Legge - 9/12/1998 - n. 431 art. 4 bis - Tipi di contratto 1Tipi di contratto1 1. La convenzione nazionale di cui all'articolo 4, comma 1, approva i tipi di contratto per la stipula dei contratti agevolati di cui all'articolo 2, comma 3, nonché dei contratti di locazione di natura transitoria di cui all'articolo 5, comma 1, e dei contratti di locazione per studenti universitari di cui all'articolo 5, commi 2 e 3. 2. I tipi di contratto possono indicare scelte alternative, da definire negli accordi locali, in relazione a specifici aspetti contrattuali, con particolare riferimento ai criteri per la misurazione delle superfici degli immobili. 3. In caso di mancanza di accordo delle parti, i tipi di contratto sono definiti con il decreto di cui all'articolo 4, comma 2. [1] Articolo inserito dall'articolo 1, della Legge 8 gennaio 2002, n. 2. InquadramentoLa l. n. 392/1978 – c.d. legge sull'equo canone – aveva introdotto norme che, sia pure nella prospettiva di un superamento della legislazione vincolistica e di un ritorno alle regole del libero mercato, erano comunque fortemente limitative dell'autonomia negoziale privata ed incidevano sullo stesso funzionamento del sinallagma contrattuale, il tutto ispirato alla tutela del conduttore visto come contraente più debole; con particolare riferimento alle locazioni ad uso abitativo, erano contemplate, con limitate eccezioni, una durata minima quadriennale del rapporto ed un sistema dettagliato per la determinazione del canone massimo percepibile. Con il d.l. n. 333/1992, convertito, con modificazioni, nella l. n. 359/1992 – c.d. legge sui patti in deroga – il legislatore aveva disposto una netta inversione di tendenza rispetto alla disciplina vincolistica, ristabilendo, a certe condizioni, la libera determinazione del canone anche per le unità immobiliari ad uso abitativo; in particolare, si prevedeva un doppio binario, potendosi stipulare, relativamente agli immobili privi del requisito di novità, sia contratti di locazione ad equo canone, che rimanevano la regola, sia c.d. patti in deroga alla legge sull'equo canone, a condizione che il locatore rinunciasse alla facoltà di disdettare il contratto alla prima scadenza (salvo che avesse l'esigenza di adibire l'immobile agli usi elencati nell'art. 29 della l. n. 392/1978, o effettuare sullo stesso le opere previste dal successivo art. 59), mentre, per i contratti relativi agli immobili c.d. nuovi, la cui ultimazione cioè fosse successiva all'entrata in vigore del decreto, l'operatività della legge sull'equo canone veniva esclusa limitatamente alle disposizioni (artt. da 12 a 22) concernenti il calcolo del canone, mantenendo ferma la durata legale del rapporto (4+4, salvo disdetta). La l. n. 431/1998 – recante la nuova “disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo” – ha prefigurato anch'essa un doppio canale, prevedendo, da un lato, la possibilità di determinare liberamente il corrispettivo della locazione, la cui durata minima deve essere, però, di otto anni (4+4, salvo disdetta alla prima scadenza nei casi consentiti) e, dall'altro, quella di far propri contratti-tipo definiti localmente sulla scorta di un accordo-quadro a livello nazionale tra Associazioni della proprietà e degli inquilini; l'utilizzo della seconda modalità di contrattazione ha registrato, come contropartita, alcuni incentivi, segnatamente sul piano delle imposte erariali e di quelle di registro, nonché in ordine alla più breve durata del contratto (3+2), il tutto anche con la finalità di recupero del sommerso stante la diffusa presenza degli affitti c.d. in nero. In particolare, l'art. 4 della l. n. 431/1998 (in commento) prevede una serie di procedure destinate a sfociare in accordi locali e modelli contrattuali, nonché l'emanazione di specifici decreti ministeriali, volti a definire i criteri cui devono uniformarsi i contratti agevolati (o convenzionati), occupandosi segnatamente delle modalità di stipula della Convenzione nazionale destinata ad individuare i criteri generali per la definizione dei canoni anche in relazione alla durata dei contratti, alla rendita catastale dell'immobile e ad altri parametri oggettivi. Dal canto suo, l'art. 4-bis della l. n. 431/1998 – introdotto dall'art. 1, comma 1, della l. n. 2/2002 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 14 gennaio 2002, n. 11) anch'esso oggetto di commento – prevede l'attribuzione alla Convenzione nazionale dell'ulteriore contenuto di definizione dei “tipi di contratto” per la stipula sia dei contratti agevolati di cui all'art. 2, comma 3; in particolare, la novella del 2002 prevede che tali contratti possano indicare scelte alternative, da definire negli accordi locali, ai quali è stata, invece, sottratta la definizione dei contratti-tipo originariamente prevista dall'art. 2, comma 3. L'ultimo comma dell'art. 4 prevede, infine, l'emanazione di un regolamento governativo per la definizione di criteri relativi alla determinazione, da parte delle Regioni, dei canoni di locazione per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica in sostituzione di quelli facenti riferimento alla legge dell'equo canone, di cui peraltro è statuita la permanente validità fino all'adeguamento regionale ai nuovi criteri. Facilitazione dei contratti agevolatiVenendo più da vicino al (macchinoso e complesso) sistema ideato dal legislatore, il Ministro dei lavori pubblici, entro sessanta giorni dalla data in vigore della l. n. 431/1998 (ossia dal 30 dicembre 1998) – e successivamente ogni triennio, al fine di un eventuale adeguamento dei parametri – provvede a convocare le Organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori “maggiormente rappresentative a livello nazionale”. Qualora le suddette parti non raggiungano un accordo, sarà il Ministro dei lavori pubblici, previo concerto con il Ministro delle finanze, e sulla base degli “orientamenti prevalenti” espressi dalle predette Organizzazioni, a definire i “criteri generali” che costituiscono il quadro entro cui si potranno realizzare gli accordi locali contemplati dall'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998, il cui rispetto costituisce, peraltro, condizione indispensabile per l'applicabilità delle agevolazioni fiscali previste dall'art. 8 della medesima legge. Il comma 2 rimette alla normazione secondaria, e precisamente ad un decreto del Ministro dei lavori pubblici, l'indicazione dei criteri generali, nonché delle modalità di applicazione dei benefici fiscali concernenti i soli contratti di locazione stipulati ai sensi del comma 3 dell'art. 2. Il comma 3 attribuisce, poi, al Ministro dei lavori pubblici, di concerto con il Ministro delle finanze, il potere sostitutivo di emettere apposito decreto che fissi le condizioni per la stipula dei suddetti contratti nel caso di inerzia dei Comuni o di mancato raggiungimento di intese a livello locale. In attuazione del dettato normativo, la prima Convenzione nazionale è stata sottoscritta l'8 febbraio 1999 e successivamente recepita dal decreto del Ministro dei lavori pubblici del 5 marzo 1999. Dopo l'introduzione delle modifiche normative apportate dalla l. n. 2/2002 (c.d. legge Foti), che ha aggiunto l'art. 4-bis ed ha sottratto alla contrattazione locale (c.d. accordi territoriali) il compito di predisporre i contratti-tipo demandando tale contenuto alla Convenzione nazionale, i criteri generali e i contratti-tipo, ai sensi dell'art. 4, comma 1, sono stati indicati con il d.m. 30 dicembre 2002, non essendo stato raggiunto, questa seconda volta, un accordo unico tra le parti sociali. Per consentire la stipula di contratti di locazione agevolati in tutti i Comuni in cui non sono stati perfezionati gli accordi locali, il Governo ha, poi, successivamente emanato il d.m. 14 luglio 2004. L'ultima Convenzione nazionale, in senso cronologico, è quella stipulata il 1° ottobre 2016, recepita dal d.m. 16 gennaio 2017, il quale prevede, in particolare, che gli accordi territoriali possano stabilire durate contrattuali superiori a quella minima fissata dalla legge (tre anni), misure di aumento dei valori minimo e massimo delle fasce di oscillazione dei canoni definiti per aree omogenee, nonché particolari forme di garanzia bancaria o assicurativa alternative al deposito cauzionale. Pertanto, non si può escludere che nel territorio di un Comune (o di più Comuni associati per caratteristiche di omogeneità), si possano registrare canoni differenziati rispetto al territorio di altri Comuni, in base al rapporto tra domanda ed offerta, al numero degli abitanti e quant'altro, e lo stesso dicasi per la suddivisione del territorio comunale in zone più o meno pregiate e, infine, alla luce delle caratteristiche del singolo immobile. Fasi dell'articolato procedimentoIl procedimento di formazione degli accordi locali, sulla scorta dei quali è consentita la stipula dei c.d. contratti agevolati – detti anche concordati, convenzionati, o concertati – così come disciplinato dagli artt. 4 e 4-bis della l. n. 431/1998, si rivela piuttosto articolato: in estrema sintesi, il c.d. secondo canale poggia su tre pilastri fondamentali, ossia la Convenzione nazionale, i decreti ministeriali e gli accordi locali o territoriali. Analizzando il relativo iter più da vicino (tra le prime disamine, Angiolini 1999, 201), la prima fase è quella volta alla stipula della Convenzione nazionale destinata ad individuare i criteri generali per la definizione dei canoni, anche in relazione alla durata dei contratti, alla rendita catastale dell'immobile e altri parametri oggettivi. Peraltro, a seguito della modifica normativa apportata dalla l. n. 2/2002, la Convenzione nazionale ha anche il fondamentale contenuto di predeterminazione dei tipi di contratto per la stipula dei contratti agevolati di cui all'art. 2, comma 3 (e dei contratti transitori e per gli studenti universitari di cui all'art. 5 della l. n. 431/1998, al cui commento si rinvia); tali contratti-tipo possono indicare, ai sensi dell'art. 4-bis, comma 2, scelte alternative da definire negli accordi locali, in relazione a specifici aspetti contrattuali, con particolare riferimento ai criteri per la misurazione delle superfici degli immobili. Nell'ipotesi di mancanza di accordo delle parti, i contratti-tipo sono definiti con il decreto di cui all'art. 4 comma 2, vale a dire con il decreto del Ministro dei lavori pubblici (di concerto con il Ministro delle finanze) da emanare entro trenta giorni dalla conclusione della Convenzione nazionale o dalla constatazione della mancanza di accordo delle parti decorsi novanta giorni dalla loro convocazione. La seconda fase è, per l'appunto, quella delineata dal comma 2 dell'art. 4, che rimette ad un decreto del Ministro dei lavori pubblici (di concerto con il Ministro