Infortuni sul lavoro: “portata pervasiva” della violazione dell'obbligo datoriale di protezione e irrilevanza causale della condotta incauta del lavoratore

09 Marzo 2020

La condotta incauta del lavoratore non comporta un concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qual volta la violazione di un obblighi formativi o informativi da parte del datore di lavoro sia munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell'evento dannoso.
Massima

In materia di infortuni sul lavoro, al di fuori dei casi di rischio elettivo, nei quali la responsabilità datoriale è esclusa, qualora ricorrano comportamenti colposi del lavoratore, trova applicazione l'

art. 1227, comma 1, c.c.

, tuttavia, la condotta incauta del lavoratore non comporta un concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qual volta la violazione di un obblighi formativi o informativi da parte del datore di lavoro sia munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell'evento dannoso.

Il caso

In riforma della decisione di prime cure, la Corte d'appello di Trieste accoglieva parzialmente la domanda risarcitoria proposta da un operaio nei riguardi del Comune di Sauris, nonché di un proprio superiore gerarchico, in relazione ad un grave infortunio patito in seguito al crollo di un capannone metallico di proprietà dell'ente comunale.La Corte territoriale riteneva infatti che nella specie sussistessero coefficienti colposi in capo al superiore, in quanto la persona che questi aveva incaricato di riferire all'operaio che il lavoro in questione doveva essere rinviato ad altra data, di modo che vi fosse un numero sufficiente di persone, aveva tuttavia–assai incautamente - omesso di insistere sulla tassatività dell'ordine, con ciò inducendo nel lavoratore l'erroneo convincimento che lo stesso ordine fosse riconnesso a ragioni di mera opportunità e non, come invece era in concreto, a stringenti motivi di sicurezza. Non solo. Lo stesso superiore, una volta avvisato dal suo sottoposto che l'operaio stava procedendo ugualmente allo smontaggio del manufatto, non era intervenuto subito, onde impedire comunque il rischio poi purtroppo realizzatosi. I secondi giudici ritenevano però, allo stesso tempo, che a determinare l'evento avesse concorso in via preponderante anche l'imprudenza del lavoratore infortunato. Quest'ultimo si era infatti determinato a svolgere il lavoro nonostante le indicazioni contrarie ricevute e senza essere sufficientemente informato sulle caratteristiche dell'opera da svolgere. In considerazione di ciò la corte giuliana liquidava il risarcimento in misura del 35% del totale, dichiarando imputabile al ricorrente il maggior contributo causale residuo.

Il lavoratore non si dava per vinto e proponeva dunque ricorso di legittimità affidandolo a ben dodici motivi.

La questione

Si doleva in estrema sintesi il lavoratore (con i primi due motivi, oltre che con il quarto e il quinto), che i giudici di appello non avessero adeguatamente valutato i comportamenti omissivi del datore rispetto agli obblighi di prevenzione e informazione su di lui incombenti. Con il terzo, sesto e settimo motivo, la decisione veniva poi ulteriormente censurata anche in ordine al profilo del vaglio circa l'incidenza eziologica delle condotte convolte nell'evento. Ciò, si intende, con particolare riguardo alla rilevanza causale o concausale riferibile all'asserita negligenza dell'operatore. Gli ultimi cinque motivi venivano infine dedicati - sotto vari profili - al quantum debeatur. Più in particolare, mediante il primo “blocco” di doglianze più strettamente riferibile al quadro fattuale presupposto al giudizio sulla responsabilità, il ricorrente censurava l'omessa o inadeguata valutazione da parte dei giudici di appello di talune condotte datoriali che sarebbero invece state a suo dire decisive in un'ottica ricostruttiva della concatenazione causale che aveva portato all'evento. Come accennato, con gli ulteriori motivi, e in particolare con il terzo di essi, il lavoratore metteva invece in questione - più in generale- lo spinoso tema del concorso di colpa del danneggiato. Ricordiamo infatti che la Corte territoriale, pur riconoscendo nella specie una concorrente responsabilità datoriale, aveva comunque valorizzato un prevalente apporto colposo dell'operaio. Ciò tuttavia, ad avviso di quest'ultimo, in flagrante contrasto con una consolidata linea interpretativa di legittimità secondo cui in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore il datore di lavoro è «interamente responsabile dell'infortunio che ne sia derivato e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato».

Le soluzioni giuridiche

Il Supremo Collegio accoglie il nucleo principale dell'articolato ricorso del lavoratore infortunato, rinviando la causa alla corte di merito. Ritenute superflue o comunque non conoscibili le molteplici censure avanzate in ordine alla ricostruzione del quadro fattuale e rimesso integralmente al giudice di rinvio il tema della quantificazione del danno, i giudici di legittimità si soffermano esclusivamente sulla questione -ritenuta di centrale rilievo - della rilevanza del concorso di colpa nell'ambito degli infortuni sul lavoro.

