Cassazione: sì alle intercettazioni se i reati diversi sono connessi

Ilenia Alagna
16 Marzo 2020

Se due reati di diversa tipologia, sono connessi tra loro, cade il divieto di utilizzare le intercettazioni nel procedimento diverso da quello per il quale sono state autorizzate?
Massima

Il divieto di utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata dispostaab origine, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge.

Il caso

Il caso sottoposto alla Corte di Cassazione ha ad oggetto la questione dell'utilizzabilità degli esiti delle operazioni di intercettazione, rilevanti ai fini della decisione, autorizzate con riferimento a reati diversi, rispetto ai quali non sussisteva alcun collegamento, se non meramente occasionale, con quelli che avevano determinato l'autorizzazione delle operazioni di intercettazione. Il ricorrente (Tizio) aveva sostenuto che avrebbe dovuto farsi applicazione del principio sancito dall'art. 270, comma 1, c.p.p., per il quale i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto, ipotesi non ravvisabile nel caso in esame. Il Collegio ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, prendendo atto dell'esistenza nella giurisprudenza di legittimità di un rilevante contrasto tra due opposti orientamenti interpretativi. Il punto di partenza era stato la posizione della Corte Costituzionale (Corte cost. n. 361 del 1991) che ha individuato un ragionevole punto di equilibrio tra primarie esigenze di tutela dell'individuo, inerenti il nucleo dei diritti fondamentali, e l'interesse pubblico primario all'accertamento dei reati, incentrato sull'intervento del Giudice per autorizzare l'attività di intercettazione, da ritenersi strettamente correlata all'ambito della specifica autorizzazione. Il tema era relativo al significato da attribuire alla nozione di diverso procedimento, da cui dipende l'applicabilità o meno del regime previsto dall'art. 270, comma 1, c.p.p.

La questione

Se due reati di diversa tipologia, sono connessi tra loro, cade il divieto di utilizzare le intercettazioni nel procedimento diverso da quello per il quale sono state autorizzate?