delle finanze) il recepimento dei contenuti della Convenzione nazionale allo scopo di conferire ai predetti criteri generali efficacia normativa, nonché l'indicazione delle modalità di applicazione dei benefici fiscali concernenti i soli contratti di locazione stipulati ai sensi del comma 3 dell'art. 2; l'Autorità governativa ha anche il potere di sostituirsi alle Organizzazioni di categoria qualora non raggiungano un accordo e, comunque, rende i contenuti della Convenzione nazionale vincolanti per tutti coloro che andranno, poi, a stipulare in sede locale. La terza fase è quella degli accordi locali che davano luogo – prima della modifica normativa succitata – alla predisposizione di contratti-tipo, sulla scorta delle linee guida fissate nella Convenzione nazionale; in proposito, la l. n. 2/2002 ha modificato la l. n. 431/1998 aggiungendo, tra l'altro, l'art. 4-bis che prevede l'inserimento, nella Convenzione nazionale di cui all'art. 4, anche dei tipi di contratto per la stipula dei contratti agevolati in esame. Quindi, prima della citata modifica normativa, non era prevista una “tipizzazione dei contratti” nell'àmbito della Convenzione nazionale e del decreto ex art. 4 e, al contrario, era prevista per ogni realtà territoriale di contrattazione uno specifico tipo di contratto, come, infatti, è avvenuto nei vari accordi locali integrativi raggiunti a seguito del d.m. 5 marzo 1999; ne è conseguito un evidente ridimensionamento del ruolo della contrattazione territoriale ed integrativa in presenza di contratti-tipo validi per l'intero territorio nazionale e cogenti, stante che, in sede di accordi locali, possono essere in buona sostanza regolamentati solo i parametri dei canoni di locazione (e di aggiornamento dei medesimi) ed i motivi di transitorietà del rapporto locativo. Decreti ministeriali emanatiPassando in veloce rassegna i vari provvedimenti (convenzionali e normativi) che si sono succeduti in subiecta materia in attuazione degli artt. 4 e 4-bis della l. n. 431/1998, va sùbito rilevato che la prima Convenzione nazionale è stata sottoscritta l'8 febbraio 1999; con essa sono stati concordemente stabiliti: a) i criteri per la determinazione dei canoni di locazione nella contrattazione territoriale, b) i criteri per la definizione dei canoni di locazione e dei contratti tipo per gli usi transitori, e c) i criteri generali per la determinazione dei canoni e per i contratti tipo per gli studenti universitari fuori sede (sul versante dottrinale, De Paola, De Paola, 72). Tale Convenzione nazionale è stata successivamente recepita in via integrale dal Ministro dei lavori pubblici con il d.m. 5 marzo 1999 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale 22 marzo 1999, n. 67). Il decreto de quo detta, all'art. 1, i criteri generali per la determinazione dei canoni di locazione nella contrattazione territoriale, prevedendo l'introduzione di fasce di oscillazione all'interno delle quali, secondo le caratteristiche dell'edificio e dell'unità immobiliare, le parti concordano il canone per i singoli specifici contratti. Il decreto prevede, inoltre, che, in ogni Comune, si delimitino le aree aventi caratteristiche omogenee per valori di mercato, dotazioni infrastrutturali e tipologie costruttive al cui interno possono essere individuate zone di particolare pregio o di particolare degrado. Gli accordi territoriali devono, quindi, prevedere, per ogni area o eventuale zona, il valore minimo ed il valore massimo del canone. Per la determinazione del canone effettivo, nel rispetto della fascia di oscillazione, le parti devono tener conto della tipologia dell'alloggio, del suo stato manutentivo e di quello dell'intero stabile, delle pertinenze dell'alloggio, della presenza di spazi comuni, della dotazione di servizi tecnici (ascensore, riscaldamento, condizionamento d'aria) e dell'eventuale dotazione di mobilio. Il canone così concretamente determinato è suscettibile di aggiornamento in misura variabile, rimessa alla singola contrattazione, e comunque non superiore al 75% della variazione I.S.T.A.T. Il decreto de quo rimette, poi, agli accordi territoriali l'introduzione di clausole in materia di manutenzione ordinaria e straordinaria e di ripartizione degli oneri accessori, nonché stabilisce la produttività di interessi legali annuali sul deposito cauzionale non superiore alle tre mensilità; tra l'altro, è prevista la possibilità per le parti contraenti di concordare il diritto di prelazione a favore del conduttore in caso di vendita dell'immobile. Va evidenziato che il d.m. 5 marzo 1999 prevede la possibilità, in sede di accordi territoriali, di stabilire durate del rapporto superiori al triennio, a fronte di un aumento dei canoni definiti per aree omogenee. La contrattazione territoriale per la fissazione degli elementi del contratto agevolato si è conclusa nel gennaio 2000 con l'ultimo accordo provinciale. Giunto a compimento il primo triennio di vigenza del detto decreto, è stata attivata la procedura di legge per il rinnovo della Convenzione nazionale, tuttavia, in occasione del rinnovo, non essendo stato raggiunto un unico accordo tra le parti sociali, in applicazione dell'art. 4, comma 1, della l. n. 431/1998, è stato emanato il d.m. 30 dicembre 2002 (pubblicato sulla Gazzetta ufficiale 14 aprile 2003, n. 85), che si compone di otto articoli cui sono allegati sei tipi di contratto, applicabili in modo uniforme su tutto il territorio nazionale che andavano a sostituire quelli decisi a livello comunale e allegati ai diversi accordi territoriali conclusi. Dei sei tipi di contratto allegati al suddetto decreto ministeriale, qui rilevano soprattutto le locazioni agevolate della proprietà individuale (allegato A) e quelle agevolate dei grandi proprietari immobiliari (allegato B): la distinzione tra le locazioni stipulate da proprietari individuali e grandi proprietari immobiliari si desume in particolare dal comma 5 dell'art. 1 del suddetto decreto: i primi, infatti, si individuano per esclusione e sono i proprietari che non possiedono i requisiti indicati dal detto comma (né quelli dei commi 6 e 7). Per quanto concerne le compagnie assicurative, gli enti privatizzati, i soggetti giuridici o fisici detentori di grandi proprietà immobiliari – tali sono da intendersi le proprietà individuate negli accordi territoriali e, comunque, quelle caratterizzate dall'attribuzione, in capo ad un medesimo soggetto, di più di cento unità immobiliari destinate ad uso abitativo anche se ubicate in modo diffuso e frazionato sul territorio nazionale – i canoni sono definiti, all'interno dei valori minimi e massimi stabiliti dalle fasce di oscillazione per le aree omogenee e le eventuali zone individuate dalle contrattazioni territoriali, in base ad appositi accordi integrativi fra la proprietà interessata e le Organizzazioni sindacali della proprietà edilizia e dei conduttori partecipanti al tavolo di confronto per il rinnovo della Convenzione nazionale o comunque firmatarie degli accordi territoriali relativi. Tali accordi integrativi, da stipularsi per zone territoriali da individuarsi dalle Organizzazioni sindacali predette, possono prevedere speciali condizioni per far fronte ad esigenze di particolari categorie di conduttori nonché la possibilità di derogare alla tabella degli oneri accessori (allegato G). Il comma 6 stabilisce, inoltre, che per gli enti previdenziali pubblici si procede, in analogia a quanto indicato al comma 5, tenuta presente la vigente normativa; i canoni relativi a tale comparto sono determinati in base alle aree e/o zone omogenee nonché agli elementi individuati negli accordi territoriali. Il comma 7 prevede, infine, che, alla sottoscrizione degli accordi integrativi di cui ai commi 5 e 6, possono partecipare imprese o associazioni di imprese di datori di lavoro in relazione alla locazione di alloggi destinati al soddisfacimento di esigenze abitative di lavoratori non residenti e di immigrati comunitari o extracomunitari. I contratti, da stipulare con i diretti fruitori, sono regolati dall'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998. Il successivo d.m. 14 luglio 2004 (pubblicato in Gazzetta ufficiale 12 novembre 2004, n. 266) ha dato attuazione, per la prima volta, all'art. 4, comma 3, della l. n. 431/1998, che, per l'appunto, prevede che il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, fissa con apposito decreto le condizioni alle quali possono essere stipulati i contratti di cui all'art. 2, comma 3, della citata legge nel caso in cui non vengano convocate da parte dei Comuni le Organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori oppure non siano stati definiti gli appositi accordi di cui al medesimo art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998, consentendo, in tal modo, la stipula di contratti di locazione agevolati in tutti i Comuni in cui non sono stati perfezionati gli accordi locali. In particolare, il summenzionato provvedimento disciplina due diverse ipotesi. Per quanto concerne i Comuni per i quali siano stati sottoscritti gli accordi territoriali sulla base del precedente d.m. 5 marzo 1999 (ma non sulla base del successivo d.m. 30 dicembre 2002), è previsto l'aggiornamento delle fasce di oscillazione individuate da tali accordi sulla base dell'intera variazione I.S.T.A.T. intercorsa fra il mese successivo alla data di sottoscrizione degli accordi in questione ed il mese precedente la stipula del nuovo, singolo contratto di locazione. Qualora, invece, non sia stato mai siglato alcun accordo locale (neanche sulla scorta del d.m. 5 marzo 1999), per fissare i canoni dei nuovi contratti occorre far riferimento all'accordo sottoscritto sulla base del d.m. 30 dicembre 2002 da un Comune vicino (anche se sito in altra Provincia o Regione), da individuarsi tenendo conto della dimensione demografica prossima a quella del Comune privo di accordo e della minor distanza. I contraenti dovevano, in ogni caso, necessariamente adottare i nuovi tipi di contratto allegati al d.m. 30 dicembre 2002 e la relativa tabella oneri accessori senza poterli modificare; i canoni così stabiliti erano aggiornabili ogni anno del 75% della variazione I.S.T.A.T., sempre che tale adeguamento venisse espressamente indicato nel contratto sottoscritto. Inoltre, l'art. 1, comma 4, del suddetto decreto ministeriale prevede che gli accordi integrativi, negli stessi Comuni di cui ai commi 1 e 2, per le compagnie assicurative, gli enti privatizzati, i soggetti giuridici o fisici detentori di più di cento unità immobiliari destinate ad uso abitativo anche se ubicate in modo diffuso e frazionato sul territorio nazionale, e gli enti previdenziali pubblici, sono definiti sulla base degli accordi territoriali individuati secondo le disposizioni di cui