In tema di prova della mancata convocazione e della mancata partecipazione del socio all'assemblea
13 Marzo 2020
Massima
Grava sui soci, che impugnino una delibera assembleare di società di capitali, l'onere di provare la non corrispondenza alla realtà del contenuto del verbale, oggetto di contestazione in sede di impugnazione; tale prova può essere raggiunta con ogni mezzo qualora il verbale non sia redatto da notaio, occorrendo altrimenti l'attivazione del procedimento per querela di falso. Il caso
Un socio di s.r.l. aveva impugnato una delibera assembleare (di approvazione del bilancio e ripianamento delle perdite), deducendo la mancata convocazione e la falsità del corrispondente verbale, dal quale risultava la presenza dell'intera compagine sociale e dunque il carattere totalitario della riunione assembleare. Il socio impugnante lamentava, dunque, di non essere stato convocato e conseguentemente di non aver partecipato alla riunione dell'assemblea, contrariamente a quanto era stato tuttavia riportato nel verbale. Il Tribunale di Milano, all'esito del giudizio di primo grado, aveva respinto la domanda, ritenendo che il socio non avesse dedotto mezzi di prova per dimostrare di non aver partecipato alla seduta assembleare. La Corte d'Appello di Milano, poi, aveva dichiarato inammissibile l'appello conseguentemente proposto dal socio impugnante, osservando, più specificamente, che questi non aveva proposto querela di falso per contestare l'attestazione del presidente dell'assemblea, contenuta nel verbale, circa la sua presenza e, dunque, per dimostrare di essere rimasto assente. Infine, è stato proposto ricorso per Cassazione, parimenti rigettato dalla Suprema Corte con la sentenza in commento, mediante il richiamo all'assunto - già oggetto di sue precedenti statuizioni - secondo cui “nel caso di deliberazione adottata dall'assemblea di una s.r.l., in difetto di regolare convocazione, qualora nel relativo verbale sia dato atto della partecipazione di tutti i soci - personalmente, ovvero in quanto rappresentati su delega - incombe su colui il quale impugna la deliberazione l'onere di provare il carattere non totalitario dell'assemblea”. Le questioni
Con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha affrontato due questioni, strettamente connesse tra loro e particolarmente delicate, anche per la loro ampia rilevanza di ordine pratico: i) da un lato, il problema dell'individuazione della parte su cui grava l'onere della prova nel caso descritto, cioè quello - potenzialmente tutt'altro che infrequente - del socio che deduca di non aver preso parte ad una riunione assembleare, contrariamente alle risultanze del verbale; ii) dall'altro lato e correlativamente, quali siano i mezzi di prova dei quali il socio impugnante possa avvalersi per dimostrare la veridicità delle proprie allegazioni (e dunque la lamentata falsità del verbale). Il socio impugnante (e poi ricorrente in Cassazione, appunto) aveva infatti sostenuto, in particolare e per quanto attiene al merito: i) che incombesse sulla società convenuta l'onere di dimostrare l'avvenuta convocazione e la presenza dell'intera compagine sociale in assemblea; ii) in secondo luogo, che i verbali non redatti da notaio andrebbero qualificati come scritture private non riconosciute, con la conseguenza che la querela di falso non potrebbe essere ritenuta l'unico strumento idoneo a contestarne il contenuto.
Le soluzioni giuridiche
Sulla prima questione, la Suprema Corte ha accolto integralmente la prospettazione già fatta propria dalla Corte d'Appello, statuendo senza esitazioni, come già si è accennato, che grava sul socio impugnante l'onere di provare il carattere non totalitario dell'assemblea e, dunque, la non corrispondenza al vero delle risultanze del verbale assembleare. Sulla seconda questione, invece, ossia quella della tipologia dei mezzi di prova utilizzabili allo scopo, la sentenza della Cassazione si è parzialmente discostata da quanto affermato dalla pronuncia di secondo grado, chiarendo che i soci possono far valere la difformità del verbale rispetto alla realtà effettuale “con qualsiasi mezzo di prova”, quantomeno nei casi in cui il verbale non sia “dotato di fede privilegiata”. In altre parole, la querela di falso dovrebbe essere il mezzo per mettere in discussione il contenuto di un verbale notarile, redatto per atto pubblico, e non anche un qualsiasi verbale che rivesta la forma della scrittura privata. Nonostante tale parziale presa di distanza rispetto a quanto emerso dal giudizio di seconde cure, la Suprema Corte ha comunque rigettato il ricorso del socio, rifacendosi nuovamente al primo assunto e richiamando l'argomentazione del Tribunale secondo cui, in concreto, il socio attore in giudizio non avesse neppure dedotto mezzi istruttori volti a dimostrare la fondatezza di quanto da lui affermato.
