

Orbene, la Corte territoriale pare essersi dunque dimenticata: «che il danno alla capacità lavorativa generica rientra nell'alveo di quello biologico».

Difatti tale voce risarcitoria: «non attiene alla produzione del reddito, ma si sostanzia, in quanto modo di essere del soggetto, in una menomazione all'efficienza psicofisica (Cass. civ., 25 agosto 2014 n. 1816) e il danno va valutato unitariamente, in termini di cenestesi lavorativa».

La nozione di incapacità lavorativa generica, del resto: «fu elaborata dalla giurisprudenza in un'epoca in cui il danno biologico non aveva cittadinanza nell'ordinamento e l'unico danno ritenuto risarcibile era quello patrimoniale. Essa servì, quindi, a evitare il rigetto della domanda risarcitoria allorché le conseguenze lesive non avessero influito sul lavoro svolto dalla vittima ovvero nell'ipotesi in cui la vittima non svolgesse lavoro alcuno».

Una volta riconosciuta la nozione di danno biologico: «l'utilità della categoria è venuta meno, considerato che la sussistenza di un danno alla salute legittima il leso a domandare il risarcimento di tutti i danni non patrimoniali a detta lesione connessi, nessuno escluso».

Il Supremo Collegio, prende spunto da questa vicenda per fare il punto della situazione in tema di danno patrimoniale.

Un evento lesivo, infatti: «può incidere in vari modi sull'attività di lavoro dell'infortunato».

È possibile prospettare quattro ipotesi:

«1) che la vittima conservi il reddito, ma lavori con maggior pena. È questo il danno da lesione della cenestesi lavorativa, e cioè la compromissione della sensazione di benessere connessa allo svolgimento del proprio lavoro. Ora, non par dubbio che il danneggiamento della cenestesi lavorativa si presterà di regola a essere risarcito attraverso un appesantimento del risarcimento del danno biologico, in via di personalizzazione cioè, a meno che la maggiore usura, la maggiore penosità del lavoro non determinino l'eliminazione o la riduzione della capacità del danneggiato di produrre reddito, nel qual caso, evidentemente, il pregiudizio andrà risarcito come danno patrimoniale (Cass. civ., n. 20312 del 2015);

2) che la vittima abbia perso in tutto o in parte il proprio reddito: non il lavoro, badate bene, ma il reddito, il che significa che non ne produce al momento e non sarà più in grado di produrne in futuro: qui siamo evidentemente di fronte a un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito perduto;

3) che la vittima abbia perso il lavoro ma possa svolgerne altri, compatibili con la propria formazione professionale: anche questo è un danno patrimoniale, da liquidare tenendo conto e del periodo di inoccupazione e della verosimile differenza (ove sussistente) tra reddito perduto e presumibile reddito futuro;

4) che la vittima un lavoro non l'aveva, e non potrà più averlo a causa della invalidità: anche questo è un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, ove fosse rimasto sano, avrebbe percepito».

La prova della presumibile attività futura andrà: «supportata da presunzioni gravi, precise e concordanti».

Nel caso di specie, la decisione di secondo grado è stata considerata censurabile in quanto, non solo non sono state considerate: «le attività lavorative compatibili con la menomazione fisica riscontrata», ma anche perché ha fatto riferimento presuntivamente: “all'attività svolta dal padre del danneggiando, operando un evidente salto logico. Al contrario, avrebbe dovuto verificare se, sulla base della relazione del consulente tecnico d'ufficio, era stata espressa una concreta incidenza sulla capacità lavorativa specifica e, in particolare, rispetto a quali tipologie di attività lavorative».

È stato considerato errato, infine, anche il riferimento al criterio di liquidazione pari al triplo della pensione sociale.

Difatti mentre: «la liquidazione del danno biologico, va operata con criteri equitativi ai sensi degli artt. 2056 e 1226 c.c., eventualmente anche applicando criteri predeterminati e standardizzati come le cosiddette “tabelle”, valutabili come parametri uniformi per la generalità delle persone, salvo personalizzare il risultato al caso concreto», al contrario: «per la determinazione del danno patrimoniale non può essere utilizzato il criterio del triplo della pensione sociale, di cui al d.l. 23 dicembre 1976, n. 857, art. 4 convertito dalla l. 26 febbraio 1977, n. 39, trattandosi di norma eccezionale, utilizzabile esclusivamente nell'ambito dell'azione diretta contro l'assicuratore per la liquidazione del danno patrimoniale (sez. III, sent. n. 18161 del 25 agosto 2014)».