al comma 1, con relativo incremento delle fasce di oscillazione ivi previsto, e al comma 2. Da ultimo, il Ministro delle infrastrutture e trasporti, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, ha adottato il d.m. 16 gennaio 2017 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 15 marzo 2017, n. 62), con cui, richiamando la Convenzione nazionale del 25 ottobre 2016 ed i relativi allegati, si fissano i criteri generali per la realizzazione degli accordi da definire in sede locale per la stipula dei contratti di locazione ad uso abitativo a canone concordato ai sensi dell'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998. A tale decreto, vengono allegati i seguenti “contratti tipo” (prima demandati alla contrattazione locale): interessano in questa sede quello A per le locazioni abitative, quello D contenente la tabella degli oneri accessori, e quello E concernente le procedure di negoziazione e conciliazione stragiudiziale con indicazione delle modalità di funzionamento della Commissione; in via innovativa, all'interno del primo gruppo, viene dedicata un'apposita determinazione dei canoni per quanto riguarda la c.d. grande proprietà, ossia le compagnie assicurative, i fondi immobiliari, le associazioni e le fondazioni di previdenza, gli istituti di credito, gli enti previdenziali pubblici nonché i “soggetti giuridici o fisici detentori di grandi proprietà immobiliari” (ossia titolari di più di cento unità immobiliari destinate ad uso abitativo, anche se ubicate in modo diffuso e frazionato sul territorio nazionale”). In estrema sintesi (v., per tutti, Sforza Fogliani, Scalettaris, 10), l'art. 1, comma 1, ribadisce che gli accordi territoriali “stabiliscono fasce di oscillazione del canone di locazione all'interno delle quali, secondo le caratteristiche dell'edificio e dell'unità o porzione di unità immobiliare, è concordato tra le parti il canone per i singoli contratti”; si individuano “insieme di aree” aventi caratteristiche omogenee per valori di mercato, dotazioni infrastrutturali e tipologie edilizie (salvo la delimitazione di zone di particolare pregio o degrado); per ogni area, si prevede un valore minimo e massimo del canone, tenendo conto di: tipologia dell'alloggio, stato manutentivo (anche dell'intero stabile), pertinenze, presenza di spazi comuni, dotazione di servizi tecnici, eventuale mobilio; si conferma la possibilità di durate contrattuali superiori a quella minima fissata dalla legge misure di aumento dei valori minimo/massimo delle fasce di oscillazione dei canoni; si prevede l'assistenza (meramente facoltativa) delle rispettive Organizzazioni della proprietà edilizia e degli inquilini, salva la possibilità, per i contratti “non assistiti” di un'attestazione, da parte di queste ultime (o anche di una soltanto ma con relativa assunzione di responsabilità), di rispondenza al contenuto economico/normativo del contratto all'accordo locale, pure riguardo alle agevolazioni fiscali; si contempla, per chi non opta per la c.d. cedolare secca, la possibilità dell'aggiornamento del canone (comunque non superiore al 75% della variazione I.S.T.A.T.). Incidentalmente, su quest’ultimo argomento, riguardo al particolare periodo c.d. emergenziale correlato alla pandemia da coronavirus, si è ritenuto che: a) gli accordi di riduzione del canone, nel caso in cui riguardino contratti di locazione abitativa c.d. “agevolati”, debbano rispettare i valori minimi della fascia fissati dall’accordo locale; b) ai fini della verifica del rispetto di tali valori minimi, il conteggio - nel caso in cui la riduzione sia limitata ad un periodo circoscritto - venga correlato all’importo complessivo dei canoni, comprensivo anche del periodo durante il quale non troverà applicazione la riduzione; c) in ragione della modifica del canone fissato con il contratto, la stipulazione dell’accordo di riduzione renda necessaria l’acquisizione di una nuova attestazione di rispondenza del nuovo contenuto del contratto all’accordo territoriale. Successivamente alla sottoscrizione, gli accordi territoriali sono depositati, a cura di una delle Organizzazioni firmatarie, presso ogni Comune dell'area territoriale interessata; il Comune è tenuto a dare la massima pubblicità a tali accordi (non escludendo un onere in tal senso da parte delle stesse Organizzazioni); in caso di mancato accordo per qualsiasi ragioni tra queste ultime, i valori di riferimento sono quelli definiti dalle condizioni previste dal citato d.m. 16 gennaio 2017. Commissioni di conciliazione e pariteticheL'art. 6 del d.m. 30 dicembre 2002 detta i criteri per la “conciliazione stragiudiziale” delle vertenze connesse ai contratti agevolati e in ordine all'esatta applicazione degli accordi territoriali e/o integrativi, evidenziando sin d'ora che trattasi di una conciliazione facoltativa. Precisamente, la Commissione di conciliazione stragiudiziale si deve pronunciare, su richiesta di ciascun contraente, non oltre sessanta giorni dalla data della richiesta per ogni controversia che sorga in merito all'interpretazione ed esecuzione dei contratti di cui al suddetto decreto nonché in ordine all'esatta applicazione degli accordi territoriali e/o integrativi. È, poi, nella facoltà di ciascuna parte ricorrere alla Commissione di conciliazione affinché attesti la rispondenza del contenuto economico e normativo del contratto agli accordi di riferimento. Inoltre, nel caso di variazione dell'imposizione fiscale gravante sull'unità immobiliare locata, in più o in meno, rispetto a quella in atto al momento della stipula del contratto, la parte interessata può adire la suddetta Commissione la quale determina nel termine perentorio di novanta giorni il nuovo canone da corrispondere. Infine, va segnalato che la richiesta di decisione della Commissione non comporta oneri a carico della parte richiedente. In buona sostanza, le principali funzioni delle suddette Commissioni sono tre (Rezzonico, Rezzonico, 244): a) dirimere le controversie sull'interpretazione ed esecuzione delle varie norme che, unite, concorrono a determinare il canone di locazione; b) dirimere le liti sull'identificazione del canone, che dipende da una miriade di fattori; c) rettificare l'entità del canone qualora vi siano variazioni nell'entità dell'imposizione fiscale, in più o in meno, rispetto a quella in atto al momento della stipula del contratto. Dal canto suo, l'art. 6 del d.m. 16 gennaio 2017 ha stabilito che, per i contratti di locazione concordati, per quelli transitori e per quelli per studenti universitari, vengano adottate le “procedure di negoziazione e conciliazione stragiudiziale”, nonché le modalità di funzionamento della Commissione di cui all'allegato E allo stesso decreto, il tutto allo scopo dichiarato di limitare il contenzioso giudiziale tra le parti. Nello specifico, ciascuna delle parti, prima di adire l'Autorità giudiziaria, può chiedere che sia nominata una Commissione di negoziazione paritetica e conciliazione giudiziale per ogni controversia che sorga in merito alla interpretazione/esecuzione dei contratti individuali e all'esatta applicazione degli accordi territoriali; le modalità di funzionamento di tale Commissione sono disciplinate dal regolamento allegato al d.m. 16 gennaio 2017. Resta fermo che tale situazione opera soltanto allorché la controparte aderisca e rimane confinata nell'alveo facoltativo (oltre che gratuito), laddove, invece, la mediazione obbligatoria di cui al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, per le controversie locatizie, costituisce condizione di procedibilità della domanda. Centralizzazione del momento formativoDall'originario impianto normativo si evinceva, dunque, che, per la configurazione del contratto di locazione c.d. agevolato affidata alla macchinosa procedura, la Convenzione nazionale prevista dal comma 1 dell'art. 4, raggiunta tra le Organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative a livello nazionale, dovesse fissare soltanto i “criteri generali”, da osservare poi nella predisposizione dei successivi accordi tra le parti collettive “a livello locale”: esisteva, dunque, una sovraordinazione dei criteri generali rispetto agli accordi territoriali ed ai contratti-tipo, dei quali i primi “costituiscono la base”. La prospettiva si presenta, invece, diversa alla luce della l. n. 2/2002 – avente ad oggetto la “modifica all'articolo 4 della l. n. 431/1998, in materia di tipi di contratto di locazione di immobili” – che impone un ripensamento del già delineato modello di autonomia contrattuale c.d. assistita. In particolare, tale legge contiene due articoli, di cui il primo, dettante “disposizioni in materia di tipi di contratto di locazione di immobili”, inserisce, dopo il citato art. 4, l'art. 4-bis, secondo cui la Convenzione nazionale approva i “tipi di contratto” per la stipula dei contratti agevolati di cui al comma 3 dell'art. 2. Quindi, tramite la convenzione nazionale, non soltanto si fissano i “criteri generali” che servono per orientare l'attività delle Organizzazioni di categoria locali, ma si approvano direttamente, “bypassando” la sede decentrata, i tipi di contratto cui le parti del rapporto locatizio potranno aderire, non escludendosi, però, che tali tipi di contratto possano anche “indicare scelte alternative, da definirsi negli accordi locali, in relazione a specifici aspetti contrattuali, con particolare riferimento ai criteri per la misurazione delle superfici degli immobili” ai sensi del comma 2 dell'art. 1 (nonostante la genericità della terminologia adottata, appare preferibile opinare che gli eventuali accordi tipo in sede locale debbano pur sempre attenersi ai vari schemi di contratto unificato nazionale). Il secondo articolo della citata l. n. 2/2002 – per quel che qui interessa – al punto b) prevede che, al comma 3 dell'art. 2, siano soppresse le seguenti parole “che provvedono alla definizione di contratti-tipo”, sicché l'approvazione di tali contratti non è più prerogativa degli accordi “in sede locale” tra le Organizzazioni di categoria maggiormente rappresentative, mentre, al punto c), precisa che, all'art. 4, comma 1, ultimo periodo, dopo le parole “e il loro rispetto” sono inserite le seguenti “unitamente all'utilizzazione dei tipi di contratto di cui all'art. 4-bis”, disponendo che le agevolazioni fiscali contemplate dall'art. 8 competano a chi osserva le direttive prescritte a livello nazionale e, al contempo, aderisca ai tipi di contratto approvati dalla convenzione nazionale. La novella rivela, però, alcuni difetti di coordinamento (evidenziati soprattutto da Celeste, 13): innanzitutto, è rimasta inalterata la rubrica del capo II della l. n. 431/1998, che conserva il testo originario, ossia “contratti di locazione stipulati in base ad