E ciò fanno mediante un denso excursus della relativa tematica, condotto attraverso il particolare prisma dello “specifico settore di rischio coinvolto”. La rilevanza della colpa, in questa specifica ottica, e dunque l'assetto del possibile concorso debbono infatti, secondo l'interessante ricostruzione operata nella sentenza in commento, essere declinati «all'interno di un quadro di fondo secondo cui chi organizza e pone in essere un'attività rischiosa, è tenuto a predisporre quanto necessario per evitare pregiudizi a terzi». L'obbligo datoriale di protezione riveste addirittura in questa lettura una“portata pervasiva”: non solo i poteri direzionali determinano unastringente soggezione agli ordini da parte del lavoratore, ma «la destinazione dell'organizzazione ad un fine produttivo espressione di un interesse proprio del datore di lavoro» impone infatti, in una logica di preminenza della persona, che i presidi di sicurezza risalgano alla «responsabilità primaria datoriale». Alla luce di queste premesse dogmatiche, il nesso causale tra l'attività di lavoro e il danno può dunque dirsi pacificamente escluso (in linea peraltro con gli ormai consolidati approdi della giurisprudenza di legittimità) solo in presenza del c.d. rischio elettivo. Vale a dire al cospetto di quei comportamenti del lavoratore definibili “abnormi”, sia in quanto mossi da motivazioni del tutto estranee alla prestazione lavorativa, sia in quanto oggettivamente anomali e imprevedibili o non impedibili dal datore e, in quanto tali, sussumibili nell'area di esclusione del caso fortuito.Una volta sgombrato il campo dai casi estremi in cui il comportamento del lavoratore assorbe in sé l'intera efficacia causale dell'evento, l'analisi va purtuttavia riportata all'interno delle logiche proprie della responsabilità per colpa. Chiariscono infatti i massimi giudici come quella dell'

art. 2087 c.c.

non rappresenti un'ipotesi di responsabilità oggettiva e come la responsabilità datoriale non possa che fondarsi sulla «violazione di obblighi di comportamento a protezione della salute del lavoratore». In questo terreno, sottolinea la decisione, può dunque darsi un comportamento del lavoratore che, pur non trasmodando in rischio elettivo, può nondimeno apprezzarsi ai fini del concorso di colpa di cui all'

art. 1227 c.c.

L'inadempimento datoriale agli obblighi di prevenzione non è infatti in sé incompatibile con l'esistenza di una condotta colposa del lavoratore, con i correlati effetti sul meccanismo risarcitorio. E invero lo stesso lavoratore è pur sempre vincolato, di par suo, al rispetto di un obbligo di diligenza a tutela dell'incolumità propria ed altrui e, ancora più in generale, all'osservanza di quel principio di autoresponsabilità che presiede a tutti i rapporti tra i consociati. Ciò posto, la particolare realtà del rapporto di lavoro,i concreti equilibri economici, organizzativi e di allocazione del rischio che lo governano, impongono però secondo il dictum qui commentato alcuni, penetranti, distinguo rispetto al “normale” regime del concorso colposo. E qui viene dunque in questione quel concetto della “portata pervasiva” dell'obbligo datoriale di protezione dianzi citato. In quest'ottica, dunque, se può pure dirsi astrattamente dotato di efficacia concausale un certo comportamento del lavoratore, lo stesso degrada a mera occasione quante volte esso sia tenuto in osservanza di specifiche direttive o ordini datoriali. Allo stesso modo una condotta materiale “concausale” del lavoratore perde rilevanza eziologica allorché si inserisca in un contesto di mancata adozione da parte del datore di lavoro di quelle forme tipiche o atipiche (anche formative o informative) di prevenzione la cui ricorrenza avrebbe potuto scongiurare la verificazione dell'evento di danno. In sostanza, ferme le coordinate generali della responsabilità civile, l'equilibrio del sinallagma proprio del rapporto di lavoro implica dunque l'affermazione di una “primaria”, “pervasiva”, responsabilità datoriale. Tale per cui il datore di lavoro è tenuto a proteggere la salute e l'incolumità del dipendente, nonostante l'imprudenza e la negligenza di quest'ultimo. Così restringendo, benché non elidendo in astratto, l'operatività del principio del concorso di colpa sotteso all'

art. 1227 c.c.

, con le correlate conseguenze sul piano del risarcimento.

Osservazioni

Il preoccupante dilagare del fenomeno degli infortuni sul lavoro, aggravato dalle pesanti ricadute sociali del costante incremento delle c.d. morti bianche, mette in ricorrente tensione i principi canonici della responsabilità civile. La decisione qui in esame, pur non abbandonando il solco della responsabilità per colpa, sembra tuttavia riecheggiare in alcuni passaggi le note teorie di ascendenza anglosassone sul concetto di rischio di impresa. Secondo il noto brocardo “eigeneInitiative, eigeneGefahr” chi agisce a proprio rischio deve sopportarne le conseguenze, con sfumature diverse che pongono enfasi sul momento della creazione del rischio stesso o, avvicinandosi ancora di più alla nostra tematica, al suo controllo. Sennonché tali teorie, per quanto seducenti, non sembrano avere un riscontro positivo nel nostro ordinamento, quanto meno in rapporto allo statuto della responsabilità datoriale. Lo ribadiscono peraltro – come detto – gli stessi giudici della pronuncia in commento e lo ripetono, in modo ancora più inequivoco e persuasivo, in un'ancora più recente decisione di legittimità (

Cass. civ.,

Sez

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Lav

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, sent

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11 febbraio 2020, n. 3282

). Con essa il Supremo Collegio, pur riconoscendo all'

art. 2087 c.c.

una fondamentale funzione “dinamica” rispetto alla tutela della sicurezza, esclude infatti - ancora una volta - una possibile lettura oggettivistica della responsabilità datoriale. Insuscettibile «di essere ampliata fino al punto di comprendere, sotto il profilo oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti».

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