Osservazioni
Il caso in esame involge quella che, nella realtà fattuale, si candida ad essere la principale ipotesi - generalmente ricondotta alla categoria della nullità, sebbene, come è noto, la disciplina in materia di s.r.l. non ne faccia espressa menzione - di invalidità delle delibere assembleari (o delle decisioni dei soci) di s.r.l. prese “in assenza assoluta di informazione”. Infatti, se la mancanza di convocazione potrebbe non ritenersi di per sé sufficiente a tal fine [cfr. ABRIANI (a cura di), Codice delle Società, Torino, 2016, sub art. 2479ter, 2066], non dovrebbe esserci dubbio sul fatto che tale circostanza, unitamente alla mancata partecipazione del socio all'assemblea (in quanto non avvertito in alcun modo), integri, in via di principio, la fattispecie di invalidità appena richiamata. Si comprende, dunque, la notevole (almeno potenziale) rilevanza pratica della pronuncia in commento. È tutt'altro che improbabile, del resto, che, in ipotesi di conflitto fra soci, taluno di questi si trovi nella situazione di dover (o di voler) contestare la rappresentazione della realtà contenuta nel verbale di una seduta assembleare, soprattutto qualora non vi abbia partecipato. Il problema, dunque, potrebbe avere una portata anche più ampia rispetto a quella venuta in rilievo nella fattispecie concreta, che atteneva all'ipotesi (più specifica ma certamente anche più grave) di asserita erroneità del verbale proprio in ordine alla presenza o meno del socio impugnante (oltre che, come detto, di asserita mancata convocazione). In questi casi, si tratta anzitutto di rispondere all'interrogativo circa l'individuazione del soggetto che debba farsi carico del relativo onere probatorio. Al riguardo, sembrano venire in rilievo due opposti principi processuali e correlative esigenze: i) da una parte, la regola generale circa la sussistenza dell'onere probatorio in capo a chi agisca in giudizio per far valere un proprio diritto (art. 2697 c.c.); ii) dall'altra parte, il principio secondo cui non si dovrebbe essere gravati di una c.d. prova negativa, riassunto nel brocardo negativa non sunt probanda. In questo contesto, la Suprema Corte - in linea con le sentenze emesse nei gradi precedenti - sembra aver affermato senza mezzi termini la prevalenza del primo di questi due princìpi, seguendo del resto quel consolidato orientamento secondo cui la regola sul riparto dell'onere della prova non subisce deroghe per il fatto che ci si trovi nella necessità di dimostrare una circostanza negativa (ossia il non accadimento di un fatto): d'altronde, è insegnamento costante che la c.d. prova negativa possa essere fornita mediante la prova di un fatto positivo contrario (e quindi incompatibile) o anche mediante presunzioni (cfr., fra le altre, Cass. 7 maggio 2015, n. 9201; Cass. 13 giugno 2013, n. 14854). Tuttavia, possono darsi casi - e, forse, quello in esame ne è un esempio - in cui non è agevole immaginare che la c.d. prova negativa possa essere raggiunta nel modo appena indicato: pertanto, in tali ipotesi, anche il diffuso convincimento circa l'inammissibilità della prova testimoniale su una circostanza “negativa” potrebbe (o forse dovrebbe) essere in qualche misura ridimensionato e circoscritto. Perché mai, cioè, in un caso come quello in commento, al socio attore in giudizio dovrebbe essere preclusa la possibilità di chiamare a testimoniare il presidente dell'assemblea (o un altro socio, o chiunque altro sia stato presente in occasione della riunione assembleare) affinché dichiari e confermi che quel socio attore in giudizio non vi avesse preso parte? Sebbene il tema, di natura chiaramente processuale, meriterebbe forse più ampi approfondimenti, sembra possibile affermare che non tutte le circostanze “negative” debbano necessariamente essere trattate allo stesso modo sul piano probatorio: in termini generali, infatti, altro è il tentativo di dimostrare che un determinato fatto non sia mai accaduto tout court (ad esempio, che Tizio e Caio non hanno mai cenato insieme nell'arco della loro vita, o anche soltanto nel corso dell'anno 2019, cosa che effettivamente nessuno all'infuori di loro stessi potrebbe mai affermare con certezza), altro è la dimostrazione che, in un dato contesto spazio-temporale, sufficientemente delimitato e circostanziato, un determinato evento, a sua volta sufficientemente precisato, non si sia verificato. Dovrebbe rientrare in questa seconda categoria, appunto, la necessità (e la possibilità) di provare (anche mediante testimoni, all'occorrenza) che un determinato socio non abbia partecipato alla riunione dell'assemblea della società che si sia svolta in una certa data ed ora e in un certo luogo (sarebbe invece senz'altro più problematico estendere tale considerazione, proprio in ragione di quanto si è appena detto, anche alla prova del mancato invio al socio della convocazione