accordi definiti in sede locale”, dove, invece, sarebbe stato opportuno inserire anche la “sede nazionale”, ma, soprattutto, non viene toccato l'art. 13, comma 4, prima parte, che contemplava la sanzione della nullità qualora i contraenti avessero concordato un canone superiore a quello definito in sede territoriale, laddove, invece, sarebbe stato più corretto collegare l'invalidità della misura eccedente ai parametri fissati dal tipo di contratto “nazionale”. Risulta, comunque, che tale Convenzione – nell'àmbito delle consuete scansioni temporali – non si limiti a menzionare il campo di possibile operatività degli accordi locali, ma essa stessa, con una sorta di avocazione al vertice che inverte il trend favorevole alla valorizzazione dell'articolazione territoriale, possa approvare quello specifico modello, il “contratto-tipo” – anche se si usa la variante terminologica del “tipo di contratto”, il concetto sembra lo stesso – cui le parti contrattuali sono libere di aderire, ma che devono comunque rispettare per beneficiare delle agevolazioni fiscali contemplate dalla normativa di settore. Resta la competenza della Convenzione in ordine all'individuazione dei “criteri generali”, il cui sostantivo ed aggettivo fanno sùbito pensare alla ricerca e prospettazione di linee maestre, che possano costituire la cornice di riferimento tecnico-normativo (lasciando alle parti contrattuali, in ultima analisi, il compito di riempire il contenuto negoziale), ma, accanto a tale originaria competenza, la legge in commento affianca quella di approvare il “tipo di contratto” da stipulare – una sorta di schema negoziale preconfezionato – con la possibilità, peraltro, di delineare “scelte alternative” la cui opzione rimane agli accordi locali “in relazione a specifici aspetti contrattuali”. In estrema sintesi, si registra sia un programma di massima dalle maglie abbastanza ampie ed elastiche, sia una modulistica unificata dettagliata in cui gli interessi regolati trovano maggiore specificazione con l'approntamento di singole clausole e formule opportunamente prevagliate, con conseguente esautoramento, in quest'ultimo caso, delle funzioni finora esplicate dalle associazioni di categoria locali. Le nuove attribuzioni di cui risulta investita la Convenzione nazionale trovano, con tutta probabilità, la loro ragione nella non positiva esperienza degli accordi locali, che ha registrato alcune inspiegabili differenze tra Comune e Comune, una pluralità di intese nell'àmbito della stessa realtà territoriale (v. infra il caso romano), la mancanza di approvazione di accordi in qualche Comune, e l'adozione di scelte talvolta penalizzanti in favore della libera contrattazione; in quest'ottica, la reductio ad unum operata dal patrio legislatore si propone di semplificare il modello contrattuale e dare nuovo impulso al c.d. canale agevolato. A ben vedere, la l. 431/1998 prevedeva il “contratto-tipo” quale parte soltanto degli accordi territoriali locali, secondo il disposto del comma 3 dell'art. 2, tuttavia, già la Convenzione nazionale dell'8 febbraio 1998, e quindi il decreto ministeriale che l'aveva recepita, definendo, al modello A, il contratto-tipo unificato per il c.d. settore agevolato, era andata oltre i compiti assegnatigli dalla legge, circoscritti – come sopra rilevato – alla fissazione di “criteri generali”, da precisare solo in un secondo momento con i contratti territoriali tipo proiettati sulla realtà del mercato locale, che soli potevano costituire lo standard inderogabile da parte dei singoli contraenti. Il contesto normativo della riforma della disciplina delle locazioni ad uso abitativo registrava, infatti, una sorta di flusso normativo (secondario e regolamentare), che contemplava – di regola, salvo interventi di supplenza dell'Autorità governativa – la seguente coerente sequenza procedimentale: Convenzione nazionale individuante i criteri generali per la determinazione del canone con riferimento a taluni elementi indicati dalla legge, decreto ministeriale di recepimento di tali criteri-guida, accordi territoriali sulla base delle predette direttive e definizione dei contratti-tipo, e contratti individuali all'interno dei binari tracciati dagli accordi locali. Tale sequenza procedimentale viene stravolta dalla legge del 2002, in quanto si attribuisce alla Convenzione nazionale – avallando quello che in pratica era avvenuto nel 1999, ma extra legem – l'immediata formazione del contratto-tipo, che deve intendersi come lo strumento contrattuale completo, proposto ai locatori ed agli inquilini per regolamentare in modo sufficientemente esaustivo l'assetto dei rispettivi interessi in gioco, scavalcando, a valle, la funzione degli accordi collettivi locali, cui spettava, appunto perché di secondo livello, l'esclusiva di dettare norme di applicazione, in sintonia con le direttive nazionali dell'accordo-quadro, vincolanti per i singoli contraenti e differenziate a seconda delle concrete esigenze. Peraltro, l'inidoneità dei criteri generali delineati dalla Convenzione nazionale a dar luogo alla stipulazione dei c.d. contratti agevolati si poteva evincere dal fatto che, qualora mancassero gli accordi collettivi locali, si prevedeva che le condizioni alle quali potevano essere raggiunti i negozi del secondo canale erano fissate con un decreto ministeriale ad hoc, distinto (e temporalmente successivo) da quello contemplato nel comma 2 dell'art. 4. Riguardo alla realizzazione dei contratti c.d. concordati che la l. n. 431/1998 aveva voluto “favorire”, si è osservato (Lazzaro, Di Marzio, 48) che il legislatore aveva valorizzato quella novità della costellazione del diritto conosciuta come “amministrazione per convenzione”: il divisato obiettivo veniva realizzato affidando tendenzialmente agli interessati, attraverso le Organizzazioni di categoria, gli elaborati tecnici per rendere le soluzioni più aderenti al mercato ma, al contempo, prevedendo la presenza attiva dell'Autorità pubblica. Il congegno approntato dal legislatore del 1998, rappresentante una vera novità nel settore delle locazioni, era apparso da collocare – in una prima indagine condotta sull'originario testo (Lazzaro 1999, 359) – nella categoria dei c.d. accordi di programma, finalizzati a rendere possibile un complessivo equilibrio del mercato locatizio; da essi sembrava certamente esclusa ogni idea di pianificazione, in mancanza della rigidità del piano e dell'analisi del “reticolato”, dovendosi individuare nella Convenzione solamente i menzionati “criteri generali” – e, quindi, all'infuori di qualsivoglia specificazione o indicazione analitica di fattispecie – da intendersi come una sorta di rilevazione critica di situazioni e di ipotesi di soluzioni (anche alternative). L'accordo avrebbe dovuto così risolversi nell'individuazione (ossia ricerca, reperimento e fotografia) di “idee base” che potessero costituire la cornice del quadro che avrebbero dovuto disegnare, con una maggiore analiticità, le Organizzazioni provinciali; una sorta di atto di scienza, in cui fosse prevalente il momento tecnico e nel quale difettasse ogni volontà degli effetti e qualunque contenuto negoziale, non creando la Convenzione alcun vincolo non solo tra le parti del contratto, ma neppure tra le categorie e i loro associati (in pratica, non avrebbero dovuto porsi regole e/o obblighi, normativi e/o contrattuali, ma individuarsi solo gli strumenti procedimentali e le ipotesi di disciplina tecnica, con elementi di qualità, di quantità, di misura, ecc.). Il sistema adottato dal legislatore mostrava di tendere proprio ad eliminare ogni irrigidimento in sede centrale – e il rischio di una disciplina uniforme su tutto il territorio nazionale, che era stato uno dei punti deboli della legge sull'equo canone – e, attraverso il formarsi di sottoinsiemi, a seconda delle differenti realtà locali, a restituire al singolo, come momento finale ma decisivo, il potere di calibrare il contenuto del contratto; il tutto in armonia con lo spirito della l. n. 431/1998, intesa a “favorire una liberalizzazione controllata del settore delle locazioni ai fini abitativi ed un ampliamento degli spazi dell'autonomia negoziale”. Il suesposto quadro è, però, in parte mutato per effetto dell'emanazione della l. n. 2/2002, recante modifiche alla l. n. 431/1998, che – come visto – ha introdotto nella legge del 1998, dopo l'art. 4, l'art. 4-bis il quale (sotto la rubrica “tipi di contratto”), stabilisce che la Convenzione nazionale di cui all'art. 4, comma 1, appunto “approva i tipi di contratto per la stipula dei contratti agevolati” di cui all'art. 2, comma 3; i tipi di contratto possono indicare “scelte alternative, da definire negli accordi locali, in relazione a specifici aspetti contrattuali, con particolare riferimento ai criteri per la misurazione delle superfici degli immobili”, aggiungendo che, in caso di mancanza di accordo delle parti, i tipi di contratto sono definiti con il decreto di cui all'art. 4, comma 2, della citata l. n. 431/1998. L'innovazione legislativa muove dall'osservazione – contenuta nella Relazione alla novella del 2002 – che, sulla base del testo preesistente, “le proprietà diffuse dovrebbero adottare differenti contratti (con differenti metodi di calcolo dei canoni, di aggiornamento degli stessi, di misurazione delle superfici, ecc.) a seconda della località d'Italia alla quale il contratto da stipulare si riferisce, di fatto, ciò comportando il fallimento dei contratti agevolati (c.d. secondo canale) previsti dalla citata l. n. 431/1998, nel settore delle grandi proprietà”; quindi, la modifica legislativa mira a venire incontro alle esigenze dei soggetti a proprietà diffusa su tutto il territorio nazionale, prevedendo che l'unico contratto-tipo di cui essa necessita sia adottato in sede di Convenzione nazionale ex art. 4 della l. n. 431/1998, “lasciando alla sede locale la completa definizione dei livelli dei canoni”. La nuova formulazione del testo di legge sembra, pertanto, muoversi in controtendenza rispetto al programma originariamente perseguito, ed in senso inverso rispetto al divisato recupero di spazio all'autonomia negoziale, dal momento che essa favorisce la tendenziale centralizzazione del momento formativo dei tipi contrattuali, rimettendo alla contrattazione locale – senza di che la disciplina sarebbe pressoché integralmente regredita al sistema dell'equo canone – l'individuazione dei soli criteri per la determinazione dei corrispettivi (Lazzaro, Di Marzio, 49). Ruolo dell'Autorità governativaDeus ex machina della prima fase è il Ministro dei lavori pubblici (oggi delle infrastrutture e trasporti), il quale guida, dal punto di vista procedurale, la cascata delle operazioni (Lazzaro, Di Marzio, 51), e, in particolare: a) individua le