Le soluzioni giuridiche

Le Sezioni Unite, con la sentenza del 2 gennaio 2020, n. 51,stabiliscono che se il reato è connesso cade il divieto di utilizzare le intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali sono state autorizzate. L'equilibrio tra l'esigenza di riservatezza dei privati e la necessità di contrastare il crimine sta nella verifica di un legame sostanziale, indipendente dalla vicenda processuale, tra il reato per il quale è stata autorizzata l'intercettazione e il reato emerso grazie all'ascolto. Legame che può riscontrarsi, ad esempio, nel reato continuato o nel concorso formale di reati. In caso di imputazioni connesse il procedimento relativo al reato per il quale l'autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi “diverso” rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dell'intercettazione. Per legittimare l'uso delle intercettazioni che non hanno avuto un espresso via libera, il giudice dovrà indicare «un preciso collegamento tra i fatti per i quali erano state mano a mano autorizzate e prorogate le operazioni di intercettazione e quelli per i quali, anche sulla base delle conversazioni intercettate, è stata confermata la condanna». Per i giudici il rapporto procedimento-reato è smentita, riguardo alle intercettazioni dal comma 1-bis dell'art. 270 c.p.p. Secondo tale norma, i risultati delle intercettazioni effettuate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile, «non possono essere utilizzati come prova di reati diversi da quelli per quali è stato emesso il decreto di autorizzazione». In tale prospettiva, il riferimento al reato e non al procedimento è teso a distinguere il regime di utilizzabilità delle intercettazioni. Solo per il trojan e non per le intercettazioni tradizionali il regime viene delineato riguardo al reato per il quale c'è stata l'autorizzazione. I giudici sul punto ricordano che nel corso del deposito della sentenza, il d.l. 161/2019 ha sostituito il comma 1-bis dell'art. 270 . Il nuovo dettato normativo stabilisce che i risultati delle intercettazioni tra presenti effettuate con il trojan su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per provare reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione se compresi tra quelli indicati dall'art. 266 comma 2-bis. Le Sezioni Unite, nella decisione de qua, hanno premesso una necessaria ricognizione del quadro costituzionale di riferimento, con particolare riguardo all'art. 15 Cost., che tutela l'interesse inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, ricordando come non si possano subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell'inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario (riconosciuto all'esigenza di repressione dei reati). Passaggio successivo diviene così la disciplina di cui all'art. 270 c.p.p., il cui primo comma contiene la «possibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni disposte nell'ambito di un determinato processo limitatamente ai procedimenti diversi, relativi all'accertamento di reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza». Si tratta, ricorda il Provvedimento, di un «non irragionevole bilanciamento operato dal legislatore fra il valore costituzionale rappresentato dal diritto inviolabile dei singoli individui alla libertà e alla segretezza delle loro comunicazioni e quello rappresentato dall'interesse pubblico primario alla repressione di particolari reati”. Su tale premessa va letto, ricorda il Collegio, il sistema autorizzatorio, ove l'autorizzazione del giudice circoscrive l'utilizzazione dei suoi risultati ai fatti-reato che all'autorizzazione stessa risultino riconducibili; una precisazione essenziale affinché l'intervento giudiziale abilitativo non si trasformi in una "autorizzazione in bianco" (con la sola già richiamata eccezione rappresentata dall'utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l'accertamento dei reati per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza). L'autorizzazione del giudice costituisce non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all'intercettazione, ma anche il limite all'utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione. La Corte precisa, a tal proposito, che il divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi riguarda solo alla valutazione di tali risultati come elementi di prova, ma non preclude la possibilità di dedurre, dagli stessi, notizie di nuovi reati, quale punto di partenza di nuove indagini. Il reato accertato, sulla base dell'intercettazione autorizzata in specifica relazione ad altro reato, rientra nei limiti di ammissibilità del mezzo di ricerca della prova. Questi si individuano attraverso il riferimento alla comminatoria edittale del reato e/o alla indicazione di tipologie generali o specifiche di fattispecie incriminatrici. Ed è noto come l'utilizzazione probatoria dell'intercettazione in relazione a reati che non rientrano nei limiti di ammissibilità fissati dalla legge si tradurrebbe in un aggiramento di tali limiti. Con la conseguente affermazione che l'utilizzabilità dei risultati di intercettazioni disposte nell'ambito di un "medesimo procedimento" presuppone che i reati diversi da quelli per i quali il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato rientrino nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni stabiliti dalla legge. Le osservazioni sopra riportate costituiscono la ratio della specifica risposta data dalle Sezioni unite al più specifico quesito che ha dato origine alla decisione, in quanto risulta evidente che il secondo dei sopra riportati orientamenti non possa essere seguito, atteso che il criterio formale dell'inerenza del "nuovo" reato al medesimo «contenitore dell'attività di indagine» ne mette in luce l'incompatibilità con la portata dell'autorizzazione giudiziale delineata dall'art. 15 Cost. La Corte esclude altresì che possa considerarsi la nozione di "procedimento" come sinonimo di "reato", anche per il carattere tutt'altro che univoco del riferimento al "procedimento" nel lessico generale del codice di rito. La decisione individua poi quale debba essere il "legame sostanziale" tra il reato in relazione al quale l'autorizzazione all'intercettazione è stata emessa e il reato emerso grazie ai risultati di tale intercettazione, che sia idonea a ricondurre al provvedimento autorizzatorio quest'ultimo reato e, dunque, in linea con l'art. 15 Cost., che vieta "autorizzazioni in bianco". Le Sezioni Unite affermano che in caso di imputazioni connesse ex art. 12 c.p.p., il procedimento relativo al reato per il quale l'autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi "diverso" rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dei risultati dell'intercettazione. In questo caso il legame sostanziale, e non meramente processuale, tra i diversi fatti-reato consente di ricondurre ai «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede», di cui al provvedimento autorizzatorio dell'intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione. Avendo escluso la possibilità di estendere le conclusioni favorevoli al criterio basato sul collegamento investigativo di cui all'art. 371 c.p.p., negando che, in tale caso, sussista quel legame oggettivo tra i reati, necessario per assicurare la riconducibilità del "nuovo" reato all'autorizzazione giudiziale, la Corte ha affermato il principio di diritto per il quale: il divieto di cui all'art. 270 c.p.p. di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni, salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza, non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 c.p.p. a quelli in relazione ai quali l'autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge.

Osservazioni

Le Sezioni Unite sono coerenti con l'indirizzo seguito dalla giurisprudenza prevalente e da un recente provvedimento (sent. 1 marzo 2016 n. 21740), che seppur non menzionato all'interno della sentenza de qua, stabilisce che i risultati delle intercettazioni telefoniche legittimamente autorizzate all'interno di un procedimento penale inizialmente unitario sono utilizzabili per tutti i reati che ne sono oggetto e solo quando lo stesso sia stato successivamente frazionato a causa delle eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati l'utilizzabilità è subordinata al fatto che il controllo sulle conversazioni avrebbe potuto essere autonomamente disposto ai sensi dell'art. 266 c.p.p. senza necessità quindi del requisito dell'arresto obbligatorio in flagranza che postula l'esistenza di procedimenti ab origine tra loro distinti. Quanto ai risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli contemplati dall' art. 266 c.p.p. anche la trattazione contenuta nel Provvedimento (Sez. 6, sent. 21 febbraio 2018 n. 19496), ha statuito che sono utilizzabili, anche relativamente ad altri reati che emergano dall'attività di captazione, ancorché per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite.

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