Ed anche in siffatto ambito: «la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale (oggi, assegno sociale). Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell'art. 137 cod. ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell'infortunio godeva di un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato (Cass. civ., sez. III – n. 25370 del 12 ottobre 2018 – Rv. 651331 – 01)».

Osservazioni

La Suprema Corte, con la decisione N. 28988 del 2019, in primo luogo, ha ribadito, una volta per tutte, la propria posizione a proposito della c.d. personalizzazione del danno non patrimoniale.

A proposito del danno non patrimoniale, infatti, è ormai da tempo pacifico che il danneggiato, se intende ottenere il riconoscimento di una “personalizzazione” del danno non patrimoniale deve allegare e provare l'esistenza di “circostanze anomale e peculiari” rispetto alle ordinarie conseguenze negative che 'qualunque' vittima di lesioni analoghe 'normalmente' subirebbe, e che sono già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata assicurata dalle previsioni tabellari.

La Suprema Corte ha infatti considerato in passato: «giuridicamente erronea l'affermazione secondo cui la misura standard del risarcimento del danno biologico debba essere dal giudice di merito aumentata sempre e comunque, per il solo fatto che l'invalidità causata dalle lesioni sia di grado elevato ... È solo per convenzione, e per garantire un minimo di obiettività nella liquidazione del danno, che questi pregiudizi vengono quantificati in misura percentuale, ipotizzando per fictio iuris che sia pari a "100" la validità d'una persona sana, dello stesso sesso e della stessa età della vittima. Ciò vuol dire che la somma di denaro accordata alla vittima di lesioni personali a titolo di risarcimento del danno da invalidità permanente è necessariamente intesa a ristorare la perdita delle attività che quella menomazione necessariamente ha comportato per la vittima, ed avrebbe comportato comunque quale che fosse stata la persona che l'avesse subìta… Nel caso di specie, la vittima ha patito una invalidità permanente del 90%. Una invalidità di questo tipo incide ovviamente in modo pesante sulla vita di relazione della vittima. Sicché, quando la dottrina medico-legale elabora i propri baremes per la determinazione del grado di invalidità permanente, questa incidenza delle lesioni sulla vita di relazione è necessariamente ricompresa nel grado di invalidità permanente: diversamente opinando, non si comprenderebbe più quale dovrebbe essere il contenuto oggettivo della nozione di "danno biologico". Ovviamente, ben può accadere che nel singolo caso i postumi permanenti causati dalla lesione fisica provochino una più incisiva compromissione della vita di relazione della vittima, rispetto ai casi analoghi: ma tale circostanza deve da un lato entrare nel processo con le debite forme (e cioè essere tempestivamente allegata da chi la invoca); e dall'altro deve essere adeguatamente provata» (Cass. civ., sez. III, sent. 13 ottobre 2016, n. 20630).

Ed ancora: «Con riguardo alla liquidazione del danno non patrimoniale, ai fini della c.d. 'personalizzazione' del danno forfettariamente individuato (in termini monetari) attraverso i meccanismi tabellari cui la sentenza abbia fatto riferimento (e che devono considerarsi destinati alla riparazione delle conseguenze 'ordinarie' inerenti ai pregiudizi che 'qualunque' vittima di lesioni analoghe 'normalmente' subirebbe), spetta al giudice far emergere e valorizzare, dandone espressamente conto in motivazione in coerenza alle risultanze argomentative e probatorie obiettivamente emerse ad esito del dibattito processuale le 'specifiche' circostanze di fatto, 'peculiari' al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le conseguenze 'ordinarie' già previste e compensate dalla liquidazione forfettizzata del danno non patrimoniale assicurata dalle previsioni tabellari; da queste ultime distinguendosi siccome legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all'uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali, di per sé tali da presentare obiettive e riconoscibili ragioni di apprezzamento (in un'ottica che, ovviamente, superi la dimensione 'economicistica' dello scambio di prestazioni), meritevoli di tradursi in una differente (più ricca e, dunque, individualizzata) considerazione in termini monetari, rispetto a quanto suole compiersi in assenza di dette peculiarità» (Cass. civ., 21 settembre 2017 n. 21939).