rispettive Organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale (con possibilità, per quelle escluse, di ricorrere alla giustizia amministrativa); b) predispone la documentazione necessaria e mette a disposizione le strutture amministrative per il suo reperimento; c) istruisce la pratica; d) partecipa e media (eventualmente) sui diversi orientamenti, prendendo atto, in caso di disaccordo, di quelli prevalenti; e) stimola la ricerca delle soluzioni più acconce; f) vigila sulla correttezza dello svolgimento delle procedure; g) indica i criteri, che la Convenzione nazionale ha individuato, in un apposito decreto (da emanare di concerto con il Ministro delle finanze) nel quale sono “stabilite le modalità di applicazione dei benefici di cui all'art. 8” (cioè quelli fiscali). Al Ministro delle infrastrutture, è affidata, ancora, la funzione di rendere possibile l'attuazione del programma, in caso di inerzie degli attori della vicenda: in particolare, “in caso di mancanza di accordo delle parti, i predetti criteri generali sono stabiliti [da lui], di concerto con il Ministro delle finanze, con [apposito] decreto..., sulla base degli orientamenti prevalenti espressi dalla predette Organizzazioni” (art. 4, comma 1, seconda proposizione); con analogo provvedimento, “nel caso in cui non vengano convocate da parte dei Comuni le Organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori, ovvero non siano definiti gli accordi”, “fissa ... le condizioni alle quali possono essere stipulati i contratti” (art. 4, comma 3). Il diverso verbo adoperato a seconda delle differenti situazioni (“indica” o “stabilisce”) sembra denotare che, nel primo caso, l'individuazione dei criteri appartenga esclusivamente alle Organizzazioni interessate: il decreto ministeriale dovrebbe, quindi, limitarsi a portare il contenuto degli accordi all'esterno, anche per rendere possibile eventuali impugnative (Lazzaro, Di Marzio, 51). Dunque, agli effetti della definizione dei criteri generali relativi alle locazioni convenzionate, va distinto (Rezzonico, Rezzonico, 212) tra l'intervento “ordinario” del Ministro, allorchè recepisce i criteri generali adottati dalle Organizzazioni di categoria, e l'intervento “sostitutivo” dello stesso Ministro quando, constatata la mancanza di accordo tra queste ultime, emana un proprio decreto, sia pure sulla base degli orientamenti prevalenti espresse dalle stesse Organizzazioni. Ad ogni buon conto, il summenzionato meccanismo non sembra comportare che il Ministro debba acquisire “passivamente” nel proprio decreto tutto quanto le Organizzazioni abbiano concordato, in quanto, mentre resta aliena ai suoi poteri la possibilità di contraddire i “criteri generali” come individuati – pur potendo evidenziare una propria differente, motivata valutazione – è suo compito considerare se il contenuto degli accordi sia il risultato di una procedura corretta e si collochi nei confini della norma, dovendo, qualora si verifichi una situazione anomala, escluderne quanto debordante. In caso di mancato accordo, proprio perché si è verificata una difformità di valutazione sia sull'individuazione dei parametri tecnici e oggettivi da ricondurre nei criteri generali sia sul complessivo trend, è il Ministro che – compiuta, sulla base degli “orientamenti prevalenti” una ricognizione e, quindi, una scelta motivata – stabilisce ex autoritate i criteri di cui si discute; si opina, al riguardo, che la prevalenza dell'orientamento debba essere riguardata – non come considerazione di ipotesi di maggioranza, bensì – come momento di sintesi di quanto emerso nel dibattito (non può parlarsi, infatti, di trattative, se non in senso meramente descrittivo) e come valutazione, in àmbito essenzialmente tecnico, delle idee fondamentali e delle linee di tendenza che con sufficiente chiarezza hanno caratterizzato la vicenda (Lazzaro, Di Marzio, 52). Anche nell'ottica della succitata l. n. 2/2002 (art. 1, ultimo comma), è pur sempre il Ministro delle infrastrutture – cui rimane il compito, oltre che di supplenza, anche di guida nell'attuazione del programma – che, di concerto con quello delle finanze, in mancanza di accordo tra le parti, ha il potere di emanare il decreto che definisca gli stessi “tipi di contratto”, in modo da superare l'irrigidimento eventualmente venutosi a creare. Si conferma, pertanto, il ruolo dell'Autorità governativa che – diversamente da quella comunale, avente solo il potere di “convocare” le parti per la stipula degli accordi locali e di riceverne il “deposito” per fini pubblicitari – interviene a vari livelli nella macchinosa procedura per la locazione degli immobili ad uso abitativo, con funzioni di selezione, istruzione, stimolo, vigilanza, e, in difetto di intese, di supplenza nei diversi momenti in cui si sgrana il programma (criteri generali nazionali, protocolli di intesa territoriali, elementi dello statuto locatizio). Tuttavia, il contenuto del decreto ministeriale risulta diverso proprio a seconda della fase procedurale in cui si inserisce: 1) quello sostitutivo della Convenzione nazionale di cui all'art. 4, comma 1, ultimo periodo, dovrà “stabilire” i “criteri generali” ed essere rispettoso degli “orientamenti prevalenti espressi” dalle Organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative; 2) quello sostitutivo degli accordi locali previsto dal comma 3 del medesimo art. 4 non sarà vincolato e dovrà indicare “le condizioni” alle quali possono essere stipulati i c.d. contratti agevolati; 3) quello contemplato dall'art. 1, ultimo comma, della novella del 2002, anche esso emanato a prescindere dal costituire un momento di sintesi di quanto emerso nel dibattito tra le predette Organizzazioni, avrà il compito di attuare la “definizione” dei “tipi di contratto” nazionali unificati. Programma della Convenzione nazionaleDunque, i primi due commi dell'art. 4 in commento disciplinano le fasi in àmbito “nazionale” del procedimento finalizzato alla definizione dei contratti-tipo operanti nelle diverse aree territoriali: al riguardo, l'iniziativa compete al Ministro, cui spetta un potere di impulso per la convocazione delle Organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, in vista della conclusione tra le stesse di una Convenzione nazionale in ordine ai criteri generali da osservare nella predisposizione dei successivi accordi territoriali. In questa prospettiva, le Organizzazioni di categoria erano state convocate e, in data 8 febbraio 1999 – ossia, in anticipo rispetto al termine ultimo del 28 febbraio – era stata conclusa la Convenzione nazionale, firmata a Roma tra le associazioni degli inquilini ANIA (Associazione nazionale inquilini), CONIA, SICET (Sindacato inquilini casa e territorio), SUNIA (Sindacato unitario nazionale inquilini e assegnatari), UNIAT (Unione nazionale inquilini ambiente e territorio) e Unione inquilini, e le associazioni della proprietà edilizia ANPE (Associazione nazionale proprietà edilizia), APCC (Associazione piccoli proprietari e condomini), ASPPI (Associazione piccoli proprietari immobiliari), Confappi, Confedilizia, Union Casa e UPPI (Unione piccoli proprietari immobiliari), per l'individuazione dei criteri generali di cui sopra, criteri che sono stati, poi, recepiti dal d.m. 5 marzo 1999. L'avvenuto raggiungimento del consenso sugli stessi criteri da parte dei soggetti nazionali esponenziali dei contrapposti interessi negoziali – chiamati a trovare un punto di equilibrio tra l'esigenza di assicurare ai conduttori un meno oneroso accesso all'abitazione e l'esigenza di non imporre ai locatori un sacrificio eccessivo – aveva precluso, almeno in primo momento, l'intervento suppletivo dell'Autorità governativa, mentre altra attività di supplenza era prevista per le fasi “decentrate” del procedimento, quando, per inerzia dei Comuni nella convocazione delle Organizzazioni di categoria o per mancato raggiungimento delle intese a livello locale, non fossero stati raggiunti gli accordi entro quattro mesi dall'emanazione del decreto ministeriale (quello cioè che recepiva la convenzione nazionale o che dettava le direttive tenendo conto di quanto emerso in sede di trattative). Tale Convenzione, in pratica, aveva rimesso agli accordi da definire in sede locale l'individuazione di un canone ricollegato all'ubicazione dell'unità immobiliare sul territorio ed alle peculiarità oggettive di godibilità dell'appartamento; in particolare, agli accordi locali era demandato di determinare, con riferimento ad aree omogenee o a zone con specifiche caratteristiche (di pregio o di degrado), le c.d. fasce di oscillazione del canone di locazione, all'interno delle quali la concreta definizione del corrispettivo restava, in ultima battuta, affidata alle parti contrattuali, che potevano pattuire un canone compreso tra le misure (massime e minime) fissate dall'accordo locale – ma non superare il limite massimo, pena la nullità per la parte eccedente ex art. 13, comma 4 – tenuto conto anche degli “altri parametri oggettivi” (come la categoria catastale, lo stato di manutenzione dell'edificio, la presenza di pertinenze, l'esistenza di spazi comuni, la dotazione di servizi tecnici, ecc.). Solo per particolari categorie di locatori, i c.d. grandi proprietari privati – ossia compagnie assicurative, enti privatizzati, fondazioni, e, in genere, soggetti titolari di rilevanti complessi immobiliari, enti previdenziali pubblici – era prevista la definizione, sempre nell'àmbito delle fasce di oscillazione di cui sopra, di diversi valori “intermedi”, alla stregua di “accordi integrativi” ad hoc, stipulati, in sede locale, tra le Organizzazioni sindacali dei proprietari e quelle dei conduttori che avessero sottoscritto la Convenzione o/e gli accordi locali (previsione normativa, quindi, che dove essere letta in chiave disgiuntiva o alternativa). Restava, ovviamente, ferma la durata prescritta dal legislatore, che non poteva essere inferiore a tre anni, con la previsione, alla prima scadenza, di una proroga di diritto per ulteriori due anni, salva la procedura per il diniego di rinnovo tempestivamente promossa dal locatore nelle ipotesi tassative previste dall'art. 3 della l. n. 431/1998, e, alla seconda scadenza, la previsione della rinnovazione tacita del contratto alle stesse condizioni in mancanza della comunicazione di cui al comma 5 dell'art. 2 (previsioni entrambe che riecheggiano, salva la diversa durata, le modalità contemplate per il c.d. contratto libero). Pur nella prospettiva legislativa di cui all'art. 2, comma 3, ultimo periodo, secondo cui i Comuni potevano provvedere ad associarsi – al fine di raggiungere un'area territoriale di idonea ampiezza e, al contempo, evitare un'eccessiva frammentazione degli accordi sul territorio nazionale – era, però, agevole