assembleare). Una simile conclusione, del resto, sembra coerente con una piena valorizzazione dell'affermazione contenuta nella sentenza, secondo cui, come si è visto, la prova della non veridicità di quanto riportato nel verbale (quantomeno se redatto per scrittura privata) dovrebbe poter essere data “con qualsiasi mezzo”, ma anche con le preoccupazioni che hanno certamente ispirato la decisione della Suprema Corte: si tratta, da un lato, dell'esigenza di non stravolgere i princìpi in materia di distribuzione dell'onere della prova (e in particolare quello sancito dall'art. 2697 c.c.); al contempo, dall'altro lato, dell'esigenza di non gravare il socio attore in giudizio di una prova sostanzialmente impossibile o quantomeno diabolica (quale, con ogni probabilità, si rivelerebbe ove gli fosse impedito di avvalersi della prova testimoniale o eventualmente anche dell'interrogatorio formale per dimostrare, contrariamente alle risultanze del verbale redatto per scrittura privata, la sua assenza dall'adunanza). A tale riguardo, peraltro, un utile riferimento normativo potrebbe essere rappresentato dalla norma dell'art. 2724, n. 2, c.c., il quale, come è noto, ammette “in ogni caso” la prova per testimoni qualora, fra l'altro, “il contraente [nel caso di specie si tratterebbe del socio, n.d.r.] è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta”. Ove non si condividesse tale impostazione, cioè quella dell'ammissibilità dell'impiego di ogni mezzo di prova (e dunque anche delle prove orali) in un caso come quello di specie, una equilibrata composizione dei diversi interessi in gioco dovrebbe passare attraverso una soluzione diversa, che, a quel punto, richiederebbe però una qualche forma di inversione dell'onere della prova: si tratterebbe di una strada alternativa e probabilmente non del tutto impercorribile, se si pensa anche soltanto al fatto che la società potrebbe comunque agevolmente munirsi - come peraltro spesso già accade - di un foglio delle presenze che, sottoscritto da ognuno dei presenti, viene poi materialmente unito al verbale della seduta assembleare. Le considerazioni che precedono sembrano potersi armonizzare anche con una riflessione di carattere sistematico collocata sul piano del diritto societario (oltre che, appunto, sul terreno strettamente processuale). Ci si riferisce al fatto che il riconoscimento dell'esistenza di un adeguato onere della prova in capo al socio che agisce in giudizio - impugnando una delibera assembleare e deducendo la non veridicità del verbale - si presenta, oltre che conforme alle regole processuali, coerente con il sistema delle impugnazioni scaturito dalla riforma del diritto societario del 2003, il quale, come è noto, è permeato dall'intento di garantire la più ampia stabilità delle decisioni degli organi sociali (destinate ovviamente a tradursi nel compimento delle operazioni che l'esercizio dell'attività imprenditoriale ordinariamente richiede ed implica). D'altro canto, la preoccupazione di non caricare “sulle spalle” del socio (di minoranza, evidentemente), autore dell'impugnazione, un onere probatorio pressoché impossibile - o comunque eccessivamente gravoso - ben si sposa con un ormai necessario abbandono dell'idea - forse meno diffusa che in passato, ma che talvolta ancora permea una certa concezione dei rapporti societari - secondo cui il socio minoritario sia, nella gran parte dei casi, una sorta di disturbatore o quantomeno di fonte di conflitti endosocietari: fermo restando, ovviamente, che ogni vicenda ha le sue peculiarità e che certamente anche simili situazioni non sono certo infrequenti, non è però così raro che si riscontrino nella prassi, specialmente di società (per azioni o a responsabilità limitata) a compagine sociale ristretta, anche casi di abusi o quantomeno tentativi di sopraffazione da parte dei soci maggioritari (che, ovviamente, meritano di essere altrettanto convintamente censurati). Conclusioni
La soluzione adottata dalla Suprema Corte - pur non essendo probabilmente, come si è visto, l'unica praticabile, soprattutto alla luce della considerazione che la società convenuta in giudizio è o quantomeno potrebbe agevolmente porsi nella condizione di fornire la prova positiva contraria a quanto sostenuto dal socio che deduca la non veridicità del verbale - appare convincente, ove interpretata nel senso che l'ammissibilità di ogni mezzo di prova, al fine di dimostrare (la mancata convocazione assembleare e soprattutto) la non veridicità del verbale, consenta di introdurre allo scopo anche la prova orale (quella per testimoni e/o l'interrogatorio formale): ciò risulta infatti consentire un adeguato contemperamento dei contrapposti interessi - tanto sul piano processuale quanto in ambito propriamente societario - del socio attore e della società convenuta, e delle posizioni da loro occupate nella controversia endosocietaria. |