La decisione oggetto del nostro commento, in pratica, è sul punto perfettamente conforme ai precedenti dello stesso Supremo Collegio, tra cui la decisione nota come il c.d. “decalogo sulla personalizzazione”, ove è stato affermato che: «6) In presenza d'un danno permanente alla salute, costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l'attribuzione d'una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale). 7) In presenza d'un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari. Le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l'id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento» (Cass. civ., 27 marzo 2018 n. 7513; in senso conforme Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2018, n. 19153; Cass. civ., 28 settembre 2018, n. 23469 e Cass. civ., sez. VI, 31 maggio 2019, n. 15084).

Sul come fornire la prova di questa “personalizzazione”, peraltro, il Supremo Collegio ha ricordato che il danneggiato potrà fare ricorso ad: «ogni mezzo di prova, e quindi anche attraverso l'allegazione del notorio, delle massime di comune esperienza e delle presunzioni semplici, come già ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, sent. n. 26972 del 11 novembre 2008), senza potersi, peraltro, risolvere in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche (sez. III, sent. n. 24471 del 18 novembre 2014)».

Passando invece al tema del danno patrimoniale da lucro cessante, la decisione appare particolarmente interessante, perché non si limita a ricordare principi ormai pacifici, come il fatto che danno alla capacità lavorativa generica rientri nell'alveo di quello biologico (vedi, tra le altre, Cass. civ., n. 1816 del 25 agosto 2014), ma tenta di «fare il punto della situazione in tema di danno patrimoniale», indicando quattro ipotesi di come un fatto illecito possa incidere sull'attività lavorativa dell'infortunato.

In primo luogo, il danneggiato può conservare il proprio reddito ma, in conseguenza dell'evento lesivo, l'attività lavorativa sarà più faticosa. In questo caso ci si trova di fronte al c.d. danno da lesione della cenestesi lavorativa, che andrà risarcito con un «un appesantimento del risarcimento del danno biologico, in via di personalizzazione cioè».

Ci si può poi trovare di fronte ad un'ipotesi in cui il danneggiato abbia perso in tutto o in parte il proprio reddito (non il lavoro). Questa è un'ipotesi di danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base al reddito perduto.

Il danneggiato, inoltre, può aver perso il proprio lavoro ma può svolgerne altri, compatibili con la propria formazione professionale. Anche questo è un caso di danno patrimoniale, da liquidare tenendo conto sia del periodo di inoccupazione che della verosimile differenza (ove sussistente) tra reddito perduto e presumibile reddito futuro.

Da ultimo viene ipotizzato il caso in cui il danneggiato non aveva un lavoro, e non potrà più averlo a causa della invalidità. Anche questo è un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare: «in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, ove fosse rimasto sano, avrebbe percepito». La prova della presumibile attività futura andrà: «supportata da presunzioni gravi, precise e concordanti».

La decisione di merito, che rientrava proprio nella quarta ipotesi, è stata censurata in quanto non ha fatto corretto uso di tali principi, avendo fatto riferimento in modo presuntivo all'attività svolta dal padre del danneggiato (minore), senza fare alcun riferimento alle possibili altre attività lavorative compatibili con la menomazione fisica riscontrata e senza verificare se, sulla base della relazione del consulente tecnico d'ufficio, era stata espressa una concreta incidenza sulla capacità lavorativa specifica e, in particolare, rispetto a quali tipologie di attività lavorative.

La Suprema Corte, infine, ha censurato anche l'adozione da parte del giudice di merito del criterio del triplo della pensione sociale in tema di danno patrimoniale.

Il criterio del triplo della pensione sociale, infatti, trattandosi di norma eccezionale, è «utilizzabile esclusivamente nell'ambito dell'azione diretta contro l'assicuratore per la liquidazione del danno patrimoniale».

In ogni caso, anche in tali ipotesi (responsabilità da sinistro stradale ex art. 137 cod. ass.), il ricorso al criterio del triplo della pensione sociale: «può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell'infortunio godeva di un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato».

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