prevedere (Celeste, 15), nell'àmbito di un'attività (di trattativa e di stipulazione) del tutto inedita per il settore locatizio, una proliferazione di accordi locali, nei quali risultasse ulteriormente specificata e territorialmente diversificata la disciplina del contratto-tipo convenzionato, e siccome tali accordi dovevano essere conclusi – non già in conformità, ma – “sulla base” della Convenzione nazionale, nel senso che era sufficiente che si recepissero i criteri generali fissati con essa, si era assistito ad un'estrema diversificazione del regime dei canoni a seconda del posizionamento dell'unità immobiliare nel territorio italiano (diversificazione che avrebbe potuto attenere anche alle “altre condizioni contrattuali” pur oggetto degli accordi locali di cui all'art. 2, comma 3, primo periodo). Comunque, i criteri per consentire l'individuazione del canone – che possono essere i più svariati – devono presentare una certa elasticità ed essere improntati alle più diverse ipotesi, stabilendo i confini (quantomeno nel massimo) del prezzo del godimento. La legge del 1998 certamente tende ad una semplificazione ma, anche riguardo ai “parametri oggettivi”, viene istintivo il riferimento a talune abrogate norme della legge sull'equo canone (di cui “si avverte l'eco”, così Lazzaro, Di Marzio, 52): in particolare, agli artt. 13 (dimensione dei singoli locali, complessivi metri quadrati dell'unità abitativa, presenza di pertinenze e accessori), 18 (ubicazione sul territorio urbano), 19 (livello di piano), 21 (stato di conservazione e manutenzione); un'eventuale indicazione in tal senso, peraltro, deve appunto avvenire in maniera elastica, sia perché si tratta di “criteri generali”, sia perché l'esperienza ha dimostrato che talune opzioni del legislatore del 1978 non avevano retto alla verifica sul campo (la predilezione per l'abitazione nei centri storici, ad esempio, è assolutamente differente nelle diverse aree geografiche). La norma indica quali criteri, per così dire, portanti devono essere necessariamente considerati –intendendosi l'espressione “anche in relazione” come “tenendo comunque conto” – come la “rendita catastale” (stabilendo, ad esempio, la misura del canone in percentuale a essa) e la “durata del contratto”; si rileva, comunque, significativo che il legislatore abbia contemplato, come elementi da tenersi in considerazione ai fini dell'individuazione dei criteri per definizione dei canoni, solo parametri di carattere “oggettivo” (rendita e durata), escludendo che possano essere utilizzati parametri di carattere “soggettivo”, ossia connessi alle condizioni/qualità/caratteristiche delle parti contraenti (come, ad esempio, il reddito). È stato, altresì, affidato al programma il compito di individuare, sia pure per grandi linee, “particolari esigenze delle parti” e le “modalità per garantirle”. In quest'ordine di concetti, ci si è interrogati sulla natura giuridica della Convenzione nazionale: in assenza di pronunce giurisprudenziali in termini e aldilà della collocazione sistematica, si è sostenuto (Nasini, Nasini, 64) che trattasi di “atti direttivi di indirizzo” aventi la finalità di dettare i criteri generali per la formazione degli accordi locali e, successivamente alla novella del 2002, di individuare, in modo vincolante, i tipi di contratto. In proposito, la dottrina ha avuto, comunque, modo di sottolineare che “la collocazione nei concordati modelli non è idonea a rinvispire clausole contrarie a norme imperative” (così Lazzaro 1999, 924): invero, difficilmente sarebbe compatibile con il sistema, incentrato sulla tutela del diritto all'abitazione nell'àmbito di una disciplina del mercato, la deroga al divieto di scioglimento del contratto in caso di vendita dell'immobile, alla successione nel contratto, alla gravità dell'inadempimento, ecc., norme tutte pervase da principi di ordine pubblico. Contenuto degli accordi localiEmanato il decreto ministeriale contenente i criteri generali, o meglio, l'accordo di programma, l'iniziativa per la sua attuazione si trasferisce in capo agli enti esponenziali della comunità locale (e cioè ai Comuni, anche in forma associata), i quali devono avviare una seconda fase procedimentale finalizzata a definire “appositi accordi [...] in sede locale” fra le Organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori maggiormente rappresentative ai sensi dell'art. 2, comma 3, prima proposizione (la frase “che provvedono alla definizione di contratti-tipo” è stata espunta dall'art. 2 ad opera della l. n. 2/2002, atteso che tale predisposizione è ora affidata alla Convenzione nazionale). Le scansioni temporali sono, quindi, analiticamente indicate dalla legge: la convocazione delle Organizzazioni deve avvenire entro il termine massimo di sessanta giorni dall'emanazione del decreto interministeriale in cui sono indicati i “criteri generali”, individuati nella Convenzione nazionale (art. 2, comma 3, ultima proposizione); gli accordi in sede locale devo essere conclusi entro quattro mesi, che decorrono dallo stesso dies a quo; in caso di inerzia delle Amministrazioni locali oppure in mancanza di accordo tra le Organizzazioni interessate, la scansione preparatoria ritorna (come si evince dall'art. 4, comma 2) all'Autorità centrale cui resta affidato il compito di presiedere alla realizzazione del programma. La meta resta “una programmazione trasparente ed equilibrata del mercato locatizio, nell'àmbito della quale le parti possano esplicare in maniera consapevole la loro autonomia” (così Lazzaro, Di Marzio, 55); ad esse – che, al di fuori di qualsivoglia assistenza, “possono stipulare contratti ai locazione” – resta affidata, infatti, la scelta (“in alternativa”) di uno statuto locatizio differente da quello di maggior durata (cioè quattro anni, con rinnovo obbligatorio per egual periodo) e dal contenuto determinabile pattiziamente (con i consueti limiti quanto al rispetto delle norme imperative e all'ordine pubblico). Si conviene che i termini per tale scansione programmatica non abbiano natura perentoria e che il proposto ritmo presenti una qualche elasticità, nel senso che un accordo resta efficace anche se raggiunto dopo la scadenza del quarto mese, come pure se la convocazione delle Organizzazioni da parte del Comune sia stata tardiva (Sforza Fogliani, 193). Ogni valutazione, tuttavia, resta affidata al “custode del programma” che, all'inutile scorrere dell'indicata scansione, ben potrebbe attivare immediatamente i propri compiti, per l'avvio del programma. Circa la natura di tali accordi locali, si è osservato (Lazzaro, Di Marzio, 55) che gli stessi, seppure pongono (“stabiliscono”) taluni indirizzi con le quali la regolamentazione che le parti danno al rapporto deve essere coerente, certamente non presentano natura negoziale, ma restano collocati nell'àmbito della programmazione del mercato locatizio, integrando quasi uno di quei “protocolli di intesa”, frequenti per regolare materie di forte incidenza sociale e che vedono la partecipazione delle associazioni di categoria e dell'ente esponenziale. È sintomatico che l'individuazione delle Organizzazioni (e, quindi, dei legittimati a partecipare alla vicenda e firmare il protocollo) nonché l'iniziativa siano affidate agli enti locali i quali, in ipotesi, disinteressandosene, potrebbero rimettere la materia al “centro”. Sono, poi, i Comuni a stimolare la ricerca delle soluzioni più acconce, a vigilare sulla correttezza dello svolgimento delle procedure, a mediare anche impegnandosi sul piano economico, avendo il potere, “per favorire la realizzazione degli accordi”, di “deliberare aliquote dell'I.C.I. più favorevoli per i proprietari che concedono in locazione a titolo di abitazione principale immobili alle condizioni definite dagli accordi stessi” (art. 2, comma 4), anche derogando al limite minimo stabilito per le relative aliquote, mentre, all'opposto – e, in questo caso, la finalità progettuale dell'ente locale nell'àmbito della regolamentazione del mercato è di assoluta evidenza – “possono derogare al limite massimo ... limitatamente agli immobili non locati per i quali non risultino essere stati registrati contratti di locazione da almeno due anni”. Secondo una parte della dottrina (Nasini, Nasini, 73), i compiti previsti dalla legge in capo ai Comuni, sono, però, circoscritti alla mera convocazione delle Organizzazioni ed alla ricezione presso i propri uffici del deposito degli accordi una volta stipulati, non essendo contemplati poteri diversi ed ulteriori, né nello svolgimento successivo della procedura di formazione degli accordi, né tantomeno finalizzati ad influenzare il contenuto ed il merito degli stessi accordi conclusi. Comunque, la natura eminentemente programmatoria anche di questa scansione (e, quindi, degli accordi locali) è confermata dall'intervento – in caso della mancata sua attuazione – del Ministro delle infrastrutture il quale, deus ex machina della gestione del mercato, riprende in mano la vicenda e “fissa ... le condizioni alle quali possono essere stipulati i contratti”, indica cioè le linee portanti del particolare statuto locatizio. A questo punto, sorge il problema di individuare correttamente le conseguenze riguardo all'ipotesi in cui le parti dei contratti individuali decidessero di discostarsi dagli schemi previsti dagli accordi locali. I magistrati di Piazza Cavour (Cass. III, n. 27022/2016), sia pure non affrontando ex professo la tematica – premesso che va qualificato contratto agevolato, previsto dall'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998, quello ad uso abitativo non transitorio che rispetti, non solo quanto a canone e durata, ma anche riguardo ad ogni altra condizione contrattuale, il tipo di cui all'art. 4-bis e l'accordo contrattuale definito in sede locale dalle Organizzazioni di categoria – hanno affermato che tale qualificazione (ed i conseguenti benefici fiscali) vengono meno, con conseguente applicazione della disciplina ordinaria, se le parti, pur nel rispetto della durata legale e del canone determinato dagli accordi in sede locale, apportino alle altre condizioni modifiche idonee ad alterare l'assetto dei reciproci interessi, precostituito nel modello concordato, ferme, peraltro, restando le clausole così pattuite. Al riguardo, la dottrina (Nasini, Nasini, 65) ha sostenuto che, anche alla luce dell'introduzione dell'art. 4-bis della l. n. 431/1998 (ad opera della l. n. 2/2002), la fonte di inderogabilità dei tipi contrattuali va ricercata proprio nella legge (essendo significativo, peraltro, l'ultimo periodo dell'art. 4, comma 1, della l. n. 431/1998, allorché condiziona l'applicazione delle agevolazioni fiscali proprio all'adozione del tipo di contratto); in quest'ottica, è difficile negare che la Convenzione nazionale e il decreto ministeriale acquisiscano forza imperativa e cogente con riferimento agli accordi locali, i quali non possono discostarsi dai criteri generali indicati, e in ordine ai contratti individuali, le parti non possono esimersi dall'adozione dei tipi contrattuali, salvo modifiche di mero dettaglio. È vero che la nuova formulazione dell'art. 13, comma 4, della l. n. 431/1998 – ad opera dell'art. 1, comma 59, della l. 208/2015 – sanziona con la “nullità” solo i patti volti ad attribuire un canone superiore a quello risultante dall'applicazione degli accordi locali, oltre che ad una durata minima, ma l'innesto dell'art. 4-bis fa propendere per ritenere che, ferma l'inderogabilità della durata, eventuali pattuizioni che portino a superare il limite massimo consentito dall'accordo locale, provocano l'inquadramento del singolo contratto individuale nella tipologia del contratto a canone libero, con tutte le conseguenze sul piano delle agevolazioni fiscali (Nasini, Nasini, 66, i quali, comunque, suggeriscono di verificare caso per caso se le modifiche effettuate siano tali da far uscire il contratto dal canone agevolato e, comunque, di dare alla locuzione “criteri generali definiti ai sensi del comma 1” dell'art. 4 una portata più ampia e generale del mero riferimento a durata e canone contrattuale). Riguardo sempre alla questione del rapporto tra contratto individuale e contratto tipo, si è opinato che il problema è mal posto in termini della derogabilità, dovendosi spiegare invece come problema di sussunzione: stante che le parti possono stabilire un assetto di interessi che si allontani dal modello predisposto dall'accordo locale, si tratta allora di valutare se le differenze alterino l'economia del contratto individuale tanto da dover escludere la possibilità di sussumerlo nello schema dell'accordo locale o se l'assetto degli interessi stabiliti sia compatibile con esso; nella prima ipotesi, l'interprete dovrà concludere che si è fuori dalla previsione del comma 3 dell'art. 2 dei contratti agevolati, e che si rientra nel regime del canone libero delineato dal comma 1 (Scripelliti, 555; v. anche Petrolati 25, che intravede nei contratti-tipo mere “condizioni generali di contratto”). Ciò vale sicuramente per le locazioni primarie, strutturate su un modello “ordinario” che può funzionare come schema residuale di inquadramento degli accordi individuali che si siano discostati dai contratti tipo del modello alternativo, ma non è immediatamente utilizzabile per le locazioni transitorie, per le quali manca la cornice di un modello ordinario che accolga il negozio “atipico” rispetto ai tipi di contratto approvato con la Convenzione nazionale e recepiti dagli accordi locali (Bucci, 14; Mazzeo, 32, fa invece salva la possibilità di stipula dei contratti individuali in alternativa ai contratti-tipo definiti dalla Convenzione nazionale). Parimenti, qualora le parti stipulino un contratto di locazione difforme dal tipo contemplato dal decreto interministeriale, le legge non prevede alcuna nullità o sostituzione automatica della norme illegittimamente derogate, salvo che, a monte, non si contemplino ipotesi “alternative”, ossia deliberatamente rimesse alla libera contrattazione delle parti (si pensi al deposito cauzionale); al riguardo, si opina che la qualificazione di contratto concordato (e la correlata applicazione dei benefici fiscali) vengano meno se le parti, pur rispettando la durata legale e la determinazione del canone risultante dagli accordi locali, modifichino, in tutto o in parte, le altre condizioni contrattuali in modo da alterare l'assetto dei reciproci interessi precostituito nel modello “concordato”, sicché, ferme restando le clausole convenute, il contratto non sarà riconducibile al comma 3 ma al comma 1 dell'art. 2 della l. n. 431/1998, con conseguente applicazione del regime “ordinario” (Nasini, Nasini, 123). Ci si è anche chiesto se gli accordi locali, una volta stipulati, possano subire modifiche, nelle more dell'adozione di una nuova Convenzione nazionale (a meno che lo stesso accordo abbia espressamente previsto tale possibilità): la risposta positiva è stata offerta (Rezzonico, Rezzonico, 214), considerando, per un verso, che la legge non contempla un limite di durata agli accordi locali (salva la necessità di adeguarsi alle risultanze della Convenzione nazionale triennale o al decreto ministeriale sostitutivo), e, per altro verso, che l'opportunità di integrazioni assolve proprio il fine di assicurare l'effettivo perseguimento delle finalità sociali della l. n. 431/1998 (ciò dovrebbe valere, a fortiori, qualora una disciplina normativa successiva modifichi le agevolazioni fiscali, stante la rilevanza di tale elemento per influenzare la scelta del contratto agevolato in luogo di quello libero). In proposito, si è sostenuto (Angiolini 1999, 549) che ciascuno degli accordi locali debba essere modificato solamente con il concorso delle Organizzazioni dei proprietari e dei conduttori che l'abbiano sottoscritto, ma ciò non esclude che altri, e successivi, accordi locali, stipulati posteriormente anche tra altre, e diverse, Organizzazioni di categoria possano ugualmente concorrere alla disciplina dei contratti del secondo canale (talvolta, si è verificata la coesistenza di una pluralità di accordi collettivi locali, lasciando all'autonomia delle parti di avvalersi di quello più conveniente, v. l'esperienza romana di cui appresso). Esperienza capitolinaA Roma era accaduto qualcosa di unico nel panorama nazionale: infatti, dopo la Convenzione nazionale ed il decreto ministeriale di cui agli artt. 4, comma 1, e 2, comma 3, in difetto della necessaria intesa tra tutte le Organizzazioni sindacali, sono stati depositati presso il Comune, anziché un unico accordo, due accordi territoriali (il 5 agosto 1999 quello intercorso tra SICET, ANIA, UPPI, ARPE e CONFAPPI, ed il giorno successivo quello tra Confedilizia, ASPPI, SUNIA, UNIAT, Unione Inquilini e CONIA). Tuttavia, è ragionevole ritenere (Celeste, 17) che entrambi gli accordi, in quanto firmati da associazioni “maggiormente rappresentative” (dei proprietari e dei conduttori) siano validi, anche per beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dalla normativa vigente (sconto I.R.P.E.F., riduzione dell'imposta di registro, ecc.), non spettando all'Autorità amministrativa alcun potere di opzione, rimesso, invece, alla discrezionalità delle parti negoziali, alle quali spetta scegliere, tra i vari “canali agevolati”, quale intende liberamente avvalersi nella stipula dei singoli contratti individuali. Il legislatore, in effetti, non aveva preso in considerazione l'eventualità di una pluralità di accordi per singole entità territoriali, in quanto l'intervento di supplenza era contemplato – oltre che per il caso riguardante l'omessa convocazione delle Organizzazioni – solo per l'ipotesi della “mancanza di accordo”, sicché, nel silenzio della legge al riguardo, ben potrebbero coesistere più accordi collettivi locali per il c.d. canale agevolato. Un indiretto supporto a tale tesi poteva venire dalla lettura dal comma 3 dell'art. 2 della l. n. 431/1998, laddove riconosce implicitamente la possibilità di accordi collettivi che abbracciano il territorio di più Comuni – “ [...] anche in forma associata [...]” – e dalla lettura del comma 2 dell'art. 1 del decreto ministeriale del 1999, che rapportava “a livello locale” il requisito della “rappresentatività”, nel senso che associazioni dei proprietari e degli inquilini sprovviste di tale requisito sull'area territoriale di più Comuni, avrebbero potuto esserne provviste nel singolo territorio comunale, e giustamente rivendicare, in questo àmbito geografico ristretto, la loro legittimazione alla stipula degli accordi locali, al pari di altre associazioni. Per quanto concerne, in particolare, quelli della capitale, entrambi gli accordi si basavano sulla suddivisione della città in zone e sottozone omogenee, con la relativa indicazione di una “forbice” con i livelli minimi e massimi degli affitti, differenziandosi solo per il numero delle unità territoriali individuate nonché per la quantità ed il tipo dei parametri di qualità degli alloggi che concorrevano a determinare il livello del canone, che, per il resto, avrebbe dovuto essere frutto di un'operazione matematica di determinazione in funzione della pluralità degli elementi presi in esame: la diversa combinazione di tali elementi, soprattutto quelli relativi alle caratteristiche dell'unità abitativa, portava così a definire in modo alquanto differenziato i livelli reali dei prezzi tra le due intese. Pertanto, visto che, ai fini dell'individuazione della convenienza a stipulare o meno un contratto con affitto “concordato”, il proprietario deve considerare quanto può ridurre il canone, che richiederebbe secondo il canale “libero”, per far sì che il proprio introito netto, ossia detratte le tasse (appositamente ridotte), non diminuisca eccessivamente, le valutazioni da effettuare nel caso concreto dipendono dall'incidenza di numerose variabili, che comprendono, oltre ovviamente la diversa durata ed altre condizioni contrattuali, anche i parametri in base ai quali il proprio immobile andrà ad inserirsi in una banda di oscillazione di un canone piuttosto che in un'altra (in pratica, può succedere che lo stesso appartamento, secondo l'opzione tra i due accordi di riferimento e la collocazione in una data fascia, viene affittato a prezzi anche molto diversi). Individuazione delle Organizzazioni di categoriaLa considerazione della “maggiore” rappresentatività delle Organizzazioni è affidata ai Comuni (e, quindi, ai consigli comunali): essa, seppure in gran parte ricognitiva, lascia un qualche margine alla valutazione degli enti locali in rapporto alla finalità di attuazione del programma che le Organizzazioni sono chiamate a mettere a punto. La possibilità che i Comuni si associno dimostra proprio che la convocazione non è un mero atto tecnico, ma un'iniziativa che coinvolge fortemente gli enti locali, i quali devono determinare l'area territoriale che abbia caratteri di omogeneità – e si avverte fortemente l'eco delle “zone censuarie” – ed attivarsi per individuare le Organizzazioni che presentino una qualche rappresentatività. È utile osservare come il dato testuale non operi alcun riferimento alla “rappresentatività delle Organizzazioni a livello nazionale”, differentemente da quanto stabiliva l'art. 11 della l. n. 359/1992 che parlava di “Organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale, tramite le loro Organizzazioni provinciali”. Il significato appare chiaro (secondo Lazzaro, Di Marzio, 56): anzitutto, le Organizzazioni sono chiamate essenzialmente quali portatrici di un bagaglio tecnico e di conoscenze e non in veste rappresentativa o, per così dire, sindacale (e il termine “organizzazione” appare adoperato significativamente); possono, inoltre, essere chiamate a partecipare a questa fase le Organizzazioni che, pur non avendo un forte referente nazionale, siano presenti sul territorio in maniera adeguata; infine, l'essere propaggine di un'Organizzazione rappresentativa a livello nazionale consente al referente locale la presenza nella formazione degli accordi in parola anche se in situ scarsamente rappresentativo. Ad ogni buon conto, risulta diversa l'ottica rispetto alla legge sui patti in deroga (Nasini, Nasini, 69): allora, si trattava di stabilire quali Organizzazioni fossero competenti a fornire un'assistenza che – nell'interpretazione prevalente del dettato normativo e fino alla sentenza dei giudici della Consulta del 1998 – si riteneva costituisse un requisito essenziale di validità dei patti in deroga; oggi, invece, si tratta di determinare quali Organizzazioni debbano essere chiamate a partecipare alla stesura della Convenzione nazionale, prima, e degli accordi locali e dei contratti tipo, poi, o, in subordine, ad esprimere gli “orientamenti prevalenti” dei quali il Ministro dei lavori pubblici (di concerto con il Ministro delle finanze) deve tener conto ai fini dell'emanazione del decreto in caso di disaccordo tra le medesime Organizzazioni o di mancata convocazione della stesse da parte dei Comuni. In questa nuova prospettiva, il problema della definizione del requisito della “rappresentatività” sembra, quindi, rivestire maggiore rilevanza rispetto al passato, stante che non si tratta più di svolgere un'attività meramente eventuale, ossia solo a seguito di richiesta delle singole parti contrattuali – come era quella di assistenza nella stipulazione dei patti in deroga, soprattutto dopo Corte cost., n. 26/1998 – ma di una funzione di importanza essenziale, e di ben più ampia portata, in quanto destinata ad esplicare i propri effetti nei confronti di tutti i coloro i quali, iscritti o non ad un'associazione della proprietà o degli inquilini, decidano di stipulare un contratto di locazione del c.d. secondo canale (anche se ridotto a seguito della l. n. 2/2002, il ruolo delle Organizzazioni è rimasto importante poiché continua ad investire gli aspetti relativi alla determinazione del livello dei canoni, che forse costituisce la parte più rilevante e significativa della contrattazione). Comunque, pur nella diversa natura dell'attività svolte e del diverso ruolo rivestito, si ripropongono riguardo al concetto di “maggiore rappresentatività” le stesse difficoltà sorte sotto il regime della legge sui patti in deroga (tra i contributi dottrinari sull'argomento, nel vecchio regime, si segnalano: Ditta 817; Grassi, 433; Piombo, 1976; Spagnuolo 1996, 252; riferito, invece, all'attualità Scalettaris 2018, 354). Si era suggerito di far ricorso ai criteri stabiliti dalla l. n. 902/1977, ai fini della ripartizione dei patrimoni residui delle disciolte associazioni sindacali, ossia quello della consistenza numerica dei soggetti rappresentati, della partecipazione alla formazione/stipulazione dei contratti collettivi di lavoro, e della trattazione di controversie di lavoro plurime e collettive. Mutando così i principi elaborati nel mondo lavoristico, si potrebbe evincere la maggiore rappresentatività in base al numero degli associati, alla partecipazione alle convenzioni nazionali, alla partecipazione alla stesura di precedenti accordi territoriali, al numero dei contratti individuali stipulati con l'assistenza, al numero delle attestazioni rilasciate, e quant'altro (restando fermo che la l. n. 431/1998 non ha inteso riconoscere alle Organizzazioni di categoria alcuna autonomia collettiva, come potestà di sottoscrivere contratti collettivi, del tipo di quella riconosciuta ai sindacati nel modello giuslavoristico). Nell'analoga materia dei patti in deroga nei contratti agrari, ai sensi dell'art. 45 della l. n. 203/1982, si era, in proposito, statuito (Cass. III, n. 5953/2016) che l'attività di assistenza dell'associazione professionale di categoria si dovesse esplicare in “un'attività effettiva di consulenza e di indirizzo, volta a chiarire alle parti il contenuto e lo scopo delle singole clausole contrattuali che si discostino dalle disposizioni di legge”. Peraltro, le difficoltà di cui sopra, sia a livello di inquadramento teorico sia di verifica concreta, sono acuite alla luce del nuovo d.m. 16 gennaio 2017, che, all'art. 1, comma 2, si riferisce anche alle Organizzazioni maggiormente rappresentative “a livello locale”, atteso che, nella prassi, ben possono essere Organizzazioni rappresentative a livello nazionale ma non dotate di sedi locali su determinate parti del territorio, né che abbiano partecipato alla stipula di contratti individuali in un determinato Comune. Rimane, comunque, irrisolto a livello legislativo il problema relativo alla “mancanza di accordo” tra le Organizzazioni che, ex art. 4, comma 1, della l. n. 431/1998, fa scattare il potere sostitutivo del Ministro, e, di converso, se quest'ultimo possa recepire le intese nel suo decreto qualora non si pervenga ad un accordo unanime tra le Organizzazioni debitamente convocate: invero, la prassi ha registrato situazioni in cui gli accordi locali – utilizzati per la stipula dei contratti individuali – sono stati approvati a maggioranza, a fronte della mancata adesione di qualche Organizzazione o dei locatori, o dei conduttori, oppure di entrambe le categorie. Al riguardo, si è sottolineato (Nasini, Nasini, 75) che l'art. 2, comma 3, ultima parte statuisce solo che gli accordi de quibus debbano essere depositati presso ogni Comune dell'area territoriale interessata a cura delle Organizzazioni “firmatarie”: se il legislatore avesse inteso affermare la necessità dell'unanimità, avrebbe posto tale incombenza a carico delle “predette organizzazioni” o delle “organizzazioni convocate”, laddove il riferimento alla “firma” dell'accordo sottintende la volontà di prevedere come non ostativa alla sua validità la possibilità che non tutte le Organizzazioni convocate vi abbiano aderito. Resta inteso (ad avviso di Rezzonico, Rezzonico, 220) che, poiché i locatori ed i conduttori non costituiscono “categorie professionali”, gli accordi delle rispettive Organizzazioni non possono in alcun modo vincolare i propri iscritti, i quali restano liberi di non conformarvisi in sede di contrattazione individuale; nel sistema della l. n. 431/1998, infatti, l'efficacia erga omnes degli accordi locali, tale da garantire una certa inderogabilità della normativa relativa alle locazioni agevolate, deriva direttamente dalla legge e dall'adozione di tali accordi da parte del Ministro (in sede ordinaria o sostitutiva). Applicazione dei benefici fiscaliIl rispetto dei criteri generali “costituisce condizione per l'applicazione dei benefici di cui all'articolo 8”, cioè delle agevolazioni fiscali (art. 4, comma 1, ultima proposizione) che, insieme alla minor durata, costituiscono l'immaginato stimolo per indurre i locatori ad indirizzare la loro scelta verso siffatta tipologia locatizia (di contro, non spetta alcuna agevolazione qualora si pattuisca una durata inferiore a quella prevista ex lege o un corrispettivo superiore a quello massimo risultante dall'applicazione degli accordi territoriali). Invero, la sottoposizione del contratto c.d. agevolato a rigide limitazioni per quanto concerne il canone, certamente inferiore a quello di mercato, sia pure controbilanciato dalla possibilità di riavere la disponibilità dell'immobile locato in tempi più ridotti, non era, di per sé, sufficiente, sicché il legislatore ha contemplato anche alcuni benefici fiscali. Nello specifico, i suddetti benefici – per rendere appunto appetibile sul versante economico la stipula dei contratti del c.d. secondo canale – consistono: a) nella riduzione del 30% del reddito imponibile ai fini delle imposte sul reddito (art. 34 d.P.R. n. 917/1986, e successive modificazioni ed integrazioni), b) nella riduzione del 70% della base imponibile ai fini dell'imposta di registro, e c) nella riduzione del 70% ai fini dell'imposta di registro (disciplinata dal d.P.R. n. 131/1986). È previsto, inoltre, che determinati Comuni – ad alta densità abitativa, capoluoghi di Provincia, confinanti con le grandi città, individuati nelle delibere C.I.P.E., calamità naturale, ecc. – possano deliberare aliquote I.C.I., e ora I.M.U., più favorevoli per i proprietari che concedono il loro immobile in locazione a titolo di “abitazione principale” (con esclusione, quindi, delle c.d. seconde case) alle condizioni contemplate negli schemi di tali contratti agevolati (a seguito della l. n. 244/2007, c.d. finanziaria 2008, si può arrivare fino all'esenzione dell'imposta). Infine, a seguito dell'art. 1, comma 54, della l. n. 208/2015 (c.d. legge di stabilità 2016), è contemplata un'analoga agevolazione anche ai fini T.A.S.I. (tributo per i servizi indivisibili), con una riduzione del 75% dell'imposta dovuta. Da ricordare che il locatore, nell'àmbito di determinati Comuni, può optare, in alternativa al regime ordinario vigente per la tassazione del reddito fondiario ai fini I.R.P.E.F., per la c.d. cedolare secca, con l'aliquota ridotta al 10% (anziché quella ordinaria del 21%), in forza dell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2011, sicché il contribuente può facoltativamente essere assoggettato ad un'imposta sostitutiva dell'imposta sul reddito delle persone fisiche e delle relative addizionali, nonché delle imposte di registro e di bollo sul contratto di locazione (rinunciando, però, alla possibilità di richiedere l'aggiornamento del canone). Giova ribadire, al riguardo, che i benefici de quibus sono collegati esclusivamente alla rispondenza delle clausole, che le parti inseriscono nel contratto, a quanto risultante negli accordi locali limitatamente alla determinazione del canone (in maniera coerente con i criteri generali della Convenzione nazionale); ne consegue che sarebbe illegittimo il comportamento dell'Amministrazione delle finanze che operasse la sua valutazione sulla base della rispondenza dello specifico contratto ad uno dei modelli predisposti in sede locale. Naturalmente, il locatore (cui fosse rifiutata l'agevolazione fiscale) potrebbe far valere le proprie ragioni nelle sedi competenti: una simile evenienza, tuttavia, finirebbe con il conferire alla modulistica concordata dalle Organizzazioni una forza che, invece, non le appartiene, oppure con l'indurre, più saggiamente, i locatori a preferire la tipologia dei contratti c.d. liberi, alieni da una problematica del genere (Lazzaro, Di Marzio, 54). 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